Ors, la multinazionale della detenzione amministrativa sbarca in Italia

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Ors, la multinazionale della detenzione amministrativa sbarca in Italia

Marika Ikonomu
Alessandro Leone
Simone Manda

Appena insediatosi come amministratore delegato del gruppo Ors – Organisation for Refugees Services – nel 2017, Jürg Rötheli si trova a dover gestire una situazione complessa. La multinazionale, leader in Europa nei settori dell’accoglienza e della detenzione amministrativa, ha una presenza consolidata in Svizzera, il Paese natio, ma la perdita di alcuni appalti e una riduzione sostanziale del numero di richiedenti asilo in Svizzera, portano il Ceo a dover ridefinire la strategia del gruppo. Rötheli assume così le vesti di innovatore e avvia un processo strategico per ristrutturare la società e lanciarla verso nuovi mercati, guardando in modo particolare al Mediterraneo e l’Italia.

«L’assegnazione di appalti a fornitori di servizi privati consente di sgravare notevolmente le strutture statali. L’Italia rappresenta un primo importante passo per la nostra espansione nel Mediterraneo», scrive il gruppo elvetico. Il motto della multinazionale è, come specifica nel proprio sito, «neutrali, flessibili, affidabili». In un’intervista Jürg Rötheli afferma: «Grazie agli standard e ai processi che abbiamo integrato nel nostro sistema di gestione della qualità, possiamo costruire e aprire strutture praticamente durante la notte».

Ors lavora in questo settore da oltre 30 anni e, oltre ad aver gestito centri di accoglienza in un regime quasi di monopolio in Svizzera, ha filiali in Austria, Germania, Spagna e Grecia. Negli anni ‘90 la Svizzera conferisce ai privati l’onere di gestire l’accoglienza e Ors, già attiva dal 1977 con altre denominazioni, si fa trovare pronta. Entra nel settore con Ors Service AG, società creata nel 1992 a Zurigo. Rötheli, prima di prendere la guida di Ors, era stato Ceo della società pubblicitaria elvetica Clear Channel Svizzera, e membro della direzione della principale società di telecomunicazioni del Paese, il Gruppo Swisscom.

L'inchiesta in breve
  • Ors è una multinazionale svizzera nata nel 1977 a Zurigo. Dalla fornitura di servizi a pubblico e privato è poi entrata nel mondo dell’accoglienza, espandendosi anche in Germania, Austria e più di recente in Italia e Spagna
  • Dopo diverse denunce di malagestione in centri di accoglienza in Svizzera e Austria, e il calo dei richiedenti asilo nel Paese natio, decide di espandersi nel Mediterraneo e aprire una filiale in Italia nel 2018, Ors Italia srl
  • La società però inizia la sua attività solo nel gennaio 2020, riuscendo comunque ad aggiudicarsi il Cpr di Macomer e il centro di prima accoglienza Casa Malala, pur essendo inattiva, ma il Tar del Friuli Venezia-Giulia revoca l’assegnazione del centro nei pressi di Trieste proprio per il suo stato di inattività
  • Ors è l’unica, tra le società che gestiscono i Cpr in Italia, a essere rappresentata in Parlamento da una società di lobbying, la Telos Analisi e Strategie
  • All’inizio del 2022 Ors Italia inizia la gestione dei Cpr di Roma, che continua ancora oggi, e Torino, chiuso dopo le proteste dei detenuti a febbraio per le condizioni di trattenimento
  • A fine 2022 è stata acquisita dal colosso britannico Serco e può vantare la collaborazione di un comitato consultivo composto da ex politici e imprenditori, come Ruth Metzler, attuale presidente della Fondazione della Guardia svizzera pontificia.

I centri gestiti dalla multinazionale, e dalle diverse filiali, sono stati nel tempo oggetto di inchieste e di accuse di mala gestione. Un rapporto di Amnesty International ha denunciato nel 2015 le condizioni inumane in cui le persone migranti erano costrette a vivere nel centro di Traiskirchen, in Austria. La struttura, «progettata per 1.800 persone, era arrivata a ospitarne 4.600». In questo modo Ors, secondo l’Ong, puntava a «un taglio dei costi e alla massimizzazione del profitto con “risparmi” su visite sanitarie, corsi di formazione, cibo e qualità degli alloggi». Un’inchiesta giornalistica del 2018 ha raccontato come Ors avesse ottenuto dal Governo austriaco un finanziamento di circa 250 milioni di euro, in netto rialzo rispetto al passato.

Anche in Svizzera è stato messo in dubbio il corretto operato della multinazionale, che è stata accusata, nel 2016, di non disporre di alimenti per bambini a sufficienza e di attuare punizioni collettive e vessazioni alle persone accolte nel centro federale d’asilo di Aesch (Basilea), allestito in una sorta di bunker, e poi chiuso, alla fine del 2016.

L’assetto societario

La storia societaria di Ors è molto ramificata. Nel 1977 a Zurigo nasce la casa madre Ors Service SA, con l’obiettivo di offrire servizi generici a pubblico e privato. Cambia nome definitivamente nel 1992 in Ors Service AG, un anno dopo aver preso in carico il primo appalto nel centro di registrazione per richiedenti asilo di Kreuzlingen. Nel 1999 viene creata la OX Holding AG (oggi Ors Group AG) che agisce come società fiduciaria, gestendo beni, titoli e obbligazioni della casa madre. Il 26 giugno 2009 la casa madre viene venduta a un fondo di private equity di Zurigo, la Invision AG, che ha la funzione di finanziare progetti in settori come l’informatica, le telecomunicazioni e i servizi sanitari.

Nel 2013, viene creato il fondo di private equity OXZ Holding AG che acquista delle azioni della fiduciaria Ors Group AG. In questo modo, la società elvetica consolida lo svolgimento di operazioni speculative per attrarre capitali. Nello stesso momento è la Equistone Partners, una delle più grandi società di investimento di Londra, a finanziare la Ors Group AG, di fatto togliendo la società dalle mani della svizzera Invision. Equistone ha l’obiettivo di acquisire aziende o asset di imprese non quotate attraverso una serie di fondi di private equity a loro volta partecipati da investitori istituzionali come gli americani California State Teachers’ Retirement System e il Maryland State Retirement and Pension System e l’agenzia governativa di previdenza sociale dell’Arabia Saudita. Sarà la società londinese a portare Ors nel mercato tedesco e italiano.

Oggi, le tre società più grandi del gruppo, Ors Group AG, Ors Service AG e la OXZ Holding AG hanno tutte lo stesso indirizzo a Zurigo, e condividono anche i vertici. Nel settembre del 2022, Equistone ha venduto le sue quote a Serco Group Plc per 44 milioni di franchi svizzeri. Soprannominata “the biggest company you’ve never heard of”, la più grande compagnia di cui avete mai sentito parlare, Serco è un gruppo britannico che fornisce servizi di outsourcing al settore pubblico in tutto il mondo. Ora che è proprietaria del gruppo Ors, la multinazionale inglese si è detta pronta a fornire i suoi servizi anche al nostro Paese.

L’espansione nel Mediterraneo

Per espandersi verso nuovi mercati, Rötheli nomina un gruppo di personalità di alto profilo strategico, tra cui ex politici ed ex membri dei consigli di amministrazione del settore finanziario privato, riunite in un comitato consultivo che avrebbe il compito di raccomandare «soluzioni per la messa in atto della strategia e l’ulteriore sviluppo delle decisioni», si legge nella relazione 2021. A guidare il comitato è Ruth Mezler Arnold, avvocata, esponente per lungo tempo del Partito Popolare Democratico ed ex ministra della Giustizia in Svizzera, nonché dal 2018 presidente della Fondazione della guardia svizzera pontificia del Vaticano.

La multinazionale approda in Italia il 25 luglio 2018, iscrivendosi al registro delle imprese con il nome di Ors Italia srl, totalmente controllata dalla casa madre. Il momento è favorevole. Il 1 giugno 2018 entra in carica il governo “Giallo-Verde” con Matteo Salvini ministro dell’Interno.

Il segretario della Lega da anni pone al centro della sua politica il tema migratorio, in nome della chiusura dei confini e della sicurezza. Simbolo della sua azione da ministro, i decreti sicurezza, con cui ha permesso il taglio dei fondi all’accoglienza, l’abolizione della protezione umanitaria e il potenziamento del sistema dei rimpatri. I decreti hanno, ancora una volta, favorito il sistema emergenziale dei Centri di accoglienza straordinaria a scapito del modello virtuoso di accoglienza diffusa, che dovrebbe costituire il sistema principale. La riduzione dei fondi per l’accoglienza «va evidentemente a penalizzare i centri più piccoli e a incentivare quelli medi e soprattutto grandi, per i quali sono possibili economie di scala», si legge nel rapporto del 2019 Centri d’Italia di ActionAid. Una politica che ha creato un terreno fertile per grandi centri di accoglienza gestiti da grandi società che, risparmiando sui servizi offerti, operano con l’obiettivo di fare profitto, creando paradossalmente maggiore insicurezza.

Il Ceo Rötheli si trova anche ai vertici di Ors Italia srl. Allo stesso modo, un’altra figura con una lunga esperienza nella multinazionale ricopre più di una carica: Maurizio Reppucci, membro del consiglio di amministrazione del gruppo e amministratore delegato della filiale italiana. Reppucci da Managing director di una sussidiaria di Ors, ABS Betreuungsservice AG, per cinque anni si è occupato di rifugiati, programmi di impiego e assistenza. La gestione di Abs è stata però criticata dal quotidiano svizzero Obersee Nachrichten, che ha denunciato le condizioni critiche di alcuni centri. Consigliere del ramo italiano è invece il cugino di Maurizio, Antonio Reppucci, ex sindaco di un paese nella zona di Avellino e in passato assessore ai lavori pubblici, oltre ad essere stato per un periodo consulente del Parlamento italiano.

Il Cpr di Torino, chiuso a febbraio 2023 – Foto: PlaceMarks

L’attività economica di Ors Italia inizierà a gennaio 2020 ma già nel periodo di inattività riesce a vincere importanti appalti: il Centro di permanenza per i rimpatri di Macomer, in Sardegna, e un centro di prima accoglienza in Friuli Venezia Giulia, Casa Malala. Si aggiudicherà poi il centro di accoglienza di Monastir e i Cpr di Roma e Torino. Per essere sicura di imporsi politicamente nel contesto italiano, la nuova srl si serve di una società di lobbying, e della sua agenda di contatti e relazioni: Telos Analisi e Strategie, studio professionale che si occupa di rappresentare gli interessi dei propri assistiti in Parlamento e si posiziona tra le prime 10 società nel campo del lobbismo italiano.

