Il lungo cammino verso la giustizia dei siriani

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Il lungo cammino verso la giustizia dei siriani

Marta Bellingreri
Costanza Spocci

Nel 2022 in Germania un ex colonnello a capo di un’unità dell’intelligence siriana, Anwar Raslan, è stato condannato all’ergastolo per crimini contro l’umanità. Dietro il verdetto, possibile grazie alla diretta applicazione del principio di giurisdizione universale in materia penale previsto dal Codice tedesco dei crimini internazionali, c’è il lavoro immenso delle vittime della tortura in Siria e degli avvocati siriani e tedeschi che li hanno supportati. E mentre continuano processi in Germania e in Europa per crimini contro l’umanità commessi e ancora in corso in Siria, i loro protagonisti raccontano di una giornata storica, nel segno della giustizia internazionale, per tutte e per tutti.

La storia si scrive a Coblenza

Nel viaggio in treno da Parigi a Coblenza, con uno scalo a Colonia, Ruwaida Kanaan non riesce a capire i sentimenti che prova. «Ho paura, sono felice, sono triste. Tutto insieme», registra in un messaggio vocale a un’amica, a bassa voce, per non disturbare gli altri passeggeri. Tra i suoi tanti pensieri, uno domina sugli altri, mentre dal finestrino vede scorrere velocemente i paesaggi piatti e freddi al confine tra Francia e Germania. «Penso alle persone che non saranno con noi a Coblenza: se sono vivi, se sono stati uccisi, se sono spariti: non lo sappiamo».

Non potranno essere con lei gli altri prigionieri siriani, oltre centomila persone, sparite nelle carceri del suo Paese d’origine.

Attiviste, per lo più siriane, all’ingresso del tribunale per il processo all’ex colonnello siriano Anwar Raslan, condannato per crimini contro l’umanità – Foto: Alessio Mamo

La mattina dopo Ruwaida arriva di fronte la Corte di Coblenza con anticipo. È il 13 gennaio 2022. Ha una giacca pesante verde che si intona bene col cappello dello stesso colore. Dal cappello fuoriesce una cascata di trecce, dalle punte rosa acceso. Dal suo sguardo si capisce che non ha chiuso occhio tutta la notte. Sono quasi le sette, ma una fila di persone è in attesa di poter entrare fin dalle quattro del mattino. Hanno tutti cappotti e guanti e quando parlano si vede il fumo del freddo uscire dalle loro bocche. Sono rifugiati siriani giunti da Berlino, Londra, Beirut, e molte altre città, e si riabbracciano come degli amici che non si vedono da molto tempo.

Tra di loro molte donne, che appartengono alle Families for Freedom, l’insieme dei familiari delle persone scomparse nelle carceri del regime. Tra i loro manifesti, campeggia uno con le scritte più grandi: Where are they?, «Dove sono?». La stessa domanda che Ruwaida si faceva il giorno prima in treno.

Quando Ruwaida era stata a Coblenza, un anno addietro, era stata interrogata «dodici ore e quindici minuti – ricorda -. Con un’ora di pausa». Le hanno posto le domande in maniera così dettagliata che si era sentita come se fosse tornata in quella cella, a Damasco. «Sentivo di nuovo l’odore e le voci. In quel centro di detenzione, avevo un problema soprattutto con le voci». Urla degli aguzzini, mischiate a quelle delle loro vittime sotto tortura, contro cui inveivano.

Ruwaida Kanaan, vicino al tribunale di Coblenza dove Anwar Raslan è stato condannato all’ergastolo – Foto: Alessio Mamo

Ruwaida si riferisce al dipartimento 251 chiamato al-Khatib, a Damasco, dove ha passato tre giorni dei suoi dieci mesi di prigionia, nel 2013, il luogo dove gli attivisti politici venivano posti in stato di fermo per essere interrogati. La sentenza del 13 gennaio 2022 alla fine del processo di Coblenza è a carico del responsabile degli interrogatori dell’intelligence di quel dipartimento, che ritorna spesso nei suoi peggiori incubi, Anwar Raslan. È la prima volta al mondo che un alto ufficiale della sicurezza del regime siriano di Bashar al-Assad viene processato, mentre la dittatura vige ancora nel Paese distrutto da oltre dieci anni di conflitto.

Quando finalmente si può cominciare ad entrare in aula, non c’è posto per tutti, e per ascoltare la sentenza, molti si devono accomodare in una stanza separata, con degli altoparlanti da dove si sente chiara la voce della giudice Anne Kerber. Anche i giornalisti prendono appunti da quei banchi.

Ruwaida è dentro invece: in quanto persona offesa dai reati di cui Raslan è accusato, ha sporto denuncia insieme ad altri siriani al Procuratore generale federale tedesco, diventando così co-querelanti, motivo per cui si trovano tutti in prima fila. Al centro dell’ampia aula rettangolare, la giudice legge in piedi la sentenza in tedesco. Nel gabbiotto dei traduttori a sinistra, segue la traduzione in arabo. Dal lato opposto, l’imputato, Anwar Raslan, non batte ciglio.

Resta impassibile, anche quando viene confermato quello che l’accusa aveva chiesto: l’ergastolo per 27 omicidi e quattromila casi di tortura nel dipartimento 251 di al-Khatib.

La parola ergastolo comincia a risuonare nelle stanze con gli altoparlanti e fuori dalla corte. Le televisioni tedesche e internazionali si appostano di fronte alla Corte per le dirette in cui annunciano il verdetto. Le donne delle Families for Freedom corrono per avvicinarsi all’ingresso e subito espongono i loro cartelloni per la stampa. Molte hanno le lacrime agli occhi, come se quella sentenza stia per accendere una nuova speranza di avere notizie dei propri cari.

Mazen Darwish, avvocato siriano e attivista, parla con la stampa che ha assistito al processo di Coblenza – Foto: Alessio Mamo

Adesso, in fila fuori ci sono i giornalisti che vogliono intervistare un uomo basso, con un paio di occhi vispi e neri, i baffi Chevron e un’espressione beffarda che, combinata con la sua mise, ricorda un po’ Peter Falk ne Il tenente Colombo. Presto attorno a lui si crea un cerchio di microfoni di tutte le forme e di tutte le misure. È Anwar al-Bunni, noto avvocato siriano per i diritti umani, uno dei protagonisti assoluti della ricerca di verità e giustizia per le vittime del conflitto siriano.

«Una sentenza storica! La prima volta in assoluto che succede una cosa del genere – commenta con entusiasmo e con il suo sguardo acceso, intenso -. Perché non è solo un uomo condannato, ma si stabilisce la sistematicità e la continuità di questa violenza di regime, i suoi servizi di sicurezza, tutto un sistema dittatoriale e repressivo di potere».

Qualche mese prima, nel suo ufficio a Berlino, su un foglio strappato dall’agenda, aveva disegnato la piramide dei servizi di sicurezza a cui apparteneva Raslan, al vertice del quale c’era il presidente, Bashar al-Assad.

Mentre le sue parole rimbalzano in tutte le agenzie di stampa, radio e tv internazionali, Ruwaida dentro l’aula non si è mossa. Con i termosifoni accesi al massimo nel mese di gennaio, ha tolto cappello e cappotto verdi dentro la Corte, ma sono le sue treccine con le punte colorate a segnalare sempre la sua presenza in aula. Dopo la pronuncia della sentenza, è iniziata la lettura delle motivazioni. La giudice Kerber comincia a descrivere il regime siriano fin dagli esordi negli anni Sessanta, passando per la presa di potere di Hafez al-Assad nel 1970 e i massacri degli anni Ottanta, la successione del figlio Bashar al-Assad nel 2000 e la continua repressione, dalla Primavera di Damasco nel 2005 fino alla rivoluzione del 2011.

Ruwaida ascolta la storia del suo Paese, pronunciata dalla giudice tedesca, la cui voce asettica riecheggia dagli altoparlanti: i crimini commessi da Assad padre e Assad figlio, il funzionamento dei dipartimenti della sicurezza e delle prigioni. Nel frattempo l’imputato Anwar Raslan prende appunti senza tregua. «Sembra che non abbia mai lasciato il suo posto. Scrive, annota, non alza lo sguardo: come quando ci interrogava, a Damasco», commenta Ruwaida. Ha bisogno di ricordare anche la storia dell’imputato, per rendersi conto perché quel suo connazionale sia arrivato a essere condannato all’ergastolo. Se non fosse stato per il massacro nella sua città di origine in Siria, Houla, e le pressioni conseguenti, sostiene Ruwaida, Anwar Raslan non avrebbe mai lasciato la sua posizione, il suo potere, il privilegio guadagnato nella scala dei servizi di sicurezza siriani.

«E lo scatto di carriera nel nostro Paese corrotto, spesso lo si fa proprio così, eseguendo gli ordini e torturando e terrorizzando quante più persone possibili», dice Ruwaida, con un tono di voce più sostenuto e infervorato del solito. «Soprattutto noi», aggiunge, riferendosi agli attivisti civili della rivoluzione siriana. Era quella che dal centro del potere volevano più di tutto schiacciare.

Prima della rivoluzione in Siria nel 2011, una serie di proteste antigovernative seguite all’evolversi della primavera araba tra Tunisia, Egitto, Libia, Yemen, tra gli altri Paesi, Ruwaida era un’insegnante di matematica. E come molti dei siriani in quei mesi tra gennaio, febbraio e marzo del 2011, neanche lei pensava che un movimento di popolo come quello che stava facendo sognare tutto il mondo arabo dalla piazza Tahrir del Cairo, fosse possibile.

«Vivevo l’oppressione della Siria ogni giorno nel mio contesto, a scuola, nella mia cittadina di origine, Zabadani, nella campagna vicino Damasco. Ma come trasformare la comune frustrazione in rivoluzione?». Dopo le prime timide e meno timide presenze in piazza, Ruwaida decide di unirsi e partecipare, per contribuire a creare quel movimento. «Organizzavamo le manifestazioni, facevamo scritte sui muri, ho cominciato a lavorare in radio. Qualche mese dopo, mi hanno licenziata da scuola».

Il licenziamento non arriva dopo le proteste, ma dopo il primo arresto, di solo tre giorni, in cui matura intanto in lei la decisione di pensare la rivoluzione in maniera ancora più strutturata. Per questo Ruwaida prende a far parte del Movimento per una Siria libera e democratica, un raggruppamento politico contrario alla violenza e che voleva soprattutto riflettere e lavorare sul futuro della Siria, a partire dall’impegno della società civile nato durante la rivoluzione. Puntuale, arriva il secondo arresto: questa volta viene prelevata da casa, all’una di notte, e mentre circa trenta militari mettono sottosopra la sua abitazione, oltre a lei vengono prelevate le due sorelle e un fratello. Una volta scarcerata, Ruwaida è costretta a lasciare anche la militanza politica. La situazione si aggrava: con l’aumentare degli sfollati, dei morti e dei feriti, è l’aspetto umanitario che deve essere privilegiato.

«A me interessava la politica, capire come potevamo organizzarci per un futuro democratico, ma c’erano assedi, bombardamenti, troppe urgenze. E lì che allora ho cominciato a fare la giornalista per una radio indipendente, Radio Rozana».

Un’attivista di Families for Freedom venuta dal Libano a Coblenza per assistere al processo contro l’ex colonnello siriano Anwar Raslan, accusato e condannato per crimini contro l’umanità – Foto: Alessio Mamo

Il terzo arresto è quello più lungo: viene presa per strada con il giubbotto con la scritta press, scambiata per una di Al-Jazeera, giornalisti che venivano regolarmente posti sotto pressione delle forze di sicurezza a causa del supporto del canale qatariota ai movimenti di protesta sorti in tutta la regione. Per dieci mesi, non ha più visto la luce del sole ed è stata spostata in diverse prigioni. «Quando sono uscita dal carcere per la terza volta, ho capito che la mia presenza nel Paese non era solo pericolosa per me, ma anche per le persone attorno a me. I miei amici hanno smesso di parlarmi perché avevano paura che li potessero arrestare. I miei parenti, le mie sorelle, avevano paura della mia presenza con loro, e io? Io avevo paura di stare con loro perché potevo metterli in pericolo!».

