Il lungo cammino verso la giustizia dei siriani
#GiudiziUniversali
Marta Bellingreri
Costanza Spocci
La storia si scrive a Coblenza
Nel viaggio in treno da Parigi a Coblenza, con uno scalo a Colonia, Ruwaida Kanaan non riesce a capire i sentimenti che prova. «Ho paura, sono felice, sono triste. Tutto insieme», registra in un messaggio vocale a un’amica, a bassa voce, per non disturbare gli altri passeggeri. Tra i suoi tanti pensieri, uno domina sugli altri, mentre dal finestrino vede scorrere velocemente i paesaggi piatti e freddi al confine tra Francia e Germania. «Penso alle persone che non saranno con noi a Coblenza: se sono vivi, se sono stati uccisi, se sono spariti: non lo sappiamo».
Non potranno essere con lei gli altri prigionieri siriani, oltre centomila persone, sparite nelle carceri del suo Paese d’origine.
La mattina dopo Ruwaida arriva di fronte la Corte di Coblenza con anticipo. È il 13 gennaio 2022. Ha una giacca pesante verde che si intona bene col cappello dello stesso colore. Dal cappello fuoriesce una cascata di trecce, dalle punte rosa acceso. Dal suo sguardo si capisce che non ha chiuso occhio tutta la notte. Sono quasi le sette, ma una fila di persone è in attesa di poter entrare fin dalle quattro del mattino. Hanno tutti cappotti e guanti e quando parlano si vede il fumo del freddo uscire dalle loro bocche. Sono rifugiati siriani giunti da Berlino, Londra, Beirut, e molte altre città, e si riabbracciano come degli amici che non si vedono da molto tempo.
Tra di loro molte donne, che appartengono alle Families for Freedom, l’insieme dei familiari delle persone scomparse nelle carceri del regime. Tra i loro manifesti, campeggia uno con le scritte più grandi: Where are they?, «Dove sono?». La stessa domanda che Ruwaida si faceva il giorno prima in treno.
Quando Ruwaida era stata a Coblenza, un anno addietro, era stata interrogata «dodici ore e quindici minuti – ricorda -. Con un’ora di pausa». Le hanno posto le domande in maniera così dettagliata che si era sentita come se fosse tornata in quella cella, a Damasco. «Sentivo di nuovo l’odore e le voci. In quel centro di detenzione, avevo un problema soprattutto con le voci». Urla degli aguzzini, mischiate a quelle delle loro vittime sotto tortura, contro cui inveivano.
Ruwaida si riferisce al dipartimento 251 chiamato al-Khatib, a Damasco, dove ha passato tre giorni dei suoi dieci mesi di prigionia, nel 2013, il luogo dove gli attivisti politici venivano posti in stato di fermo per essere interrogati. La sentenza del 13 gennaio 2022 alla fine del processo di Coblenza è a carico del responsabile degli interrogatori dell’intelligence di quel dipartimento, che ritorna spesso nei suoi peggiori incubi, Anwar Raslan. È la prima volta al mondo che un alto ufficiale della sicurezza del regime siriano di Bashar al-Assad viene processato, mentre la dittatura vige ancora nel Paese distrutto da oltre dieci anni di conflitto.
Quando finalmente si può cominciare ad entrare in aula, non c’è posto per tutti, e per ascoltare la sentenza, molti si devono accomodare in una stanza separata, con degli altoparlanti da dove si sente chiara la voce della giudice Anne Kerber. Anche i giornalisti prendono appunti da quei banchi.
Ruwaida è dentro invece: in quanto persona offesa dai reati di cui Raslan è accusato, ha sporto denuncia insieme ad altri siriani al Procuratore generale federale tedesco, diventando così co-querelanti, motivo per cui si trovano tutti in prima fila. Al centro dell’ampia aula rettangolare, la giudice legge in piedi la sentenza in tedesco. Nel gabbiotto dei traduttori a sinistra, segue la traduzione in arabo. Dal lato opposto, l’imputato, Anwar Raslan, non batte ciglio.
Resta impassibile, anche quando viene confermato quello che l’accusa aveva chiesto: l’ergastolo per 27 omicidi e quattromila casi di tortura nel dipartimento 251 di al-Khatib.
La parola ergastolo comincia a risuonare nelle stanze con gli altoparlanti e fuori dalla corte. Le televisioni tedesche e internazionali si appostano di fronte alla Corte per le dirette in cui annunciano il verdetto. Le donne delle Families for Freedom corrono per avvicinarsi all’ingresso e subito espongono i loro cartelloni per la stampa. Molte hanno le lacrime agli occhi, come se quella sentenza stia per accendere una nuova speranza di avere notizie dei propri cari.
