In Trentino la transizione verso la melicoltura biologica su larga scala è ancora difficile

#PesticidiAlLavoro

In Trentino la transizione verso la melicoltura biologica su larga scala è ancora difficile

Edoardo Anziano
Francesco Paolo Savatteri

«La dottoressa mi ha detto che se volevo guarire avrei dovuto cambiare, non potevo continuare a utilizzare i prodotti chimici». Giorgio Baldo ha 65 anni e lavora in agricoltura da quando aveva 14 anni nella zona di Aldeno, in Trentino. Nel 2013 gli è stato diagnosticato un linfoma non Hodgkin. Secondo il personale medico la causa è da imputare agli anni trascorsi a lavorare con i pesticidi. Così è passato al biologico e dopo alcuni anni all’agricoltura biodinamica, un metodo di coltivazione molto controverso. Se infatti da un lato il biodinamico fa ancora meno uso di prodotti a base di rame o zolfo rispetto al biologico (infatti i prodotti biodinamici sono anche biologici ma non viceversa), dall’altro include tutta una serie di credenze e “preparati” che non hanno alcun fondamento scientifico.

Quando chiediamo a Giorgio se ha mai provato ad ottenere un’indennità dall’Inail o da qualche altro tipo di assicurazione, la sua voce viene coperta da quella di sua moglie Elisabetta Coser e di sua figlia Monica, che lo aiutano nella gestione dell’azienda agricola. Tutti e tre dicono la stessa cosa: è troppo difficile raccogliere tutta la documentazione necessaria e non ne vale la pena, vista la scarsa possibilità di vedere riconosciuta la malattia. I dati dell’Inail, come avevamo già raccontato nella prima puntata di #PesticidiAlLavoro, suggeriscono che quello di Giorgio non è un caso isolato: negli ultimi cinque anni solo sette lavoratori hanno denunciato un linfoma non Hodgkin come malattia professionale, e soltanto uno è stato accertato come tale.

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L'inchiesta

#PesticidiAlLavoro è un’inchiesta collaborativa sulle conseguenze sanitarie per gli agricoltori che impiegano i pesticidi. L’inchiesta è coordinata da Investigative Reporting Denmark e Le Monde. Partecipano Tygodnik Powszechny (Polonia), Ostro (Croatia e Slovenia), De Groene Amsterdammer (Olanda), Ippen Investigativ (Germania), TV2 (Danimarca), Marcos Garcia Rey (Spagna) e The Midwest Center for Investigative Reporting dagli Stati Uniti. In Italia, IrpiMedia è in partnership con Scomodo.

Mentre ci racconta la sua storia, Giorgio, con sua figlia Monica, ci accompagna in macchina tra i campi della Provincia autonoma di Trento. Questa è una delle zone che produce più mele in Italia e in Europa. Si trovano qui le sedi e i terreni di alcuni giganti del settore come Melinda, in Val di Non. Basta poco per accorgersi dell’intensità dell’agricoltura nell’area: tutt’intorno, andando da un paesino all’altro, si vedono campi di mele a perdita d’occhio. In alcuni casi i filari si trovano praticamente dentro i centri abitati, con i meli che vengono piantati in ogni angolo di terreno disponibile. I dati confermano questa impressione: l’Italia è la maggiore produttrice di mele in Europa e nel 2009 il Trentino-Alto Adige forniva il 65% delle mele in Italia. Ora la percentuale è ancora più alta visto che nel 2020 la produzione nella regione è aumentata e al contempo è diminuita quella totale italiana.