Dei dieci mesi, sono quei tre giorni nel dipartimento di Anwar Raslan che hanno fatto sì che Ruwaida si possa essere seduta in una corte nella cittadina tedesca di Coblenza, dopo aver ottenuto asilo politico in Francia. Da quando ha lasciato la Siria, dopo un passaggio in Turchia, occuparsi di giustizia per i siriani è diventato il suo obiettivo principale. «Mi sono interessata alla causa dei prigionieri siriani, e in particolare le prigioniere perché ho visto coi miei occhi e vissuto sulla mia pelle. Non è solo violenza politica o violenza securitaria, no. C’è una violenza sociale specifica pensata dai servizi segreti contro le donne prigioniere. Mirano a distruggere la nostra psiche, per sempre». Ma in tutti questi anni lei ha provato a resistervi, ed è per questo che è diventata co-querelante al primo grande processo contro il regime di Assad, supportata dagli avvocati e le avvocate siriani e tedeschi che hanno messo insieme le loro prove e testimonianze.

Mentre trascorre la lettura delle motivazioni della sentenza, fuori la Corte continua il viavai di persone: chi ha fatto pausa in uno dei café vicino, chi ha approfittato del raro sole tedesco di gennaio per fare una passeggiata sul lungo Reno, chi registra e invia clip audio per i radiogiornali. Nessuno però osa allontanarsi troppo dal tribunale, pur intuendo che potrebbe durare ancora diverse ore. «A che punto sono?», grida ad un tratto un uomo rivolgendosi all’avvocato Anwar al-Bunni. «Eh, sono ancora al 2011!», replica con il tono di chi sa che il peggio del racconto deve ancora arrivare. La seconda parte della lettura delle motivazioni è infatti dedicata ai crimini che ha compiuto nello specifico Anwar Raslan tra il 2011 e il 2012, prima di pretendere di disertare e cercare di unirsi all’opposizione, raggiungendo così la Germania. Passano altre ore.

E così arriva la terza e ultima parte della lettura della sentenza del processo di Coblenza.

Nonostante le due pause, a Ruwaida sembra di stare lì da sempre, come il giorno in cui aveva deposto la sua testimonianza. La terza parte riguarda loro, i querelanti: la giudice Anne Kerber rilegge per filo e per segno quello che hanno vissuto e raccontato. Sono a un passo dalla fine, ma è il momento più difficile per la mente di Ruwaida: sente attorno a sé la sua stessa sofferenza.

«Ascoltare da una persona estranea le violenze che hai vissuto e nel frattempo sentire le persone accanto a te stare male, tanto quanto te, è davvero difficile». In quelle lunghe ore, Anwar Raslan ha continuato ad apparire tranquillo. Da dietro il suo gabbiotto, al contrario che per i querelanti, le ore sembrano non essere state così lunghe. Del resto, lui, è abituato: ricurvo su un quadernino, trascrive con zelo da stenografo gli abusi che lui stesso ha comandato. «Nel sistema di sicurezza siriano, gli agenti sono formati per non esprimere mai quello che provano o esprimere tutto il contrario», si ricorda di aver sentito dire da Anwar al-Bunni. Ruwaida non smette di osservarlo e qualcosa di lui ha colto. Qualcosa che l’ha turbata.

«Ci guardava dall’alto in basso come a dire “ma chi siete voi?” e scriveva, scriveva. Per un attimo ha anche sorriso, quasi a sbeffeggiarci. Come se non fosse mai uscito dalla Siria».

Wassim Mukdad, suonatore di oud e insegnante siriano, vive a Berlino con la fidanzata Jenny. È uno dei testimoni chiave del processo di Coblenza – Foto: Alessio Mamo

Il timbro di voce

A pochi metri da Ruwaida, tra i co-querelanti seduti in prima fila, spunta la testa di un uomo con lunghi riccioli neri tirati a lucido con il gel. Wassim Mukdad, 38 anni, respira pesante dentro una camicia bianca e un gilet nero un po’ stretto in pancia. Rispetto ai tanti presenti in aula, sfiniti da ore di lettura, non si è abbandonato allo schienale, ma è tutto proteso verso la giudice Kerber che legge le parole della sua deposizione.

«Quando siamo arrivati ad al-Khatib le guardie ci hanno fatto la “festa di benvenuto”, ci hanno spogliati e picchiati. Poi mi hanno messo in una cella di 22 metri quadri. Dentro eravamo 87 persone. Non avevamo abbastanza spazio per dormire tutti insieme, così alcuni stavano in piedi tutta la notte. La luce era sempre accesa… ricordo che una sera la nostra cena è stata di sette olive».

I muscoli del collo di Wassim si irrigidiscono, mentre con la mente ritorna al settembre 2011 quando si trovava con altri due amici a Duma, nella Ghouta orientale, vicino Damasco. Era un venerdì e i tre si stavano recando a una protesta, ma data la forte presenza dell’esercito nelle strade ancora non si vedeva l’ombra di un corteo. D’improvviso le forze di sicurezza erano apparse come un nugolo di zanzare ed erano balzate su di loro, per caricarli sulle camionette della polizia.

Come Ruwaida, anche Wassim era stato diverse volte a Coblenza per deporre. Ogni volta il trauma lo risucchiava e lo catapultava di nuovo nella stanza delle torture di al-Khatib. L’idea che deporre potesse contribuire all’ergastolo di Raslan, però, rendeva il dolore e la fatica di ricordare più sopportabili.

«Condividere la mia storia in un tribunale dà un senso a quello che è successo, perché ogni parola detta è un documento per la Storia». Wassim lo aveva detto una mattina a colazione a Jenny, la ragazza con cui aveva da poco comprato casa a Berlino. Era l’estate prima del processo. Lei tagliava a fette spesse il gibna – il formaggio siriano – con le sue mani trasparenti e lui preparava le omelette per colazione. Si erano innamorati pochi anni prima grazie alla musica. Jenny, una ragazza bionda di trent’anni, robusta e originaria del sud della Germania, aveva sentito Wassim suonare l’oud, il liuto mediorientale, durante un ritiro del suo coro ed era rimasta incantata dalle «sue meravigliose melodie malinconiche». Lui aveva condiviso con lei la sua musica e poco per volta le aveva narrato come dal sud della Turchia, dove era fuggito qualche anno dopo l’inizio della rivoluzione, era riuscito a sopravvivere all’odissea per arrivare a Berlino.

Le aveva raccontato anche delle rivolte in Siria, dell’euforia di piazza e delle speranze di rovesciare Bashar al-Assad durante le manifestazioni a Damasco, dove aveva concluso da poco i suoi studi in medicina e già faceva i suoi primi concerti. Quando Assad aveva deciso di reprimere la rivolta siriana nel sangue, Wassim e la sua ex-compagna neo-laureata in farmacia avevano abbandonato la loro quotidianità e in breve tempo avevano formato un gruppo di attivisti che facevano entrare medicinali, vaccini e sacche di sangue nella Ghouta orientale assediata dalle Forze armate siriane.

Wafa Mustafa, nota attivista siriana, è una rifugiata in Germania. Suo padre, l’uomo nella foto che tiene in mano, è stato rapito dal regime siriano – Foto: Alessio Mamo

Anni dopo, seduto sul divano grigio nella loro casa di Reinickendorf a Berlino, Wassim aveva trovato il coraggio di dire a Jenny di quando era stato arrestato per ben tre volte tra il 2011 e il 2013, due dal regime e una dal ramo siriano di al-Qaeda. «Ci sono molte corrispondenze tra la prigionia di al-Qaeda e il regime, ma i luoghi di detenzione sono completamente diversi», aveva detto Wassim a Jenny. I jihadisti lo avevano rapito perché era cristiano: non avevano interesse a torturarlo, l’avrebbero ucciso direttamente. Una serie di circostanze gli avevano però salvato la vita: il suo lavoro come dottore all’ospedale di Yarmouk, il campo palestinese di Damasco sotto assedio nel 2013, gli scioperi dei suoi colleghi e un paio di consigli medici che aveva dispensato ai suoi aguzzini. Al-Qaeda così aveva aperto la porta di quella che era stata la stanza dei bambini sconosciuti, diventata poi una cella in una casa abbandonata, e lo aveva lasciato andare.

Il regime invece non aveva celle improvvisate. Le forze di sicurezza avevano imprigionato Wassim in un centro pensato apposta per estorcergli informazioni con la forza: il posto si chiamava al-Khatib, ed era stato concepito con l’esplicito intento di torturare Wassim e persone come lui, finché non avessero sputato fuori liste di nomi di oppositori, al costo di far perdere loro conoscenza o ammazzarli di botte, aveva raccontato Wassim rabbrividendo.

Manifestazione a Berlino davanti alla Porta di Brandeburgo per ricordare tutte le persone imprigionate dal regime siriano di cui si sono perse le tracce- Foto: Alessio Mamo

Nel vortice dei ricordi, racconta Wassim, un pilastro è sempre rimasto fermo. «Essere un musicista mi ha aiutato», dice, perché «la musica è un modo molto simbolico di esprimere le emozioni». Far vibrare le corde dell’oud aiuta a curare le cicatrici dell’anima: «I ricordi dell’infanzia, della guerra, della detenzione, le preoccupazioni per il futuro» risuonano «mescolate a nuove armonie di speranza».

L’orecchio da musicista di Wassim poi, negli anni, si è rivelato uno strumento potente non solo per lui, ma anche per tutti i co-querelanti seduti in aula a Coblenza. Durante gli interrogatori ad al-Khatib Wassim infatti era legato e bendato e non era mai riuscito a vedere i suoi torturatori in volto. Però la voce dell’uomo che aveva ordinato agli altri di torturarlo, quella sì che se l’era scolpita in mente. Il timbro, che allora non sapeva essere di Anwar Raslan, sarebbe stato per sempre inconfondibile e per anni, giorno e notte, gli sarebbe risuonato in testa. Una decade dopo, Wassim, dal banco dei querelanti in tribunale, guarda l’ufficiale responsabile delle sue torture inchiodato alla sedia, vestito da detenuto, e obbligato ad ascoltare la sua storia in attesa di essere riportato, lui questa volta, dietro le sbarre.

A Coblenza le vittime impugnano la giurisdizione universale

Mentre in aula si scrive la Storia, nei corridoi del tribunale gli avvocati e i membri del Centro europeo per i diritti umani e costituzionali (ECCHR) macinano chilometri avanti e indietro per emettere comunicati stampa sull’andamento del processo. Patrick Kroker aspettava questo giorno da quando nel 2015 ha iniziato a lavorare sul dossier Siria nel programma Crimini e responsabilità internazionali di ECCHR.

Sistemandosi gli occhiali sul naso, si avvicina a grandi passi verso l’uscita. La toga nera da avvocato gli svolazza intorno mentre esce nell’aria gelida di Coblenza e si dirige anche lui verso le telecamere. «Il verdetto non ci sorprende, le prove erano così convincenti e credibili che potevamo sperare in un ergastolo», dichiara Kroker, che ha rappresentato i querelanti dopo che per anni ha incontrato i siriani arrivati in Europa, condividendo con i pubblici ministeri le loro testimonianze sulla detenzione. Accanto a Kroker c’è un uomo più attempato che segue le sue parole e annuisce. È Wolfgang Kaleck, 62 anni, avvocato che nel 2007 ha fondato ECCHR a Berlino con l’intento di portare davanti alla giustizia l’ex Segretario alla Difesa degli Stati Uniti Donald Rumsfeld per le torture ad Abu Ghraib in Iraq e nella prigione di Guantanamo. Allora nessun funzionario statunitense era finito in un’aula di tribunale tedesca, ma nel frattempo ECCHR è cresciuta e oggi dà la caccia ai criminali di guerra impugnando un fondamento chiave del diritto internazionale: la giurisdizione universale.