Adesso, in fila fuori ci sono i giornalisti che vogliono intervistare un uomo basso, con un paio di occhi vispi e neri, i baffi Chevron e un’espressione beffarda che, combinata con la sua mise, ricorda un po’ Peter Falk ne Il tenente Colombo. Presto attorno a lui si crea un cerchio di microfoni di tutte le forme e di tutte le misure. È Anwar al-Bunni, noto avvocato siriano per i diritti umani, uno dei protagonisti assoluti della ricerca di verità e giustizia per le vittime del conflitto siriano.
«Una sentenza storica! La prima volta in assoluto che succede una cosa del genere – commenta con entusiasmo e con il suo sguardo acceso, intenso -. Perché non è solo un uomo condannato, ma si stabilisce la sistematicità e la continuità di questa violenza di regime, i suoi servizi di sicurezza, tutto un sistema dittatoriale e repressivo di potere».
Qualche mese prima, nel suo ufficio a Berlino, su un foglio strappato dall’agenda, aveva disegnato la piramide dei servizi di sicurezza a cui apparteneva Raslan, al vertice del quale c’era il presidente, Bashar al-Assad.
Mentre le sue parole rimbalzano in tutte le agenzie di stampa, radio e tv internazionali, Ruwaida dentro l’aula non si è mossa. Con i termosifoni accesi al massimo nel mese di gennaio, ha tolto cappello e cappotto verdi dentro la Corte, ma sono le sue treccine con le punte colorate a segnalare sempre la sua presenza in aula. Dopo la pronuncia della sentenza, è iniziata la lettura delle motivazioni. La giudice Kerber comincia a descrivere il regime siriano fin dagli esordi negli anni Sessanta, passando per la presa di potere di Hafez al-Assad nel 1970 e i massacri degli anni Ottanta, la successione del figlio Bashar al-Assad nel 2000 e la continua repressione, dalla Primavera di Damasco nel 2005 fino alla rivoluzione del 2011.
Ruwaida ascolta la storia del suo Paese, pronunciata dalla giudice tedesca, la cui voce asettica riecheggia dagli altoparlanti: i crimini commessi da Assad padre e Assad figlio, il funzionamento dei dipartimenti della sicurezza e delle prigioni. Nel frattempo l’imputato Anwar Raslan prende appunti senza tregua. «Sembra che non abbia mai lasciato il suo posto. Scrive, annota, non alza lo sguardo: come quando ci interrogava, a Damasco», commenta Ruwaida. Ha bisogno di ricordare anche la storia dell’imputato, per rendersi conto perché quel suo connazionale sia arrivato a essere condannato all’ergastolo. Se non fosse stato per il massacro nella sua città di origine in Siria, Houla, e le pressioni conseguenti, sostiene Ruwaida, Anwar Raslan non avrebbe mai lasciato la sua posizione, il suo potere, il privilegio guadagnato nella scala dei servizi di sicurezza siriani.
«E lo scatto di carriera nel nostro Paese corrotto, spesso lo si fa proprio così, eseguendo gli ordini e torturando e terrorizzando quante più persone possibili», dice Ruwaida, con un tono di voce più sostenuto e infervorato del solito. «Soprattutto noi», aggiunge, riferendosi agli attivisti civili della rivoluzione siriana. Era quella che dal centro del potere volevano più di tutto schiacciare.
Prima della rivoluzione in Siria nel 2011, una serie di proteste antigovernative seguite all’evolversi della primavera araba tra Tunisia, Egitto, Libia, Yemen, tra gli altri Paesi, Ruwaida era un’insegnante di matematica. E come molti dei siriani in quei mesi tra gennaio, febbraio e marzo del 2011, neanche lei pensava che un movimento di popolo come quello che stava facendo sognare tutto il mondo arabo dalla piazza Tahrir del Cairo, fosse possibile.
«Vivevo l’oppressione della Siria ogni giorno nel mio contesto, a scuola, nella mia cittadina di origine, Zabadani, nella campagna vicino Damasco. Ma come trasformare la comune frustrazione in rivoluzione?». Dopo le prime timide e meno timide presenze in piazza, Ruwaida decide di unirsi e partecipare, per contribuire a creare quel movimento. «Organizzavamo le manifestazioni, facevamo scritte sui muri, ho cominciato a lavorare in radio. Qualche mese dopo, mi hanno licenziata da scuola».