Nell’accordo firmato nel 2020, la multinazionale elvetica delega alla lobby l’organizzazione di meeting con rappresentanti istituzionali. Lo scopo principale, secondo la relazione annuale di Telos, sarebbe quello di «innalzare il livello di consapevolezza dei parlamentari sulle difficoltà nella gestione del Centro di accoglienza straordinaria (Cas) di Monastir e del Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Macomer […]», nonché per sollecitare nel 2021 risposte sull’emergenza Covid nei centri. Su questi temi si sarebbero svolte due videochiamate con due deputati: Marco Di Maio, di Italia Viva, e Andrea Vallascas, all’epoca nel Movimento 5 Stelle, lo stesso che l’anno precedente aveva presentato un’interrogazione al ministero dell’Interno per chiedere conto delle violazioni all’interno del Cpr sardo. Ors è l’unica tra le cooperative e società multinazionali che hanno gestito o gestiscono un Cpr ad avere consulenti come Telos a rappresentare i loro interessi alla Camera dei Deputati.

In pochi anni la società si aggiudica importanti appalti

La multinazionale sembra mettere in campo diverse strategie per assicurarsi il maggior numero di appalti in Italia. In una gara indetta dalla Prefettura di Trieste ha dichiarato, infatti, di fronte alle perplessità di un’offerta estremamente bassa, che «l’assestamento nel mercato italiano riveste una maggiore importanza rispetto a un maggiore utile di impresa», dicendo di fatto di essere disposta ad andare in perdita o rinunciare all’utile pur di assicurarsi il mercato italiano, producendo una distorsione della concorrenza. L’appalto in questione era per la gestione di Casa Malala, un centro di prima accoglienza al confine con la Slovenia, fino a quel momento gestito dal Consorzio Italiano di Solidarietà (Ics) e Caritas, organizzazioni no profit presenti sul territorio da oltre vent’anni.

Ors Italia il 15 settembre 2020 si aggiudica il centro con un ribasso del 14%. Ics, nel ricorso presentato al Tar del Friuli, ha però evidenziato che al momento del bando, nell’agosto 2019, Ors risultava inattiva, elemento che dovrebbe escludere una società dalla gara pubblica.

Nella sua offerta, la casa madre svizzera aveva assicurato la «disponibilità piena e incondizionata a sopperire alle mancanze di capacità tecnica e professionale di Ors Italia», tramite la filiale austriaca, senza però indicare quali mezzi e risorse sarebbero state coperte. Dal ricorso emerge poi come sia stato possibile proporre un ribasso del 14%: da un lato, Ors ha inquadrato tutto il personale, compresi gli operatori diurni e notturni, in un contratto collettivo riservato alle «posizioni di lavoro relative all’esecuzione di attività semplici ed elementari di tipo manuale», non prendendo neanche in considerazione le ore potenziali di ferie, malattia e permessi. Dall’altro, nell’offerta della multinazionale i costi per colazione, pranzo, cena, compresi i costi del personale, ammontano a 4,88 euro pro die pro capite. Ics invece per la somministrazione del pranzo e della cena spende 9-10 euro. Il Tar ha accolto il ricorso, stabilendo che «lo stato di inattività di un’impresa è preclusivo alla possibilità di concorrere a una gara per l’aggiudicazione di un pubblico appalto» e affidando la gestione alle due no profit.

Il Cpr di Roma – Foto: PlaceMarks

Il primo appalto ottenuto in Italia da Ors, con un ribasso del 3%, è invece il Cpr sardo di Macomer, che ha gestito per un anno da gennaio 2020 al 2021. Inizialmente la multinazionale era arrivata solo seconda alla gara, è però riuscita a vincerla dopo l’intervento della Cabina di regia del ministero dell’Interno. Le varie richieste di Ors alla Prefettura di Nuoro di annullare la gara «per presunte irregolarità nella valutazione dell’offerta presentata dalla ditta» non avevano infatti ottenuto risposta affermativa, fino a che la decisione non è stata demandata al ministero. La Prefettura ha alla fine stipulato il contratto con Ors, per «l’urgenza di attivare il servizio», avvalendosi però della facoltà di risolverlo perché l’informazione antimafia – necessaria per il sistema di prevenzione dell’infiltrazione criminale – era ancora in «fase di istruttoria/verifica», come ha evidenziato anche il deputato Erasmo Palazzotto in un’interrogazione all’allora Ministra dell’interno Luciana Lamorgese. Le verifiche si sono poi concluse in assenza di interdittive antimafia il 28 ottobre 2020, tre mesi prima della scadenza dell’appalto.

Le condizioni di trattenimento nei Cpr

L’arrivo di Ors nel Cpr di Macomer è segnato fin da subito da un rapporto del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale Mauro Palma, che effettua una visita al Cpr nell’aprile del 2020, riscontrando un numero inadeguato di lavoratori. Subito dopo, la Prefettura di Nuoro annuncia un incremento dei servizi sanitari nel centro. Solo due mesi dopo, sono gli stessi detenuti a protestare per la qualità dei servizi e la violazione dei diritti fondamentali.

La rivolta è «scatenata il 18.06.2020 da un gruppo di migranti saliti sul tetto della struttura di Macomer per protestare contro le condizioni di vita all’interno della struttura. Il culmine della ribellione si è verificato quando un uomo si è cucito le labbra ed è stato trasferito in infermeria», scrivono le consigliere regionali Maria Laura Orrù e Laura Caddeo in un’interrogazione dopo una visita nel luglio 2020. Le consigliere segnalano poi un uso diffuso dei sedativi, confermato anche da un’avvocata che prestava assistenza legale ad alcuni trattenuti, e che ha denunciato il trattenimento di persone affette da gravi forme di diabete. Per finire, l’interrogazione ricorda la violazione del diritto alla difesa, sia perché le comunicazioni sulle nomine dei difensori sarebbero arrivate solo pochi minuti prima delle udienze di convalida, sia per l’assenza di mediatori linguistici durante i colloqui.

L’esperienza di Ors in Sardegna finisce con l’arrivo del nuovo gestore Ekene a gennaio 2022, ma nello stesso periodo inizia quella a Roma, nel Cpr di Ponte Galeria. A fine novembre era morto Wissem Ben Abdel Latif, un ragazzo tunisino di 26 anni rimasto legato per tre giorni in un corridoio del reparto psichiatrico dell’Ospedale San Camillo. Era stato trasferito lì dopo alcuni giorni passati nella struttura detentiva di Roma, diretta da Vincenzo Lattuca che è stato confermato da Ors quando è subentrata nella gestione del centro. Anche nella capitale si lamenta l’insufficienza di operatori, spesso assunti da agenzie interinali, che in alcuni casi si sarebbero licenziati per le condizioni di lavoro estenuanti. A testimoniare problemi molto simili a quelli riscontrati a Macomer, ci sono l’ex Garante delle persone private della libertà personale di Roma Gabriella Stramaccioni, la senatrice Ilaria Cucchi e il deputato Aboubakar Soumahoro. Ors, raggiunta via mail, sui dipendenti ha risposto: «La decisione di accettare o meno un lavoro è a discrezione dell’individuo».

Per approfondire

Il sistema delle “coop pigliatutto”

Per anni hanno dominato il settore dell’accoglienza in Veneto prima di sbarcare nella detenzione amministrativa. Oggi gestiscono due Cpr, tra cui quello di Gradisca d’Isonzo, dove dalla sua riapertura sono morte quattro persone

Di nuovo, ci sarebbero stati trattenimenti di persone non adatte alla vita in comunità ristrette, come il caso di un ragazzo che ha ingoiato un pezzo di vetro durante una visita della garante a ottobre 2022, poi dimesso dal Cpr. O la detenzione, denunciata da Soumahoro, di tre ragazzi minorenni, che secondo la normativa non potrebbero essere reclusi nei centri. Lo stesso Lattuca, direttore del centro, avrebbe confermato al deputato che al momento della visita il 65% delle persone trattenute aveva problemi di tossicodipendenza.

Ma ciò che rende Ponte Galeria un unicum nella detenzione amministrativa italiana è la sezione femminile. A fine marzo 2023, Cucchi ha denunciato la presenza di cinque donne, nonostante il capitolato d’appalto non menzioni la presenza femminile tra la popolazione detenuta e, di conseguenza, neanche la presenza di personale femminile, necessario per «assicurare l’equilibrio di genere e tenere conto delle esigenze di carattere culturale e religioso», come si specificava nel precedente appalto.

Le proteste di Torino

A febbraio 2022 Ors assume la gestione del Cpr di Torino, raccogliendo l’eredità lasciata dalla multinazionale francese Gepsa, segnata dalle morti di Hossain Faisal e Moussa Balde. La multinazionale elvetica tenta un cambio di rotta rispetto alla precedente gestione ma emergono da subito criticità. Il medico convenzionato di Ors segnala, durante una visita della Coalizione italiana libertà e diritti civili (Cild), a giugno 2022, la presenza di detenuti sottoposti a terapia con metadone, casi di autolesionismo (che a marzo 2022 erano arrivati a quota 10-12 al giorno), abuso di psicofarmaci e tranquillanti. A luglio dello stesso anno, ci è stato permesso di entrare a visitare la struttura, scortati da 11 militari. Durante la nostra permanenza, diversi trattenuti hanno denunciato disagi psicologici: «Hanno sbagliato a chiamarlo centro, questo è il braccio della morte», ha detto uno di loro.

Passa ancora qualche mese quando, il 4 febbraio di quest’anno, scoppiano le rivolte dei trattenuti. Secondo il blog No Cpr Torino, che ha raccolto testimonianze dall’interno, la protesta è partita dalle condizioni di detenzione: «Il cibo è avariato e contiene psicofarmaci, le celle sono fredde, non c’è acqua calda e le sezioni sono piene di spazzatura», si legge. Durante la nostra visita, un trattenuto si è rivolto al funzionario della Prefettura segnalando che lo shampoo e la carta igienica non venivano forniti da due settimane. La visita non ci ha fornito elementi per confermare o smentire le altre violazioni, ma è necessario evidenziare che il nostro ingresso era annunciato da diverse settimane e l’ente gestore era a conoscenza del nostro arrivo.

Il racconto di No Cpr Torino continua: tre persone sarebbero state portate in ospedale dopo aver subito un pestaggio da parte delle forze dell’ordine. Uno di loro ha raccontato: «Ti colpiscono alla testa. Questo è un luogo pericoloso, qui non picchiano bene. Magari in carcere ti picchiano ma alle gambe. Qui, no. Non arrivano a picchiarti i singoli ma una squadra intera». Le proteste tornano a riaccendersi il 20 febbraio, questa volta per un’epidemia di scabbia secondo quanto riportato da No Cpr Torino, seguite da uno sciopero della fame di circa 20 reclusi.