Si tratta di un principio secondo cui un Paese terzo può perseguire crimini di guerra, genocidi e crimini contro l’umanità che sono stati commessi al di fuori del suo territorio. «In altre parole, chi si macchia di questi crimini non dovrebbe poter trovare alcun rifugio in Paesi terzi – spiega Kroker alla stampa – e poiché la Germania accetta nella sua legislazione il principio cooperativo di giurisdizione universale, e poiché l’accusato viveva in Germania al momento dell’arresto, è stato possibile portarlo a processo e condannarlo».

Le origini della giurisdizione universale risalgono al concetto settecentesco di protezione dei beni il cui danno avrebbe colpito l’intera umanità, a partire dagli attacchi di pirateria, evolvendosi dopo la Seconda guerra mondiale in Germania con i processi e la Carta di Norimberga del 1945. Il processo di Coblenza del 13 gennaio 2022 segna un’altra pietra miliare nella giustizia internazionale, non solo per la condanna a Raslan, ma anche perché il processo non è iniziato per volontà di uno Stato, bensì delle vittime dei crimini contro l’umanità.

Anwar al-Bunni controlla sul suo cellulare le immagini di detenuti siriani torturati dagli agenti di sicurezza. Le immagini scattate tra maggio 2011 e agosto 2013 appartengono a un fascicolo che prende il nome in codice di Caesar, ex-dipendente della polizia militare siriana – Foto: Alessio Mamo

«Per la prima volta alla sbarra non è finito un regime caduto in disgrazia, ma un governo che è ancora al potere», dice Anwar al-Bunni ai presenti fuori dal tribunale, tenendo ancora banco nonostante il freddo. L’euforia e le nuvole di fumo sbuffate dalle sigarette che fuma a catena gli bastano per scaldarsi.

Al-Bunni, diversi mesi prima, nel suo studio di Berlino, aveva detto chiaramente che non credeva che la vittoria in un processo come quello di Coblenza avrebbe chiuso la questione delle violazioni dei diritti umani in Siria. Però, sosteneva, sarebbe stato un tassello: il primo atto per confermare la sistematicità delle torture e delle uccisioni degli oppositori da parte del governo siriano.

Pur non essendo un testimone diretto per le accuse mosse a Raslan nel periodo 2011-2013, al-Bunni, noto avvocato in patria, è l’uomo chiave del processo di Coblenza. Nato ad Hama sessantaquattro anni fa, al-Bunni in esilio ha continuato a lavorare ogni giorno, dalla stanzetta del Centro siriano di studi e ricerca legali a Berlino, con la stessa intensità con cui l’ha fatto nei trent’anni precedenti a Damasco. Insieme all’avvocato tedesco Kroker di ECCHR, al-Bunni ha studiato i file originali di Caesar: migliaia di foto di cadaveri nelle strutture di detenzione del governo siriano alcune delle quali scattate nel dipartimento 251 da un ex-dipendente della polizia militare siriana, nome in codice Caesar, tra maggio 2011 e agosto 2013. Entrambi gli avvocati speravano di riuscire a presentare una denuncia ai procuratori tedeschi contro alcune figure chiave del regime.

I documenti di Caesar fornivano le prove di gravi crimini commessi in specifiche strutture dei servizi di intelligence siriani: si trattava di migliaia di foto di cadaveri nelle strutture di detenzione del governo siriano, in alta definizione, molte contenenti metadati. Ma servivano le testimonianze per comprovarle.

Così dal 2017 al-Bunni, insieme a due collaboratori, ha lavorato senza sosta per raccogliere ex clienti o persone che avessero subito abusi in quelle stanze e in quello specifico periodo di tempo. Grazie al suo lavoro negli anni a Damasco e grazie al passaparola tra siriani, al-Bunni ha ascoltato le testimonianze di decine e decine di vittime delle prigioni della tortura siriana. Molte hanno deciso di testimoniare a Coblenza, dove alcune hanno deciso di farsi parte querelante, tante continuano a raccontare esperienze preziose per nuovi processi in corso.

Anwar vs Anwar

Anwar al-Bunni è stato lui stesso prigioniero politico e vittima di tortura. Era il 2006 quando un gruppo dei servizi segreti l’aveva rapito di fronte a casa mentre stava salendo in macchina, racconta. Diversi uomini l’avevano bendato e messo a terra tra i sedili, poi si erano seduti sopra di lui mentre lui gridava «Che succede?». Un uomo gli aveva risposto beffardo: «Come, non sai quello che hai fatto, criminale?». Era Anwar Raslan, il capo del dipartimento in cui sarebbe finito di lì a poco. Durante l’interrogatorio, quello stesso uomo gli aveva detto con ironia: «Allora Anwar al-Bunni, com’è questa storia dei diritti umani in Siria?». L’avvocato siriano gli aveva però risposto ridendo: «I diritti umani non esistono in Siria, e il modo in cui sto qui, adesso, di fronte a voi ne è proprio la prova», al che Raslan aveva intimato ai suoi sottoposti di ricominciare con le botte.

Il giorno dopo, quando le guardie avevano portato al-Bunni in tribunale per convalidare l’arresto, gli avevano finalmente tolto la benda. In quel momento Anwar al-Bunni aveva per la prima volta visto il volto del suo omonimo, l’allora tenente colonnello Anwar Raslan. «Quella è l’unica volta in cui l’ho visto in Siria», aveva raccontato al-Bunni un pomeriggio di luglio nel suo ufficio, sempre circondato dalla nebbia delle sue sigarette.

Anwar al-Bunni aveva rivisto la luce del cielo della sua Damasco solo cinque anni dopo, nel 2011, giusto in tempo per assaporare i primi mesi di rivolta. Minacciato ancora una volta dal mukhabarat, i servizi di intelligence siriani, si era visto costretto a fuggire dal Paese. Era successo il giorno in cui avevano arrestato il fratello, scambiandolo per lui: lì aveva capito che era tempo di partire.

Anwar al-Bunni, avvocato siriano per i diritti umani che vive a Berlino. Ogni giorno, dal suo ufficio, ascolta le voci di decine di testimoni per intentare cause contro i criminali di guerra siriani in Germania – Foto: Alessio Mamo

Così, dopo una prima tappa in Libano, nel 2014 era volato in Germania. Una mattina, qualche mese dopo il suo arrivo a Berlino, era entrato nel negozietto del campo profughi che accoglieva lui e la sua famiglia per comprare, guarda caso, le sigarette. Mentre si dirigeva alla cassa aveva sentito uno sguardo insistente su di lui. Si era voltato e per qualche secondo aveva incrociato lo sguardo di un uomo che lo fissava intensamente. Chi diavolo era? Quell’uomo, intuiva al-Bunni, l’aveva riconosciuto, ma lui no. I due senza parlarsi né salutarsi si erano poi allontanati, ognuno per la propria strada.

Alcune settimane dopo, mentre prendeva un caffè e si fumava una sigaretta in compagnia, un vecchio amico di Damasco gli aveva detto di aver intravisto un ufficiale del regime camminare nel campo tra gli altri profughi siriani. «Ecco chi era, Anwar Raslan – aveva esclamato al-Bunni – è lui che ho incontrato per strada!».

Neanche a farlo apposta, un anno dopo Anwar aveva incrociato l’altro Anwar a Bauhaus, il corrispettivo tedesco del Brico. Entrambi erano con le rispettive mogli. Al-Bunni era sulle scale mobili e stava maneggiando dei tubi che voleva comprare per sistemare la cucina nuova della casa della figlia, quando d’un tratto aveva visto Raslan, e si era congelato. «Nemmeno qui siamo al sicuro», aveva pensato, cambiando velocemente percorso. Anwar Raslan come lui aveva studiato giurisprudenza, ma aveva deciso di mettere le sue competenze al servizio del regime dirigendo un ramo dei servizi segreti. Anwar al-Bunni invece da sempre era stato dall’altro lato della barricata.

«Non provo nessuna rabbia né desiderio di vendetta verso quell’uomo», aveva detto poi alla moglie. Non cercava un duello. L’unica battaglia che gli interessava era una battaglia legale, combattuta in quanto avvocato e difensore dei diritti umani, perché Anwar al-Bunni aveva una missione più grande, diceva: avere giustizia per tutti i siriani. Ed era sicuro che prima o poi ci sarebbe riuscito.

Anwar al-Bunni nel suo ufficio insieme al giovane studente di legge Amjad, che collabora con lui nella raccolta delle testimonianze delle vittime siriane e nella preparazione dei fascicoli per la denuncia dei criminali di guerra – Foto: Alessio Mamo

Questa certezza per anni è stata la linfa che gli ha permesso di lanciarsi in lunghe giornate e notti di lavoro senza risparmiarsi. Finché nel 2017, per la prima volta, viene fuori il nome di Raslan durante un’intervista a una vittima siriana in Svezia. Anwar al-Bunni in quel momento era insieme all’avvocato di ECCHR Patrick Kroker. «L’ho visto a Berlino», aveva detto al-Bunni a fine intervista a un incredulo Kroker, e gli aveva raccontato l’episodio di Bauhaus. Kroker era corso a controllare: Anwar Raslan si era palesato ai servizi segreti tedeschi presentandosi come un disertore del regime, dopo aver riconosciuto di essere stato un dirigente di al-Khatib, il famigerato dipartimento 251. L’ufficiale sosteneva di essersi trasferito in Giordania dopo un apparente disaccordo con il regime: a Houla, la sua città natale, nel maggio del 2012 l’esercito siriano aveva compiuto un massacro uccidendo centinaia di persone, inclusi suoi amici e familiari.

Dalla Giordania era entrato in contatto con figure dell’opposizione in esilio in Germania, e aveva chiesto aiuto a un ex parlamentare anti-regime per poter arrivare in tutta sicurezza a Berlino. In cambio, aveva garantito Raslan, avrebbe fornito importanti informazioni su detenuti politici scomparsi e anche sul regime stesso. Una volta arrivato in Germania, però, Raslan non aveva mantenuto la promessa e si era rifiutato di dare informazioni, sollevando sospetti sulla sua presunta diserzione. Secondo alcuni legali e attivisti, primo fra tutti al-Bunni, Raslan poteva essere arrivato in Germania con lo specifico scopo di spiare gli esiliati per conto del regime.

Nell’ottobre 2019 Anwar Raslan è stato incriminato con l’accusa di crimini contro l’umanità, insieme a un altro sedicente disertore, un sottufficiale che lavorava nel dipartimento 251, Eyad al-Gharib. Dopo un patteggiamento e la decisione di collaborare all’inchiesta contro Raslan, al-Gharib si era preso quattro anni di pena detentiva.

L’entrata del tribunale è di nuovo affollata di gente, la giudice ha finito di leggere le motivazioni della sentenza e le donne delle Families for Freedom riappaiono con i loro cartelli, per ringraziare al-Bunni e Kroker. Finalmente liberi dai giornalisti, i due avvocati si incrociano per la prima volta nella giornata e si lanciano in un abbraccio forte, che dura diversi secondi. Entrambi sono visibilmente commossi.

Anwar al-Bunni si gira e facendo finta di tirare un bel calcio con un gesto teatrale, esclama: «Come siriani, pensavamo che la porta della giustizia fosse completamente chiusa per noi. Ora non solo abbiamo aperto quella porta, ma l’abbiamo spalancata! E questo è solo l’inizio!».

Ritorno a casa

Neanche una settimana dalla sentenza di Coblenza, nella vicina Francoforte, partirà il processo a carico di un medico siriano che anziché curare i feriti delle proteste in Siria, li torturava fino a causarne la morte nell’ospedale militare Mezzeh n. 601 a Damasco, cosa che negherà al processo dove dirà di essere lui il perseguitato in quanto cristiano. I rifugiati siriani parenti delle vittime lo avevano riconosciuto in una clinica vicino Kassel. Secondo ECCHR le prove portate a processo contro Alaa M., il nome in codice del medico, dimostrerebbero come le violenze sistematiche del regime di Damasco non avvengano solo nei luoghi di detenzione e come gli ospedali militari siano un importante anello della catena del sistema di punizione e di tortura degli oppositori.