Il licenziamento non arriva dopo le proteste, ma dopo il primo arresto, di solo tre giorni, in cui matura intanto in lei la decisione di pensare la rivoluzione in maniera ancora più strutturata. Per questo Ruwaida prende a far parte del Movimento per una Siria libera e democratica, un raggruppamento politico contrario alla violenza e che voleva soprattutto riflettere e lavorare sul futuro della Siria, a partire dall’impegno della società civile nato durante la rivoluzione. Puntuale, arriva il secondo arresto: questa volta viene prelevata da casa, all’una di notte, e mentre circa trenta militari mettono sottosopra la sua abitazione, oltre a lei vengono prelevate le due sorelle e un fratello. Una volta scarcerata, Ruwaida è costretta a lasciare anche la militanza politica. La situazione si aggrava: con l’aumentare degli sfollati, dei morti e dei feriti, è l’aspetto umanitario che deve essere privilegiato.
«A me interessava la politica, capire come potevamo organizzarci per un futuro democratico, ma c’erano assedi, bombardamenti, troppe urgenze. E lì che allora ho cominciato a fare la giornalista per una radio indipendente, Radio Rozana».
Il terzo arresto è quello più lungo: viene presa per strada con il giubbotto con la scritta press, scambiata per una di Al-Jazeera, giornalisti che venivano regolarmente posti sotto pressione delle forze di sicurezza a causa del supporto del canale qatariota ai movimenti di protesta sorti in tutta la regione. Per dieci mesi, non ha più visto la luce del sole ed è stata spostata in diverse prigioni. «Quando sono uscita dal carcere per la terza volta, ho capito che la mia presenza nel Paese non era solo pericolosa per me, ma anche per le persone attorno a me. I miei amici hanno smesso di parlarmi perché avevano paura che li potessero arrestare. I miei parenti, le mie sorelle, avevano paura della mia presenza con loro, e io? Io avevo paura di stare con loro perché potevo metterli in pericolo!».
Dei dieci mesi, sono quei tre giorni nel dipartimento di Anwar Raslan che hanno fatto sì che Ruwaida si possa essere seduta in una corte nella cittadina tedesca di Coblenza, dopo aver ottenuto asilo politico in Francia. Da quando ha lasciato la Siria, dopo un passaggio in Turchia, occuparsi di giustizia per i siriani è diventato il suo obiettivo principale. «Mi sono interessata alla causa dei prigionieri siriani, e in particolare le prigioniere perché ho visto coi miei occhi e vissuto sulla mia pelle. Non è solo violenza politica o violenza securitaria, no. C’è una violenza sociale specifica pensata dai servizi segreti contro le donne prigioniere. Mirano a distruggere la nostra psiche, per sempre». Ma in tutti questi anni lei ha provato a resistervi, ed è per questo che è diventata co-querelante al primo grande processo contro il regime di Assad, supportata dagli avvocati e le avvocate siriani e tedeschi che hanno messo insieme le loro prove e testimonianze.
Mentre trascorre la lettura delle motivazioni della sentenza, fuori la Corte continua il viavai di persone: chi ha fatto pausa in uno dei café vicino, chi ha approfittato del raro sole tedesco di gennaio per fare una passeggiata sul lungo Reno, chi registra e invia clip audio per i radiogiornali. Nessuno però osa allontanarsi troppo dal tribunale, pur intuendo che potrebbe durare ancora diverse ore. «A che punto sono?», grida ad un tratto un uomo rivolgendosi all’avvocato Anwar al-Bunni. «Eh, sono ancora al 2011!», replica con il tono di chi sa che il peggio del racconto deve ancora arrivare. La seconda parte della lettura delle motivazioni è infatti dedicata ai crimini che ha compiuto nello specifico Anwar Raslan tra il 2011 e il 2012, prima di pretendere di disertare e cercare di unirsi all’opposizione, raggiungendo così la Germania. Passano altre ore.
E così arriva la terza e ultima parte della lettura della sentenza del processo di Coblenza.
Nonostante le due pause, a Ruwaida sembra di stare lì da sempre, come il giorno in cui aveva deposto la sua testimonianza. La terza parte riguarda loro, i querelanti: la giudice Anne Kerber rilegge per filo e per segno quello che hanno vissuto e raccontato. Sono a un passo dalla fine, ma è il momento più difficile per la mente di Ruwaida: sente attorno a sé la sua stessa sofferenza.
«Ascoltare da una persona estranea le violenze che hai vissuto e nel frattempo sentire le persone accanto a te stare male, tanto quanto te, è davvero difficile». In quelle lunghe ore, Anwar Raslan ha continuato ad apparire tranquillo. Da dietro il suo gabbiotto, al contrario che per i querelanti, le ore sembrano non essere state così lunghe. Del resto, lui, è abituato: ricurvo su un quadernino, trascrive con zelo da stenografo gli abusi che lui stesso ha comandato. «Nel sistema di sicurezza siriano, gli agenti sono formati per non esprimere mai quello che provano o esprimere tutto il contrario», si ricorda di aver sentito dire da Anwar al-Bunni. Ruwaida non smette di osservarlo e qualcosa di lui ha colto. Qualcosa che l’ha turbata.
