Polonia, destre in bilico tra Oriente e Occidente

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Polonia, destre in bilico tra Oriente e Occidente

Fabio Turco

Come ogni 11 novembre Rondo Dmowskiego, il centro nevralgico di Varsavia, si riempie di persone. Sin dal mattino affluiscono senza sosta intorno a un grande palco allestito per l’occasione. Sono quasi centomila e arrivano da tutte le parti del Paese. È un profluvio di bandiere polacche, striscioni ed effigi religiose. Si celebra la festa dell’Indipendenza, che ricorda la ritrovata unità nazionale nel 1918, dopo 123 anni in cui la Polonia era sparita dalle carte geografiche, suddivisa tra l’Impero russo, Regno di Prussia e Monarchia Asburgica. Il viaggio alla scoperta della destra polacca non può cominciare che da qui, dalla sua esibizione più visibile e rumorosa.

L’11 novembre 2021 è stato particolare, essendo coinciso con i giorni più drammatici della crisi migratoria al confine con la Bielorussia. Migliaia di persone provenienti perlopiù dal Kurdistan iracheno, dalla Siria e dall’Afghanistan che cercavano di entrare in Europa sono state respinte coi cannoni ad acqua della guardia di frontiera polacca vicino al valico di Kuźnica, nel nord est del Paese. La situazione aveva spaccato l’opinione pubblica. La tensione al confine si era inevitabilmente riflessa anche negli umori che attraversano la Marcia dell’Indipendenza.

Quel giorno in piazza c’era anche Juliusz, arrivato da Poznań insieme alla moglie e ai due figli adolescenti: «Stiamo vivendo una situazione particolare – racconta -. I nostri confini sono in pericolo e per il nostro Paese è importante mostrare unità. La Polonia viene tormentata dall’Unione europea, con la regia della Germania. Vogliono farci fare quello che vogliono, ma noi vogliamo essere sovrani, non subalterni. Da un lato abbiamo l’Unione europea che impone sanzioni, da est i migranti attaccano le nostre frontiere». Quello di Juliusz non è un sentimento isolato: la sindrome dell’assedio si riscontra palpabile nella piazza. A un certo punto vengono bruciate una bandiera della Germania e una fotografia di Donald Tusk, leader dell’opposizione liberale.

Destra di piazza e di governo

La marcia dell’Indipendenza è una manifestazione relativamente recente se si considera che la sua prima edizione si è tenuta nel 2009. Ha conosciuto un rapido e tumultuoso consenso, passando da essere un evento di poche centinaia di persone a manifestazione di richiamo internazionale. Negli anni insieme alla destra radicale polacca hanno sfilato gli italiani di Forza Nuova, gli spagnoli di Vox, gli ungheresi di Mi Hazánk Mozgalom, recentemente approdati all’Assemblea nazionale magiara. Durante i primi anni ci sono stati episodi di violenza, sassaiole e scontri con la polizia. Una prima svolta avviene nel 2015, quando il partito nazionalista e conservatore di Diritto e Giustizia (PiS) vince le elezioni parlamentari dopo sette anni di governo a trazione liberale.

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Polonia, in alto a destra

Alcuni dei simboli della galassia dell’estrema destra polacca

Le istanze di Diritto e Giustizia e il radicalismo di quella piazza non coincidono, ma il leader del partito Jarosław Kaczyński capisce che può utilizzarla per rafforzare il proprio consenso. Nel 2018 in occasione del centenario dell’indipendenza il presidente polacco Andrzej Duda si trova a officiare le celebrazioni ufficiali a pochi metri dalle falangi del Campo Radicale Nazionale (ONR) una delle due anime dell’organizzazione. Sempre nel 2018 la presidenza dell’Associazione Marcia per l’Indipendenza viene assunta da Robert Bąkiewicz, fino a quel momento elemento di spicco di ONR, Bąkiewicz diventa uomo di riferimento per Diritto e Giustizia e negli ultimi anni la manifestazione si “ripulisce” dalle sue esibizioni più estreme. Allo stesso tempo ciò provoca una rottura con la sponda politica a cui prima Bąkiewicz apparteneva. Questo passaggio spiega molto delle dinamiche della destra polacca, assai meno compatta di quanto possa apparire dall’esterno.

La cosmologia dei nazionalismi polacchi, tra valori cristiani e conservatorismo

Quando Diritto e Giustizia vinse le elezioni parlamentari del 2015, Jarosław Kaczynski salutò la vittoria come l’avvento della Dobra zmiana (Buon cambiamento), la rivoluzione conservatrice che avrebbe riscattato il Paese dal tradimento avvenuto durante la transizione democratica. In questi anni, i governi guidati prima da Beata Szydło e poi da Mateusz Morawiecki, sono stati caratterizzati da riforme invasive, specialmente in materia di giustizia, che hanno portato la Polonia a una lungo braccio di ferro con Bruxelles. In campo economico invece si è puntato su alcune politiche di welfare che hanno consentito di risollevare un po’ il tenore di vita delle fasce meno agiate della popolazione.

A questa destra di governo, che potremmo definire sociale e populista, fa fronte in parlamento, sui banchi dell’opposizione, il partito nazionalista e turboliberista di Konfederacja. Nato nel 2018, come una coalizione di due partiti, KORWiN e Movimento Nazionale (Ruch Narodowy) ha via via raccolto per strada altri elementi della galassia radicale. Alle parlamentari del 2019 ha incassato il 6,8% dei voti e nei sondaggi i suoi consensi oscillano in una forbice tra il 5 e il 10%. Ferocemente critico nei confronti di Diritto e Giustizia, specialmente per le sue politiche in materia economica e per la gestione della crisi pandemica, nell’ultimo periodo sta vedendo un’erosione dei consensi a causa della sua presa di posizione sulla guerra in Ucraina. Konfederacja è stato l’unico partito dell’arco parlamentare a schierarsi contro l’accoglienza ai rifugiati ucraini e alcuni suoi esponenti si sono spinti in vere e proprie dichiarazioni filorusse.

Altri movimenti di una certa rilevanza ma fuori dal parlamento sono Młodzież Wszechpolska (Gioventù di tutta la Polonia), che insieme a ONR organizza la Marcia dell’Indipendenza, e Niklot un’associazione che coniuga ultranazionalismo e neopaganesimo.

Un manifestante indossa una bandana con il logo del Campo Radicale Nazionale (ONR) durante una protesta contro la comunità LGBT a Varsavia il 16 agosto 2020 - Foto: Omar Marques/Getty

Un manifestante indossa una bandana con il logo del Campo Radicale Nazionale (ONR) durante una protesta contro la comunità LGBT a Varsavia il 16 agosto 2020 – Foto: Omar Marques/Getty

Tra Diritto e Giustizia e le frange più radicali ci sono alcuni punti di contatto. Il primo è il tipo di linguaggio utilizzato, volto alla demonizzazione dell’avversario. I temi politici sono grosso modo gli stessi: la guerra alla cosiddetta ideologia LGBT, la posizione sull’aborto, un marcato antieuropeismo, la chiusura all’immigrazione specialmente in chiave antiislamica. Tuttavia il vero collante che accomuna tutte queste formazioni (con l’eccezione di Niklot) è un sentimento religioso molto forte, pervasivo, che permea gran parte delle decisioni e delle posizioni politiche. La Chiesa polacca rimane un attore importante sulla scena politica del Paese, nonostante la Polonia stia affrontando un rapido processo di secolarizzazione.

Protagonista determinante nella sequenza di eventi che hanno portato alla caduta del comunismo, negli ultimi anni l’Episcopato polacco ha svolto il ruolo di bastione di Diritto e Giustizia nelle campagne. In un contesto fortemente polarizzato tra città progressiste e aree rurali più legate alla tradizione cattolica, sono sono stati molti i casi in cui i preti hanno fatto campagna elettorale dall’altare. Il bacino di voti proveniente della campagna è stato fondamentale per le affermazioni alle elezioni del 2015 e del 2019. La moneta di scambio è stata l’approvazione di alcune leggi che la Chiesa polacca chiedeva da tempo, come la chiusura domenicale dei negozi. Anche la sentenza del Tribunale Costituzionale sulla legge sull’aborto è andata incontro a questo tipo di richieste.

Eppure Il potere della Chiesa è in costante erosione: oltre alla crisi di fedeli, c’è un forte calo nelle vocazioni, e gli scandali legati alla pedofilia nel clero hanno creato un danno d’immagine non indifferente. A compensare questo declino hanno fatto la loro comparsa dei nuovi soggetti con forti capacità di lobbying: associazioni pro-life e think tank di cui la più strutturata e potente è senza dubbio Ordo Iuris.

Ordo Iuris e le politiche ispirate al fondamentalismo religioso

L’Istituto Legale per la Cultura Ordo Iuris nasce nel 2013 a Varsavia su iniziativa dell’Associazione per la cultura cristiana Piotr Skarga, a sua volta connesso con il network brasiliano Tradizione, Famiglia e Proprietà (TFP), da molti collocato su posizioni di fondamentalismo religioso. L’agenda di Ordo Iuris si distingue per un carattere conservatore e oltranzista su temi come l’aborto, l’eutanasia, il divorzio, la contraccezione e quella che da loro viene definita “ideologia” LGBT. Alla base un’idea di mondo che poggia in maniera dogmatica sui valori cristiani e sulla difesa della cosiddetta famiglia tradizionale.

Nel 2016 ha portato avanti un’iniziativa di legge popolare per chiedere l’abolizione totale sul diritto all’aborto. La richiesta, giunta sui banchi del parlamento, ha mobilitato una massiccia protesta di piazza, conosciuta come Czarny Protest (Protesta Nera), e la nascita del collettivo femminista Strajk Kobiet. Il disegno di legge venne respinto. Nonostante questa sconfitta, Ordo Iuris ha continuato a portare avanti la sua agenda.