Sei mesi dopo, a fine agosto 2022, cominceranno le udienze del terzo processo in Germania, a Berlino. Questa volta sarà il turno di un miliziano palestinese-siriano, accusato di crimini contro l’umanità per aver lanciato un missile contro civili che erano in fila per ricevere aiuti umanitari. Anche lui, come Raslan, il pesce più grosso finora preso, era a Berlino: passeggiava per Sonnenallee, «la via degli arabi» a Neukolln, e si sedeva a bere tè e fumare narghilè. Come se nulla fosse.

I post su Facebook di al-Bunni tengono informata la comunità siriana in esilio, e non solo, sui vari criminali di guerra che scorrazzano liberi per l’Europa. Wassim e Ruwaida li hanno letti per anni, e continuano a seguire quello che viene pubblicato sulla giornata campale che hanno appena vissuto. Entrambi si salutano mentre scendono dalle scale del tribunale stanchi, ma sollevati. Con un ultimo sguardo e un cenno della testa ognuno riparte per la sua strada. Wassim si avvia verso Berlino dove lo aspettano i suoi concerti, Ruwaida torna nella sua nuova patria in esilio, Parigi.

«Secondo le stime della Rete siriana per i diritti umani, almeno un milione di vittime di sparizioni forzate in Siria subisce ancora torture nelle carceri e in luoghi isolati, lontano da qualsiasi protezione legale, e molti dei responsabili di questi mattatoi umani si trovano al momento sul suolo europeo e conducono una vita normale», legge Ruwaida dal suo pc sul treno, ormai alle porte di Parigi, e pensa che è uno dei tanti rapporti sui diritti umani che emergono a commento della sentenza di Coblenza, mentre il mondo dimenticherà ancora una volta il suo Paese. Tranne chi come lei, le Families for Freedom, e tanti siriani, che chiedono quotidianamente Where are they?, «dove sono?».

Sempre loro, i prigionieri siriani.

Cittadini siriani manifestano in centro a Berlino per ricordare le vittime delle carceri siriane nei giorni del processo di Coblenza – Foto: Alessio Mamo

Scossa da questi pensieri, Ruwaida apre finalmente la porta di casa. Nella sua stanza di pochi metri dove ci entra solo un letto e una scrivania, con cucina e bagno incorporati. Questa sera è meglio così, il materasso è più vicino alla porta, pensa, e ci si butta sopra sfinita. Quello studio è l’unico che si può permettere per vivere non distante dalla strategica metro di Stalingrad. Il mattino dopo si sveglierà, si allenerà nel francese che già un po’ mastica, e si metterà a sgobbare come sempre sul pc. Il suo lavoro da giornalista ha di buono che le consente di restare in contatto con donne siriane in tutti i continenti. E, naturalmente, anche in Siria.

Con la testa sul cuscino e gli occhi fissi al soffitto, ripensa alla giornata storica che ha appena vissuto a Coblenza, carica di tensione, e alla pelle d’oca che le è venuta nel sentire che i crimini di violenza sessuale e di violenza di genere sono stati inseriti nel verdetto tra la categoria di crimini contro l’umanità. Una battaglia degli avvocati che l’hanno seguita, ma che da sempre è stata anche la sua.

Improvvisamente la assale anche una strana dolcezza. Ricorda come poche ore prima aveva risposto a una giornalista che per l’ennesima volta le chiedeva come si sentisse di fronte alla sentenza. «Sento amore nei confronti delle persone presenti qua. Le persone che hanno condiviso questa causa, che hanno raccontato ai giudici tedeschi, verso i giornalisti e le giornaliste, chi ha denunciato, i testimoni, sento amore. Sento che amo il mondo. Non lo so perché».

CREDITI

Autrici

Marta Bellingreri
Costanza Spocci

Editing

Lorenzo Bagnoli

Video editing

Lorenzo Bodrero

Foto di copertina

Alessio Mamo

Professione: cacciatori di dittatori

#GiudiziUniversali

Professione: cacciatori di dittatori

Marta Bellingreri
Costanza Spocci

Venti uomini vestiti in arancione inginocchiati a terra sono bendati. Indossano tutti dei paraorecchi, come quelli utilizzati nei poligoni di tiro, e sono disposti in due file da dieci con i capi rivolti verso una rete col filo spinato. In mezzo a loro c’è un corridoio dove camminano due militari. Sui fianchi, al di là delle gabbie, altri militari guardano i detenuti, ammanettati e inermi. La foto è stata scattata l’11 gennaio 2002 nella prigione militare americana di Guantanamo Bay, a Cuba. Dietro l’obiettivo c’è Shane T. McCoy, fotografo della Marina degli Stati Uniti, che ha fatto questo e altri scatti su incarico del Dipartimento della Difesa Usa con lo scopo di documentare le attività del Ministero.

McCoy all’epoca non aveva idea che questa sarebbe diventata una delle foto più celebri del XXI secolo, e nemmeno che avrebbe segnato l’inizio di uno scandalo devastante per l’amministrazione di George W. Bush e le sue politiche di detenzione negli Stati Uniti.

L'inchiesta in breve
  • Nella giustizia internazionale vengono applicati dei doppi standard così come è evidente dai crimini degli Stati Uniti d’America compiuti a Guantanamo e in Iraq rimasti impuniti. Alcuni avvocati però hanno provato a perseguire legalmente l’ex Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, l’ex Direttore della CIA George Tenet e diversi militari di alto livello, denunciandoli in Germania per tortura, grazie al principio della giurisidzione universale
  • Il caso Rumsfeld nasce dall’euforia seguita all’arresto, seppure breve, del dittatore cileno Pinochet dopo il quale avvocati come l’americano Reed Brody e il tedesco Wolfgang Kaleck si sono messi a mappare possibili casi di crimini di massa da poter perseguire con il supporto della giurisdizione universale
  • Il non successo del caso Rumsfeld mostra che senza la volontà politica degli Stati non si può ottenere giustizia
  • Nonostante gli insuccessi legati ai doppi standard, a Dakar in Senegal, in una lunghissima battaglia portata avanti dalle vittime della dittatura di Hissène Habré, verrà condannato l’ex dittatore ciadiano
  • L’applicazione della giurisdizione universale in un Paese africano, il Senegal, mostra come questo principio universale sia fondamentale per la giustizia contro i crimini di massa atroci e così come il precedente Pinochet aveva ispirato le vittime ciadiane, loro hanno ispirato tanti altri Paesi, come il Gambia contro l’ex dittatore Jammeh

Non un avvocato qualunque

Erano i primi mesi del 2002. In Afghanistan e Pakistan alcuni alleati locali degli Stati Uniti avevano raccolto centinaia di sospetti combattenti stranieri e membri di al-Qaeda consegnandoli alle forze statunitensi. In tutto 780 detenuti erano arrivati a Guantanamo. All’epoca la CIA non aveva ancora creato la sua rete di prigioni segrete, ma era solo questione di tempo.

Dal suo studio di Berlino, mentre la pioggia scroscia contro le finestre, Wolfgang Kaleck ricorda quando ha ricevuto la chiamata da New York che ha cambiato il corso della sua carriera. Era il Center for Constitutional Rights (CCR), un’organizzazione di difesa legale di New York fondata dal suo mentore, l’avvocato statunitense Michael Ratner. C’era una legge del 2002 che permetteva l’applicazione della giurisdizione universale ai tribunali tedeschi, gli aveva detto Ratner, e lui e il suo centro credevano che Kaleck fosse l’uomo adatto a un’impresa che si prospettava molto complicata: perseguire alti esponenti del governo degli Stati Uniti, dell’esercito e dei servizi di intelligence per torture e crimini contro l’umanità.

Torture a Guantanamo

Esattamente un mese dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, l’allora presidente degli Stati Uniti George W. Bush, pronuncia il discorso che inaugurerà due decenni di “guerra al terrore” su scala globale: «L’attacco è avvenuto sul suolo americano, ma è stato un attacco al cuore e all’anima del mondo civilizzato. Il mondo si è unito per combattere una guerra nuova e diversa, la prima, e speriamo l’unica, del XXI secolo. Una guerra contro tutti coloro che cercano di esportare il terrore e una guerra contro i governi che li sostengono o li ospitano».

Il piano di Bush per scovare e fermare terroristi in tutto il mondo prevede non solo l’intervento militare in Afghanistan (7 ottobre 2001) e in Iraq (20 marzo 2003), ma anche azioni diplomatiche e sanzioni per negare santuari e finanziamenti a individui che il Dipartimento della Difesa e l’intelligence identificano come terroristi.

È in questo contesto politico e di regime di sicurezza straordinario che l’amministrazione Bush forgia le sue politiche antiterrorismo, supporta figure di spicco come il vicepresidente Dick Cheney, il Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld e il direttore della CIA George Tenet: sono tutti alti funzionari che, insieme al presidente, giocheranno un ruolo fondamentale nell’istituzione di Guantanamo e nel trattamento dei suoi prigionieri.

Il centro di detenzione militare di Guantanamo Bay nasce sulla spinta di alcuni comandanti USA in Afghanistan che chiedono di non doversi occupare dei prigionieri nemici in loco, così che i loro uomini possano dedicarsi solo al combattimento sul campo. Guantanamo è il luogo prescelto dell’amministrazione a questo scopo: dispone di una base navale sufficientemente grande, sicura e soprattutto si trova a Cuba, in territorio straniero, per cui è fuori dalla portata dei tribunali statunitensi ma è anche è abbastanza vicina perché i funzionari governativi possano recarvisi con facilità da Washington.

L’11 gennaio 2002 i primi venti prigionieri arrivano a Guantanamo bendati e legati. Loro e tutte le 780 persone che verranno detenute nei vent’anni successivi sono definiti «combattenti illegali» e non «prigionieri di guerra». Questa distinzione consente all’amministrazione Bush di non applicare le Convenzioni di Ginevra sui prigionieri, perché se applicata, in particolare la Terza Convenzione, obbliga le parti belligeranti a fornire ai detenuti uno standard minimo di assistenza, ovvero un alloggio sicuro, cibo adeguato e cure mediche. Secondo le Convenzioni di Ginevra, agli Stati che le hanno ratificate è severamente vietato sottoporre i prigionieri a violenza, tortura o trattamenti crudeli e degradanti: sono 196 i Paesi che le hanno ratificate, compresi gli Stati Uniti e l’Afghanistan.

Decidendo intenzionalmente di non identificare i presunti combattenti di Al Qaeda e dei Talebani come prigionieri di guerra, gli Stati Uniti si permettono di detenere a lungo termine i sospetti terroristi a Guantanamo e di utilizzare commissioni militari speciali per processarli. Molti detenuti del campo, tra l’altro, saranno in seguito ritenuti poco o per nulla legati ad Al-Qaeda o ai Talebani.

A Guantanamo i prigionieri per la maggior parte provengono da Afghanistan, Arabia Saudita, Yemen e Pakistan. Contro di loro, per estorcere informazioni, l’amministrazione Bush autorizza pratiche di interrogatorio coercitivo che sfociano in vere e proprie torture da parte della CIA e delle forze armate. I detenuti in custodia negli Stati Uniti sono stati picchiati, sbattuti contro i muri, costretti in piccole scatole e sottoposti a waterboarding, ovvero a finte esecuzioni in cui hanno sopportato la sensazione di annegare. Due presunti prigionieri di alto livello di al-Qaeda, Khalid Sheikh Mohammed e Abu Zubaydah, sono stati sottoposti a waterboarding rispettivamente 183 e 83 volte. Altre vessazioni si traducono in lunghi periodi di isolamento, privazione del sonno, del cibo e dell’acqua, esposizione a freddo o caldo estremo e buio totale con musica ad alto volume per settimane intere, percosse, posizioni di stress, rasature forzate, alimentazione forzata e umiliazioni sessuali.