«Ci guardava dall’alto in basso come a dire “ma chi siete voi?” e scriveva, scriveva. Per un attimo ha anche sorriso, quasi a sbeffeggiarci. Come se non fosse mai uscito dalla Siria».
Il timbro di voce
A pochi metri da Ruwaida, tra i co-querelanti seduti in prima fila, spunta la testa di un uomo con lunghi riccioli neri tirati a lucido con il gel. Wassim Mukdad, 38 anni, respira pesante dentro una camicia bianca e un gilet nero un po’ stretto in pancia. Rispetto ai tanti presenti in aula, sfiniti da ore di lettura, non si è abbandonato allo schienale, ma è tutto proteso verso la giudice Kerber che legge le parole della sua deposizione.
«Quando siamo arrivati ad al-Khatib le guardie ci hanno fatto la “festa di benvenuto”, ci hanno spogliati e picchiati. Poi mi hanno messo in una cella di 22 metri quadri. Dentro eravamo 87 persone. Non avevamo abbastanza spazio per dormire tutti insieme, così alcuni stavano in piedi tutta la notte. La luce era sempre accesa… ricordo che una sera la nostra cena è stata di sette olive».
I muscoli del collo di Wassim si irrigidiscono, mentre con la mente ritorna al settembre 2011 quando si trovava con altri due amici a Duma, nella Ghouta orientale, vicino Damasco. Era un venerdì e i tre si stavano recando a una protesta, ma data la forte presenza dell’esercito nelle strade ancora non si vedeva l’ombra di un corteo. D’improvviso le forze di sicurezza erano apparse come un nugolo di zanzare ed erano balzate su di loro, per caricarli sulle camionette della polizia.
Come Ruwaida, anche Wassim era stato diverse volte a Coblenza per deporre. Ogni volta il trauma lo risucchiava e lo catapultava di nuovo nella stanza delle torture di al-Khatib. L’idea che deporre potesse contribuire all’ergastolo di Raslan, però, rendeva il dolore e la fatica di ricordare più sopportabili.
«Condividere la mia storia in un tribunale dà un senso a quello che è successo, perché ogni parola detta è un documento per la Storia». Wassim lo aveva detto una mattina a colazione a Jenny, la ragazza con cui aveva da poco comprato casa a Berlino. Era l’estate prima del processo. Lei tagliava a fette spesse il gibna – il formaggio siriano – con le sue mani trasparenti e lui preparava le omelette per colazione. Si erano innamorati pochi anni prima grazie alla musica. Jenny, una ragazza bionda di trent’anni, robusta e originaria del sud della Germania, aveva sentito Wassim suonare l’oud, il liuto mediorientale, durante un ritiro del suo coro ed era rimasta incantata dalle «sue meravigliose melodie malinconiche». Lui aveva condiviso con lei la sua musica e poco per volta le aveva narrato come dal sud della Turchia, dove era fuggito qualche anno dopo l’inizio della rivoluzione, era riuscito a sopravvivere all’odissea per arrivare a Berlino.
Le aveva raccontato anche delle rivolte in Siria, dell’euforia di piazza e delle speranze di rovesciare Bashar al-Assad durante le manifestazioni a Damasco, dove aveva concluso da poco i suoi studi in medicina e già faceva i suoi primi concerti. Quando Assad aveva deciso di reprimere la rivolta siriana nel sangue, Wassim e la sua ex-compagna neo-laureata in farmacia avevano abbandonato la loro quotidianità e in breve tempo avevano formato un gruppo di attivisti che facevano entrare medicinali, vaccini e sacche di sangue nella Ghouta orientale assediata dalle Forze armate siriane.
Anni dopo, seduto sul divano grigio nella loro casa di Reinickendorf a Berlino, Wassim aveva trovato il coraggio di dire a Jenny di quando era stato arrestato per ben tre volte tra il 2011 e il 2013, due dal regime e una dal ramo siriano di al-Qaeda. «Ci sono molte corrispondenze tra la prigionia di al-Qaeda e il regime, ma i luoghi di detenzione sono completamente diversi», aveva detto Wassim a Jenny. I jihadisti lo avevano rapito perché era cristiano: non avevano interesse a torturarlo, l’avrebbero ucciso direttamente. Una serie di circostanze gli avevano però salvato la vita: il suo lavoro come dottore all’ospedale di Yarmouk, il campo palestinese di Damasco sotto assedio nel 2013, gli scioperi dei suoi colleghi e un paio di consigli medici che aveva dispensato ai suoi aguzzini. Al-Qaeda così aveva aperto la porta di quella che era stata la stanza dei bambini sconosciuti, diventata poi una cella in una casa abbandonata, e lo aveva lasciato andare.