Un’altra proposta di legge presentata nel 2018 dall’associazione Zatrzymaj aborcję (Ferma l’aborto) approda sui banchi parlamentari, ma ancora una volta grazie all’opposizione della piazza tutto si risolve in un nulla di fatto. Anche grazie a questa attività di lobbying, 119 parlamentari di Diritto e Giustizia si sono rivolti al Tribunale Costituzionale per chiedere se la Legge del 1993 in materia di interruzione di gravidanza rispettasse la Costituzione. Nell’ottobre 2020 una sentenza ha stabilito che la normativa è incostituzionale nella parte in cui concede la possibilità di interrompere la gravidanza in caso di malformazioni del feto.

Di fatto oggi la legge polacca sull’aborto è la più restrittiva d’Europa, ma Ordo Iuris continua la sua battaglia per renderla ancora più stringente. Recentemente è finito sotto i riflettori il caso delle donne ucraine rifugiatesi in Polonia, rimaste incinta a seguito degli stupri subiti dai soldati russi. Ordo Iuris ha dichiarato di voler monitorare le richieste di interruzione di gravidanza, per appurare se effettivamente le donne sono state vittime di violenza.

Ordo Iuris è stata anche l’organizzazione che più si è spesa per chiedere la fuoriuscita della Polonia dalla Convenzione di Istanbul, la convenzione sviluppata dal Consiglio d’Europa per combattere la violenza contro le donne e la violenza domestica. Nel 2020 il ministro della Giustizia Zbigniew Ziobro ha dichiarato l’avvio di un processo di ritiro formale, sostenendo che il trattato richiede di educare i bambini in modo ideologico, senza considerare il sesso biologico. Il ritiro della Polonia dalla Convenzione tuttavia, non è ancora completato. Nel 2021 Ordo Iuris è dietro la fondazione del Collegium Intermarium, istituto conservatore di respiro europeo. La nuova università rafforzerà ulteriormente la posizione dell’organizzazione in Polonia e nella regione.

Civico vs etnico, nazionalismi nati nel Novecento

Eppure nonostante questi punti di contatto, all’interno della destra polacca esistono differenze profonde, che hanno radici lontane. Lo storico Dariusz Stola, in un’intervista rilasciata qualche mese fa a Rosita Rijtano di Lavialibera, ha avuto modo di affermare quanto segue: «In Polonia tutti i partiti sono a loro modo nazionalisti, perfino quelli che oggi stanno all’opposizione. L’origine del sentimento nazionalista è da ricercare nel periodo della spartizione della Polonia quando si creò un movimento di polacchi etnici, una nazione senza stato. La matrice etnoreligiosa si è fatta più marcata a partire dalla rivoluzione del 1905».

Il periodo interbellico fu caratterizzato da due diverse correnti di pensiero sulla direzione da dare a un Paese giovane e dai confini geografici ancora incerti. Due forme di nazionalismo: il primo civico, il secondo etnico. Il maresciallo Józef Piłsudski, padre fondatore della Polonia indipendente, capo di stato tra il 1918 e 1922 e dittatore de facto dal 1926 al 1935, aveva in mente uno Stato che raccogliesse l’eredità dell’antica Confederazione Polacco Lituana, e che si ponesse dunque a guida di una nuova entità dal mar Nero al mar Baltico, che si interponesse tra il mondo russo e quello germanico. Questo progetto aveva un nome: Intermarium in latino, Międzymorze in polacco. La Polonia doveva guardare dunque al di fuori dei propri confini, restando al suo interno un Paese multietnico. È il cosiddetto nazionalismo civico.

Il nazionalismo etnico segue al contrario il progetto di una Polonia unita, cattolica ed etnicamente coesa. Le varie minoranze che componevano il Paese (ebrei, ucraini, tedeschi, russi) dovevano porsi secondo questa teoria in posizione subalterna ai veri polacchi. Leader politico dei partiti che si rifacevano al nazionalismo etnico è stato Roman Dmowski, avversario politico di Piłsudski negli anni Venti e Trenta.

Venendo al giorno d’oggi la contrapposizione tra PiS e Konfederacja può essere ricondotta proprio a questa antica frattura. Il giornalista di Krytyka Polityczna Przemysław Witkowski, esperto nelle questioni della destra polacca, evidenzia queste differenze: «Diritto e Giustizia è un partito filo americano, strettamente connesso al partito repubblicano, in particolare l’area trumpiana, ed ha una forte connotazione anti russa. Konfederacja invece si caratterizza per una certa componente antisemita e filo russa».

Una protesta anti migranti nel centro cittadino di Gdansk da parte dei gruppi del Campo Radicale Nazionale (ONR) e Gioventù di tutta la Polonia il 23 gennaio 2016 - Foto: Michal Fludra/Getty

Una protesta anti migranti nel centro cittadino di Gdansk da parte dei gruppi del Campo Radicale Nazionale (ONR) e Gioventù di tutta la Polonia il 23 gennaio 2016 – Foto: Michal Fludra/Getty

«Ci sono radici storiche e geopolitiche dietro queste diverse visioni – spiega Witkowski – uno dei partiti che hanno dato vita a Konfederacja è il Movimento Nazionale, che a sua volta si richiama al partito Nazional democratico di Roman Dmowski. Dmowski sosteneva che il vero pericolo per la sovranità polacca fossero i tedeschi, forti di uno stato avanzato dal punto di vista tecnologico ed economico. Per loro sarebbe stato facile germanizzare i polacchi. Coltivando invece rapporti con la Russia, non si sarebbe corso nessun rischio di russificazione, in quanto la Polonia era un paese più avanzato». Dmowski sosteneva anche che la Germania cooperasse con l’Ucraina per creare una mitteleuropa a influenza tedesca: «Per questo – aggiunge Witkowski – oggi Konfederacja ha una connotazione antiucraina».

Diritto e Giustizia ha invece origine nell’altro campo, quello di Piłsudski, che percepiva la Russia come una minaccia mortale per l’indipendenza polacca. Anche il rapporto nei confronti della Germania è diverso: «Per il partito di Kaczynski la Germania non è un nemico, ma un competitor, a cui cerca di sottrarre influenza nell’area dell’Europa orientale», afferma il giornalista di Krytyka Polityczna.

Cerniera tra Oriente e Occidente

Per la destra radicale, la Polonia si contrappone agli imperi dell’est e dell’ovest: «La Russia – spiega Tomasz Szczepański, fondatore di Niklot, uno dei movimenti più estremi di questa galassia – è una minaccia permanente perché la sua cultura genera imperialismo. L’imperialismo russo non è di tipo politico come lo erano quelli francese o britannico. In Russia nonostante l’imperialismo non abbia portato nessun beneficio è continuato, dal momento che sia la Russia zarista, sia quella comunista hanno una cultura imperiale. Nonostante la fine del comunismo la Russia ha continuato a lottare per essere una potenza mondiale. Non cambierà, a meno che i russi non rifiutino le fondamenta della propria civiltà». Sul fronte occidentale, sostiene Szczepański, «dobbiamo fare i conti con l’imperialismo tedesco che sta cercando di recuperare dalla sconfitta della seconda guerra mondiale, controllando l’Unione europea. Si tratta di un imperialismo più leggero ma comunque pericoloso, dal momento che promuove l’ideologia demoliberale (democratica e liberale, ndr), che distrugge le fondamenta della società occidentale».

Il Międzymorze frapposto tra due superpotenze, la teoria politica nata con Józef Piłsudski, non si è mai realizzato per varie ragioni, prima tra tutte la mancanza di volontà di cedere sovranità da parte di entità nazionali come la Cecoslovacchia e l’Ungheria. Archiviato durante il comunismo, il progetto è riapparso con una forma diversa con il gruppo Visegrád, il patto di collaborazione politica ed economica che unisce Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia dal 1991. Si è visto alla prova della Storia, però, come interessi divergenti mettano in crisi alleanze ritenute inscalfibili sulla carta.

Bandiere polacche durante l'annuale manifestazione dello scorso anno per i Soldati Maledettti che si celebra ogni 1 marzo per commemorare i partigiani che hanno combattuto il comunismo nel secondo Dopoguerra - Foto: Omar Marques/Getty

Bandiere polacche durante l’annuale manifestazione dello scorso anno per i Soldati Maledettti che si celebra ogni 1 marzo per commemorare i partigiani che hanno combattuto il comunismo nel secondo Dopoguerra – Foto: Omar Marques/Getty

La costruzione di un’autonomia dalle sfere d’influenza a oriente e a occidente si persegue ancora in Polonia. L’anno scorso, ad esempio, è stata inaugurata un’università privata, il Collegium Intermarium, che si propone di riunire una nuova élite conservatrice di accademici nello spazio tra mar Baltico, mar Nero e mare Adriatico. Alla base, le comuni radici cristiane e gli stessi valori, al di là delle specificità dei singoli paesi. Nella mission dell’istituto c’è la volontà di tornare allo sviluppo umano integrale in contrapposizione a un’educazione unidimensionale, di massa e diffusa. Evidente la critica al sistema di istruzione occidentale.

La guerra in Ucraina sta offrendo una nuova prospettiva alla visione della Polonia come Stato-cerniera. Lo scontro frontale con la Russia e il supporto quasi incondizionato offerto all’Ucraina hanno permesso a Varsavia di riacquistare un ruolo centrale nella geopolitica regionale. Ai tempi dell’Euromaidan, la stagione di proteste a cavallo tra 2013 e 2014 che ha provocato la cacciata del presidente dell’Ucraina Viktor Yanukovich, l’allora ministro degli Esteri polacco Radosław Sikorski, si era recato più volte a Kiev insieme all’omologo francese Laurent Fabius e quello tedesco Frank-Walter Steinmeier per trovare una situazione politica alla crisi. L’avvento di Diritto e Giustizia ha poi fatto tramontare il prestigio politico polacco e dal 2015 in poi le missioni europee per risolvere le controversie tra Russia e Ucraina hanno escluso Varsavia.