Tenet, il direttore della CIA, predispone che diversi detenuti vengano trasferiti illegalmente in Paesi come la Siria, l’Egitto e la Giordania, dove possono essere più facilmente torturati. In parallelo l’amministrazione istituisce anche un programma illegale di detenzione segreta della CIA in cui i prigionieri sono tenuti in prigioni segrete, senza avvisare le loro famiglie e senza avere accesso al Comitato internazionale della Croce Rossa.

Il presidente George W. Bush autorizza in persona il programma di detenzione segreta della CIA, e non eserciterà mai la sua autorità per fermare i maltrattamenti o punire i responsabili. Il suo vice, Dick Cheney, è responsabile diretto per l’approvazione del waterboarding e di altre forme di tortura e maltrattamento nel programma di interrogatorio della CIA: pratiche stabilite dal “Comitato dei principi” del Consiglio di sicurezza nazionale (NSC) di cui lui era membro.

Il Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld ha approvato metodi di interrogatorio illegali che hanno facilitato l’uso di torture e maltrattamenti da parte del personale militare statunitense in Afghanistan e in Iraq.

I funzionari dell’amministrazione Bush hanno sviluppato e ampliato le loro decisioni e autorizzazioni iniziali sulle operazioni con i detenuti anche di fronte al dissenso interno ed esterno, compresi gli avvertimenti che molte delle loro azioni violavano il diritto internazionale e nazionale. E quando le tecniche di interrogatorio illegali sui detenuti si sono diffuse ampiamente al di là di quanto esplicitamente autorizzato, questi funzionari hanno chiuso un occhio, senza fare alcuno sforzo per fermare le pratiche.

In base al principio della giurisdizione universale si può intraprendere un’azione legale in tribunali nazionali nei casi dei cosiddetti “crimini fondamentali”, come i crimini di guerra o i crimini contro l’umanità, anche se gli atti criminali sono avvenuti in territorio straniero. Questo in teoria è possibile ma non è affatto scontato che poi si verifichi, spiega Kaleck: «Il primo requisito necessario perché questo avvenga è la volontà politica».

Identificato come il più noto avvocato tedesco specializzato in giurisdizione universale della Germania, Kaleck, oggi sulla sessantina, aveva iniziato la sua carriera lavorando a Berlino Est da occidentale e per l’opposizione di sinistra della DDR, con lo scopo di accedere agli archivi della Stasi. Si era confrontato con la giustizia internazionale per la prima volta nel 1998, entrando a far parte come attivista e avvocato della Coalizione contro l’impunità, che si occupava dei desaparecidos in Argentina.

«Ero euforico, e così lo erano molti avvocati come me provenienti da altri Paesi, perché pensavamo di poter davvero agire a livello transnazionale», racconta Kaleck. L’euforia era scoppiata con la cattura a Londra dell’ex dittatore argentino Augusto Pinochet proprio nel 1998. Era stato il primo arresto di un ex capo di Stato basato sul principio della giurisdizione universale e aveva lasciato un’eredità di dimensione globale. «Il mondo si era improvvisamente capovolto – ricorda Kaleck – la sua detenzione aveva decisamente confermato le nostre ipotesi sulla giurisdizione universale».

Prigionieri talebani – ammanettati, bendati e forniti di paraorecchi – appartenenti ad Al-Qaeda fotografi a Guantanamo, Cuba, il 14 gennaio 2002 – Foto: US Navy/Getty
Una soldatessa americana osserva dei detenuti nel campo X-Ray a Guantanamo, Cuba, il 14 gennaio 2002 – Foto: US Navy/Getty

Le denunce contro Donald Rumsfeld

Pochi giorni prima della chiamata di Ratner a Kaleck, il 28 aprile del 2004 un programma d’inchiesta della rete televisiva americana CBS, 60 minutes, aveva mostrato al mondo intero altre fotografie: un uomo incappucciato e vestito di nero in piedi su un cubo, con le braccia come se fosse inchiodato in croce e con i cavi elettrici alle dita; detenuti nudi, incappucciati e ammassati gli uni sugli altri, con soldati statunitensi che in posa sorridevano prendendosi gioco di loro; altri uomini nudi, o in tuta arancione, vessati, picchiati, minacciati e umiliati. Le immagini erano scattate sempre da contractor e soldati americani, ma questa volta provenivano dal carcere di Abu Ghraib in Iraq.

«Ho presentato una denuncia penale di 160 pagine a un procuratore tedesco per conto di quattro sopravvissuti iracheni torturati ad Abu Ghraib e del Center for Constitutional Rights con sede a New York», racconta Kaleck. Tra il 2004 e il 2006, Kaleck continua a collaborare con il CCR con denunce dirette contro l’ex Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, l’ex Direttore della CIA George Tenet e diversi militari di alto livello, accusandoli di aver violato la Convenzione ONU contro la tortura e il Codice tedesco dei crimini contro il diritto internazionale.

Per approfondire

Cos’è la giurisdizione universale. E perché Pinochet l’ha fatta franca

Indagato in Spagna, arrestato a Londra, il dittatore cileno è stato perseguito per crimini contro l’umanità per un principio giuridico che esiste dal Settecento

Le denunce penali, concentrate sull’impunità dei principali rappresentanti del governo, delle forze armate e dei servizi di intelligence, si basavano sul principio della giurisdizione universale, sancito dal sistema giuridico tedesco, perché nei casi in questione non sono stati avviati procedimenti giudiziari nei Paesi di origine degli autori né delle vittime, e neppure da parte di tribunali internazionali.

«Io e Wolfgang abbiamo iniziato a collaborare con il caso Rumsfeld, siamo entrati in contatto attraverso il nostro mentore, Michael Ratner», ricorda Reed Brody, un avvocato americano che nel frattempo era stato soprannominato “Cacciatore di dittatori” e che era coinvolto nel caso con Kaleck. Entrambi trascorrevano giorni e notti a casa di Ratner a Manhattan. «È lì che Kaleck ebbe l’idea di costruire un caso direttamente contro Rumsfeld…sembrava molto tedesco – scherza Brody riferendosi al suo collega avvocato – ma era chiaramente un fratello, qualcuno che la pensava come me».

Nonostante però gli sforzi congiunti di una rete transnazionale di legali, tra cui Brody e Ratner, le denunce dei casi contro il segretario alla Difesa degli Stati Uniti Donald Rumsfeld e altri (2004 e 2006) vengono respinte.

Una foto non datata e resa pubblica a maggio 2004 in cui un militare americano sorride sul corpo inerme di un cittadino iracheno morto nella prigione di Abu Ghraib – Foto: ABC News/Getty
Un fermo immagine di un video di Al-Jazeera estrapolato a dicembre 2004 mostra un prigioniero nella prigione di Abu Ghraib – Foto: Al-Jazeera/Getty

Richiedere prove a uno Stato i cui funzionari governativi sono in qualche modo coinvolti nei presunti crimini è infatti complicato, tanto più che il coinvolgimento del governo complica l’accesso a vittime, testimoni e prove documentali, oltre a impedire l’esame degli attori e delle agenzie statali responsabili dei reati. Ma c’è anche un’altra ragione: l’esercizio delle attività giudiziarie richiede la volontà politica a livello nazionale e paneuropeo, e nella maggior parte dei Paesi europei i pubblici ministeri hanno un’ampia discrezionalità nel decidere se avviare o proseguire un’indagine penale.

Perseguire i crimini universali anche dall’Europa

Il lato positivo, spiega Kaleck, è che con il caso contro Rumsfeld «sono entrato in contatto con altri avvocati per i diritti umani a Londra e a New York e ho avuto accesso anche a molte università… e così ho visto quanto lavoro si può fare a questo livello con i professionisti giusti e una buona struttura». Così nel 2007-2008 l’avvocato, supportato da una rete di legali, stabilisce la nascita di ECCHR, l’European Center for Constitutional and Human Rights, che si fonda sui principi base del lavoro sulla giurisdizione universale e di protezione dei diritti umani. Un’organizzazione che sarà cruciale per lo sviluppo futuro della giurisdizione universale, come vedremo nella terza puntata.

Dal processo contro Rumsfeld, Kaleck svilupperà anche una tesi, che nel 2015 diventerà un libro: Double standards: International Criminal Law and the West. Qui Kaleck identifica un doppio binario su cui marciano i governi occidentali quando si tratta di impugnare la giurisdizione universale. Secondo l’avvocato, la pratica di perseguire i crimini internazionali rimane selettiva perché «gli Stati occidentali, quelli che propugnano appelli in favore dei diritti umani universali, si oppongono a perseguire i propri crimini, o la loro complicità nei crimini di altri Stati». In altre parole, l’Occidente rispetta gli standard legali internazionali finché serve ai suoi interessi, come insegnano il caso Rumsfeld o il massacro di Kunduz in Afghanistan. Quando si tratta di perseguire dittatori africani, invece, la giurisdizione universale è acclamata come arma di giustizia anche da governi come quello degli Stati Uniti.

Strage all’ospedale di Medici senza Frontiere

Alle 2:08 di sabato 3 ottobre 2015, una cannoniera AC-130 degli Stati Uniti spara 211 proiettili sull’edificio principale dell’ospedale di Medici senza Frontiere (MSF) di Kunduz, in Afghanistan, dove i pazienti dormivano nei loro letti o venivano operati in sala operatoria. L’attacco aereo dura circa un’ora, come riporterà poi MSF, con l’edificio principale dell’ospedale che viene sottoposto a precisi e ripetuti attacchi aerei, mentre gli edifici circostanti sono rimasti per lo più intatti.

Durante gli attacchi aerei, le squadre di MSF chiamano in continuazione le autorità militari per fermare l’attacco, ma senza successo. Tra le 42 vittime si contano 24 pazienti, 14 membri del personale e 4 assistenti. Trentasette sono le persone ferite.

L’analisi cronologica dei fatti che si sono susseguiti, durante e immediatamente dopo gli attacchi aerei, dimostra che non c’era alcuna ragione per cui l’ospedale dovesse essere colpito. Non c’erano combattenti armati o combattimenti nell’area dell’ospedale. Un documento interno di MSF descrive una situazione in cui i pazienti bruciano nei loro letti, il personale medico è decapitato o perde gli arti e altre persone sono prese di mira e colpite dagli aerei mentre fuggono dall’ospedale in fiamme. Alcuni medici di MSF e altro personale medico sono stati uccisi mentre cercavano di raggiungere un’altra zona del compound nel tentativo di mettersi in salvo.

Sulla base del diritto internazionale umanitario, MSF aveva raggiunto l’accordo di rispettare la neutralità dell’ospedale con tutte le parti in conflitto. A seguito dell’attacco, gli Stati Uniti hanno dapprima dichiarato che il bombardamento fosse stato effettuato per difendere le forze statunitensi sul terreno e in seguito il comandante John F. Campbell ha riconosciuto la propria responsabilità dichiarando si trattasse di un errore; il presidente USA, Barack Obama, ha chiamato MSF per scusarsi. Nonostante la richiesta di una commissione d’inchiesta indipendente internazionale da parte di MSF, non è mai stata fatta chiarezza sulle intenzioni dietro quello che gli Stati Uniti hanno anche definito inizialmente un «danno collaterale» e poi un «errore umano».

Un rapporto finale del Pentagono, pubblicato il 29 aprile 2016, ha riaffermato che si è trattato di un incidente e che quindi non è annoverabile come crimine di guerra. Sedici membri delle forze armate statunitensi sono stati puniti a seguito dell’indagine, anche se nessuno è stato accusato penalmente. Dodici membri del personale coinvolti nell’attacco sono stati puniti con «la sospensione e la rimozione dal comando, lettere di biasimo, consulenza formale e un’ampia riqualificazione». Il governo degli Stati Uniti ha dichiarato che sono state effettuate più di 170 ricompense – tremila dollari per i feriti e seimila dollari per i morti- e che sono stati stanziati 5,7 milioni di dollari per la ricostruzione dell’ospedale.