Il regime invece non aveva celle improvvisate. Le forze di sicurezza avevano imprigionato Wassim in un centro pensato apposta per estorcergli informazioni con la forza: il posto si chiamava al-Khatib, ed era stato concepito con l’esplicito intento di torturare Wassim e persone come lui, finché non avessero sputato fuori liste di nomi di oppositori, al costo di far perdere loro conoscenza o ammazzarli di botte, aveva raccontato Wassim rabbrividendo.
Nel vortice dei ricordi, racconta Wassim, un pilastro è sempre rimasto fermo. «Essere un musicista mi ha aiutato», dice, perché «la musica è un modo molto simbolico di esprimere le emozioni». Far vibrare le corde dell’oud aiuta a curare le cicatrici dell’anima: «I ricordi dell’infanzia, della guerra, della detenzione, le preoccupazioni per il futuro» risuonano «mescolate a nuove armonie di speranza».
L’orecchio da musicista di Wassim poi, negli anni, si è rivelato uno strumento potente non solo per lui, ma anche per tutti i co-querelanti seduti in aula a Coblenza. Durante gli interrogatori ad al-Khatib Wassim infatti era legato e bendato e non era mai riuscito a vedere i suoi torturatori in volto. Però la voce dell’uomo che aveva ordinato agli altri di torturarlo, quella sì che se l’era scolpita in mente. Il timbro, che allora non sapeva essere di Anwar Raslan, sarebbe stato per sempre inconfondibile e per anni, giorno e notte, gli sarebbe risuonato in testa. Una decade dopo, Wassim, dal banco dei querelanti in tribunale, guarda l’ufficiale responsabile delle sue torture inchiodato alla sedia, vestito da detenuto, e obbligato ad ascoltare la sua storia in attesa di essere riportato, lui questa volta, dietro le sbarre.
A Coblenza le vittime impugnano la giurisdizione universale
Mentre in aula si scrive la Storia, nei corridoi del tribunale gli avvocati e i membri del Centro europeo per i diritti umani e costituzionali (ECCHR) macinano chilometri avanti e indietro per emettere comunicati stampa sull’andamento del processo. Patrick Kroker aspettava questo giorno da quando nel 2015 ha iniziato a lavorare sul dossier Siria nel programma Crimini e responsabilità internazionali di ECCHR.
Sistemandosi gli occhiali sul naso, si avvicina a grandi passi verso l’uscita. La toga nera da avvocato gli svolazza intorno mentre esce nell’aria gelida di Coblenza e si dirige anche lui verso le telecamere. «Il verdetto non ci sorprende, le prove erano così convincenti e credibili che potevamo sperare in un ergastolo», dichiara Kroker, che ha rappresentato i querelanti dopo che per anni ha incontrato i siriani arrivati in Europa, condividendo con i pubblici ministeri le loro testimonianze sulla detenzione. Accanto a Kroker c’è un uomo più attempato che segue le sue parole e annuisce. È Wolfgang Kaleck, 62 anni, avvocato che nel 2007 ha fondato ECCHR a Berlino con l’intento di portare davanti alla giustizia l’ex Segretario alla Difesa degli Stati Uniti Donald Rumsfeld per le torture ad Abu Ghraib in Iraq e nella prigione di Guantanamo. Allora nessun funzionario statunitense era finito in un’aula di tribunale tedesca, ma nel frattempo ECCHR è cresciuta e oggi dà la caccia ai criminali di guerra impugnando un fondamento chiave del diritto internazionale: la giurisdizione universale.
Si tratta di un principio secondo cui un Paese terzo può perseguire crimini di guerra, genocidi e crimini contro l’umanità che sono stati commessi al di fuori del suo territorio. «In altre parole, chi si macchia di questi crimini non dovrebbe poter trovare alcun rifugio in Paesi terzi – spiega Kroker alla stampa – e poiché la Germania accetta nella sua legislazione il principio cooperativo di giurisdizione universale, e poiché l’accusato viveva in Germania al momento dell’arresto, è stato possibile portarlo a processo e condannarlo».
Le origini della giurisdizione universale risalgono al concetto settecentesco di protezione dei beni il cui danno avrebbe colpito l’intera umanità, a partire dagli attacchi di pirateria, evolvendosi dopo la Seconda guerra mondiale in Germania con i processi e la Carta di Norimberga del 1945. Il processo di Coblenza del 13 gennaio 2022 segna un’altra pietra miliare nella giustizia internazionale, non solo per la condanna a Raslan, ma anche perché il processo non è iniziato per volontà di uno Stato, bensì delle vittime dei crimini contro l’umanità.