A inizio marzo il centro viene chiuso perché inagibile. La Commissione Legalità e diritti delle persone private della libertà personale, in seduta congiunta con la Commissione speciale per il contrasto dei fenomeni di intolleranza e razzismo del Comune di Torino, convocano per un’audizione Ors, con l’obiettivo di riferire su quanto si è verificato nel centro, ma l’ente gestore comunica che non avrebbe partecipato. Durante la seduta, il presidente della Commissione Legalità, Luca Pidello, si reputa «non soddisfatto» della relazione e, dopo la notizia sui lavori di ristrutturazione della struttura, scrive:

«La domanda è […] se abbia senso continuare ad investire in una struttura di questo tipo […] o se magari queste risorse non possano essere impiegate in altro genere di politiche che possano portare ad un livello di integrazione maggiore».

Dieci giorni dopo, la relazione arriva al Consiglio comunale di Torino. Nella seduta viene approvato un ordine del giorno che auspica la definitiva chiusura del Cpr e impegna il Sindaco e la giunta a farsi portavoci dell’istanza al Governo nazionale. Ad oggi, ancora nessuna istanza è stata presentata al Governo da parte dell’amministrazione torinese.

L’attività di Ors all’estero

Un anno dopo l’approdo in Italia, nel 2019 il gruppo apre una filiale in Spagna, Ors España Servicios Sociales. Sul sito della multinazionale, il motivo dell’apertura ai Paesi del sud del Mediterraneo è giustificato dal costante aumento dei flussi migratori che apre a sua volta nuove opportunità di mercato. Sempre nel 2019, in un post su Linkedin, Jürg Rötheli pubblicava una foto con l’attuale ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani e annunciava così l’apertura di una rappresentanza di Ors a Bruxelles.

Jürg Rötheli nel 2019 con l’allora presidente del parlamento europeo Antonio Tajani – Foto: Linkedin

Ora che la società svizzera è stata venduta al gruppo Serco, anche Jürg Rötheli è entrato a far parte del colosso britannico: è stato nominato direttore operativo della sezione immigrazione. Si prospetta quindi una nuova fase per Ors, forte del sostegno di una multinazionale come Serco.

Stando ai dati del 2022, Ors gestisce in tutti i Paesi in cui opera 120 strutture, di cui 95 solo in Svizzera, con un fatturato di oltre 173 milioni di franchi, pari a più di 180 milioni di euro. L’arrivo di Rötheli alla guida della società non ha frenato però le accuse di mala gestione. Nel 2018 alcune associazioni svizzere hanno svolto inchieste e successivamente denunciato Ors per le condizioni di vita all’interno delle strutture gestite a Friburgo. I testimoni raccontano di difficoltà o totale mancanza di accesso alle cure, violenze verbali e talvolta fisiche, molestie sessuali e acqua fredda nelle docce in pieno inverno. Nel centro federale di Basilea è stato denunciato l’uso sistematico delle celle di isolamento e di pestaggi nei confronti dei richiedenti asilo. A Boudry, si racconta invece di un «sistema punitivo»: i testimoni parlano di un costante uso dello spray al peperoncino, placcaggi a terra e insulti omofobi.

Con l’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022, quasi sei milioni di persone hanno chiesto asilo in Europa e gli appalti di Ors sono aumentati di un terzo: nel 2021 erano 80, con 1.400 dipendenti, 900 in meno dell’anno successivo.

Come ricorda Rötheli nella relazione annuale del 2022, la Svizzera ha accolto 85.000 rifugiati ucraini e 30.000 richiedenti asilo legati alla migrazione regolare fino al marzo 2023. La maggior parte di loro, specifica il Ceo della società, è stata seguita da Ors. Per questo la perdita di molti appalti in Austria e di 19 centri in Svizzera non sembra preoccupare il gruppo elvetico. Rötheli, all’indomani dell’acquisizione da parte di Serco, ha commentato: «La partnership con Serco ci apre nuove prospettive. Allo stesso tempo, garantiamo continuità ai nostri clienti in tutti i Paesi in cui operiamo e in tutti i settori di attività».

La storia di Sevda Ozdemir

Sevda Ozdemir è nata e cresciuta in Turchia, da genitori curdi: il padre era militante politico e ha passato la maggior parte della vita di sua figlia lontano da lei, in prigione. Studia comunicazione all’università e diventa giornalista subito dopo ma scopre che praticare questa professione in Turchia non è facile e decide di abbandonare per insegnare a tempo pieno. Allo stesso tempo, segue le orme del padre e si mobilita, fino al momento in cui viene condannata a sei anni di prigione con l’accusa di terrorismo. È in quel momento che decide di partire, e alla fine del 2018 lascia definitivamente il Paese per la Svizzera.

Arrivata a Basilea fa domanda d’asilo, chiedendo il trasferimento a Friburgo. La sua prima esperienza da rifugiata nel Paese elvetico la fa in un foyer gestito da Ors, che è in realtà un rifugio antiatomico, un bunker sotterraneo. «Una camera senza porte, senza bagni privati per le donne, c’erano decine di uomini e solo sette donne – racconta – C’erano sempre minacce e violenze da parte delle persone che lavoravano lì. Ovviamente in un bunker non c’è né aria fresca né sole. Siamo rimaste lì per un anno, a 90 franchi svizzeri al mese». Una cifra insufficiente per condurre una vita normale: solo l’abbonamento dei mezzi pubblici costava 30 franchi.

E nel caso non si fosse presentata al momento del pagamento, la cifra le sarebbe stata negata.

«Era così anche per il cibo. Una volta portai a letto un’arancia, perché avevo fame, e una responsabile di Ors mi ha visto e ha cominciato a urlare davanti a tutti, mi ha fatto sentire uno schifo», spiega Sevda Ozdemir. Nel bunker vicino Friburgo, una notte aveva fame e per questo ha chiesto al personale di Ors un po’ di pane. La risposta è stata: «Non è un mio problema, siete voi che avete deciso di venire in Svizzera». Dopo l’esperienza nel bunker Sevda ha cambiato otto sistemazioni in due anni. Erano tutti centri gestiti da Ors, tra Basilea e Friburgo. «È terribile dover cambiare vita ogni volta così», afferma con amarezza. «Ho dormito pochissimo in due anni e ho perso quasi 10 chili».

Sevda insiste sulla disumanità che ha trovato nei centri amministrati dalla multinazionale elvetica. Ha sofferto in questi due anni di varie patologie ma la risposta è sempre stata insufficiente: «L’unica cosa che ci davano era l’Efferalgan (paracetamolo, ndr)». Una volta, racconta, ha avuto la varicella e ha potuto consultare un medico solo cinque mesi dopo l’effettiva urgenza. Ora, abita a Friburgo, dove ha potuto fare richiesta di ricongiungimento familiare e rivedere finalmente suo marito.

«Adesso sto bene – racconta – ho una casa e mio marito, ma è stato tutto grazie a me. Non sono cresciuta come una principessa e non mi sono fatta abbattere nemmeno in questa situazione».

CREDITI

Autori

Marika Ikonomu
Alessandro Leone
Simone Manda

Editing

Lorenzo Bagnoli

Foto satellitari

PlaceMarks

Infografiche

Lorenzo Bodrero

In partnership con

Coalizione italiana libertà e diritti civili

Il sistema delle “coop pigliatutto” 

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Il sistema delle “coop pigliatutto” 

Marika Ikonomu
Alessandro Leone
Simone Manda

Il 16 dicembre del 2019 il Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Gradisca d’Isonzo, in provincia di Gorizia, riapre, a sei anni dalle proteste che hanno portato alla sua chiusura. Tra i primi trattenuti del nuovo corso, c’è un gruppo di circa settanta persone provenienti dal centro di Bari, dove sono stati bruciati tre degli ultimi quattro moduli rimasti dopo le proteste dei mesi precedenti. Bibudi Anthony Nzuzi è tra coloro che sono stati trasferiti «di punto in bianco», dice, in Friuli. L’accoglienza non è stata delle migliori: «Pioveva, faceva freddo, ci siamo ritrovati i poliziotti in tenuta antisommossa. Non avevamo materassi, non c’erano coperte, non avevamo niente per poterci vestire. Ci siamo ritrovati a dormire al freddo perché non c’era il riscaldamento», racconta.

Nzuzi è nel Cpr friulano anche tra il 17 e il 18 gennaio 2020, quando muore un trattenuto georgiano di 37 anni, Vakhtang Enukidze. I poliziotti di cui parla Nzuzi stanno sedando una protesta. «Hanno inizialmente pestato tutti, solo che lui [Vakhtang Enukidze] era caduto – racconta – ma continuavano a pestarlo e gli altri ragazzi si sono buttati addosso ai poliziotti e l’hanno tirato via».

Nzuzi si trova nello stesso reparto di Enukidze ma in un’altra cella. «La sera lui [Vakhtang Enukidze] lamentava dolori, non si sentiva bene – ricorda, ripensando ai momenti dopo che la polizia ha lasciato il Cpr -. È andato a dormire e non si è più risvegliato». Questa versione è stata confermata da alcune testimonianze raccolte dal deputato Riccardo Magi durante due visite ispettive subito dopo il decesso. Non dagli investigatori, però.

L'inchiesta in breve
  • Ekene nasce nel 2017 come diretta emanazione di Ecofficina ed Edeco, enti che hanno dominato il mercato dell’accoglienza in Veneto guadagnandosi l’appellativo di “coop pigliatutto”
  • A gestirla è Simone Borile, imprenditore padovano che proviene dal business dei rifiuti. Sebbene non compaia mai nella visura camerale, viene considerato dagli inquirenti di Venezia “amministratore di fatto” delle cooperative
  • Nel 2016, Ecofficina-Edeco si aggiudica due centri di accoglienza, a Cona e Bagnoli. Per la gestione dei due hub, sono nati due processi paralleli a Padova e Venezia, dove sono indagati alcuni funzionari delle due prefetture e i vertici della cooperativa, tra cui Simone Borile. Le accuse, a vario titolo, sono di frode nell’esecuzione del contratto, inadempimento e frode degli obblighi contrattuali, rivelazioni di segreto d’ufficio
  • Con la liquidazione di Edeco nasce Ekene, che segna l’ingresso nel mondo della detenzione amministrativa con l’aggiudicazione dei Cpr di Gradisca d’Isonzo, in Friuli-Venezia Giulia, e Macomer, in Sardegna
  • Dalla sua riapertura nel gennaio 2019, nel Cpr friulano sono morte quattro persone. Borile è indagato per omidicio colposo per il decesso di Vakhtang Enukidze, lasciato secondo l’accusa per nove ore senza soccorsi
  • Nell’ottobre 2022, la cooperativa veneta ha vinto la gara per la gestione del Cpr di Caltanissetta. Dopo sette mesi la Prefettura ha annullato l’aggiudicazione per i procedimenti a carico dei vertici

A seguito della morte di Enukidze, la procura di Gorizia ha cominciato a indagare. L’autopsia sul deceduto ha stabilito come causa della morte un edema polmonare e cerebrale dovuto non a un pestaggio, ma a un cocktail di farmaci e stupefacenti. Così a essere riviati a giudizio con l’accusa di omicidio colposo sono stati il direttore del centro, Simone Borile, e il centralinista che era di turno quel giorno. La cooperativa che ha in gestione il Cpr si chiama Ekene. È nata dalle ceneri di Ecofficina ed Edeco, conosciute in Veneto come “coop pigliatutto”, per aver dominato per anni la gestione dell’accoglienza in tutta la regione.