La centralità di un tempo sembra essere stata ritrovata con il conflitto di oggi. A inizio maggio Enrico Letta ha incluso la Polonia nel novero dei grandi Paesi europei che dovrebbero recarsi a Kiev e poi a Mosca per trovare una soluzione diplomatica al conflitto. Un’affermazione che oltre a suonare come una riabilitazione, ricolloca la Polonia nel suo ruolo di Paese cerniera tra Oriente e Occidente.

CREDITI

Autori

Fabio Turco

Editing

Lorenzo Bagnoli

Infografiche

Lorenzo Bodrero

Foto di copertina

Bandiere polacche durante l’annuale manifestazione dello scorso anno per i Soldati Maledettti che si celebra ogni 1 marzo
(Foto: Omar Marques/Getty)

Germania, la battaglia delle parole dell’estrema destra

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Germania, la battaglia delle parole dell’estrema destra

Lorenzo Monfregola

La scritta nera su sfondo rosso ha caratteri simil-gotici e sembra recitare “Mein Führer”, “mio Führer”. In realtà, guardando meglio, il testo dice “Mein Früher”, cioè “il mio passato”. L’immagine è una di quelle utilizzate in Germania da Exit, organizzazione che si occupa di aiutare chi vuole uscire da gruppi neonazisti e di estrema destra. Donne e uomini che vengono assistiti in un percorso incredibilmente complicato, sia psicologicamente sia sul piano della sicurezza personale.

Entro in una delle sedi di Exit in un quartiere orientale di Berlino: l’ufficio non è riconoscibile dall’esterno, per evitare atti vandalici. Incontro Fabian Wichmann, che per Exit si occupa sia di gestione dei casi sia di relazioni pubbliche. Wichmann spiega: «Per noi le parole sono molto importanti. La narrazione è importante per aiutare qualcuno a sciogliere i propri dubbi, visto che tutte le persone con cui abbiamo a che fare ci contattano volontariamente, ma spesso non sanno ancora bene come muoversi o dove li stia davvero conducendo il loro percorso. Più semplicemente, una narrazione individuale è inoltre utile per mettersi in sicurezza quando si abbandona la scena: cosa si racconta, a chi? Cosa si dice, cosa non si dice?».

Dal 2000 a oggi, Exit Germania ha fatto uscire dalla galassia neonazi e di estrema destra più di 800 persone, di cui circa due terzi uomini e un terzo donne. Secondo i dati del BfV – l’Ufficio per la protezione della costituzione, cioè l’intelligence interna tedesca – al momento ci sono più di 33 mila estremisti di destra in Germania, di cui oltre 13 mila considerati pronti alla violenza. A questo mondo si aggiunge un’ampia area grigia dalla dimensione spesso sottovalutata.

Uno degli slogan dell'organizzazione Exit recita "Mein Früher" (il mio passato) per sensibilizzare coloro che intendono uscire dai gruppi di estrema destra.

Uno degli slogan dell’organizzazione Exit recita “Mein Früher” (il mio passato) per sensibilizzare coloro che intendono uscire dai gruppi di estrema destra

Il radicamento dell’estremismo di destra in Germania, così come il suo contrasto, non passa ovviamente solo dalle parole. «Le parole funzionano nella regola solo perché le persone sono pronte dal punto di vista emotivo a entrare in contatto con esse – spiega Wichmann -. Quando un ragazzo inizia a scegliere codici e immagini legati al presunto eroismo del nazionalsocialismo o dalle Waffen-SS, significa che questi elementi possono già attecchire, che c’è un riferimento individuale, la capacità di identificarsi. E lì, tra altri fattori, conta il tessuto sociale nel quale si è inseriti in famiglia o durante l’infanzia, ad esempio un nonno che glorificava il nazismo, oppure un ambiente dove il nazismo non solo non è stato raccontato come un tabù, ma addirittura come qualcosa di positivo».

Il linguaggio della destra estrema, quindi, ha bisogno sempre e comunque di un terreno fertile, di una geometria di significati strutturata, di una sua tollerabilità sociale, anche se sommersa. Questo meccanismo vale anche se si vuole rilevare come il linguaggio un tempo usato solo dalla destra estrema si sia ormai incuneato in una parte della società tedesca non formalmente estremista.

Tra estremismo e populismo

Parlare della lingua dell’estremismo di destra in Germania significa muoversi tra due poli: quello più riconoscibile e immediatamente violento del neonazismo e quello più ambiguo e sfaccettato del populismo di destra. Il più recente diffondersi di una parte della terminologia di estrema destra nella società tedesca è esploso con la cosiddetta crisi dei migranti del 2015, quando oltre un milione di richiedenti asilo hanno raggiunto la Germania. Da quel momento è iniziato un percorso che nel 2017 ha portato AfD (Alternative für Deutschland) a essere la prima formazione a destra dei cristiano-democratici a entrare nel parlamento tedesco, andando così a rompere un tabù che resisteva fin dal dopoguerra.

Realtà ponte tra l’estremismo di destra tradizionale e alcune declinazioni della forma-partito di AfD sono stati, tra gli altri, movimenti come Pegida, letteralmente i “Patrioti europei contro l’islamizzazione dell’occidente”. Nel corso degli anni, da AfD (o da ambienti a essa vicini) sono state formulate o riformulate espressioni legate alla tradizione dell’estremismo di destra. Si pensi al termine “Lügenpresse” per identificare i “media bugiardi”, espressione che esiste da 180 anni ma fu poi usata da Hitler e Goebbels contro la stampa “rossa” ed “ebraica”. Altro esempio è il tentativo di riabilitazione dell’aggettivo “völkisch”, che significa letteralmente “del popolo”, ma che è profondamente legato al principio etnonazionalista e razziale di “sangue e terra”. Altrettanto emblematico è stato l’emergere del concetto di “Überfremdung”, che descrive una crescente presenza di stranieri in una società e che si lega alla cosiddetta idea di “Umvolkung” – oggi interpretata come la sostituzione di un popolo, vale a dire con il noto paradigma suprematista della lotta contro la “grande sostituzione” razziale.

Entrambi questi ultimi due termini richiamano implicitamente anche il concetto di “Volktsod”, elemento specifico del neonazismo, che esprime la visione apocalittica della “morte del popolo” tedesco contro cui è necessario combattere con ogni mezzo.

I legami dell’AfD con la Russia di Vladimir Putin

di Lorenzo Bagnoli

«Abbiamo bisogno di più pragmatismo e meno miopia politica nelle relazioni». Era il marzo 2021 e Alice Weidel, alle elezioni del settembre 2017 uno dei principali volti di Alternative für Deutschland, era in visita a Mosca. Ha incontrato, tra gli altri, Mikhail Shvydkoy, rappresentante speciale del presidente russo per la cooperazione culturale internazionale ed ex ministro della Cultura fino al 2004. Al centro del meeting, riferisce la stampa, c’era il tentativo di normalizzare le relazioni con Berlino e ridurre la pressione internazionale a seguito sia dell’arresto di Alexey Navalny, sia delle manovre russe in Ucraina, dall’invasione della Crimea in avanti. Era il pieno della stagione dell’internazionale sovranista ed era in corso il tentativo di creare un’unica agenda a contrasto dei “mondialisti” di Unione europea e Stati Uniti e ribaltare gli equilibri geopolitici internazionali spostando la sfera d’influenza più verso la Russia. Come accaduto in altri Paesi europei, a facilitare le convergenze politiche ci sono stati anche tentativi di garantire finanziamenti per gli allora ancora piccoli partiti sovranisti d’Europa.

Il Dossier Center di Londra, ong fondata dall’ex oligarca e ora principale oppositore politico di Putin, Mikhail Khodorkovsky, ha procurato a un consorzio di giornali europei (Der Spiegel, la tv pubblica tedesca ZDF, BBC e La Repubblica) email e documenti interni provenienti da parlamentari e membri della macchina governativa del Cremlino. «Attività di promozione degli interessi russi» erano state scritte nero su bianco in un documento dell’aprile 2017 (in Italia i partiti coinvolti nell’operazione era la Lega di Matteo Salvini e il Movimento Cinque Stelle). Un parlamentare candidato con AfD alle elezioni del 2017, Markus Frohnmaier, aveva richiesto «sostegno mediatico» e «materiali» in cambio dell’appoggio dell’agenda politica di Mosca al Bundestag. I russi dicevano in email successive «di avere il controllo assoluto» del parlamentare. AfD, dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, si è schierato contro l’invio di armi e contro le sanzioni economiche alla Russia.

Una parte della destra populista tedesca ha trovato terreno fertile per queste parole (o per altri surrogati), sfruttando le contraddizioni dell’immigrazione e del multiculturalismo in Germania e innescando anche un processo di etnicizzazione delle rivendicazioni di quei cittadini tedeschi che per molteplici motivi sono ostili all’organizzazione economica, sociale e culturale del loro Paese. Questo è soprattutto vero per il successo di AfD nei Land dell’ex Germania dell’Est, dove permane oggi lo zoccolo duro della destra identitaria tedesca, costituito principalmente da un mix di élite mancate tedesco-orientali e cittadini in qualche modo sconfitti dalla Riunificazione.

Emblematico di questa particolare realtà è l’uso nelle manifestazioni della destra populista dell’espressione “Wir sind das Volk”, “Noi siamo il popolo”, che richiama uno slogan usato dalla rivoluzione pacifica durante gli ultimi anni della DDR, ma che paradossalmente è oggi anche la rivendicazione di un’identità tedesca-orientale tendenzialmente euro-asiatica e sempre più convintamente anti-liberale.