«Per la prima volta alla sbarra non è finito un regime caduto in disgrazia, ma un governo che è ancora al potere», dice Anwar al-Bunni ai presenti fuori dal tribunale, tenendo ancora banco nonostante il freddo. L’euforia e le nuvole di fumo sbuffate dalle sigarette che fuma a catena gli bastano per scaldarsi.
Al-Bunni, diversi mesi prima, nel suo studio di Berlino, aveva detto chiaramente che non credeva che la vittoria in un processo come quello di Coblenza avrebbe chiuso la questione delle violazioni dei diritti umani in Siria. Però, sosteneva, sarebbe stato un tassello: il primo atto per confermare la sistematicità delle torture e delle uccisioni degli oppositori da parte del governo siriano.
Pur non essendo un testimone diretto per le accuse mosse a Raslan nel periodo 2011-2013, al-Bunni, noto avvocato in patria, è l’uomo chiave del processo di Coblenza. Nato ad Hama sessantaquattro anni fa, al-Bunni in esilio ha continuato a lavorare ogni giorno, dalla stanzetta del Centro siriano di studi e ricerca legali a Berlino, con la stessa intensità con cui l’ha fatto nei trent’anni precedenti a Damasco. Insieme all’avvocato tedesco Kroker di ECCHR, al-Bunni ha studiato i file originali di Caesar: migliaia di foto di cadaveri nelle strutture di detenzione del governo siriano alcune delle quali scattate nel dipartimento 251 da un ex-dipendente della polizia militare siriana, nome in codice Caesar, tra maggio 2011 e agosto 2013. Entrambi gli avvocati speravano di riuscire a presentare una denuncia ai procuratori tedeschi contro alcune figure chiave del regime.
I documenti di Caesar fornivano le prove di gravi crimini commessi in specifiche strutture dei servizi di intelligence siriani: si trattava di migliaia di foto di cadaveri nelle strutture di detenzione del governo siriano, in alta definizione, molte contenenti metadati. Ma servivano le testimonianze per comprovarle.
Così dal 2017 al-Bunni, insieme a due collaboratori, ha lavorato senza sosta per raccogliere ex clienti o persone che avessero subito abusi in quelle stanze e in quello specifico periodo di tempo. Grazie al suo lavoro negli anni a Damasco e grazie al passaparola tra siriani, al-Bunni ha ascoltato le testimonianze di decine e decine di vittime delle prigioni della tortura siriana. Molte hanno deciso di testimoniare a Coblenza, dove alcune hanno deciso di farsi parte querelante, tante continuano a raccontare esperienze preziose per nuovi processi in corso.
Anwar vs Anwar
Anwar al-Bunni è stato lui stesso prigioniero politico e vittima di tortura. Era il 2006 quando un gruppo dei servizi segreti l’aveva rapito di fronte a casa mentre stava salendo in macchina, racconta. Diversi uomini l’avevano bendato e messo a terra tra i sedili, poi si erano seduti sopra di lui mentre lui gridava «Che succede?». Un uomo gli aveva risposto beffardo: «Come, non sai quello che hai fatto, criminale?». Era Anwar Raslan, il capo del dipartimento in cui sarebbe finito di lì a poco. Durante l’interrogatorio, quello stesso uomo gli aveva detto con ironia: «Allora Anwar al-Bunni, com’è questa storia dei diritti umani in Siria?». L’avvocato siriano gli aveva però risposto ridendo: «I diritti umani non esistono in Siria, e il modo in cui sto qui, adesso, di fronte a voi ne è proprio la prova», al che Raslan aveva intimato ai suoi sottoposti di ricominciare con le botte.
Il giorno dopo, quando le guardie avevano portato al-Bunni in tribunale per convalidare l’arresto, gli avevano finalmente tolto la benda. In quel momento Anwar al-Bunni aveva per la prima volta visto il volto del suo omonimo, l’allora tenente colonnello Anwar Raslan. «Quella è l’unica volta in cui l’ho visto in Siria», aveva raccontato al-Bunni un pomeriggio di luglio nel suo ufficio, sempre circondato dalla nebbia delle sue sigarette.
Anwar al-Bunni aveva rivisto la luce del cielo della sua Damasco solo cinque anni dopo, nel 2011, giusto in tempo per assaporare i primi mesi di rivolta. Minacciato ancora una volta dal mukhabarat, i servizi di intelligence siriani, si era visto costretto a fuggire dal Paese. Era successo il giorno in cui avevano arrestato il fratello, scambiandolo per lui: lì aveva capito che era tempo di partire.