Secondo la ricostruzione degli inquirenti, Enukidze è stato lasciato senza soccorso per diverse ore, nonostante le richieste di aiuto degli altri trattenuti, prima di essere trasferito in ospedale, dove è morto alle 15:37. La sorella, Asmat, ricorda l’ultima telefonata in cui percepiva una voce diversa: «Sembrava che avesse bevuto. Aveva dei dolori e gli avevano dato qualcosa per calmarlo, un antidolorifico. Stava talmente male che non riusciva nemmeno ad andare all’udienza. Mi diceva di contattare l’ambasciata georgiana, per farlo uscire dal Cpr», racconta. Simone Borile, raggiunto al telefono da IrpiMedia, ha una versione diversa dei fatti: «È stato soccorso immediatamente, appena c’è stata la chiamata», il problema «riguarda il mancato funzionamento del sistema di chiamata. Niente a che vedere con il mancato soccorso».

L’ascesa di Ecofficina tra le coop dell’accoglienza

Borile ha cominciato a lavorare con i migranti dai tempi di Ecofficina Educational, cooperativa con sede a Battaglia Terme, in provincia di Padova, fondata il 2 agosto 2011. Il direttore del Cpr di Gradisca non appare nella visura camerale in quanto sarebbe stato un semplice consulente esterno. Gli inquirenti di Venezia e Padova che indagheranno sulla società, sosterranno tuttavia che sia lo stesso Borile l’amministratore di fatto delle “coop pigliatutto”.

I legami tra Borile e i vertici di Ecofficina sono però evidenti: vicepresidente della cooperativa è la moglie Sara Felpati mentre il presidente del consiglio di amministrazione è Gaetano Battocchio, coinvolto con lui nel processo per bancarotta della società di gestione dei rifiuti della Bassa Padovana, Padova Tre srl, ma poi assolto, al contrario di Borile che a marzo 2023 è stato uno dei due condannati in primo grado a quattro anni e otto mesi per peculato perché avrebbe trattenuto illegalmente un importo di oltre tre milioni di euro.

I Cpr in Italia

È nel dicembre 2014 che per la prima volta il nome di Ecofficina viene accostato a un caso di frode nelle pubbliche forniture e maltrattamenti sugli ospiti. Il processo che ne è scaturito si chiuderà otto anni e mezzo dopo, il 12 luglio 2023, con l’assoluzione dei vertici della cooperativa perché il fatto non sussiste.

Durante gli anni passati a processo, Ecofficina Educational – che nel 2015 ha ceduto parte dell’azienda a un’altra cooperativa, Ecofficina Servizi – si aggiudica diversi appalti per l’accoglienza migranti in particolare nella provincia di Padova, con un monopolio che comprende l’ex Caserma Prandina di Padova, l’Hotel Maxim’s a Montagnana, lo Sprar del comune di Due Carrare e l’accoglienza di più di 700 migranti nelle province di Venezia, Vicenza e Rovigo.

Nel caso dello Sprar di Due Carrare, uno dei requisiti fondamentali per partecipare era aver svolto in modo continuativo, e per almeno due anni, l’attività di accoglienza. A gennaio 2016, la cooperativa ha depositato una dichiarazione attestante una convenzione con la Prefettura di Padova che provava l’inizio dell’attività il 6 gennaio 2014, nonostante Ecofficina fosse entrata nel settore solo nel maggio dello stesso anno. Grazie alla documentazione falsa, secondo l’ipotesi degli inquirenti di Padova, Ecofficina avrebbe ottenuto l’aggiudicazione provvisoria delle gare per la gestione di centri di accoglienza. Il processo che è scaturito dall’indagine è ancora in corso, riporta il Mattino di Padova. IrpiMedia non ha ricevuto alcuna risposta a domande di chiarimento rivolte via email alla cooperativa su questo e su altri temi.

Cpa, Cas, Sai: le sigle dell’accoglienza

In Italia il sistema di accoglienza dovrebbe svilupparsi su due binari: a un primo livello ci sono i Centri di prima accoglienza (Cpa) e gli hotspot, e a un secondo il Sistema di accoglienza e integrazione (Sai), strutture gestite dagli enti locali su base volontaria, che dovrebbero rappresentare il sistema ordinario. I Centri di accoglienza straordinaria (Cas), invece, dovrebbero essere individuati e istituiti dalle prefetture nel caso in cui i posti negli altri centri fossero esauriti. La maggior parte delle persone che arrivano sul territorio però sono accolte nei Cas, sintomo di una gestione perennemente emergenziale del fenomeno. In base ai dati del rapporto di Actionaid Centri d’Italia del 2022, i posti nei Cas, dove è ospitato oltre il 65% delle persone, e nei Cpa sono infatti quasi 63 mila, a fronte dei 34 mila posti del Sai.

I centri di prima accoglienza e gli hotspot sono invece strutture nate per identificare, fotosegnalare e assistere dal punto di vista sanitario le persone appena arrivate in Italia. Dovrebbero fornire anche le prime informazioni legali per la richiesta di protezione internazionale.

Nel Sai – prima conosciuto come Siproimi (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati) e prima ancora come Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) – i servizi assicurati sono solitamente superiori rispetto agli altri centri e mirano ad accompagnare le persone accolte nei loro percorsi di vita e di autonomia: oltre al vitto e all’alloggio, sono infatti assicurate assistenza legale, mediazione linguistica, orientamento lavorativo, insegnamento della lingua italiana, assistenza psicosociale.

A parte alcune categorie di soggetti, come i minori stranieri non accompagnati, il decreto firmato il 10 marzo 2023 dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha escluso i richiedenti asilo dalla possibilità di essere accolti nel sistema ordinario, riservando loro i pochi servizi di base garantiti dal Cas, ulteriormente ridotti: l’assistenza materiale, sanitaria e linguistica, vitto e alloggio, eliminando i servizi di assistenza psicologica, i corsi di italiano e l’orientamento legale.

Gli anni di Edeco

Dopo le vicende di Ecofficina, la cooperativa cambia nome. Spunta dunque un nuovo attore nel mercato dell’accoglienza in Veneto: Edeco. I vertici però rimangono invariati. La cooperativa inizia a partecipare ai bandi per la gestione dell’accoglienza a partire dal 2016, quando il suo organigramma si arricchisce di nuove figure. Tra queste, Annalisa Carraro, che con Battocchio, Felpati e Borile sarà imputata nel processo di Venezia. Quell’anno in Italia il numero di presenze nei Centri di accoglienza straordinaria (Cas) cresce di quasi il doppio rispetto all’anno precedente, arrivando a 137 mila persone, il 78% dei richiedenti asilo. In particolare, in Veneto questa tendenza si affianca alla resistenza degli amministratori locali verso il sistema di accoglienza diffusa rappresentato dagli Sprar (oggi Sai).

È in questo contesto che nascono centri come la tendopoli nell’ex base militare di Cona, in provincia di Venezia, gestita provvisoriamente da Ecofficina fino al luglio del 2016. Quel mese sarà proprio Edeco, in un raggruppamento temporaneo d’imprese con Ecos e Food Service, ad aggiudicarsi il nuovo appalto.

Le denunce sulle condizioni interne emergono già dal giugno dello stesso anno, quando alcune associazioni effettuano una visita al centro evidenziando il sovraffollamento e la carenza dei servizi essenziali. Le proteste successive dei richiedenti asilo spingono il presidente della Confcooperative del Veneto, Ugo Campagnaro, a prendere la decisione di sospendere Ecofficina-Edeco con queste motivazioni: «Non esiste una legge che impedisca di ospitare e gestire centinaia di profughi in un’unica struttura. Questo però è un sistema che non risponde alle logiche della buona accoglienza […]. Si tratta invece di un modello che guarda soprattutto al business».

I problemi diventano evidenti quando a gennaio 2017 Sandrine Bakayoko, 25enne ivoriana ospite del centro di Cona, muore per trombosi polmonare. Questo episodio porterà ad alcuni lavori di ristrutturazione e alla riduzione degli ospiti da 1.600 a 1.000, misure comunque non sufficienti a evitare la protesta dei richiedenti asilo, che a novembre si mettono in marcia verso Venezia per ottenere un incontro con il prefetto di Venezia, che alla fine deciderà di spostarli in altre strutture, scrive Internazionale.

Due anni più tardi la Procura di Venezia chiede il rinvio a giudizio per i vertici di Ecofficina-Edeco. Borile, sempre “amministratore di fatto” a quanto afferma l’accusa, e i suoi colleghi avrebbero impiegato un numero di operatori inferiore agli obblighi contrattuali, un’inadempienza che sarebbe stata coperta dai trasferimenti di personale dall’altro grande centro gestito dalla cooperativa, quello di Bagnoli, in provincia di Padova, e dalla falsificazione dei documenti, che avrebbero fatto apparire un numero di operatori superiore. Inoltre, l’impiego di medici e infermieri con turni e orari inferiori rispetto a quanto previsto dal capitolato d’appalto avrebbe procurato un ingiusto profitto di oltre 200 mila euro. Tutto questo sarebbe stato possibile anche grazie alle informazioni fornite dalla Prefettura. Secondo quanto emerge da alcune intercettazioni contenute nelle carte processuali, ex prefetti e funzionari avrebbero preannunciato e in alcuni casi concordato con i responsabili della cooperativa l’orario e la data delle visite ispettive. Una prassi che avrebbe permesso a Ecofficina-Edeco di organizzarsi in anticipo per coprire eventuali falle.

Per questo motivo, la giudice per le indagini preliminari ha accolto le richieste di rinvio a giudizio, tra gli altri, anche nei confronti dell’ex prefetto pro tempore di Venezia Domenico Cuttaia e dell’allora vice prefetto vicario Vito Cusumano per rivelazione di segreto d’ufficio.

Per approfondire

Voci dai Cpr: le irregolarità segnalate da chi ha lavorato con Engel Italia Srl

La società ha vinto le prime gare nel 2013-2014. Da tempo i suoi dipendenti denunciano ritardi nei pagamenti e condizioni di vita disumane nelle celle. Oggi versa in uno stato di crisi, ma continua a gestire, con un altro nome, il Centro per il rimpatrio di Milano

Raggiunto al telefono, Simone Borile ha commentato in questo modo: «Non si trattava di ispezioni, ma esclusivamente di una visita di cortesia». Il processo è ancora in primo grado, in fase dibattimentale: nell’ultima udienza, un’ex operatrice ha raccontato che era il personale a firmare il foglio presenze per conto dei richiedenti asilo, in modo da poter ricevere dalla Prefettura la quota diaria per ogni persona accolta, riporta Il Gazzettino.