Per questa ragione c’è molto scetticismo sull’uso dei processi internazionali e dei tribunali ad hoc, uno scetticismo diffuso tra quello che Kaleck definisce quel “Sud globale” che percepisce la giustizia internazionale come un’arma strumentale nelle mani dei più potenti. Per questo, a parere suo e di molti suoi colleghi come Reed Brody, è necessario prendere coscienza che se la giustizia penale internazionale è una questione politica, come dimostrano sia l’impunità di Rumsfeld che di Pinochet, allora anche le vittime possono impugnare una giustizia penale internazionale che difende i diritti umani e utilizzarla come strumento di lotta contro i loro carnefici. E il compito di avvocati come Kaleck e Brody è di porre le basi perché questo sia possibile.

Il doppio standard ancora determina il ricorso o meno alla giurisdizione universale, per questo sarà difficile per il momento vedere incriminato il presidente degli Stati Uniti o un suo segretario di Stato. Il delicato equilibrio tra volontà politica, intreccio storico e raccolta delle prove è cruciale perché un processo contro un capo di Stato o un alto ufficiale possa avere luogo. Ma il successo della giurisdizione universale si misura al di fuori dei confini dell’Occidente: ed è così che un ex dittatore africano alle sbarre, ha creato un nuovo importante precedente.

Il Senegal e lo Statuto di Roma del 1998

Nell’estate dello Statuto di Roma per la creazione della Corte Penale Internazionale, nel 1998, c’è un particolare che l’avvocato americano Reed Brody nota immediatamente: il primo Paese a ratificare è il Senegal. Brody ha una buona memoria e gli verrà incontro quando nel gennaio del 2020 a Dakar, la capitale del Senegal, si siede a parlare con un uomo che allora non sapeva avrebbe fatto parte della sua vita per almeno i successivi vent’anni: si chiama Souleymane Guengueng ed è originario del Ciad. Il precedente dell’arresto di Pinochet aveva portato Brody e il suo team a creare una mappa in cui venivano tracciati i viaggi dei dittatori, provando ad identificare il momento, il dittatore, il Paese in cui un arresto sarebbe stato possibile.

Ma la seconda intuizione era stata quella di mappare anche i dittatori fuggiti dal loro Paese e residenti in altri per capire se ci fossero le condizioni per un arresto. Era il caso dell’ex dittatore ciadiano Hissène Habré che viveva proprio in Senegal fin dalla caduta del suo regime nel 1990. Nel frattempo, l’arresto di Pinochet dell’ottobre 1998 aveva ispirato anche l’associazione delle vittime di tortura ciadiane che si era formata alla caduta del regime di Habré e che nel proprio Paese non aveva trovato spazio per la giustizia. Nel 1999 cominciano a muoversi perché possano trovare ascolto altrove: la meta per entrambi, Brody e Guengueng, da due parti del mondo diverse, è dunque il Senegal.

La dittatura di Hissène Habré

Nei suoi otto anni al potere, Hissène Habré aveva compiuto crimini efferati quali tortura, violenza sessuale, omicidi politici, arresti arbitrari contro la popolazione ciadiana, soprattutto contro gruppi etnici diversi dal suo e contro gli oppositori, anche solo sospettati di essere tali, come Guengueng. Habré aveva preso il potere nell’ex-colonia francese del Ciad nel 1982, rovesciando il governo di Goukouni Wedeye. Gli Stati Uniti di Ronald Reagan avevano supportato l’avanzata militare di Habré verso la capitale N’Djamena con il supporto paramilitare segreto della CIA. Anche la Francia l’ha sostenuto per tutta la durata del suo governo, considerandolo un baluardo contro i disegni espansionistici di Muammar Gheddafi, le cui truppe allora stavano occupando il nord del Ciad.

La prigione più tremendamente nota dei tempi di Hissène Habré in Ciad era denominata La Piscine, ricavata da una piscina di epoca coloniale che Habré aveva diviso in celle e ricoperto con una lastra di cemento. I prigionieri morivano di malnutrizione e di malattie nelle celle sotterranee sovraffollate, soprattutto per il caldo insopportabile dell’estate, ma le guardie a volte aspettavano che diversi detenuti fossero morti prima di sgomberare i corpi.

Nella stanza d’albergo dove si incontrano per la prima volta, Guengueng racconta a Brody il giuramento fatto a sé stesso nelle prigioni dell’ex dittatore Hissène Habré nel 1988. A noi lo racconta invece dal suo salotto nella casa in cui oggi vive a New York, in una videochiamata. «Quando ero in prigione e le persone morivano attorno a me, ho fatto questo giuramento: semmai uscirò vivo da qua, combatterò tutta la vita per la giustizia, per ricordare le persone che sono morte tra le mie braccia». Guengueng però non si accontenta di dettagliare l’orrore che ha testimoniato in quelle prigioni ed è così che chiede a sua volta a Brody di fare una promessa: «Mi devi promettere che non ti arrenderai mai e andrai fino in fondo a questo caso».

Brody invece è in videochiamata con noi dal Gambia e ci riporta le parole esatte che ricorda di aver detto a quello che oggi chiama l’amico Souleymane, più di vent’anni prima:

«Guarda, non posso promettere come andrà, i senegalesi potrebbero non prenderla nemmeno seriamente, ma farò tutto quello che è nelle mie possibilità. Per me è un onore lavorare con una persona come te. È per questo che faccio questo mestiere. No, non mi arrenderò».

Entrambi hanno mantenuto fede alle loro parole, in Senegal li hanno presi sul serio e a otto giorni dalla prima denuncia penale di Guengueng e i suoi compagni – all’inizio erano solo in sette; a testimoniare negli anni saranno oltre novanta- l’ex dittatore ciadiano viene messo agli arresti domiciliari. Il caso di Hissène Habré processato in Senegal è diventato storia, soprattutto per il successo dell’applicazione della giurisdizione universale.

L’applicazione della giurisdizione universale in Africa

«Ciò che per me era importante nel caso del ciadiano Hissène Habré – continua Brody – era che si trovasse in Senegal, in un altro Paese africano. Ritenevamo che il principio della giurisdizione universale, per essere davvero universale, non potesse essere esercitato solo in Spagna o in Inghilterra. Così, quando abbiamo cercato di capire chi sarebbe stato il prossimo Pinochet, abbiamo capito che Hissène Habré rispondeva a questi criteri. C’era la possibilità di vedere se la giurisdizione universale potesse essere applicata in Africa».

Hissène Habré in una foto del 1980 in Ciad – Foto: Daniel Simon/Getty
Hissène Habré scortato in aula il 20 luglio 2015 per la prima udienza del processo per crimini contro l’umanità – Foto: Seyllou/Getty

Dopo il loro primo incontro in quella camera d’albergo, Brody e Guengueng hanno cominciato ad incontrare le altre vittime sopravvissute al feroce dittatore ciadiano per presentare una prima denuncia penale nella capitale senegalese. Ma il lavoro non partiva affatto da zero: liberato dalle prigioni di Habré, Guengueng fonda l’associazione delle vittime e raccoglie le testimonianze di 782 ex-prigionieri, molti incontrati nelle carceri da lui stesso. L’associazione con il sostegno dell’avvocata ciadiana Jacqueline Moudeïna è riuscita anche a coinvolgere le vittime di violenza sessuale, alcune stuprate dall’ex dittatore in persona, che hanno poi parlato dopo 25 anni di silenzio. I tempi della giustizia sono stati lunghi ma alla fine ce l’hanno fatta: il processo è iniziato nel 2015 in un tribunale speciale del Senegal, con il supporto dell’Unione Africana, e Habrè è stato condannato definitivamente da una Corte d’Appello nel 2017 per crimini contro l’umanità, crimini di guerra e tortura, tra cui violenza sessuale e riduzione in schiavitù.

Si tratta della prima volta che un ex capo di Stato viene condannato da un Tribunale di un altro Paese, il Senegal, che ha indagato con un budget ridotto (8,6 milioni di euro) i crimini di massa compiuti a migliaia di chilometri di distanza, due decenni dopo.

Come un effetto domino, se l’arresto di Pinochet aveva mosso le vittime ciadiane a perseguire nel loro intento di giustizia, la condanna di Habré ha portato molti altri, in Africa e altrove, a credere nelle campagne di giustizia internazionali. A incoraggiarli sono stati gli stessi ciadiani, come Clement Abaifouta, presidente dell’associazione delle vittime del regime di Habré, poco prima della sentenza d’appello, che si è recato in Gambia per incoraggiare le vittime che stanno cercando di portare davanti alla giustizia l’ex dittatore in esilio Yahya Jammeh.

Il presidente USA George W. Bush (centro), il direttore della Cia George Tenet (secondo da sinistra) e il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld (secondo da destra) in una foto del 12 settembre 2001 – Foto: Ron Sachs/Getty

«La gente si è ispirata al lavoro che avevamo fatto in precedenza per avviare il loro processo – racconta Abaifouta dal Ciad -. Il regime aveva sconvolto la mia vita. Seppellivo cadaveri in prigione… ma ne sono uscito con un carattere di ferro. Ho rinunciato a tutto per dedicarmi alla giustizia». In questi anni Abaifouta ha viaggiato per parlare con altre vittime di tortura ed ex-prigionieri in altri Paesi africani.

Ciad, un percorso democratico e di memoria molto accidentato

Nel suo Paese d’origine, invece, non si è realizzato nessun percorso democratico né il rispetto per i diritti umani che trent’anni di lotta per la giustizia volevano far sperare. Hissène Habré era stato esautorato dal suo ex capo militare, Idriss Déby Itno, che è restato al potere fino alla sua morte improvvisa nel 2021 ed è stato poi sostituito dal figlio, Mahamat Déby, con un colpo di Stato militare e la promessa di elezioni democratiche nell’ottobre 2022 che sono state posticipate al 2024: la giunta militare resta al potere. Ma la battaglia di Abaifouta per la memoria non è finita: «Spero ancora, e mi adopero, affinché il palazzo di sicurezza di Hissène Habré diventi un museo commemorativo contro quella brutale dittatura».

C’è un altro buco nella campagna per la giustizia contro la dittatura di Habré: in Senegal non si sono stabilite le complicità e responsabilità internazionali, lasciando sempre aperta la questione sollevata dall’avvocato tedesco Kaleck sui doppi standard, mentre in Ciad si sono aperti processi contro una trentina di complici dei militari. Hissène Habré è morto di Covid in prigione in Senegal nell’agosto 2020.

C’è però una grande eredità che questo caso lascia dietro di sé: l’instancabile lotta in comunione tra vittime e avvocati che hanno reso sostanziale il principio della giurisdizione universale, unito alla volontà politica del Senegal, il Paese che ha ospitato il processo. E quando l’unione di perseveranza dei difensori dei diritti umani e delle condizioni storiche-politiche si ripete, si apre una nuova strada: sarà il caso dei siriani in Germania, pochi anni dopo.

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Cos’è la giurisdizione universale. E perché Pinochet l’ha fatta franca

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Cos’è la giurisdizione universale. E perché Pinochet l’ha fatta franca

Marta Bellingreri
Costanza Spocci

Un ascensore automatico mobile trasporta un uomo in sedia a rotelle dall’aereo con cui è atterrato. Siamo nel marzo del 2000, l’aeroporto è quello di Santiago del Cile. Quest’uomo sull’ottantina, apparentemente malato, non è uno qualunque: ad attenderlo c’è un gruppo di sostenitori e i trattamenti nei suoi riguardi sono speciali. Volto e nome sono già noti, ma è il gesto che compie una volta che la sedia a rotelle tocca terra a identificarlo per sempre: l’anziano si alza e comincia a camminare con l’ausilio di un bastone, come se non avesse bisogno di alcuna assistenza. Abbraccia i familiari venuti all’aeroporto, poi torna indietro e si risiede.

L’uomo in questione è il golpista cileno Augusto Pinochet, rimasto al potere fino al 1990, e il gesto che compie comunica al mondo che l’ha fatta franca.