Così, dopo una prima tappa in Libano, nel 2014 era volato in Germania. Una mattina, qualche mese dopo il suo arrivo a Berlino, era entrato nel negozietto del campo profughi che accoglieva lui e la sua famiglia per comprare, guarda caso, le sigarette. Mentre si dirigeva alla cassa aveva sentito uno sguardo insistente su di lui. Si era voltato e per qualche secondo aveva incrociato lo sguardo di un uomo che lo fissava intensamente. Chi diavolo era? Quell’uomo, intuiva al-Bunni, l’aveva riconosciuto, ma lui no. I due senza parlarsi né salutarsi si erano poi allontanati, ognuno per la propria strada.
Alcune settimane dopo, mentre prendeva un caffè e si fumava una sigaretta in compagnia, un vecchio amico di Damasco gli aveva detto di aver intravisto un ufficiale del regime camminare nel campo tra gli altri profughi siriani. «Ecco chi era, Anwar Raslan – aveva esclamato al-Bunni – è lui che ho incontrato per strada!».
Neanche a farlo apposta, un anno dopo Anwar aveva incrociato l’altro Anwar a Bauhaus, il corrispettivo tedesco del Brico. Entrambi erano con le rispettive mogli. Al-Bunni era sulle scale mobili e stava maneggiando dei tubi che voleva comprare per sistemare la cucina nuova della casa della figlia, quando d’un tratto aveva visto Raslan, e si era congelato. «Nemmeno qui siamo al sicuro», aveva pensato, cambiando velocemente percorso. Anwar Raslan come lui aveva studiato giurisprudenza, ma aveva deciso di mettere le sue competenze al servizio del regime dirigendo un ramo dei servizi segreti. Anwar al-Bunni invece da sempre era stato dall’altro lato della barricata.
«Non provo nessuna rabbia né desiderio di vendetta verso quell’uomo», aveva detto poi alla moglie. Non cercava un duello. L’unica battaglia che gli interessava era una battaglia legale, combattuta in quanto avvocato e difensore dei diritti umani, perché Anwar al-Bunni aveva una missione più grande, diceva: avere giustizia per tutti i siriani. Ed era sicuro che prima o poi ci sarebbe riuscito.
Questa certezza per anni è stata la linfa che gli ha permesso di lanciarsi in lunghe giornate e notti di lavoro senza risparmiarsi. Finché nel 2017, per la prima volta, viene fuori il nome di Raslan durante un’intervista a una vittima siriana in Svezia. Anwar al-Bunni in quel momento era insieme all’avvocato di ECCHR Patrick Kroker. «L’ho visto a Berlino», aveva detto al-Bunni a fine intervista a un incredulo Kroker, e gli aveva raccontato l’episodio di Bauhaus. Kroker era corso a controllare: Anwar Raslan si era palesato ai servizi segreti tedeschi presentandosi come un disertore del regime, dopo aver riconosciuto di essere stato un dirigente di al-Khatib, il famigerato dipartimento 251. L’ufficiale sosteneva di essersi trasferito in Giordania dopo un apparente disaccordo con il regime: a Houla, la sua città natale, nel maggio del 2012 l’esercito siriano aveva compiuto un massacro uccidendo centinaia di persone, inclusi suoi amici e familiari.
Dalla Giordania era entrato in contatto con figure dell’opposizione in esilio in Germania, e aveva chiesto aiuto a un ex parlamentare anti-regime per poter arrivare in tutta sicurezza a Berlino. In cambio, aveva garantito Raslan, avrebbe fornito importanti informazioni su detenuti politici scomparsi e anche sul regime stesso. Una volta arrivato in Germania, però, Raslan non aveva mantenuto la promessa e si era rifiutato di dare informazioni, sollevando sospetti sulla sua presunta diserzione. Secondo alcuni legali e attivisti, primo fra tutti al-Bunni, Raslan poteva essere arrivato in Germania con lo specifico scopo di spiare gli esiliati per conto del regime.
Nell’ottobre 2019 Anwar Raslan è stato incriminato con l’accusa di crimini contro l’umanità, insieme a un altro sedicente disertore, un sottufficiale che lavorava nel dipartimento 251, Eyad al-Gharib. Dopo un patteggiamento e la decisione di collaborare all’inchiesta contro Raslan, al-Gharib si era preso quattro anni di pena detentiva.
L’entrata del tribunale è di nuovo affollata di gente, la giudice ha finito di leggere le motivazioni della sentenza e le donne delle Families for Freedom riappaiono con i loro cartelli, per ringraziare al-Bunni e Kroker. Finalmente liberi dai giornalisti, i due avvocati si incrociano per la prima volta nella giornata e si lanciano in un abbraccio forte, che dura diversi secondi. Entrambi sono visibilmente commossi.