Un processo molto simile si sta svolgendo a Padova sulla gestione del Cas di Bagnoli. Tra gli imputati ci sono ancora una volta Sara Felpati, Simone Borile, Gaetano Battocchio, oltre all’ex viceprefetto Pasquale Aversa, il vicario Alessandro Sallusto e una funzionaria della Prefettura. Le accuse a vario titolo sono di turbativa d’asta, frode nelle forniture pubbliche, truffa, concussione per induzione, rivelazione di segreti d’ufficio e falso ideologico. Secondo l’accusa, grazie ai contatti con la Prefettura, Borile, Battocchio e Felpati avrebbero ottenuto informazioni sui concorrenti, partecipando a un bando su misura per Edeco. Anche in questo caso viene contestata la presenza di personale in numero inferiore rispetto al capitolato d’appalto e le chiamate di preavviso della Prefettura prima di alcune ispezioni per permettere alla cooperativa di farsi trovare in regola.

I danni delle indagini

Le indagini finiscono per danneggiare la “coop pigliatutto” che alla fine del 2018, anno di chiusura delle strutture di Cona e Bagnoli, avvia una procedura di licenziamento collettivo per 57 lavoratori, a cui se ne aggiungono 71 in scadenza di contratto. Si tratta di addetti alle pulizie e custodia, operai, insegnanti, tecnici, psicologi, educatori che riducono sensibilmente la rosa di Edeco, composta fino ad allora da 228 dipendenti. Nel 2020, Edeco inizia il processo di liquidazione, ma comincia a prendere nuova forma, sempre con lo stesso sistema: la creazione di nuove cooperative.

Questa volta sono due le cooperative che prendono il testimone di Edeco, segnando l’ingresso nel mondo del trattenimento dei cittadini stranieri: Ekene e Tuendelee. La prima è dedicata quasi esclusivamente alla gestione dei Cpr, la seconda all’attività principale di «pulizia generale (non specializzata) di edifici», oltre a servizi educativi e socio-sanitari come le «attività di prima accoglienza per cittadini stranieri».

Simone Borile, che di nuovo non compare nelle visure camerali, ha giustificato così a La Nuova Venezia la necessità di creare nuovi soggetti: «Era impossibile continuare a lavorare a causa del danno reputazionale che abbiamo subito». Le stesse persone coinvolte nei processi di Padova e Venezia sono presenti anche nei nuovi organigrammi, come Sara Felpati, prima presidente del Cda di Ekene, ruolo passato poi alla sorella Chiara, e Annalisa Carraro, ex consigliera di Edeco, che oggi ricopre il ruolo di vicepresidente di Ekene e di consigliera in Tuendelee.

Le controversie del passato non hanno quindi impedito l’aggiudicazione di nuove strutture: nell’agosto del 2019 Edeco ottiene in gestione il Cpr di Gradisca d’Isonzo, poi ceduto due anni dopo a Ekene, e nel dicembre 2021 quello di Macomer. In Friuli, la cooperativa si aggiudica una gara da quasi cinque milioni di euro, grazie al ribasso dell’11,9% rispetto alla base d’asta, dopo l’esclusione delle prime quattro società in graduatoria. Ekene a marzo 2023 vince anche un ricorso al Tar per ottenere la gestione di un centro di accoglienza a Oderzo, nel trevigiano, nell’ex caserma Zanusso.

Il Cpr di Gradisca, in provincia di Gorizia – Foto: PlaceMarks
Il Cpr di Macomer, in provincia di Nuoro – Foto: PlaceMarks

Ekene ha poi preso in gestione il Cpr di Macomer dopo l’aggiudicazione della gara del 2021. In una visita, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) ha riportato criticità simili a quelle emerse nella struttura friulana, come la violazione del diritto alla salute, all’informazione normativa e alla corrispondenza, poiché «neanche i difensori possono contattare i loro assistiti in caso di comunicazioni urgenti se non attraverso il filtro del gestore», si legge nel rapporto. Inoltre, secondo Asgi la visita medica è spesso assente o viene fatta in modo superficiale.

La cooperativa veneta ha poi vinto, nell’ottobre 2022, la gara per la gestione del Cpr di Caltanissetta. Ma dopo sette mesi, a maggio 2023, la Prefettura ha annullato l’aggiudicazione per i procedimenti a carico dei vertici: nel decreto di esclusione si riconosce esplicitamente Ekene come diretta emanazione di Edeco. Ricordando i gravi reati contestati nei procedimenti penali in corso, la Prefettura afferma di non poter «valutare favorevolmente l’integrità e l’affidabilità dell’operatore economico». Considerazioni diverse rispetto a quelle della Prefettura di Gorizia, che ha permesso a Simone Borile di mantenere il ruolo di direttore del centro di Gradisca d’Isonzo.

L’imputazione di Borile per omicidio colposo, secondo i verbali della nuova gara indetta dalla Prefettura di Gorizia per la gestione del Cpr, «può avere rilievo solo al fine di considerare l’affidabilità dell’operatore economico sotto la cui gestione è occorso l’evento morte», dato che Borile non ricopre alcun incarico formale in Ekene. Nella stessa gara, la cooperativa Badia Grande è stata esclusa per il rinvio a giudizio del rappresentante legale per diversi reati, tra cui frode nelle pubbliche forniture per la gestione dei Cpr di Trapani e Bari. Dai verbali della prefettura disponibili in rete risulta che la posizione della cooperativa veneta sia ancora in fase di valutazione.

Morire di Cpr a Gradisca d’Isonzo

Dalla riapertura del 2019 ad oggi sono morti quattro trattenuti al Cpr di Gradisca d’Isonzo. Dopo Vakhtang Enukidze, Orgest Turia, cittadino albanese di 28 anni, è morto per overdose da metadone quattro giorni dopo essere entrato nel centro, il 10 luglio 2020, in una cella di isolamento, dove si trovava con altre cinque persone per il periodo di quarantena. Andrea Guadagnini, avvocato di Turia, ha scoperto della sua morte proprio in sede di convalida del trattenimento ed esprime perplessità sulla provenienza di quella sostanza. Altre due persone si sono poi tolte la vita nella struttura: Anani Ezzedine era un cittadino tunisino di 44 anni. Anche lui in isolamento per il periodo di quarantena, si è suicidato nella sua cella nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2021. Arshad Jahangir, un ragazzo 28enne di origine pakistana, si è suicidato il 31 agosto 2022 in camera un’ora dopo essere entrato nel Cpr.

«È chiaro che per noi i Cpr debbano essere chiusi, ma nel frattempo volevamo instaurare delle prassi virtuose per agevolare la tutela dei diritti dei detenuti», afferma Eva Vigato, che insieme ad altre due colleghe, tra dicembre 2019 e novembre 2020 ha svolto il servizio di assistenza legale per l’ente gestore. Sostiene che anche per lei fosse molto difficile intervenire: i diritti dei trattenuti nei Cpr non sono delineati da una legge, ma da un semplice regolamento ministeriale, di cui non possono essere contestate le violazioni.

«Sono successe delle cose che ci hanno sconvolto», ricorda l’avvocata Vigato. Dopo la morte di Vakhtang Enukidze, Vigato e le sue colleghe hanno assistito a un’altra serie di irregolarità: «Abbiamo deciso di tener duro e ci siamo date come limite la Convenzione di Ginevra – spiega -. Di fronte a una violazione del trattato internazionale avremmo sporto denuncia».

L’occasione si è presentata a novembre 2020: le legali si sono rese conto che dal Cpr transitavano cittadini tunisini senza che venisse registrato il loro ingresso nel sistema e senza che riuscissero a incontrarli e a informarli dei loro diritti, tra cui la richiesta di asilo, tutelata proprio dalla Convenzione di Ginevra. Le avvocate avevano dunque incaricato formalmente i mediatori di informare i trattenuti della possibilità di chiedere protezione internazionale e di metterlo per iscritto. In risposta, l’ente gestore ha deciso di diminuire le ore di ufficio legale, portando l’avvocata a inviare una segnalazione per denunciare la violazione della Convenzione di Ginevra alla Prefettura e al Garante nazionale. Ha risposto «il prefetto in persona – racconta Vigato – dicendo che non c’era nulla di irregolare ravvisabile nell’operato. Mi domando come abbia fatto, in così pochi giorni e senza un serio controllo, ad affermare una cosa del genere». La sera stessa Edeco ha rimosso Vigato e le sue colleghe dall’incarico.

Nella segnalazione inviata alle autorità, Vigato ha evidenziato la violazione di molteplici diritti, tra cui quello alla salute e all’assistenza legale. Sostiene ci fosse un abuso di medicine nella struttura: «A un certo punto ci siamo rese conto che non c’era un controllo reale sui farmaci e potevano essere utilizzati anche in modo improprio dai detenuti». Le legali spesso non riuscivano ad accedere alle informazioni sanitarie e, in alcuni casi, non veniva caricato il resoconto delle visite, soprattutto quelle psicologiche. «L’impressione che è uscita sia dal processo Edeco sia dalla mia esperienza nel Cpr – conclude Vigato – è che ci sia una sorta di soluzione di comodo tra l’ente gestore e l’istituzione, per cui va bene così».

 

Correzione 25 settembre: in una prima versione abbiamo riportato erroneamente 137mila «strutture» Cas. Si tratta invece di posti di accoglienza.

 

La storia di Anthony

Bibudi Anthony Nzuzi è nato in Libano, da genitori congolesi, nel 1983, in piena guerra civile. «Era la fase del bombardamento massiccio», racconta, ma dopo cinque anni «la situazione era diventata veramente insostenibile». Per questa ragione, sua madre ha deciso di mandare i figli fuori dal Paese: due dei tre fratelli più grandi sono emigrati in Congo Brazzaville, ma lui, il più piccolo, è rimasto con lei. Poi sono fuggiti insieme in Siria e, visto che il conflitto si stava avvicinando, in Turchia, ad Ankara e a Istanbul.

Infine, hanno deciso di venire in Italia per ricongiungersi con il fratello maggiore, che si trovava nel Paese da diversi anni. «Nel 1998 mia madre, dopo anni di duro lavoro, è riuscita a riunire tutta la famiglia qui a Jesi, nelle Marche», dice Anthony, che ha poi studiato come perito elettrotecnico, mentre uno dei fratelli ha partecipato alle Olimpiadi di Pechino del 2008 con l’Italia nella disciplina delle arti marziali.