Questo scenario ha molti paralleli in altri Paesi d’Europa, ma nella realtà tedesca è esistita fino a oggi una differenza sostanziale: pur entrando in parlamento, la destra identitaria più o meno radicale non ha mai potuto legittimarsi tramite alcun tipo di collaborazione con altri partiti tedeschi. Da anni, nei confronti di AfD regge una cosiddetta “Brandmauer”, un “muro anti-fuoco” che nega ogni collaborazione verso destra. La feroce eccezionalità della storia tedesca ha reso questo muro molto più solido rispetto a quanto avvenuto altrove in Europa, anche in base al concetto tedesco della “wehrhafte Demokratie” – cioè la “democrazia fortificata” o “combattiva” – un paradigma costituzionale secondo cui la difesa dell’ordine democratico va sempre perseguita attivamente, anche limitando la capacità di azione delle forze ritenute anti-democratiche. Non è quindi un caso se negli anni l’intelligence interna tedesca ha posto «sotto osservazione per presunto estremismo» prima alcune correnti e gruppi locali di AfD e, nel 2021, l’intero partito nazionale (anche se con formule non ancora definitive).

Rebranding

Per aggirare la “Brandmauer” politica e culturale, negli ultimi anni una parte della destra radicale tedesca ha anche cercato nuove formulazioni, inseguendo un linguaggio che fosse invece il più possibile decontaminato da vecchi codici, significati, responsabilità. Questo vale soprattutto per alcune correnti della nuova destra tedesca, la Neue Rechte, in cui l’elaborazione intellettuale è diventata molto più raffinata, in parte sul modello della Nouvelle Droite francese, movimento nato negli anni Settanta con il filosofo Alain De Benoist.

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Zemmour – Le Pen: due facce della stessa medaglia?

Gli sfidanti erano gli stessi del 2017, ma le elezioni del 2022 in Francia saranno ricordate per un altro candidato: Éric Zemmour. Per la prima volta due candidati di estrema destra si sono sfidati per un posto al ballottaggio

Una bandiera tedesca durante una manifestazione del partito AfD recita "Noi siamo il popolo" in una foto scattata il 16 settembre 2018 a Kothen, nella Sassonia-Anhalt. Foto: Craig Stennett/Getty

Una bandiera tedesca durante una manifestazione del partito AfD recita “Noi siamo il popolo” in una foto scattata il 16 settembre 2018 a Kothen, nella Sassonia-Anhalt. Foto: Craig Stennett/Getty

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Contatto il professor Simon Meier-Vieracker, professore di Linguistica applicata all’Università di Dresda, che si occupa, tra le altre cose, delle evoluzioni del linguaggio della destra estrema: «Caratteristica del nuovo linguaggio dell’estrema destra è l’ampia rinuncia o addirittura la presa di distanza retorica da svalutazioni esplicite di gruppi stranieri, come nel razzismo puro e semplice – spiega Meier-Vieracker -. Naturalmente gli stereotipi razzisti sono ancora utilizzati, ma gli insulti razzisti, ad esempio, tendono a essere evitati. Tipica è anche l’appropriazione di parole d’ordine solitamente associate a posizioni liberali. Un esempio è l’appropriazione del cosiddetto etno-pluralismo, secondo il quale ogni cultura ha lo stesso valore e la diversità delle culture deve essere preservata». «Allo stesso tempo, però – sottolinea Meier-Vieracker – si comunica che ogni cultura abbia il suo luogo ancestrale e che ci debba essere la minor mescolanza possibile. Si tratta così essenzialmente di una posizione razzista, ma che contemporaneamente prende esplicitamente le distanze dal razzismo».

Questi esempi possono essere letti come costituenti di un processo in corso in questi anni, cioè l’uso e l’appropriazione tattica da parte delle destre radicali occidentali delle declinazioni e delle suggestioni delle cosiddette identity politics, espressione che definisce le proposte politiche basate sull’identità, di genere, etnica, religiosa.

Linguaggio e violenza

Se porzioni della Neue Rechte stanno cercando un nuovo volto lasciandosi alle spalle pezzi di “album di famiglia”, ci sono altri contesti in cui le commistioni tra populismo nazionalista ed estremismo sono invece drammaticamente evidenti. Nel giugno 2019 è stato assassinato in Assia, regione della Germania centrale, Walter Lübcke, politico tedesco della Cdu e aperto sostenitore della “Willkommenspolitik”, la politica di accoglienza dei migranti in Germania. A causa di uno spezzone di un suo intervento pubblico diventato virale su internet nel 2015, Lübcke era da anni vittima di campagne d’odio online provenienti sia da ambienti neonazisti sia da sostenitori riconducibili al populismo identitario. A uccidere Lübcke con un colpo di pistola è stato un neonazista tedesco, Stephan Ernst, ma il percorso di escalation che ha portato all’assassinio del politico cristiano-democratico ha attinto da una retorica che per anni si è mossa ben oltre i confini dell’estremismo di destra più tradizionale.

Un volantino dell'organizzazione Exit riprende la dichiarazione di una persona che ha completato il percorso di abbandono dei gruppi di destra: «Grazie a Exit io e miei bambini siamo ancora vivi».
Un volantino dell’organizzazione Exit riprende la dichiarazione di una persona che ha completato il percorso di abbandono dei gruppi di destra: «Grazie a Exit io e miei bambini siamo ancora vivi».

Valutazioni simili possono essere fatte per altri due attacchi terroristici di estrema destra avvenuti negli ultimi anni in Germania. L’assalto alla sinagoga di Halle dell’ottobre 2019, che ha causato due vittime, è stato presentato dall’attentatore con messaggi antisemiti non immediatamente legati a formule neonaziste, quanto piuttosto espressione di un neo-antisemitismo che da tempo si sta ri-diffondendo nella società tedesca. Proprio nel maggio 2022, l’Ufficio per la protezione della costituzione ha pubblicato un report in cui denuncia come in Germania l’antisemitismo sia ormai di nuovo «arrivato al centro della società».

L’attacco razzista di Hanau del febbraio 2020, che ha causato nove vittime, è stato invece commesso da un uomo che si era radicalizzato online su temi ultra-complottisti, anche in questo caso tramite un linguaggio di estrema destra che si mostra riformulato, attualizzato e riadattato per una propagazione non limitata ai gruppi dell’estremismo organizzato.

Disinnescare

Una delle parole largamente usate negli ambienti della destra estrema e dagli hater online contro politici come Lübcke è stata (ed è) quella di “Volksverräter”, cioè “traditore del popolo”. Si tratta di un altro esempio dell’attualizzazione e della diffusione su più ampia scala di un paradigma cruciale della tradizione del neonazismo tedesco e decisivo all’interno dei gruppi più radicali. Come ricorda Fabian Wichmann di Exit, «l’uscita dal gruppo di un suo membro significa sempre “tradimento” per la scena neonazista. Il “tradimento” è un concetto che nell’ambiente racchiude quanto di peggiore si possa immaginare. Inizialmente anche chi si rivolge a noi non ammette a se stesso di voler “uscire”, proprio perché non vuole sentirsi automaticamente un “traditore”. All’inizio chi si rivolge a noi parla spesso solo di voler cambiare, dell’emergere di rimorsi, del fatto che non si capisce più la propria realtà e l’ideologia che le dà forma».

Nel giugno 2019 è stato assassinato Walter Lübcke, politico tedesco della Cdu e aperto sostenitore della “Willkommenspolitik”, la politica di accoglienza dei migranti in Germania

In questo contesto, il lavoro di Exit non si basa su un giudizio pressante su chi si sta distanziando dall’estremismo di destra, ma sull’apertura progressiva e calcolata di nuove prospettive, tramite un dialogo continuato. Un approccio che più che censurare i linguaggi dell’estremismo cerca di disinnescarlo, che più che vietare le parole le vuole smascherare nella loro inefficacia e nel loro inganno ideologico. Un metodo di disinnesco che va in profondità e cerca di giungere alla radice di quella geometria di senso che è innanzitutto indispensabile all’attecchimento dell’estremismo. Una metodologia che rifiuta quindi la paura di decostruire l’anima concreta dell’estremismo di destra e delle sue motivazioni più oscure. Non è un caso se una parte dei lavoratori di Exit in Germania siano essi stessi ex neonazisti fuoriusciti completamente dalla scena.

«Nel dialogo che facciamo con le persone, cerchiamo innanzitutto di offrire prospettive alternative – sottolinea Wichmann – si tira fuori la persona da un modello di pensiero in cui tutti pensano in gruppo e si dice “prova a guardare la questione da quest’altro punto di vista, oppure da quest’altro ancora”. Quello che facciamo è ampliare uno spettro, rendere possibile un’apertura».

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Lorenzo Monfregola

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Lorenzo Bagnoli

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Una bandiera durante una manifestazione del partito AfD recita “Noi siamo il popolo” in una foto scattata il 16 settembre 2018 a Kothen, nella Sassonia-Anhalt
(Craig Stennett/Getty)

Zemmour – Le Pen: due facce della stessa medaglia?

#DisegnoNero

Zemmour – Le Pen: due facce della stessa medaglia?

Vincent Bresson

«Figlio di puttana», «feccia», «banda di bastardi». Nella Salle Debeyre, un complesso sportivo nella città operaia di Hénin-Beaumont, nel nord della Francia, volano gli insulti. Sono le 20:00, due donne sono molto arrabbiate: hanno appena saputo che Marine Le Pen, la loro candidata, per l’ennesima volta non è arrivata al potere. La più anziana, con i capelli tinti di biondo e il viso rosso di rabbia, grida: «È truccato, mi fa schifo». La più giovane, anch’ella bionda, fa il dito medio allo schermo che trasmette la notte elettorale, gridando che Emmanuel Macron è il «presidente dei ricchi».

Il video, condiviso da un giornalista locale francese, è diventato virale su Twitter. È stato persino acquistato e mandato in onda dal programma Quotidien, una trasmissione televisiva di infotainment che la rivista di estrema destra Valeurs Actuelles accusa regolarmente di imporre una «tirannia dei benpensanti». La delusione di queste due donne è stata ampiamente derisa. Ma, al di là dello scherno, la scena illustra il fervore che Marine Le Pen può suscitare in un elettorato popolare disorientato, un elettorato su cui la leader del Rassemblement National ha sempre puntato. Non è un caso, infatti, che questa scena sia stata girata a Hénin-Beaumont, una città che solo un decennio fa per i francesi era poco conosciuta. Marine Le Pen ne ha fatto la sua roccaforte e il simbolo di una Francia periferica che a volte si sente disprezzata da Emmanuel Macron.