Sedici mesi prima infatti, il 16 ottobre 1998, era stato fermato a Londra, grazie a un mandato di arresto emesso dal magistrato spagnolo Baltasar Garzòn. Ufficialmente, sono le sue condizioni di salute ad averlo graziato dall’estradizione dal Regno Unito alla Spagna. Lì, sarebbe dovuto essere processato per i crimini contro l’umanità commessi tra il 1973 ed il 1983 in Cile.

L'inchiesta in breve
  • È il 2000 quando Augusto Pinochet atterra in Cile. Su di lui pesa una richiesta di estradizione dalla Gran Bretagna alla Spagna, ma per motivi di salute è potuto rientrare nel suo Paese. Non verrà mai processato per i crimini di cui è accusato durante il decennio della sua dittatura, 1973-1983. Il “caso Pinochet” rappresenta sia il primo successo, sia il primo insuccesso della giurisdizione universale
  • Il magistrato spagnolo Baltasar Garzòn ha aperto un’indagine sui desaparecidos spagnoli della dittatura militare argentina, poi di quella cilena. Grazie al principio secondo cui non esistono Paesi sicuri per chi ha commesso crimini contro l’umanità, ha potuto chiedere l’arresto di Pinochet
  • La giurisdizione universale è un principio che risale già al Settecento. Il primo caso di impiego “moderno” è stato per Adolf Eichmann, un gerarca nazista processato a Gerusalemme. Più della giustizia, però, fu il Mossad a garantirne la condanna a morte in Israele
  • Nel caso di Pinochet, la magistratura spagnola era riuscita a ottenere la collaborazione della Gran Bretagna, dove il dittatore si trovava per ragioni mediche. Le garanzie politiche di cui disponeva Pinochet a Londra gli hanno però permesso di farla franca
  • Il fatto che un magistrato spagnolo fosse riuscito a incriminare il dittatore cileno ha comunque dato un nuovo impulso alla giurisdizione universale, complice la creazione, nel 1998, della Corte penale internazionale. È l’inizio della storia di avvocati che cercano di fermare in tutti i continenti, attraverso il sistema della giustizia, i tiranni di tutto il mondo

Il suo ritorno quasi trionfale nel Paese è un affronto alla giurisdizione universale, il principio giuridico secondo cui l’autore di crimini di guerra e crimini contro l’umanità, data l’enormità e la sistematicità dei reati di cui si è macchiato, può essere perseguito anche al di fuori del territorio in cui li ha commessi. Il caso dell’ex dittatore però ha rivitalizzato questo principio tanto da costituirne «la pietra miliare»: così lo definisce Pia Figueroa, giornalista e politica cilena che non nega la delusione che Pinochet non sia mai stato processato.

Alla notizia dell’arresto, centinaia di cileni in Europa e nel Regno Unito, si erano radunati di fronte la clinica dove era stato fermato, sperando che si potesse dare un seguito alla sofferenza e all’ingiustizia compiute nell’epoca della dittatura. «Tra loro c’era mio marito», ricorda Pia Figueroa, che a causa della dittatura nel suo Paese ha vissuto molti anni in Italia, per poi essere chiamata a fare parte del nuovo governo democratico. «Si trovava in Europa per caso ed è corso subito a Londra. Non posso non dimenticare la gioia immensa che abbiamo provato. Sì, lo posso dire: eravamo felici». Una promessa di giustizia, durata otto anni, che non è mai stata mantenuta.

L’arresto del generale, tuttavia, è suonato come un campanello d’allarme per i tiranni di tutto il mondo e ha acquisito da subito una rilevanza globale: ha cambiato la prassi della dottrina, offrendo un’enorme opportunità ad attivisti, avvocati, vittime e organizzazioni non governative di creare reti transnazionali per perseguire la responsabilità delle più gravi violazioni di diritti umani. Dietro il fallimento cileno, e dunque spagnolo e inglese, c’è stata invece una volontà politica che marciava in senso contrario.

Nessuna condanna

Quando la Corte di Madrid ha fatto spiccare il mandato d’arresto, il magistrato Baltasar Garzòn stava perseguendo i reati commessi dal dittatore nei confronti di cittadini spagnoli: 94 casi di tortura, l’omicidio del diplomatico cileno all’Onu Carmelo Soria e il crimine di associazione a delinquere finalizzata alla tortura. «Fu il risultato dell’enorme sforzo della fondazione Salvador Allende in Spagna e del movimento cileno per i diritti umani, con la raccolta di prove e testimonianze dei familiari e delle vittime – racconta ancora, dopo oltre vent’anni, Carmen Hertz, avvocata per i diritti umani cilena, parlamentare, parte del movimento che ha continuato a chiedere giustizia, in una chiamata Skype dal Cile -. All’epoca non c’era internet. Mandavamo i documenti in Spagna e aspettavamo un riscontro per mesi».

Il golpe e la fondazione Allende

Nell’aprile 1996 i membri dell’Unione spagnola dei procuratori progressisti hanno presentato una denuncia alla Corte federale spagnola (Audiencia Nacional) accusando i membri della giunta militare argentina al potere dal 1976 al 1983 di genocidio, terrorismo e altri crimini relativi alla sparizione negli anni ’70 di alcuni cittadini spagnoli e di origine spagnola. Il caso è stato assegnato per legge all’Audiencia Nacional, il tribunale competente per i crimini internazionali, e per sorteggio al giudice Baltasar Garzòn, il quale cominciò a indagare sull’Operazione Condor, un’operazione per eliminare gli oppositori socialisti nel continente sudamericano. È stato nel corso dell’indagine sull’Operazione Condor che Garzòn ha emesso un mandato d’arresto contro Pinochet: quando nel luglio 1996 l’indagine è stata estesa dall’Argentina al Cile, attraverso una seconda denuncia, questa non è stata presentata da residenti o cittadini cileni ma da un’organizzazione con sede a Madrid, la Fondazione Salvador Allende, diretta dall’avvocato madrileno Juan Garcés, ex consigliere del deposto presidente cileno Salvador Allende. La Fondazione ha rappresentato 22 mila persone uccise o torturate in Cile dal golpe del 1973 ed è stata assistita da diverse organizzazioni per i diritti umani in Cile che hanno condotto una campagna contro l’impunità durante la dittatura militare e i governi successivi.

Il caso legale del Cile è stato avviato in origine attraverso una procedura nota in Spagna come acción popular, ovvero un’azione legale che qualsiasi cittadino spagnolo, o un gruppo “riconosciuto” come ad esempio una Ong, può intentare nel nome dell’interesse pubblico e nella quale chi la solleva non deve essere necessariamente una parte interessata. Una convenzione ispano-cilena del 1958 sulla doppia cittadinanza consente inoltre a qualsiasi cileno, residente o meno in Spagna, di appellarsi a un tribunale spagnolo con gli stessi diritti di qualsiasi cittadino spagnolo.

La Fondazione Salvador Allende commemora ancora oggi il presidente cileno democraticamente eletto nel 1970, Salvador Allende. Il suo governo, dichiaratamente comunista, fu spodestato dal colpo di Stato del 1973 condotto dalla giunta militare con a capo Pinochet, col sostegno degli Stati Uniti di Richard Nixon. Il Cile democratico, soppresso da sparizioni forzate, arresti, omicidi, aveva cominciato da allora a raccogliere le prove che avrebbero spedito due decenni dopo in Spagna. Ed ancora oggi è questo uno dei punti cardine dei casi di giurisdizione universale: sono le vittime al centro del processo che mettono in moto la macchina giudiziaria.

Pinochet si trovava a Londra per ragioni mediche: si doveva curare da un’operazione alla schiena. Là sapeva di essere protetto e dietro la questione di salute si nascondeva un grande acquisto di armi che avrebbero reso il Regno Unito la base delle sue operazioni. Il generale cileno, senatore a vita al momento dell’arresto, aveva sostenuto la Gran Bretagna durante la guerra delle Falkland/Malvinas e aveva mantenuto le sue amicizie ai piani alti.

«Lo scotch è una delle tradizioni scozzesi che non ti deluderà mai», aveva scritto l’ex premier britannica Margaret Thatcher in un bigliettino allegato a una bottiglia di whisky donata all’amico cileno, ha rivelato la biografia della Lady di ferro pubblicata nel 2013 dal giornalista Charles Moore. Non a caso è proprio lei che va a trovarlo in clinica durante il suo arresto.

Il dominio dei conservatori era finito nel 1997, quando è stato eletto primo ministro il laburista Tony Blair. Il governo inglese ha fatto resistenza prima all’arresto, poi alla conseguente richiesta di estradizione da parte della Spagna. Ha ceduto solo di fronte alla pressione internazionale e alle manifestazioni di piazza. La Camera dei Lord ha stabilito in due sentenze, nel novembre 1998 e nel marzo 1999, che Pinochet non era coperto da immunità in quanto ex capo di Stato per gli atti di tortura ordinati. Nonostante questo, il Segretario di Stato britannico Jack Straw era deciso a bloccare l’estradizione del generale, dopo che un team di medici indipendenti aveva segnalato un deterioramento delle sue condizioni di salute. Così accettò le prove mediche «inequivocabili e unanimi» secondo cui l’ex golpista non fosse in grado di sostenere un processo in Spagna, contro il giudizio del Parlamento inglese. A oliare i meccanismi è stata anche la diplomazia cilena: «Eduardo Frei, al tempo presidente del Cile, ha appoggiato il ritorno di Pinochet senza fare nessuna ulteriore causa a Londra – si rammarica ancora Figueroa -. Il governo cileno ha coperto le spalle al suo dittatore».

«Lo sapevamo – aggiunge Carmen Hertz -. Era una enfermedad imaginaria, una malattia immaginaria, uno stratagemma politico per evitare il processo penale in Spagna». Il marito di Hertz, il giornalista Carlos Berger, fu arrestato quando Pinochet prese il potere nel 1973 perché non aveva interrotto le trasmissioni di Radio El Loa come gli era stato chiesto dall’esercito. In seguito scomparve e fu ucciso dalla Caravana de la Muerte, lo squadrone della morte dell’esercito cileno che ha viaggiato per il Cile dal 30 settembre al 22 ottobre 1973 con lo scopo di eliminare fisicamente gli oppositori politici. È spettato a Carmen riconoscere i segni della tortura sul corpo del marito, diverso tempo dopo. Il processo per la tortura di Carlos Berger non si è mai svolto.

L’ex prima ministra britannica Margaret Thatcher in visita ad Augusto Pinochet, e consorte, nella residenza inglese dell’ex generale il 26 marzo 1999 durante il periodo degli arresti domiciliari – Foto: Ian Jones/Getty

Le vicende processuali di Pinochet sono continuate fino all’anno della sua morte, nel 2006, e le controversie sul caso hanno conseguenze fino ad oggi, con l’ammirazione che ancora suscita (a discapito dei crimini considerati un male minore nel periodo storico in cui l’alternativa era l’ordine del mondo comunista) e scatenando un dibattito acceso come quello di recente sulla Costituzione cilena. Dopo il colpo di scena della sedia a rotelle all’aeroporto della capitale, a Pinochet vengono notificati gli arresti domiciliari, ma nel luglio 2001 la Corte d’Appello di Santiago gli restituisce la libertà. Solo nel 2004, invece, la Corte Suprema approva un eventuale processo per i crimini contro l’umanità. Gli arresti domiciliari nel frattempo l’accompagneranno per altri reati: prima di natura fiscale, poi per i crimini della Caravana de la Muerte, anch’essi revocati per il peggioramento delle sue condizioni di salute. Questa volta, era vero. In quello stesso dicembre muore da uomo libero all’ospedale militare di Santiago del Cile in seguito a una crisi cardiaca.

Le origini della giurisdizione universale

Il lavoro del giudice Garzòn nel caso Pinochet porta un grande cambiamento all’interno del diritto penale internazionale, perché mostra ai tribunali europei che avvocati in tutto il mondo possono portare al banco degli imputati gli alti gradi delle catene di comando macchiatisi di crimini contro l’umanità. In Spagna Garzòn ci riesce impugnando l’articolo 23.4 della legge sull’ordinamento giudiziario che dice che anche i cittadini non spagnoli sono perseguibili per crimini specifici commessi contro spagnoli al di fuori dei confini nazionali, come il genocidio, il terrorismo e i crimini contro l’umanità.