Anthony vive quindi in Italia da quasi trent’anni e ha conosciuto il mondo dei Cpr «per un errore», racconta: «Vivevo a Modena e mi sono fidato di una persona, sbagliando. Mi sono trovato a dover scontare una pena di 11 mesi e 29 giorni in carcere». Mentre era recluso gli è scaduto il permesso di soggiorno senza, sostiene, che gli fosse data la possibilità di rinnovarlo. «A luglio mi è arrivato il foglio di via e il 10 ottobre a mezzanotte sono venuti a prendermi in cella, mi hanno fatto preparare tutte le mie cose perché dovevano espatriarmi in Congo». Ma dopo essere stato trasferito a Fiumicino alle quattro di mattina e alcune ore di attesa, il volo non è partito ed è stato riportato in cella.

Uscito dal carcere, dopo uno sconto di pena per buona condotta, ha potuto passare un giorno con la famiglia per poi essere recluso in un Cpr. «Era l’unico modo per me per rimanere in Italia – racconta con commozione – non è facile, ma sono riuscito ad andare avanti». È stato portato al Cpr di Bari, ma per la sua avvocata, che esercita nelle Marche, era diventato difficile seguirlo.

Dopo pochi giorni le condizioni nel centro pugliese erano già critiche: cibo ammuffito, carenze igieniche e, secondo Anthony, negli altri moduli la situazione era anche peggiore. Per questo sono iniziate rivolte interne che hanno reso inagibile la struttura, andata a fuoco. «La mattina dell’incendio ci siamo ritrovati caricati su dei pullman e portati a Gorizia – dice – di punto in bianco».

Anthony considera il carcere molto meglio del Cpr: «Hai una vita dignitosa, per quanto è possibile. Sei detenuto, ma comunque hai la tua dignità. Nel Cpr ti tolgono tutto, o almeno ci provano». E aggiunge: «Se arrivo a dire una cosa del genere significa che stavo meglio in carcere per davvero. I primi giorni a Gradisca abbiamo patito il freddo, il cibo arrivava gelato e crudo. Non è stato per niente facile».

Grazie all’assistenza legale della sua avvocata è riuscito a uscire, ma se fosse stato rimpatriato nel Paese di origine dei suoi genitori, dove lui non è mai stato, avrebbe dovuto arrangiarsi senza soldi: «Non mi hanno dato un euro quando sono arrivato in aeroporto», spiega. Anthony rischiava di essere rimpatriato in Congo, dove ha alcuni parenti, «ma non so neanche dove siano, come si chiamino o come contattarli». E, oltre ad avere sempre avuto i documenti in regola, già prima di entrare nel Cpr, aveva un figlio di nazionalità italiana.

«Metà delle persone che trovi nel Cpr – conclude Anthony – hanno semplicemente voglia di trovare un futuro. Magari c’è chi vorrebbe veramente lavorare, ma non ha possibilità perché lo trattano come un cane. Dagli la possibilità di dimostrarti che può rimanere nel tuo Paese. Non ne vuole tante, gliene basta una».

CREDITI

Autori

Marika Ikonomu
Alessandro Leone
Simone Manda

Editing

Lorenzo Bagnoli

Foto satellitari

PlaceMarks

Infografiche

Lorenzo Bodrero

In partnership con

Coalizione italiana libertà e diritti civili

Voci dai Cpr: le irregolarità segnalate da chi ha lavorato con Engel Italia Srl

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Voci dai Cpr: le irregolarità segnalate da chi ha lavorato con Engel Italia Srl

Marika Ikonomu
Alessandro Leone
Simone Manda

Federica, nome di fantasia, stava cercando un lavoro nel sociale quando si è imbattuta in un annuncio su Facebook. «Era stato pubblicato da un’azienda che tra le varie cose si occupa di comunicazione, grafica e recruitment. Ho inviato il curriculum e sono stata subito contattata». All’appuntamento, con lei ci sono infermieri, mediatori, personale delle pulizie, medici, operatori in attesa di essere convocati. L’edificio scelto per il colloquio si trova in via Corelli, a Milano. Il cortile interno è invaso da materiali da costruzione, impianti smontati perché, secondo quanto spiegano i datori di lavoro, dovrebbe diventare a breve una cucina. Quando arriva il suo turno ormai è buio e l’illuminazione non funziona: «Attorno al banchetto c’erano tra i tre e i cinque uomini in piedi, gambe divaricate e braccia conserte. Alcuni di loro tenevano in mano un cellulare per usare la torcia – racconta – ho preso il mio telefono e l’ho appoggiato sul banco e ho chiesto agli uomini di puntare le loro torce in altre direzioni perché era poco confortevole». Le hanno chiesto informazioni sul suo trascorso lavorativo e sulle competenze linguistiche, poi hanno cercato di capire se fosse «pronta ad affrontare una situazione di quel tipo» e se avesse capito bene chi «erano i datori di lavoro».

Il colloquio era finalizzato all’assunzione nel Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Milano, uno dei nove attualmente aperti in Italia (il governo Meloni vorrebbe averne venti). Si tratta di strutture di detenzione amministrativa, dove i cittadini stranieri vengono rinchiusi senza che abbiano commesso alcun reato, solo perché sprovvisti di un permesso di soggiorno. Sono gestiti da cooperative, società e multinazionali private che si aggiudicano appalti da milioni di euro di fondi pubblici grazie alla logica della «offerta economicamente più vantaggiosa». Solo negli ultimi tre anni all’interno dei centri sono morte nove persone. Chi ne esce invece li descrive come un carcere, ma senza le tutele del sistema penitenziario.

L'inchiesta in breve
  • La Engel Italia Srl nasce nel 2012. L’attività principale della società risultava inizialmente quella alberghiera, prima di passare alla gestione dei centri di accoglienza in Campania
  • Nel 2016, la procura di Avellino dispone il sequestro probatorio per alcuni centri gestiti dalla società. L’indagine porterà alla richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di Alessandro Forlenza, considerato “amministratore di fatto” di Engel
  • Nel 2021 Engel ottiene la gestione dei Cpr di Milano e Palazzo San Gervasio, in Basilicata
  • Nel centro milanese gli operatori denunciano di non essere stati pagati per mesi, a Potenza invece la procura ha aperto un’inchiesta per abuso d’ufficio e maltrattamenti che sarebbero stati commessi nel Cpr lucano
  • Nell’aprile del 2022, la società salernitana cede il ramo d’azienda che si occupa della detenzione amministrativa a Martinina, di proprietà della moglie e della madre di Forlenza
  • A ottobre 2022, nonostante le segnalazioni dei dipendenti alla Prefettura, Martinina si aggiudica il Cpr di Milano. Engel invece versa in stato di crisi, con debiti per oltre due milioni di euro, e ha formulato domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo

«Puoi resistere fino a un certo punto, poi devi decidere: dentro o fuori. Se resti dentro, allora ti tappi gli occhi e le orecchie». Federica si è dimessa dopo soli tre mesi, un tempo comunque sufficiente a sperimentare le condizioni di vita in un Cpr. «Per identificare una persona veniva usata la parola “merda” e poi magari “alta”, “bassa”, “magra”», afferma. L’ex operatrice denuncia le carenze dell’assistenza sanitaria, l’abuso di psicofarmaci, gli atti di autolesionismo all’ordine del giorno. Ma racconta anche di essere stata ripresa per aver segnalato in una relazione l’assenza di acqua calda, di coperte a sufficienza, del riscaldamento e di vetri alle finestre. A gestire il centro il quel periodo era la Engel Italia Srl.

Breve storia dei Cpr
Le strutture finalizzate al rimpatrio, nate come stato di eccezione nel 1998 con il Testo unico sull’immigrazione, la legge Turco-Napolitano, sono presto entrate a pieno titolo nel sistema, creando una sorta di binario autonomo punitivo. Nei 25 anni di presenza sul territorio italiano hanno cambiato diversi nomi: da Centri di permanenza temporanea e di assistenza (Cpta), ai Centri di identificazione, Centri di identificazione ed espulsione (Cie), e infine Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr). Il decreto Piantedosi prevede di portare i nove Cpr attuali a venti, uno per regione. Il decreto-legge, il numero 1/23, è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 2 marzo, sei giorni dopo la strage di Cutro (Crotone) in cui sono morte almeno 94 persone. Oltre all’aumento dei Cpr, il decreto promulgato dal ministro dell’Interno del governo Meloni cambia le regole per gli sbarchi delle Ong e le disposizioni sulle forme di protezione speciale.

«Nei primi anni 2000 – spiega Mauro Palma, Garante nazionale delle persone private della libertà personale – avviene un cambiamento nella proporzione tra investimenti economici degli Stati europei per l’accoglienza e per il respingimento. Da una prevalenza dei primi, l’impegno economico si sposta via via sul respingimento».

I Cpta vengono inizialmente gestiti dalla Croce Rossa, all’epoca ente pubblico, ma il sistema risultava già inumano, come hanno rilevato i rapporti di organizzazioni come Medici senza frontiere e Medu, oltre alle conclusioni della Commissione parlamentare di inchiesta De Mistura, che nel 2007 ha chiesto di superare il sistema della detenzione amministrativa. A partire dal 2010, la Croce Rossa non risulta più competitiva nelle gare d’appalto e iniziano a entrare nella gestione dei centri soggetti privati, le cooperative, per poi fare spazio, nel 2013-2014, a società e grandi multinazionali.

La gestione emergenziale cede le strutture ai privati

La Engel Italia è una Srl creata nel 2012 a Salerno dall’imprenditore Alessandro Forlenza e poi ceduta alla moglie Paola Cianciulli, che oggi detiene il 100% ed è amministratrice unica dell’azienda. In base alla visura camerale, l’attività principale della società fino al 2015 è stata quella alberghiera, sostituita in seguito da «l’assistenza sociale e gestione di centri di accoglienza per immigrati». Dal 2013 al 2015 la Srl ha gestito un albergo, l’Hotel Engel, a Capaccio Paestum, in provincia di Salerno, lo stesso che diventerà poi uno dei primi centri di accoglienza gestiti dalla società. Una svolta che nel 2014 segnerà il passaggio dal mondo del turismo a quello dell’accoglienza, per poi arrivare nel 2017 al trattenimento dei cittadini stranieri. Oggi la società Engel è in stato di crisi e nel 2022 ha formulato la domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo, aperta dal tribunale di Salerno.

Engel Italia si occupa di trattenimento dei migranti a partire dagli anni in cui i flussi migratori cominciano ad aumentare. Nel 2011 gli sbarchi dal Nord Africa sono la conseguenza delle Primavere arabe, moti delle fasce medio basse della popolazione dei Paesi arabofoni del Maghreb e del Medio Oriente contro i loro governanti. Per i rivoltosi, le speranze di riscatto e della fine delle dittature sono state in larga parte disattese. La violenta repressione che ne è seguita ha poi portato molte persone a fuggire verso i Paesi europei, percorrendo una delle rotte più pericolose al mondo: il Mediterraneo centrale.