Il Presidente della Repubblica è già stato protagonista di polemiche per alcune frasi sprezzanti nei confronti dei ceti più popolari. «Una stazione ferroviaria è un luogo dove si incontrano persone che hanno successo e persone che non sono niente», ha detto nel giugno 2017 quando ha inaugurato il più grande campus per start-up d’Europa, costruito in un ex deposito ferroviario. La frase, molto commentata dai analisti politici di destra e di sinistra, ha alimentato la reputazione di Macron presidente “delle élite” e massima espressione dell’establishment.

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Se il padre Jean-Marie Le Pen – presidente del Front National dal 1972 al 2011 – puntava a una Francia più benestante, Marine Le Pen, fin dal suo ingresso sulla scena politica nazionale francese, si è rivolta alle classi lavoratrici. «L’elettorato di Le Pen negli anni ’80 era una Francia cattolica e borghese e parte della sua base militante era composta da studenti delle écoles de commerce, scuole di specializzazione in economia», spiega Benjamin Tainturier, dottorando a Sciences Po, l’Istituto di studi politici di Parigi. Questo spostamento verso la classe popolare sembra essere stato un successo: al primo turno, il 35% dei lavoratori avrebbe votato per Marine Le Pen, riporta un sondaggio dell’Institut français d’opinion publique (Ifop), il principale istituto di sondaggi francesi.

Tainturier, specialista dell’estrema destra e della guerra di propaganda, ritiene che l’elettorato medio-borghese non sia tuttavia rimasto orfano alle presidenziali francesi 2022. È stato infatti il bersaglio principale del nuovo candidato dell’estrema destra, l’ex giornalista Éric Zemmour.

I manifesti elettorali precedenti al ballottaggio presidenziale tra Emmanuel Macron e Marine Le Pen ad aprile 2017 - Foto: John van Hasselt/Getty

I manifesti elettorali precedenti al ballottaggio presidenziale tra Emmanuel Macron e Marine Le Pen ad aprile 2017 – Foto: John van Hasselt/Getty

L’ultimo arrivato in questa singolare campagna presidenziale, non ha mai smesso di ricordare agli elettori che crede nel superamento della lotta di classe. Il suo messaggio ha avuto consenso tra gli imprenditori: l’11% ha votato per il suo partito Reconquête (secondo nelle preferenze dopo En Marche di Emmanuel Macron, per cui hanno votato il 52% degli uomini d’affari). La sera della sconfitta di Marine Le Pen al secondo turno, Zemmour si è affrettato a dichiarare: «Non ci può essere vittoria elettorale senza un’alleanza tra tutte le destre, tra le classi lavoratrici e la borghesia patriottica». Resta il fatto che Marine Le Pen, con un discorso più sociale, ha ottenuto più consenso al primo turno.

Radicalità contro forza tranquilla

Nonostante il déjà vu del ballottaggio, con il tanto atteso rinnovo del duello tra Marine Le Pen ed Emmanuel Macron, ci sono state diverse sorprese alle elezioni presidenziali francesi del 2022. La sinistra radicale ha sfiorato la finale contro Emmanuel Macron e i due storici partiti di governo della Quinta Repubblica, il Partito Socialista e Les Républicains, sono affondati. Ma c’è stato soprattutto un candidato che si è conquistato le luci della ribalta per gran parte della campagna elettorale. E questo candidato si chiama Éric Zemmour. «Rappresenta un enorme fenomeno mediatico – si stupisce ancora Benjamin Tainturier -. In proporzione, ha avuto un’esposizione sui mezzi di comunicazione maggiore rispetto al suo punteggio elettorale. Essendo un ex giornalista, ha un enorme seguito sui media. Ma è la conversione di questo capitale mediatico in capitale politico che ha causato diversi problemi».

La pesante sconfitta elettorale di Zemmour, che al primo turno si è fermato al 7%, dovrebbe far dimenticare la dinamica generata da questo nuovo candidato all’interno del contesto politico francese. Ma a fine febbraio l’istituto di sondaggi Ifop accreditava Éric Zemmour al 16% delle intenzioni di voto, alla pari con una certa Marine Le Pen. Il resto è storia: con la guerra in Ucraina, è emersa chiaramente la vicinanza di Zemmour alla Russia e al secondo turno, con l’inflazione, il potere d’acquisto è diventato il principale argomento di un’elezione presidenziale che in precedenza era stata molto incentrata sulle questioni di punta dell’estrema destra. Questo cambio di tematiche è stato fatale per Zemmour: «Il tema principale di queste elezioni non è stato la sicurezza o l’immigrazione, ma il potere d’acquisto», analizza Benjamin Tainturier. Il radicalismo di Éric Zemmour, il suo programma liberale e la sua ossessione per le questioni legate all’immigrazione e alla sicurezza non potevano vincere contro Marine Le Pen, che da anni costruisce l’immagine di una candidata popolare e sensibile ai problemi economici dei francesi.

Zemmour, l’ultima delle matrioske francesi

di Lorenzo Bagnoli

Fin dal 2014, l’allora Front National, il partito fondato da Jean-Marie Le Pen e poi guidato dalla figlia Marine, è sempre stato sostenuto dalla Russia. Il salto di qualità è avvenuto tra il 2011 («La Francia lascerà la Nato», prometteva Marine Le Pen all’epoca») e il 2014, gli anni dell’invasione russa della Crimea, della tessitura della trama ideologica identitaria nelle destre europee; l’inizio dell’Operazione Matrioska: il vestito nuovo per le vecchie idee nazionaliste e tradizionaliste, che in Vladimir Putin hanno trovato un nuovo riferimento mondiale, alternativo al “globalismo” liberal americano. Ad allora risale il tentativo (fallito) di costruire un’internazionale sovranista e identitaria tra le diverse destre europee, da Matteo Salvini ai Le Pen; da Viktor Orbàn in Ungheria a Geert Wilders in Olanda. Sotto al candidato di destra, c’era sempre la matrioska delle idee della Russia di Putin, c’era una rete di think tank, fondazioni e siti di presunta controinformazione che cercavano di stringere alleanze. Per le elezioni presidenziali del 2017, il partito di Marine Le Pen ha ottenuto 8 milioni di euro di prestito da un uomo d’affari francese attraverso una rete di società legate a interessi russi. L’origine del denaro è ancora sconosciuta.

Éric Zemmour non è da meno in termini di relazioni con la Russia. Riporta L’Obs che nel 2015 avrebbe incontrato Vladimir Yakunin, allora ministro uscente delle Ferrovie russe in ottimi rapporti con Vladimir Putin che quell’anno creava il suo think tank Dialogue of Civilizations Research Institute (Doc) e che oggi frequenta assiduamente l’universo pro-family e ultracattolico. Le Journal du Dimanche ha intervistato gli analisti del Dossier Center, diretto dall’ex oligarca ora in rotta con il Cremlino Mikhail Khodorkovsky, Zemmour rappresentava un valido megafono per le idee del Cremlino, un’altra pedina nella partita della propaganda. Con lo scoppio della guerra in Ucraina, mentre Le Pen ha cercato di proseguire nel suo tentativo di apparire più moderata, condannando l’invasione, il candidato di Reconquête non ha mai cambiato opinione su Putin, per quanto questa posizione sia probabilmente una delle cause del crollo di consensi al momento del voto. Già a fine 2021 sui media russi e nei centri di ricerca più vicini alle idee tradizionaliste di Putin si puntava su Zemmour come il nuovo candidato da sostenere.

Per occupare spazio, Éric Zemmour ha scelto di far parlare di sé in tutti i modi: chiedendo a una donna di togliersi il velo davanti alle telecamere del canale CNews (canale televisivo descritto come la Fox News francese), proponendo di abolire la patente a punti, inserendo nella legge l’obbligo di dare al proprio figlio un nome del calendario francese. «Éric Zemmour è un grande fenomeno mediatico – afferma Benjamin Tainturier -. Per trasformarsi in un personaggio politico, ha mantenuto la sua risorsa principale: il radicalismo politico».

Di fronte agli sfoghi mediatici di Éric Zemmour, Marine Le Pen ha scelto di apparire più calma. Senza volerlo, l’ex giornalista è persino diventato, suo malgrado, uno scudo protettivo per la candidata del Rassemblement National: «Lo ha lasciato in prima linea a prendersi le botte», ha analizzato Raphaël Llorca, esperto associato alla Fondation Jean-Jaurès e autore del libro Les nouveaux masques de l’extrême droite (Le nuove maschere dell’estrema destra). «Ha agito come un parafulmine. Tutti si sono concentrati su di lui ma non ci sono libri su Le Pen, né biografie, né inchieste sui suoi parenti». Non contento di non essere riuscito a soppiantarla nei consensi, Éric Zemmour ha persino contribuito, inconsapevolmente, a convalidare la strategia della leader del Rassemblement National: arrivare al secondo turno in un faccia a faccia con Emmanuel Macron in cui sarebbe apparsa, contrariamente alla sua battuta d’arresto del 2017, come meno estrema, più rigorosa e più pacata.

Éric Zemmour, campione degli identitari

L’estrema destra ha cominciato a mostrare i suoi dubbi su Marine Le Pen dopo il fallimento dell’allora Front National alle elezioni presidenziali del 2017. Mercoledì 3 maggio di quell’anno, il giorno prima dello scorso ballottaggio, Emmanuel Macron e Marine Le Pen si sono affrontati in un dibattito televisivo seguito da oltre 16 milioni di francesi. Tutta la stampa concordò sul fatto che il primo avesse vinto a mani basse. Marine Le Pen sembrava sicura dei suoi consensi: «Guardate, sono qui, sono nelle campagne, nelle città, sui social network!», aveva dichiarato all’improvviso con voce un po’ tremante, muovendo le braccia davanti a sé, da destra a sinistra. Pochi giorni dopo, però, solo un terzo degli elettori ha votato per la candidata dell’allora Front Nazional (diventato nel 2018 Rassemblement National). La sequenza è diventata un bad buzz: un fenomeno virale, ma in senso negativo. Riprendersi dopo quella sconfitta non era un’impresa semplice.