Anwar al-Bunni si gira e facendo finta di tirare un bel calcio con un gesto teatrale, esclama: «Come siriani, pensavamo che la porta della giustizia fosse completamente chiusa per noi. Ora non solo abbiamo aperto quella porta, ma l’abbiamo spalancata! E questo è solo l’inizio!».
Ritorno a casa
Neanche una settimana dalla sentenza di Coblenza, nella vicina Francoforte, partirà il processo a carico di un medico siriano che anziché curare i feriti delle proteste in Siria, li torturava fino a causarne la morte nell’ospedale militare Mezzeh n. 601 a Damasco, cosa che negherà al processo dove dirà di essere lui il perseguitato in quanto cristiano. I rifugiati siriani parenti delle vittime lo avevano riconosciuto in una clinica vicino Kassel. Secondo ECCHR le prove portate a processo contro Alaa M., il nome in codice del medico, dimostrerebbero come le violenze sistematiche del regime di Damasco non avvengano solo nei luoghi di detenzione e come gli ospedali militari siano un importante anello della catena del sistema di punizione e di tortura degli oppositori.
Sei mesi dopo, a fine agosto 2022, cominceranno le udienze del terzo processo in Germania, a Berlino. Questa volta sarà il turno di un miliziano palestinese-siriano, accusato di crimini contro l’umanità per aver lanciato un missile contro civili che erano in fila per ricevere aiuti umanitari. Anche lui, come Raslan, il pesce più grosso finora preso, era a Berlino: passeggiava per Sonnenallee, «la via degli arabi» a Neukolln, e si sedeva a bere tè e fumare narghilè. Come se nulla fosse.
I post su Facebook di al-Bunni tengono informata la comunità siriana in esilio, e non solo, sui vari criminali di guerra che scorrazzano liberi per l’Europa. Wassim e Ruwaida li hanno letti per anni, e continuano a seguire quello che viene pubblicato sulla giornata campale che hanno appena vissuto. Entrambi si salutano mentre scendono dalle scale del tribunale stanchi, ma sollevati. Con un ultimo sguardo e un cenno della testa ognuno riparte per la sua strada. Wassim si avvia verso Berlino dove lo aspettano i suoi concerti, Ruwaida torna nella sua nuova patria in esilio, Parigi.
«Secondo le stime della Rete siriana per i diritti umani, almeno un milione di vittime di sparizioni forzate in Siria subisce ancora torture nelle carceri e in luoghi isolati, lontano da qualsiasi protezione legale, e molti dei responsabili di questi mattatoi umani si trovano al momento sul suolo europeo e conducono una vita normale», legge Ruwaida dal suo pc sul treno, ormai alle porte di Parigi, e pensa che è uno dei tanti rapporti sui diritti umani che emergono a commento della sentenza di Coblenza, mentre il mondo dimenticherà ancora una volta il suo Paese. Tranne chi come lei, le Families for Freedom, e tanti siriani, che chiedono quotidianamente Where are they?, «dove sono?».
Sempre loro, i prigionieri siriani.
Scossa da questi pensieri, Ruwaida apre finalmente la porta di casa. Nella sua stanza di pochi metri dove ci entra solo un letto e una scrivania, con cucina e bagno incorporati. Questa sera è meglio così, il materasso è più vicino alla porta, pensa, e ci si butta sopra sfinita. Quello studio è l’unico che si può permettere per vivere non distante dalla strategica metro di Stalingrad. Il mattino dopo si sveglierà, si allenerà nel francese che già un po’ mastica, e si metterà a sgobbare come sempre sul pc. Il suo lavoro da giornalista ha di buono che le consente di restare in contatto con donne siriane in tutti i continenti. E, naturalmente, anche in Siria.
Con la testa sul cuscino e gli occhi fissi al soffitto, ripensa alla giornata storica che ha appena vissuto a Coblenza, carica di tensione, e alla pelle d’oca che le è venuta nel sentire che i crimini di violenza sessuale e di violenza di genere sono stati inseriti nel verdetto tra la categoria di crimini contro l’umanità. Una battaglia degli avvocati che l’hanno seguita, ma che da sempre è stata anche la sua.
Improvvisamente la assale anche una strana dolcezza. Ricorda come poche ore prima aveva risposto a una giornalista che per l’ennesima volta le chiedeva come si sentisse di fronte alla sentenza. «Sento amore nei confronti delle persone presenti qua. Le persone che hanno condiviso questa causa, che hanno raccontato ai giudici tedeschi, verso i giornalisti e le giornaliste, chi ha denunciato, i testimoni, sento amore. Sento che amo il mondo. Non lo so perché».
CREDITI
Autrici
Marta Bellingreri
Costanza Spocci
Editing
Lorenzo Bagnoli