Il Trentino è anche la seconda regione in cui vengono venduti più pesticidi in Italia rispetto alla superficie agricola utilizzata. Come si legge infatti in un rapporto di ISPRA, nel 2018 la media nazionale italiana di principi attivi venduti era 4,3 kg per ettaro. Per la Provincia autonoma di Trento, questo valore è 9,8 kg/ha, più del doppio. Inoltre, non sembra che lo sfruttamento dei terreni dell’area sia diminuito. In un lungo giro in macchina, alcuni esponenti del Comitato per il Diritto alla Salute in Val di Non – un gruppo di attivisti legato a PAN Italia – ci mostrano l’ultimo caso di disboscamento a fini agricoli della zona, che ha sollevato non poche proteste. Nonostante le opposizioni, gli alberi sono stati sradicati tra settembre e ottobre 2019 – le date sono state confermate sia dal Comitato, sia dalle immagini satellitari – per fare spazio a nuovi meleti.

Comparazione satellitare (2015 – 2022) a Ville D’Anaunia (TN), dove il Comune ha disboscato 24mila m2 per fare posto a nuovi meleti
Comparazione satellitare (2015 – 2022) a Ville D’Anaunia (TN), dove il Comune ha disboscato 24mila m2 per fare posto a nuovi meleti

Questione di priorità

Tutto questo rende il Trentino un caso esemplare di rappresentazione delle contraddizioni e delle tensioni interne al sistema agricolo attuale. Politicamente, ciò si traduce in continui scontri tra i sostenitori di diverse posizioni su come superare il tradizionale modello di agricoltura intensiva basata sui pesticidi. Quello che è certo è che nessuno è esplicitamente a favore dei pesticidi e tutti riconoscono la necessità di diminuirne l’utilizzo. Ciò che cambia, ovviamente, è l’urgenza con cui viene sentita questa necessità, la percezione del rischio e la soluzione proposta. Alcuni pensano che serva urgentemente passare all’agricoltura biologica, se non addirittura biodinamica. Altri invece pensano che l’unico metodo realistico sia investire sempre di più nella tecnologia e nella ricerca, in modo da trovare pesticidi meno dannosi e piante che richiedono meno trattamenti.

Di questa opinione sono Sergio e Giovanni (nomi di fantasia), entrambi sulla 60ina, che lavorano come agricoltori part-time in un campo vicino alla sede dell’Unione Frutticoltori Rallo (TN), affiliato a Melinda. Uno dei due definisce il biodinamico come il Medioevo e insiste sul fatto che non bisogna andare indietro nel tempo. «Si deve andare avanti con il progresso – spiega – e con le nuove tecnologie. Questo è l’unico modo». Ci indicano alcuni filari di meli piantati da poco: si tratta di una varietà su cui Melinda sta investendo ultimamente, che è più resistente ad alcune malattie come la ticchiolatura e quindi ha bisogno di molti meno trattamenti con pesticidi rispetto alle varietà tradizionali. Secondo Sergio e Giovanni, questo è solo uno dei tanti sforzi che Melinda sta facendo per passare all’agricoltura biologica.

In realtà la transizione è più complicata. William Cattani, 33 anni, dal 2007 fa melicoltura biologica con il colosso della Val di Non. «Con l’agricoltura biologica, l’assistenza tecnica è così e così in Melinda: c’è un tecnico solo su oltre trecento ettari». «A dicembre – continua Cattani – ad un’assemblea proprio per il biologico c’erano alcuni agricoltori biologici, circa un centinaio. Un ragazzo giovane ha chiesto al direttore di Melinda: “Ma a voi interessa il biologico? O vi serve?”. E il direttore non ha risposto. Ha fatto un bel giro di parole, come fanno i bravi giocolieri, però la risposta non c’è stata».

Campi di mele intorno a Tuenno (TN) visti dal Malghetto di Tassullo. La superficie agricola coltivata del Trentino è quasi raddoppiata, passando dal 5,4% del 2016 al 9.8% del 2020 - Foto: Edoardo Anziano
Campi di mele intorno a Tuenno (TN) visti dal Malghetto di Tassullo. La superficie agricola coltivata del Trentino è quasi raddoppiata, passando dal 5,4% del 2016 al 9.8% del 2020 – Foto: Edoardo Anziano
La ticchiolatura

Ticchiolatura è il nome comune di una malattia del melo causata dal fungo Venturia Inaequalis, che colpisce foglie, rami e frutti. Sulla pianta infettata dal fungo si formano macchie di colore scuro, che causano la morte di rami e foglie e la deformazione delle mele. La ticchiolatura viene combattuta con trattamenti fitosanitari a base di polisolfuro di calcio o rame. Nel 2013 i meli della Val di Non sono stati aggrediti con una forza mai vista dal fungo, con circa il 15% delle piante che si sono ammalate.