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La frangia più estrema della destra identitaria, da anni afflitta da alcuni dubbi, già prima del 2017 perdeva fiducia in Marine Le Pen, percepita da alcuni addirittura come «di sinistra». La maggior parte dei movimenti radicali rifiuta infatti la strategia di Marine Le Pen della cosiddetta de-demonizzazione, cioè il tentativo – che dura da anni – di epurare le frange più estremiste dal suo partito allo scopo di apparire più moderata e affidabile. Per questo molte voci importanti nell’universo dell’estrema destra francese si sono rivolte al candidato di Reconquête: «A partire dall’agosto 2021, l’influencer di estrema destra Thaïs d’Escufon ha iniziato a parlare di Éric Zemmour», analizza Marion Jacquet-Vaillant, dottoressa in scienze politiche. Il consenso per Zemmour della frangia identitaria, l’estrema destra che si riconosce soprattutto nell’anti-immigrazione e nel rifiuto del meticciato culturale, è cresciuto a poco a poco. Zemmour permette loro la mediatizzazione dei temi preferiti: la teoria della «grande sostituzione» (grand remplacement in francese) e della ri-emigrazione.

Generazione identitaria

di Lorenzo Bagnoli

Il tema del grand remplacement ha innervato la retorica contro “l’emergenza immigrazione” che ha dominato i discrosi dell’estrema destra europea almeno a partire dal 2015. Il termine è stato coniato da Renaud Camus, uno dei padri del pensiero identitario. Nel 2017 la missione Defend Europe organizzata dai giovani militanti di estrema destra di Generazione Identitaria (GI), i cui capitoli più rilevanti erano quelli di Francia e Austria, ha anche preso il mare per impedire alle ong di salvare i naufraghi. GI è nata nel 2012 con l’occupazione della moschea di Poitiers, luogo simbolico per l’immaginario identitario perché teatro nel 732 della battaglia con la quale Carlo Martello sconfisse Abd ar-Rahman, condottiero arabo e governatore di alAndalus, provincia tra Spagna e Francia.

Con l’emergere della candidatura di Zemmour, il termine «grande sostituzione» – una teoria complottista che ha raccolto molto successo tra le destre identitarie europee secondo la quale la popolazione francese ed europea sarebbe stata sostituita, con l’avallo delle élite, da una popolazione africana – occupa addirittura un posto centrale nella prima parte della campagna presidenziale. Durante le primarie del partito Les Républicains, che una volta fu di Nicolas Sarkozy, i giornalisti hanno chiesto ai candidati la loro posizione su questo tema e Valérie Pécresse, la candidata designata da quelle primarie, ha persino utilizzato questo termine in uno dei suoi comizi.

La sera della sconfitta di Éric Zemmour, Papacito e Baptiste Marchais, due attivisti identitari molto influenti sui social network, hanno postato dei video in cui condividevano la loro delusione, annunciando addirittura che avrebbero lasciato la Francia. Passata la delusione, però, gran parte di questa frangia radicalizzata ha infine sostenuto Marine Le Pen al secondo turno: «Finché hanno potuto scegliere tra i due candidati, hanno avuto il lusso di scegliere quello più vicino alle loro convinzioni – afferma Marion Jacquet-Vaillant -. Al secondo turno hanno perso l’alternativa, quindi sono tornati alle origini».

Una sconfitta, davvero?

Per un po’ di tempo, Zemmour è stato testa a testa nei sondaggi con Valérie Pécresse, Jean-Luc Mélenchon e Marine Le Pen per un posto al secondo turno contro Emmanuel Macron. Alla fine è crollato al 7%, il punteggio che ha raggiunto al primo turno. Lo schiaffo elettorale è stato violento e, per alcuni osservatori, ha segnato una totale sconfitta del polemista. «È comunque una vittoria ideologica – afferma Raphaël Llorca -. Ha banalizzato alcuni elementi del suo discorso e le differenze tra i due sono servite a Marine Le Pen. Quando per esempio non ha distinto tra Islam e islamismo o ha chiesto di vietare il velo. Per contrasto, Le Pen è sembrata più ragionevole».

Un momento del primo comizio della campagna elettorale di Eric Zemmour per la corsa alla presidenza francese lo scorso dicembre 2021 - Foto: Chesnot/Getty

Un momento del primo comizio della campagna elettorale di Eric Zemmour per la corsa alla presidenza francese lo scorso dicembre 2021 – Foto: Chesnot/Getty

Oltre a riuscire a portare le sue idee nello spazio mediatico, Éric Zemmour ha imposto la semantica dell’estrema destra, investendo massicciamente nei social network. E, anche se il risultato è stato lontano dalle aspettative, Benjamin Tainturier ci ricorda che non è poi così male: «Jean-Marie Le Pen ha impiegato quattro anni per accumulare del capitale politico non appena è apparsa sulla scena politica negli anni Ottanta. Invece Éric Zemmour in pochi mesi ha raggiunto il 7%».

Nella battaglia per l’egemonia culturale, Éric Zemmour ha segnato alcuni punti a suo favore. Il suo radicalismo ha ampliato la finestra di Overton, concetto che prende il nome dal suo inventore, il sociologo americano Joseph Overton, secondo il quale la finestra di opportunità per un discorso pubblicamente accettabile è in costante mutamento. L’ex giornalista l’ha spostato così tanto verso l’estrema destra che i commenti di Marine Le Pen sono apparsi molto meno radicali. «Ha introdotto cose che non esistevano nel dibattito pubblico», dice Raphaël Llorca. Oltre ad ampliare lo spettro dell’“accettabilità”, Éric Zemmour ha allargato l’elettorato dell’estrema destra. Lungi dall’indebolire questo campo, questa seconda candidatura lo ha rafforzato, riunendo un elettorato con un profilo diverso, più cattolico e più conservatore. Di conseguenza, al secondo turno, il campo di Le Pen ha ottenuto il miglior punteggio della sua storia, padre e figlia insieme.

«Uno dei modi migliori per leggere questo duello interno all’estrema destra è vedere Éric Zemmour come un nudge, cioè un meccanismo per incoraggiare le persone attraverso un suggerimento indiretto», dice Benjamin Tainturier. «Durante l’intera campagna elettorale, Zemmour ha fatto apparire Marine Le Pen come una soluzione più morbida… e lei ha ottenuto il 41% dei voti al secondo turno. È una pazzia!».

CREDITI

Autori

Vincent Bresson

Adattamento in italiano

Lorenzo Bagnoli
Paolo Riva

Foto di copertina

Un momento del primo comizio della campagna elettorale di Eric Zemmour per la corsa alla presidenza francese lo scorso dicembre 2021
(Chesnot/Getty)

Destre d’Italia, la sfida senza confini tra conservatori e identitari

#DisegnoNero

Destre d’Italia, la sfida senza confini tra conservatori e identitari

Lorenzo Bagnoli
Paolo Riva

Il 21 aprile 2015, a Roma, la Lega si propose per la prima volta come “nazionale”. Cominciava quel giorno il convegno Verso una Lega nazionale, il debutto nella società politica della galassia di associazioni, fondazioni e think tank identitari italiani. A dicembre 2017 è nata la Lega per Salvini premier, orfana del nome Nord nel simbolo. Sette anni dopo, lo scorso 29 aprile, a Milano, Fratelli d’Italia ha lanciato la conquista al cuore dei conservatori d’Italia con la convention Italia, energie da liberare. «Appunti per un programma conservatore», la definiscono gli organizzatori: tre giorni di dibattiti e discorsi con i quali Fratelli d’Italia ha presentato la sua visione, più ancora che i suoi programmi. I post-fascisti presentano il conservatorismo come la loro rivoluzione per andare al governo.

E se la Lega che un tempo gridava «Roma ladrona» aveva scelto per la sua rifondazione il Dies Romana, il natale della Città eterna, il partito della Meloni, erede di Alleanza nazionale e casa storica dell’estrema destra, ha scelto la capitale del nord produttivo nel 47esimo anniversario della morte di Sergio Ramelli, il militante del Fronte della Gioventù deceduto a seguito dei traumi riportati per l’aggressione di un gruppo di militanti di Avanguardia operaia.

Di-segno nero, il progetto

Di-segno nero è un ciclo di conferenze sulle nuove destre organizzato dalla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. IrpiMedia cura gli approfondimenti su Italia, Francia, Germania e Polonia.

Sono due momenti di svolta nella storia della destra, sicuramente italiana e potenzialmente europea; due tentativi di costruire programmi alternativi a quelle che ormai sono percepite come le forze “globaliste” di governo, a Roma e a Bruxelles. Però sono anche due occasioni in cui si dimostra quanto la destra italiana oggi sia tanto in linea sul piano ideologico quanto divisa su quello politico. Nei principi, la destra si riconosce nella difesa della cristianità, della cultura di origine greca e latina e della famiglia tradizionale dagli attacchi di agenti esterni, siano essi migranti o funzionari di enti sovranazionali; nella pratica, si spacca in particolare sui modelli da adottare in politica estera e politica economica, come esemplifica il dibattito sulla revisione del patto di stabilità e crescita.

In Italia e non solo: le fratture di casa nostra si sommano a quelle europee. I partiti che si autodefiniscono «legati alla libertà delle nazioni e alle tradizioni dei popoli europei» sono numerosi e in crescita, ma altrettanto sparsi e divisi. Sia per le idee che portano avanti su alcuni temi cruciali – il rapporto con la Russia e il rispetto dello stato di diritto, su tutti – sia per i gruppi del Parlamento Europeo nei quali siedono.