L’Italia, che nel 2011 ha assistito all’arrivo di 62.692 persone, ha visto il numero di migranti sbarcati sulle sue coste raggiungere i 170.100 nel 2014 e oltre i 181 mila nel 2016.

Gli sbarchi di massa sono avvenuti però in un sistema di accoglienza impreparato: un approccio emergenziale che ha trasformato ex caserme o alberghi privati in strutture ricettive, con aggiudicazioni straordinarie consentite dallo stato di emergenza nazionale. Una situazione che ha portato molte società private, con nessuna esperienza nel campo dell’accoglienza e del sociale, a entrare nel settore e a vedersi aggiudicati facilmente appalti pubblici, senza reali controlli da parte delle istituzioni. È la stessa “emergenza” a cui si assiste anche oggi, con la corsa in extremis alla ricerca di nuove strutture.

I Cpr in Italia

Si è permesso così, in molti casi, di limitare al massimo i servizi e i diritti delle persone ospitate in nome di interessi economici. «Da anni lo Stato delega a soggetti che tipicamente sono non profit, ma ora delega sempre di più a organizzazioni che hanno esplicitamente, e non c’è nulla di male, un fine di lucro», spiega Salvatore Fachile, avvocato dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). Fachile sottolinea, però, che nella progressiva decisione di delegare i servizi, lo Stato «si solleva dalle responsabilità». Non solo: lo stesso Stato «attribuisce gli incarichi ai soggetti privati, consentendo loro di fatto di poter violare le regole contrattuali, sapendo che l’ente privato potrà accettare quel tipo di contratto a quel prezzo solo nella misura in cui venga autorizzato informalmente a violare le regole». Il sistema è distorto dagli appalti al massimo ribasso che spinge gli enti gestori a ridurre i servizi per contenere i costi. Servirebbero, quindi, garanzie dei diritti di chi è recluso per controbilanciare questa situazione. «E questo nel Cpr non avviene», sottolinea Fachile, perché gli unici trattenuti all’interno delle strutture sono «persone che non hanno alcuna voce in capitolo all’interno della dinamica complessiva sociale: i cittadini stranieri».

Le prime segnalazioni di malagestione

È in questo contesto che la Engel è entrata nel settore, inizialmente in Campania. Già dall’avvio della gestione dell’Hotel Engel riconvertito sono emersi i primi presunti casi di mala accoglienza. È accaduto dopo un’ispezione dell’allora parlamentare del Partito democratico e oggi imprenditore Khalid Chaouki, insieme a LasciateCIEntrare, campagna lanciata nel 2011 per ottenere la possibilità di visitare gli allora Cie e per chiederne la chiusura. Gli ospiti della struttura avrebbero segnalato alla delegazione la mancanza di beni di prima necessità, tra cui cibo e vestiti, di non ricevere il pocket money (diaria di due-tre euro erogata agli ospiti in contanti o in carte prepagate per piccole spese, ndr), di sentirsi trattati come animali e di temere per la propria incolumità.

La vicenda è stata portata in Parlamento da Chaouki, che ha evidenziato come gli ospiti avessero già segnalato la violazione del capitolato d’appalto alla prefettura di Salerno. L’allora senatore e presidente della Commissione per la promozione dei diritti umani, Luigi Manconi, ha inoltre raccontato alla stampa di aver ricevuto una memoria da alcuni rifugiati del centro. Il caso è stato comunque archiviato dal tribunale di Salerno.

Le stesse segnalazioni si sono ripetute solo pochi giorni dopo nella provincia di Avellino, dove la Cgil ha denunciato gravi violazioni in alcuni centri di accoglienza gestiti dalla Engel. Secondo i sindacalisti, gli ospiti vivevano in condizioni di totale abbandono e disagio, non ricevevano da mesi il pocket money, non era garantita loro l’assistenza sanitaria, né i corsi di italiano. Dalle indagini della procura di Avellino sarebbero emerse gravi inadempienze rispetto al capitolato d’appalto, che hanno portato il giudice per le indagini preliminari a disporre il sequestro probatorio (cioè finalizzato a trovare elementi di prova) di alcuni centri nel 2016.

Nel 2020 la Procura di Avellino ha formulato la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti, tra gli altri, di Forlenza e Cianciulli per il reato di inadempimento di contratti di pubbliche forniture. Ai rappresentanti della Engel si contestano la situazione di sovraffollamento in uno dei centri e, in generale, la mancanza di servizi o opere previsti dal contratto e relativi all’assistenza alla persona, ai beni essenziali e all’assistenza sanitaria. Per la Cgil di Avellino, riporta Repubblica, erano denunce conosciute da tempo ma che non «sono mai state recepite dal Prefetto e dai sindaci». Il processo si trova attualmente nella fase di giudizio.

Il Cpr di Milano, nella periferia Est del capoluogo lombardo – Foto: PlaceMarks

L’anno successivo la Engel vince la gara per la gestione del Cpr di Palazzo San Gervasio, in provincia di Potenza, passando così al business della detenzione amministrativa. Per gli inquirenti di Avellino, così come secondo le testimonianze degli operatori del Cpr di Milano, Forlenza è «amministratore di fatto» della società, nonostante dal 2014 non ricopra alcuna carica formale. Sentito direttamente a seguito della visita del Cpr, afferma di essere «il direttore» del centro, ma conferma di non avere ruoli nella società. La società non ha voluto però rispondere alle richieste di commento via email inviate da IrpiMedia.

Nonostante i procedimenti e le difficoltà economiche, nel 2021 i vertici della Srl sono riusciti a ottenere comunque la gestione di un altro Cpr, quello di Milano. Nell’aprile del 2022 Engel ha ceduto il ramo d’azienda che si occupa della gestione della detenzione amministrativa a una nuova società, Martinina Srl, di proprietà al 90% della moglie di Forlenza. I nomi dunque continuano a essere sempre gli stessi e ancora una volta nelle visure camerali non compare Alessandro Forlenza. A ottobre 2022 Martinina si è riaggiudicata l’appalto per la gestione del Cpr di Milano. A marzo 2023 ha perso invece il centro di Palazzo San Gervasio dopo circa quattro anni e mezzo di gestione. Consiglia Caruso, amministratrice pro tempore di Martinina Srl, non ha voluto rispondere alle richieste di commento inviate via email da IrpiMedia, sostenendo che l’inchiesta «abbia l’unico fine di mettere in cattiva luce l’operato di Codesta società».

La parentesi nel calcio
Nel 2020 Alessandro Forlenza ha iniziato una breve parentesi nel mondo del calcio entrando nel consiglio di amministrazione del Carpi Calcio. Secondo i media locali, l’imprenditore campano avrebbe dovuto rilevare il 29% delle quote della società nel gennaio del 2021. L’anno successivo, il Carpi è stato dichiarato fallito dal Tribunale di Modena dopo la scelta di alcuni soci di iniziare una procedura di fallimento in proprio invece della liquidazione volontaria. Non avendo rilevato le quote societarie, Forlenza non è stato interessato direttamente dagli effetti del fallimento. Uscirà poi di scena prima della rifondazione della squadra, che ora milita in Serie D.

Stipendi non pagati, psicofarmaci ai trattenuti: le denunce dal Cpr di Milano

Gli unici a poter entrare all’interno di un Cpr senza preavviso sono i parlamentari. Per la società civile e i giornalisti è difficile effettuare un monitoraggio, non solo per i tempi di risposta delle Prefetture, che possono impiegare mesi, ma anche perché la visita, quando concessa, si concentra solo su alcuni ambienti comuni, con forti limitazioni. Come nel caso di quella che abbiamo effettuato il 22 luglio 2022 nel Cpr di Milano, dove ci è stato permesso di transitare solo nel corridoio, ci è stato impedito di parlare con i trattenuti e di visitare i moduli abitativi.

In quel momento, Martinina era già subentrata a Engel da tre mesi ma di questo passaggio di consegne non c’era traccia sul sito della Prefettura, secondo quanto riportato anche nel rapporto dell’ex senatore Gregorio De Falco pubblicato insieme alla rete Mai più lager – No ai Cpr sulla sua visita al Cpr milanese. Gli stessi operatori intervistati durante la visita hanno confermato di non essere stati avvisati del subentro. Dovrebbero essere proprio le Prefetture a verificare il rispetto del capitolato d’appalto con ispezioni periodiche. Ma, come denuncia l’ex operatrice Flavia, quando avvengono sono spesso sommarie: «Anche se arriva un prefetto, un viceprefetto, non entrano mai nei bracci, mai, assolutamente. Entrano soltanto nei corridoi». Gli stessi operatori, secondo alcune testimonianze, sono invitati dall’ente gestore a non parlare con i giornalisti né con eventuali parenti dei trattenuti.

Durante la nostra visita, però, i dipendenti della struttura hanno denunciato varie criticità, come il ritardo nel pagamento degli stipendi. «Si lamentano tutti degli stipendi, tutti se ne vanno via di qua», ha detto un’operatrice. «Sto aspettando lo stipendio di maggio ma siamo al 21 luglio», ha affermato un altro. Una dinamica confermata anche da chi ha lasciato il centro: «Sono tre mesi che non veniamo pagati, neanche il Tfr ho ricevuto. Sono andati via tanti di quegli infermieri e medici… sono scappati», sostiene un ex operatore.

Persino il funzionario della Prefettura che ha seguito la visita è sembrato essere a conoscenza dei reclami, come testimonia anche una lettera del giugno 2022 inviata da alcuni dipendenti al prefetto di Milano: «Ho sentito, però non ho contezza della parte economica, non è il mio lavoro. Chiedete a Forlenza». Raggiunto all’ingresso del Cpr qualche giorno dopo la visita, sulla questione stipendi Forlenza ha risposto: «E allora sono pazzi. Lei lavorerebbe per un anno in un’azienda senza essere pagato? Tutti i dipendenti fino ad oggi qua sono pagati. Chi non è stato pagato è perché c’è un contenzioso».

Il racconto peggiora quando si parla delle condizioni di vita dei trattenuti. «Io li chiamavo per nome e loro mi hanno detto “hanno un numero”. Allora mi è venuto da dire: “Perché, Auschwitz ha riaperto?”», ricorda Flavia. In un altro episodio, dopo essere riuscita a salvare un trattenuto che stava per togliersi la vita impiccandosi, racconta di essere stata rimproverata dalle forze dell’ordine perché «non era di sua competenza»: «Hanno cazziato me, quell’intervento non lo dovevo fare. Dovevo chiamare [le autorità]. Ma ora che arrivano questo ormai è andato».