Con il “precedente Pinochet” nasce così una nuova prassi, cioè un nuovo modo di intendere e applicare la giurisdizione universale. Per sua stessa natura la giurisdizione universale è soggetta a modifiche nel tempo, perché fa parte del diritto internazionale consuetudinario, cioè un insieme di norme di condotta non scritte che, nei secoli, hanno preso forma e sono diventate vincolanti.

Le origini della giurisdizione universale risalgono al XVIII secolo, quando il concetto di «protezione dei beni» assume connotati universali, spiega Wolfgang Kaleck, avvocato tedesco per i diritti civili e fondatore e segretario generale del ECCHR, il Centro europeo per i diritti costituzionali e umani. Nella fattispecie “assumere connotati universali” significa che da quel momento in poi gli assalti dei pirati alle navi mercantili vengono considerati come “attacchi contro l’umanità”, e siccome la pirateria colpisce tutti, a quel punto “tutti” possono punire i pirati responsabili indipendentemente dalla compagnia di bandiera della nave o dalla nazionalità del capitano e dei componenti della ciurma. Questa concezione diventa una consuetudine settecentesca sempre più affermata, fino a tradursi in una norma non scritta ma vincolante che consente a tutti gli Stati della comunità internazionale di arrogarsi il diritto di giudicare e condannare gli individui per il crimine di pirateria. La repressione della pirateria, regolata dalla giurisdizione universale, verrà codificata nero su bianco solo nel 1958 con l’art.19 della Convenzione internazionale di Ginevra concernente l’alto Mare e nel 1982 con l’art. 105 con la Convenzione dell’ONU sul diritto del mare di Montego Bay.

Il Generale Augusto Pinochet in una conferenza stampa nel settembre del 1973 in cui afferma che né gli Stati Uniti né altre nazioni sono state coinvole nel colpo di Stato che ha spodestato il governo di Salvador Allende – Foto: Bettmann/Getty

Un passo successivo fondamentale nell’evoluzione della giurisdizione universale è la Carta di Norimberga del 1945 che, redatta al termine dei processi contro i gerarchi nazisti alla fine della Seconda guerra mondiale, stabilisce per la prima volta l’esistenza di crimini contro l’umanità, crimini di guerra e di genocidio. Norimberga rappresenta però in questo caso la “giustizia dei vincitori”, e non il principio di giurisdizione universale, perché il tribunale internazionale è stato creato ad hoc dai vincitori della guerra per giudicare e punire i perdenti.

Sarà il caso Eichmann il primo ad avvicinarsi di più al concetto di giurisdizione universale contemporaneo. Adolf Eichmann, gerarca nazista considerato uno dei principali responsabili dello sterminio degli ebrei in Germania, viene processato a Gerusalemme nel 1961. Lo Stato di Israele aveva richiesto la sua estradizione all’Argentina, dove Eichmann si rifugiava sotto falsa identità e lavorava come operaio in uno stabilimento Mercedes. Siccome il governo argentino non concedeva l’estradizione, un commando di undici uomini del Mossad, i servizi segreti di Israele, rapisce Eichmann e lo porta direttamente in un’aula di tribunale israeliana dove viene condannato a morte e giustiziato l’anno successivo.

Al di là delle modalità di prelievo e di condanna, il caso Eichmann corrisponde alla definizione pura di giurisdizione universale. Si tratta infatti di un Paese terzo (Israele) che persegue i crimini contro l’umanità che sono stati commessi al di fuori del suo territorio nazionale (sterminio di milioni di persone ebree nei campi di concentramento nazisti) e mette sotto accusa persone di altre nazionalità (Eichmann, tedesco) in base al principio che i crimini internazionali sono offese universali contro l’umanità. Riguardano tutti e non possono rimanere impuniti, indipendentemente dai territori e dalle nazionalità. In altre parole, non si può concedere un rifugio sicuro ai criminali che fuggono in un Paese terzo.

Hannah Arendt e i nemici del genere umano

Nel giugno del 1960 Hannah Arendt scrive in una lettera all’amica e scrittrice statunitense Mary McCarthy: «Sto quasi accarezzando l’idea di chiedere a qualche rivista di mandarmi a coprire il processo Eichmann. Sono molto tentata». In quanto filosofa e politologa, Arendt ha in testa una domanda: «[L]e cose andrebbero diversamente se avessimo una legge contro gli hostes humani generis (nemici del genere umano) e non solo contro assassini e criminali simili?».

Adolf Eichmann, gerarca nazista, tra gli ideatori del piano di sterminio degli ebrei di 18 Paesi europei, conosciuto anche come Soluzione finale, sarebbe secondo Arendt un hostis humani generis, cioè un nemico del genere umano. Da poco i servizi segreti israeliani del Mossad l’avevano rapito in Argentina per portarlo a Gerusalemme e processarlo per i crimini della Shoah. Arendt decide di seguire la sua «tentazione» e si rivolge a William Shawn, editore del New Yorker, che le affida l’incarico di seguire il processo. Ne usciranno cinque lunghi reportage nella sezione A Reporter At Large (traducibile come Un reporter sul posto) della rivista, che verranno raccolti e riorganizzati in un libro che diventerà l’opera filosofica più conosciuta di Hannah Arendt: La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, pubblicata nel 1963.

La banalità di Eichmann, secondo la scrittrice, sta nel vuoto di pensiero del gerarca nazista: non ha mai preso una decisione da solo, ha sempre richiesto direttive e ha sempre eseguito gli ordini. Su questo concetto Arendt mette in discussione i giudici del tribunale di Gerusalemme: secondo lei non sarebbero stati in grado di cogliere la più grande sfida morale e persino giuridica dell’intero caso, ovvero che nelle condizioni del Terzo Reich ci si poteva aspettare che solo le “eccezioni” agissero normalmente. Il grande criminale Eichmann è un uomo normale. La sua malvagità banale consiste nel fatto che lui stesso è il prodotto di una società la cui moralità è stata completamente stravolta, se non ribaltata, da un regime criminale. In altre parole, Eichman è banale perché chiunque non si sia ribellato al sistema nazista è altrettanto responsabile di quello che è successo; di conseguenza, le persone perbene potrebbero non essere così perbene perché i criminali come Eichmann potrebbero non essere così devianti.

Detto questo, la colpevolezza di Eichmann non doveva essere sminuita dal fatto che 80 milioni di tedeschi avrebbero potuto fare come lui. Per questo motivo Arendt crede fermamente che i processi penali internazionali non debbano mai essere messi in scena come opere morali o per ragioni politiche. Scrive, sul quinto e ultimo reportage del New Yorker, che i crimini nazisti avrebbero dovuto essere considerati crimini contro l’umanità piuttosto che solo contro il popolo ebraico, perché i crimini commessi dal gerarca non riguardavano crimini ai sensi della sola legge israeliana, bensì erano delicta juris gentium, crimini contro la legge delle nazioni. L’unica possibilità per Arendt sembra essere quella di affiancare alla Corte internazionale dell’Aia un tribunale penale per hostes generis humani che sia competente a processare gli individui che si sono macchiati di crimini internazionali che, poiché sono offese universali contro l’umanità e riguardano tutti, sono perseguibili al di là di limitazioni territoriali e di nazionalità.

In assenza però di una corte internazionale super partes, ritiene Arendt, e nell’ipotesi di crimini tanto gravi da colpire l’intera umanità e sconvolgere la coscienza delle nazioni, i tradizionali criteri di territorialità e personalità devono cedere il posto ad una giurisdizione universale, esercitabile dagli organi giurisdizionali di ciascun ordinamento nazionale. Cosicché chi commette core crimes – ovvero quei crimini che sono stati inseriti sin dalle origini negli Statuti dei tribunali penali internazionali, come i crimini di guerra, crimini contro l’umanità, genocidio e aggressione – non può trovare rifugio sicuro in Paesi terzi.

Arriva il 1998, l’anno dei grandi cambiamenti, «l’anno della giustizia internazionale» come poi lo definiranno molti avvocati per i diritti umani. Il 17 luglio 1998 a Roma viene stilato il trattato di fondazione della Corte penale internazionale, un tribunale competente per giudicare i crimini internazionali con sede all’Aja. Lo Statuto di Roma nei suoi articoli 5-6-7-8 prevede che siano competenza della Corte i crimini contro l’umanità, i crimini di guerra e il genocidio, considerati come i crimini più gravi che interessano l’intera comunità internazionale. In tutto, 123 Stati ratificano il trattato.

Solo tre mesi dopo, arriva quel 16 ottobre, al London Bridge Hospital a Londra: l’Interpol arresta Pinochet. Lo fa grazie a una Red Notice, il mandato d’arresto fatto partire dal lavoro del giudice Garzòn. Anche se Pinochet come Lazzaro si alzerà e camminerà al suo arrivo in aeroporto a Santiago del Cile, il mandato di cattura e il suo breve arresto hanno una eco internazionale che negli anni successivi consentirà grandi passi avanti in termini di applicazione della giurisdizione universale.

Adolf Eichmann, nel gabbiotto a sinistra, ascolta il verdetto di condanna a morte il 15 dicembre 1961 nel processo celebrato a Gerusalemme – Bettmann/Getty

«L’arresto di Pinochet aveva permesso agli attivisti e alle vittime di iniziare a sognare quella giustizia e di dire: “Possiamo farlo”. La domanda a quel punto era: “Chi è il prossimo?”», racconta con entusiasmo l’avvocato per i diritti umani Reed Brody. Figlio di un ebreo ungherese sopravvissuto ai campi di lavoro in Germania e poi trasferitosi a New York, Brody si è formato come legale seguendo con passione il caso Pinochet mentre collaborava allo studio del caso con il suo mentore, l’avvocato statunitense Michael Ratner, allora presidente del Centro per i diritti costituzionali a New York. L’incontro con Ratner, è il punto di svolta della carriera di Brody: una volta conclusosi il “caso Pinochet”, il giovane avvocato pensa che se Garzòn è riuscito a far arrestare Pinochet, seppur per poco, allora anche lui può provare a portare in tribunale altri capi di Stato che si sono macchiati di gravi crimini contro l’umanità. E così si mette alla ricerca del “prossimo” dittatore da portare alla sbarra.

Brody forma in breve tempo una squadra di ricercatori e legali che, intrecciando i dati, creano una mappa su cui vengono tracciati i viaggi di dittatori in Africa, Europa e Sud America. Sulla base di quelle traiettorie, Brody e il suo team iniziano a identificare i capi di Stato e gli alti ufficiali contro cui cominciare a preparare dei dossier, al punto che nel giro di poco tempo Brody e il suo team si guadagnano il soprannome di “Cacciatori di dittatori”. È solo l’inizio e solo un tassello di un processo che progressivamente prenderà le forme di una rete transnazionale: lo stesso Brody, il suo mentore Ratner e un altro collega che aveva lavorato sul caso Pinochet, Wolfgang Kaleck, che all’epoca era un giovane avvocato per i diritti umani, dieci anni dopo fonderanno una delle organizzazioni più attive a livello mondiale per l’applicazione della giurisdizione universale: il Centro europeo per i diritti costituzionali e umani.

Conosciuta anche come ECCHR, questa organizzazione no-profit si prefiggerà di porre fine all’impunità internazionale fin dalla sua fondazione nel 2007. Con l’aiuto di reti di altre organizzazioni della società civile sparse su quattro continenti, ECCHR proverà a portare presidenti, politici e alti ufficiali davanti alla sbarra degli imputati in tribunali di mezzo mondo: dagli USA al Chad, dal Gambia alla Siria. E in alcuni casi, come vedremo nelle prossime puntate, ci riusciranno.

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Il Generale Augusto Pinochet in Cile l’1 maggio 1987
(Eric Brissaud/Getty)