Partiti ed eurogruppi

I gruppi di destra e centro-destra al Parlamento Europeo

ID: Identità e Democrazia unisce Lega, Rassemblement national, Alternative für deutschland e altre sigle minori. Contro l’integrazione Ue e per “un’Europa della nazioni”, è il gruppo più vicino alla Russia.

ECR: i Conservatori e Riformisti Europei sono anch’essi per “un’Europa delle nazioni”, come ID, ma la presenza del PiS polacco pone il gruppo su posizioni antirusse e pro Nato.

PPE: il Partito Popolare Europeo è, storicamente, il gruppo più importante ed europeista. Definibile di centro-destra, ha avuto però nelle sue file fino al 2021 Fidesz, il partito euroscettico del primo ministro ungherese Viktor Orbàn.

I partiti di destra ed estrema destra in UE

PiS: il partito Diritto e Giustizia (in polacco Prawo i Sprawiedliwość, PiS) guida la Polonia dal 2015 con tratti autoritari e illiberali. È atlantista, anti-immigrazione, cattolico tradizionalista.

Vox: partito di estrema destra spagnolo, nato solo nel 2014 ma cresciuto in fretta. I sondaggi lo danno terzo, dopo socialisti e popolari. Al Parlamento Ue siede nel gruppo ECR.

FPÖ: il Partito della Libertà Austriaco è una formazione di estrema destra che ha governato in Austria tra 2017 e 2019 insieme ai popolari. Al Parlamento Ue fa parte del gruppo ID.

Vlaams Belang: “interesse fiammingo” è un partito di estrema destra delle Fiandre, la parte Nord del Belgio. In testa ai sondaggi anche a livello nazionale. Membro del gruppo ID.

PVV: il Partito per la Libertà olandese è una storica formazione di destra nazionalista e populista. Il suo leader è Geert Wilders e la sua collocazione è dentro il gruppo ID.

Da un lato, ci sono i filorussi identitari del gruppo ID, guidato da Lega e Rassemblement National; dall’altro, i conservatori dell’ECR, la cui componente più numerosa è il PiS polacco, anche se la presidenza è nelle mani di Giorgia Meloni. E poi c’è il PPE, la più influente (ed “europeista”) famiglia politica europea che, dopo aver perso Angela Merkel, sembra in declino, anche a seguito della separazione da Viktor Orbán. Il PPE è sempre stato fortemente europeista mentre i partiti alla sua destra, da tempo, criticano aspramente l’integrazione Ue. Ma negli ultimi anni queste divisioni si stanno facendo meno nette. Nell’ultima legislatura, pur avendo avuto un buon risultato alle europee del 2019, ID ed ECR hanno influenzato in maniera solo marginale l’operato delle istituzioni Ue. Non è detto che sia così anche in futuro. E, in questo senso, le elezioni italiane del 2023 potrebbero essere uno snodo cruciale: stando all’opposizione, Fratelli d’Italia è cresciuta nei sondaggi e ora stacca la Lega di governo con un margine intorno ai cinque, sei punti.

«Se guardiamo i sondaggi, il centrodestra unito potrebbe vincere – sostiene Francesco Giubilei, presidente di Nazione Futura, “movimento di idee” nato nel 2017 -. «Il rischio, però, è che ci sia una competizione interna e che può essere davvero dannosa». Poi cita un concetto espresso più volte da Meloni alla convention di Fratelli d’Italia: «Bisognerebbe capire che l’avversario non è interno alla coalizione, ma è esterno». E questo vale sia in Italia, sia in Europa. «Prima delle elezioni europee (del 2024, ndr) – ragiona Giubilei – è molto complicato che possa nascere un progetto di un unico grande gruppo europeo».

Pontieri a Madrid, il leghista conservatore e il talebano

La foto sembra quella di un vertice governativo, e forse si tratta di un auspicio. Ritratti in piedi, ci sono il padrone di casa e leader del partito di estrema destra spagnolo Vox, Santiago Abascal, il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki, quello ungherese Viktor Orbán, la presidente del Rassemblement National Marine Le Pen e i rappresentanti di altre nove formazioni politiche europee.

La foto di gruppo del vertice di Madrid, del 29 gennaio 2022 - Foto: Facebook

La foto di gruppo del vertice di Madrid, del 29 gennaio 2022 – Foto: Facebook

È il 29 gennaio di quest’anno. A Roma, il presidente Mattarella sta per essere rieletto, creando l’ennesima spaccatura all’interno del centro destra. A Madrid, tredici partiti di destra ed estrema destra si ritrovano, mettendo allo stesso tavolo Lega e Fratelli d’Italia. A rappresentarli, rispettivamente, due eurodeputati: Paolo Borchia e Vincenzo Sofo che, nella foto di gruppo, compaiono plasticamente distanti, ai lati opposti della seconda fila. Pur non essendo dei nomi noti al grande pubblico, sono due figure utili per capire dove vanno le destre, in Italia e in Europa.

Borchia, nato nel 1980 vicino a Verona, è a Bruxelles dal 2010. Leghista dai tempi di Bossi, è stato assistente del vicesegretario della Lega Lorenzo Fontana, ha lavorato nel gruppo parlamentare delle destre e poi, alle ultime europee, è diventato lui stesso eurodeputato. Sofo, calabrese, è del 1986: c’era al convegno Verso una Lega nazionale in qualità di presidente di un think tank della galassia sovranista; c’era alla convention di FdI come eurodeputato.

«Ci sono degli spazi di cooperazione giganteschi per quello che definisco un centrodestra alternativo al Partito Popolare Europeo», spiega Borchia nel suo ufficio di Bruxelles a fine aprile, poche settimane dopo una trasferta a Budapest, all’indomani della vittoria di Orbán. In qualità di direttore del dipartimento Lega nel Mondo, Borchia viaggia per incontrare i leader degli alleati europei. Come spiega sul suo sito, dal 2013, si è dedicato «alle relazioni che sfoceranno nella creazione dell’alleanza identitaria con il Front National (oggi Rassemblement National, ndr), l’FPÖ, il PVV e il Vlaams Belang».

«Nelle ultime tre legislature – riprende – ho assistito a un progressivo e ingiustificato sbilanciamento verso sinistra del PPE». I temi cui fa riferimento vanno dai diritti civili alla transizione verde, dalla stessa integrazione Ue alla difesa dello stato di diritto in Paesi come Ungheria e Polonia. La sua posizione è condivisa da molti a destra, ma anche in netto contrasto con alcune letture accademiche. Cas Mudde, uno dei maggiori studiosi dell’estrema destra, per esempio, nel 2020 spiegava a VoxEurop che, a livello europeo, «tematiche, aspetti e protagonisti di estrema destra» sono diventati «convenzionali e normali, soprattutto a causa del Partito popolare europeo», rendendo l’intera politica europea più «autoritaria e nativista». Per Borchia, invece, la questione è soprattutto legata ai partiti nazionali che compongono il PPE, di cui fa parte Forza Italia. A suo parere, le delegazioni di alcuni Paesi, soprattutto nord europei, rappresentano «un centrodestra abbastanza annacquato, un po’ più liberale, meno ancorato ai valori cristiani, conservatori».

Le sfumature della destra, dall’Europa al caso Verona

PPE, ID e ECR corrispondono a tre differenti sfumature del centrodestra. Se il PPE è un gruppo parlamentare governativo, che lavora storicamente in coalizione, ECR e ID raccolgono invece forze più identitarie e radicali, che raramente collaborano con il centro e la sinistra dell’arco parlamentare europeo. Questa differente capacità di coalizzarsi e governare non corrisponde però a una vera differenza ideologica, per come descrive lo scenario Francesco Giubilei. Ci sono quindi proposte politiche diverse per raggiungere obiettivi che alla fine dei conti sono molto simili. Cas Mudde, professore della University of Georgia e grande esperto di populismo, sostiene che ormai si siano erosi i confini tra conservatori e liberali da un lato e estremisti dall’altro. I discorsi del grande insieme allargato dell’estrema destra – corruzione, criminalità, immigrazione, famiglia, difesa della tradizione – sono diventati sempre più popolari a tutto l’arco della destra.

Questo quadro teorico diventa pratica anche nel piccolo. Queste diverse anime della destra, in tutte le loro sfumature e contraddizioni, si vedono ad esempio nelle elezioni amministrative di giugno. Verona è un caso scuola: la città è storicamente una culla della destra, in particolare ultracattolica e tradizionalista. Anche per questo nel 2019 è stata scelta come casa del Congresso Mondiale delle Famiglie.

In questa tornata elettorale, il fronte della destra presenterà al primo turno tre candidati diversi. Sostenuto da Fratelli d’Italia e Lega – divisi al governo nazionale e nei gruppi parlamentari europei, ma uniti sul piano locale – c’è il sindaco uscente Federico Sboarina, tra gli speaker del convegno milanese di Fratelli d’Italia. A sfidarlo c’è l’ex sindaco Flavio Tosi. Già nel 2015 agli Stati Generali raccontava il suo tentativo di annacquare le simpatie per l’estrema destra per presentarsi come centrista. Ex leghista, oggi si presenta con una lista civica tutta concentrata sulla sua immagine di buon amministratore. Uno dei suoi hashtag è #tornailsindaco, per sottolineare l’incapacità della precedente amministrazione, in particolare in materia di sicurezza. A sostenerlo c’è una coalizione di cui fanno parte pezzi del centrodestra come Forza Italia o Coraggio Italia (il movimento del sindaco di Venezia Luigi Brugnaro e del governatore della Liguria Giovanni Toti) ma anche Italia Viva di Matteo Renzi. Il movimento di Tosi aveva già provato nel 2017 a esprimere una sua candidata ma non era riuscito a spezzare il fronte dei partiti tradizionali.