Un’inchiesta di Altreconomia ha evidenziato anche un uso eccessivo degli psicofarmaci nei Cpr, tra cui quello di Milano. Lo studio parte dal Centro salute immigrati (Isi) di Vercelli, il servizio che in Piemonte prende in carico le persone senza regolare permesso di soggiorno, dove la spesa per gli psicofarmaci ammonta allo 0,6%. Se però si passa al Cpr di Milano la percentuale sale al 64%. Oltre metà della spesa riguarda il Rivotril, un farmaco usato come antiepilettico o sedativo. Nel primo caso avrebbe bisogno di una prescrizione ma le visite psichiatriche effettuate nel centro sono state solo otto in un anno; nel secondo sarebbe la persona a cui viene somministrato a dover dare il suo consenso. Di fronte a questo dato esiste un’incompatibilità di base, perché il regolamento dei Cpr stabilisce che le persone con «patologie evidenti come disturbi psichiatrici» non sono «idonee alla vita in comunità ristretta» e quindi non dovrebbero essere recluse.

È un dato che trova riscontro anche nelle parole di Federica: «Alla fine quello che diventava ok erano le benzodiazepine. Basta. Per tutto il resto, se volevano un cerotto oppure una pomata diceva che c’erano troppe richieste e non poteva “cacciare tutti questi soldi”». Un risparmio che si rifletteva, secondo Federica, anche sulla carenza di operatori, costretti a svolgere doppi ruoli, come nel suo caso: «I primi tempi sono dovuta andare in ambulanza ad accompagnare i ragazzi a fare le visite mediche, che non è una cosa che mi compete», afferma. Oppure sul cibo: il 31 maggio scorso un video di No Cpr-Mai più lager ha mostrato un pollo ricoperto di vermi bianchi che riportava la scadenza per il giorno successivo. Già precedentemente l’associazione aveva denunciato un caso di intossicazione di oltre 30 persone.

Dopo le dimissioni dell’assistente sociale, alcuni operatori hanno confermato che il centro è rimasto senza, anche se la figura è richiesta dal capitolato d’appalto per otto ore a settimana. Per Forlenza invece c’erano «due psicologhe e un assistente sociale». Martinina continua a gestire il Cpr ancora oggi: «Ci si illude di poter cambiare il sistema pretendendo delle cose da dentro. In realtà poi ti rendi conto che è studiato in un certo modo, non è lasciato al caso e quindi sei lì dentro a fare cosa? La lotta contro i mulini a vento?», dice Federica.

L’ultimo rapporto del Garante nazionale: i dati

«Luoghi emblematici del vuoto, sia spaziale che temporale», «spazi spesso pensati solo per contenere, senza alcuna attività, né relazioni interne significative, in uno scorrere del tempo caratterizzato dall’indeterminatezza dell’esito del suo svolgersi. Una realtà in cui alberga fortemente la rabbia, il fallimento, il desiderio di distruzione e di autodistruzione». Il Garante nazionale delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, ha definito così i Cpr nell’ultima relazione del suo mandato settennale, presentata al Parlamento lo scorso 15 giugno.

Sono 6.383, secondo il rapporto, le persone transitate nei centri di rimpatrio nel 2022, di cui 57 donne. Nel 2022 in queste strutture hanno perso la vita cinque trattenuti. Le persone effettivamente rimpatriate sono state 3.136 uomini e 18 donne, una media del 49,4%, che raggiunge però in alcuni centri percentuali più basse: nel Cpr di Macomer (Nuoro) solo il 23% è stato rimpatriato, in quello di Roma il 25%. Nel 25% dei casi invece il trattenimento non è stato convalidato o prorogato dall’autorità giudiziaria. Se si osservano le nazionalità dei detenuti rimpatriati è poi evidente che il sistema dipenda esclusivamente da accordi bilaterali con i Paesi di provenienza: la maggior parte è infatti di nazionalità tunisina, 2.248 (il 71%), seguono l’Egitto, circa il 10%, Albania, Marocco e Nigeria.

Il rapporto del garante fornisce anche dati dei primi sei mesi del 2023, in linea con gli anni precedenti: su 1.850 transiti, sono il 43% le persone effettivamente rimpatriate. I cittadini tunisini che sono passati per i Cpr sono 792 (43%), circa il 50% delle persone rimpatriate.

Il Cpr di Palazzo San Gervasio

«L’enorme gabbia per uccelli» – così era stato descritto il Cpr di Palazzo San Gervasio in un’inchiesta de l’Espresso – è stata riaperta con l’arrivo del ministro dell’Interno Marco Minniti nel 2017. Da allora è stato gestito dalla Engel fino a marzo 2023, quando ha perso la nuova gara d’appalto. Come nelle precedenti gestioni, anche in questo centro sono state denunciate gravi violazioni dei diritti fondamentali. Tra gli altri, il Garante nazionale delle persone private della libertà personale ha segnalato la presenza di blatte, l’assenza di locali comuni, la luce artificiale anche di notte, i letti senza cuscini, i bagni senza porte o solo con tende.

L’avvocata Angela Bitonti ha difeso molte persone trattenute in questa struttura e ha deciso di non occuparsi più di Cpr per gli ostacoli al proprio lavoro: «È molto faticoso svolgere attività di difesa per chi si trova all’interno di un Cpr – racconta – anche tecnicamente, perché le nomine non arrivano in maniera tempestiva all’avvocato». Bitonti spiega che i tempi sono brevi, il trattenimento deve essere convalidato entro 48 ore dal giudice di pace e per la legale «occorrerebbe poter interloquire con l’assistito, per capire le sue ragioni e se ci sono motivi che possono rendere illegittimo il trattenimento». Spesso, invece, senza la nomina di un legale di fiducia, dice l’avvocata, «è intervenuto in udienza il difensore d’ufficio, che non essendo informato sulla storia del trattenuto, è chiaro che non potrà assumere una difesa efficace».

In base al regolamento spetta al medico del servizio sanitario nazionale certificare l’idoneità al trattenimento. Ma spesso la visita viene svolta da un medico convenzionato con l’ente gestore, creando così una potenziale situazione di conflitto di interessi: la società infatti viene pagata dalla prefettura in base al numero di persone che vengono trattenute. Ed è quello che è accaduto a M.D., un ragazzo senegalese, in condizioni di salute precarie: dopo un incidente che gli aveva provocato un ematoma cerebrale e fratture multiple, faceva fatica a camminare. Nonostante si recasse periodicamente all’ospedale Pertini di Roma per essere visitato, è stato comunque considerato idoneo al trattenimento.

I suoi avvocati sono riusciti ad avere accesso alla cartella clinica solo facendo ricorso d’urgenza alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Su nove esami medici prescritti ne sono stati svolti solamente due e M.D. ha denunciato che gli venivano dati 12 farmaci al giorno, senza sapere il motivo. Si trattava di tranquillanti e psicofarmaci, somministrati in assenza di diagnosi o valutazione psichiatrica. M.D. ha descritto il Cpr come «un luogo orribile», dove le persone vengono «trattate come animali», «rinchiusi in una gabbia in mezzo al nulla». Violazioni di questo tipo sono oggetto di un’inchiesta della Procura di Potenza, aperta nel gennaio 2020 e ancora sotto segreto investigativo, per reati tra cui abuso d’ufficio e maltrattamenti che sarebbero stati commessi all’interno della struttura. Alcuni operatori avrebbero somministrato in modo inappropriato tranquillanti, pesanti sedativi e perpetrato «atti di violenza» sui trattenuti.

La storia di Didiop

Didiop è nato e cresciuto in Nigeria, ma è costretto a scappare quando riceve delle minacce di morte dopo essersi rifiutato di entrare in un gruppo religioso locale. Per un anno rimane a Bamako, in Mali, poi torna in Nigeria, ad Abuja, ma cerca di evitare casa sua per timore che qualcuno lo stia cercando. Un mese dopo decide di seguire alcuni amici attraverso la rotta subsahariana per cercare fortuna altrove e approda in Libia, dove lavora per due mesi in un autolavaggio, ma più di una volta alcuni miliziani armati lo derubano di tutti i risparmi, vanificando così tutti i suoi sforzi.

Arriva in Italia nell’ottobre del 2015, a 24 anni, e da Lampedusa raggiunge la Basilicata, dove alcuni volontari gli danno da mangiare e un posto dove dormire. Il permesso di soggiorno gli permette di lavorare in vari ristoranti e persino per una società che produce divani. Poi, l’avvento del Coronavirus cambia le carte in tavola: il permesso scade e la sua situazione lavorativa non gli permette di rinnovarlo. Viene quindi portato in questura dopo un controllo di routine il 20 dicembre del 2020, cinque giorni prima di Natale, e poi direttamente al Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Palazzo San Gervasio.

«Un posto molto difficile», afferma con un sorriso amaro sul volto. Dei quattro mesi passati da recluso ricorda che i trattenuti riuscivano a comunicare con il personale del centro solo urlando, da una parte all’altra delle sbarre. Dormiva su un letto di cemento fissato a terra, che gli provocava dolori ovunque: «Appena entrato pensavo di essere finito in un cimitero, sembrava un loculo».

Quando viene portato nel Cpr, la sua fidanzata, cittadina italiana, è incinta di sette mesi. Mentre è rinchiuso non gli viene permesso né di assistere alla nascita del figlio, John, né di parlare con la compagna, se non per poche telefonate concesse dall’ente gestore. «A volte mi arrabbiavo, perché era difficile anche convincerli a farmi fare una chiamata. Quando sono uscito e ho visto mio figlio ero così felice», racconta.

Fuori dal Cpr gli è stato consegnato un foglio che gli imponeva di lasciare il Paese in sette giorni. Poi però ha incontrato l’avvocata Bitonti, con cui ha portato avanti la pratica e tutto sembra ora andare per il verso giusto. Per quanto riguarda il futuro, però, Didiop non è del tutto positivo: ha paura che quello che vorrebbe dalla sua vita ora, cioè vivere e lavorare in Italia restando insieme alla fidanzata e a suo figlio, possa non avverarsi. «Non so che fare», ripete incessantemente.

Il suo permesso di soggiorno è ancora un’incognita. Forse potrebbe essere proprio suo figlio John a permettergli definitivamente di restare qui. «Se fosse stato rimpatriato, questo bambino, cittadino italiano, sarebbe cresciuto senza padre, perché sarebbe stato estremamente difficile per Didiop tornare, viste le espulsioni e le condizioni economiche», dice Bitonti.

* I nomi degli operatori sono stati cambiati o omessi per tutelare le fonti.

CREDITI

Autori

Marika Ikonomu
Alessandro Leone
Simone Manda

Editing

Lorenzo Bagnoli

Foto satellitari

PlaceMarks

Infografiche

Lorenzo Bodrero

In partnership con

Coalizione italiana libertà e diritti civili