L’ultima formazione, la più radicale e minoritaria, è una lista civica che sostiene Alberto Zelger sindaco. Altro ex leghista, Zelger si definisce ultracattolico e portavoce del Coordinamento nazionale amministratori No Green Pass. Diverge con la Lega per l’appoggio a Draghi, con Fratelli d’Italia per il non essersi imposta contro le mascherine e vaccini. Nei suoi appuntamenti elettorali, ha dato ampio spazio alle voci di canali di disinformazione sulla guerra in Ucraina (come contro.tv) e alla scrittrice e giornalista Ornella Mariani, volto noto del mondo complottista rossobruno. È prevedibile che queste divisioni convergeranno su un unico candidato, nel caso di un ballottaggio, ma sono comunque il sintomo di una maggiore frammentazione rispetto al passato.

Probabilmente Vincenzo Sofo sorriderebbe a sentire il suo ex compagno di partito Borchia pronunciare l’aggettivo «conservatori». Rendere la Lega un partito più tradizionalmente di destra è stato il suo progetto fin da quando nel 2009 ha fondato il think tank dal nome Il Talebano (come si fa una destra). Il nome conferma quanto radicale sia la sua adesione al conservatorismo, da sempre. Direttore è il suo attuale assistente parlamentare locale, Fabrizio Fratus, ex Fiamma Tricolore, ex segretario di Daniela Santanché. Il Talebano, spiegava lo stesso Sofo in un’intervista del 2015 a Q Code Magazine, è nata «come ponte tra i movimenti identitari trasversali, per ampliare la base della Lega Nord». Obiettivo raggiunto, visti i risultati elettorali della Lega e il suo mutamento in partito nazionale.

Nel 2021 ha sposato la nipote di Marine Le Pen, quella Marion Maréchal che, dopo aver militato nel Front National, oggi è nel comitato esecutivo dell’alternativa a destra al RN, Reconquete!. Sofo è ormai un volto sempre più noto a Strasburgo e Bruxelles, ospite e commentatore molto richiesto. Intervistarlo è stato impossibile, quindi bisogna accontentarsi di quanto scrive. In merito alla sua scelta di passare dalla Lega a FdI, afferma sul suo sito che il motivo è il grado di adesione al «fronte identitario», e non i sondaggi, come si può maliziosamente pensare. Scrive Sofo che Salvini, entrando nel governo Draghi, l’ha abbandonato, mentre Meloni lavora per «la costruzione di un campo politico conservatore sufficientemente forte da impedire lo slittamento del centro verso la sinistra».

L’Europa delle nazioni

All’indomani delle europee 2019, le destre avevano accarezzato l’idea di unirsi in un solo gruppo parlamentare, ma distanze ideali e interessi particolari hanno fatto naufragare il tentativo. La cosiddetta internazionale sovranista non è mai nata e i partiti che ne avrebbero potuto fare parte si sono distribuiti tra i gruppi ID, ECR e, in parte, PPE. Poi, con l’uscita del Fidesz di Orbán dal Partito Popolare Europeo e l’acuirsi dello scontro tra Ue, Ungheria e Polonia sullo stato di diritto, si è tornato a parlare di «Europa delle nazioni».

Lo scorso luglio, sedici partiti, tra cui Rassemblement National, Fidesz, PiS, Lega e Fratelli d’Italia, hanno firmato una Dichiarazione sul futuro dell’Europa per «legittimamente resistere» alla creazione di «un superstato europeo». «La cooperazione delle nazioni europee – si legge nella Dichiarazione – deve basarsi sulla tradizione, sul rispetto della cultura e della storia delle nazioni europee, sul rispetto dell’eredità giudeo-cristiana dell’Europa e sui valori comuni che uniscono le nostre nazioni, non sulla loro distruzione».

Geert Wilders, Matteo Salvini, Marine Le Pen, Veselin Mareshki, Jaak Madison e Tomio Okamura durante il comizio "Prima l'Italia! Il buon senso in Europa" a Milano, il 18 maggio 2019 - Foto: Emanuele Cremaschi/Getty

Geert Wilders, Matteo Salvini, Marine Le Pen, Veselin Mareshki, Jaak Madison e Tomio Okamura durante il comizio “Prima l’Italia! Il buon senso in Europa” a Milano, il 18 maggio 2019 – Foto: Emanuele Cremaschi/Getty

Le due pagine di documento sono poco concrete, ma del resto i punti in comune tra un cartello di organizzazioni così numerose e diverse sono più culturali che politici. «Il dialogo con gli altri partiti europei mi ha portato la consapevolezza che l’agire europeo e globale è necessario anche per i partiti che rivendicano le autonomie territoriali. “Think local, act global”, invertendo quello che era uno slogan di sinistra», ragiona Davide Quadri, international secretary della Lega Giovani che lavora al Parlamento europeo per il gruppo ID; altro tessitore di relazioni che ha iniziato giovanissimo a frequentare le segreterie politiche dei sovranisti d’Europa.

Dopo la Dichiarazione sul futuro dell’Europa, ci sono stati altri incontri d’area, fino a quello di Madrid. Qualche settimana dopo, è iniziata l’invasione dell’Ucraina. Le fratture esistenti sui rapporti con la Russia di Putin sono tornate ad allargarsi, rischiando di diventare insanabili. Da un lato, il PiS polacco è diventato il primo sostenitore dell’Ucraina. Dall’altro, Orbán e Fidesz, pur approvando i primi round di sanzioni, hanno mantenuto uno degli atteggiamenti più ambigui di tutta l’Ue, secondo diversi commentatori di destra anche per motivi storici di contrasto con l’Ucraina.

«Un vento di cambiamento»

In questo contesto, il messaggio che il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki ha inviato alla conferenza programmatica di Fratelli d’Italia assume particolare rilevanza. L’esponente di PiS prima si augura che gli «ottimi risultati nei sondaggi» portino «un vento di cambiamento nella politica europea» e, subito dopo, ringrazia Meloni per la posizione che ha assunto nei confronti della Russia: «Grazie Giorgia per non aver esitato a fare una netta distinzione tra bianco e nero».

Fin dai primi giorni del conflitto, Meloni si è schierata apertamente. «Oggi è il momento di restare uniti e prendere posizione. E sappiamo molto bene che la nostra parte è il mondo occidentale» ha detto a Orlando, in Florida, intervenendo il 27 febbraio al Conservative Political Action Conference (CPAC), incontro annuale dei conservatori Usa. «Leggo sulla stampa di una presunta svolta atlantista di Giorgia Meloni. Vorrei ricordare che dal Msi a oggi la destra è sempre stata atlantista», ha ribadito la leader di FdI il 6 aprile, dimenticandosi come nella destra radicale ci sia fin dalle origini del Movimento sociale una corrente che non vuole stare con la Nato. In pubblico, però, il risultato è coerenza contro compromissione: a differenza della sorella Lega, i Fratelli d’Italia non hanno mai sfoggiato magliette con il volto di Putin o siglato accordi con il suo partito Russia Unita.

Nello scacchiere politico attuale, Morawiecki è per FdI un alleato più spendibile di quanto non lo sia Orbán per la Lega. La guerra in Ucraina sta allontanando Ungheria e Polonia, con la prima che sembra guardare sempre più ad est e la seconda che invece ha migliorato le sue credenziali nei confronti di Bruxelles. Nel 2023, dopo le elezioni italiane di maggio, ci saranno quelle polacche di novembre: «L’Italia ha bisogno del vostro successo. L’Europa ci conta», si augura il primo ministro polacco.

Le radici

«Voi cercavate di dipingerci come retrogradi che scimmiottano altri tempi, altre storie, e non vi accorgevate che intanto noi costruivamo una storia tutta nostra completamente nuova, disperatamente ancorata al nostro tempo». Giorgia Meloni, dal palco milanese della convention di FdI, rivendica e attacca. Il fascismo è il convitato di pietra del suo discorso. Il “voi” è l’appellativo per rivolgersi all’indistinta schiera di nemici sulla quale FdI ha costruito la sua ascesa. Nemici esterni ma anche interni, che hanno preso le distanze da un partito a lungo ritenuto impresentabile in quanto di estrema destra: «Voi sognate una detra sfigata nostalgica, cupa, perdente e invece noi siamo una destra vincente, siamo una destra seria, moderna, seria, credibile, rispettata, che non si è fatta mettere all’angolo – declama -. […] Continuate a raccontarvi le vostre favolette che noi intanto facciamo la storia».

«L’ideologia mondialista – prosegue – ha bisogno di privarci delle nostre radici». Queste sono il tesoro da difendere per la destra conservatrice. In quelle radici c’è anche il fascismo, come reso evidente da tutta la simbologia che accompagna una parte della militanza di FdI, come la commemorazione di Ramelli. La loro santificazione è un modo per riappropriasi di un pezzo di identità, per screditare gli accusatori e per scongiurare la profezia per cui i post fascisti non possono guidare un governo. L’ultima volta s’è avverata in Francia: per quanto impensabile anche solo cinque anni fa, il consenso di Marine Le Pen non è andato oltre il 40%. E ancora più a destra, Eric Zemmour di Reconquête!, l’intellettuale prestato alla politica con una storia molto diversa da Le Pen e Meloni, sostiene che a perdere sia stata la candidata e non le idee.

«So bene dove è piantata Fratelli d’Italia – dice ancora Meloni -, non so benissimo dove siano piantati gli altri. Spero che vogliano stare con noi». Ancora una volta, coerenza contro compromissioni. Il concetto è benedetto anche dalla vecchia guardia: «Gli alberi senza radici non crescono – ha riferito al Corriere della Sera lo storico portavoce di Giorgio Almirante, Massimo Magliaro -. Noi veniamo da una storia difficile, una storia che nessuno vuole restaurare e nessuno vuole rinnegare». In quelle radici, scommette Fratelli d’Italia, si ritroverà l’intera destra italiana.

CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli
Paolo Riva

In partnership con

Fondazione Feltrinelli

Editing

Giulio Rubino

Foto di copertina

Emanuele Cremaschi/Getty