La produzione biologica, in Trentino, sembra essere finalizzata esclusivamente al riempimento di una nicchia di mercato. L’Associazione dei Produttori Ortofrutticoli del Trentino (APOT) – un consorzio di “secondo livello”, cioè un’associazione che a sua volta raggruppa sotto di sé i consorzi di Melinda, la Trentina e Copag – coltiva 500 ettari di meleti biologici, il triplo rispetto al 2015. Tuttavia, spiega Alessandro Dalpiaz, direttore di APOT, «nel prossimo futuro questo progetto dovrà assestarsi e le prospettive di ulteriore espansione saranno valutate in ragione dello sviluppo del segmento biologico del mercato». Questo perché, continua Dalpiaz, gli agricoltori biologici devono essere remunerati in modo da «coprire l’aumento dei costi di coltivazione e la minore produttività».

Nella sede nazionale del WWF a Roma, Franco Ferroni, responsabile Agricoltura e Biodiversità dell’associazione, presenta un quadro simile. «In occasione del referendum sul biodistretto – spiega parlando di una consultazione tenutasi a settembre 2021 in Trentino, che non ha raggiunto il quorum necessario – da Melinda ci dicevano spesso che loro stavano investendo nel biologico. Peccato che si tratta di cifre irrisorie, il 2-3% della produzione». I dati presenti sullo stesso sito di Melinda confermano questa tesi. Su 6.700 ettari di meleti, solo 175 sono dedicati all’agricoltura biologica. Una ricerca tra le vecchie versioni del sito mostra che i numeri sono identici da almeno due anni, nonostante venga sottolineato che prevedono «di raggiungere in cinque anni una superficie coltivata a bio di 500 ettari».

Il referendum per il "biodistretto" in Trentino

Il 29 settembre 2021 gli abitanti del Trentino sono stati chiamati a votare per decidere la trasformazione della Provincia Autonoma in un “distretto” in cui la produzione agroalimentare avvenisse “prevalentemente con i metodi biologici”, ai fini “di tutelare la salute, l’ambiente e la biodiversità”. Sostenuto da Greenpeace, Legambiente e WWF, il referendum avrebbe imposto un minimo del 50% di superficie agricola coltivata con tecniche biologiche. La Confederazione Italiana Agricoltori si è invece dichiarata contraria. La consultazione non ha raggiunto il quorum necessario del 40%, fermandosi al 15.58%.

La posizione di Sergio e Giovanni nei confronti del biologico rimane in ogni caso ambigua. Da un lato sottolineano gli sforzi di Melinda, dall’altro enfatizzano gli aspetti negativi di questo metodo di coltivazione. «Il biologico è ancora peggio [del biodinamico, ndr] perché ogni volta hai un odore spaventoso di uova marce per due giorni», dice uno dei due riferendosi all’odore dei prodotti a base di zolfo, ammessi in agricoltura biologica. L’altro subito dopo lo corregge sottolineando che «non è né meglio né peggio. Alla fine sono tutti prodotti nocivi che avranno delle loro controindicazioni. Però il biologico usa prodotti di trent’anni fa mentre uno spera che con il progresso i prodotti diventino meno dannosi».

In realtà le evidenze scientifiche mostrano abbastanza chiaramente come lo zolfo sia uno dei prodotti meno tossici rispetto ai pesticidi convenzionali, nonostante l’odore sgradevole. Man mano che parliamo, si nota sempre di più che la percezione del rischio dei due agricoltori non è conforme alla realtà. I due minimizzano i pericoli dicendo che i prodotti ormai hanno un tasso di dispersione bassissimo.

Un meleto intensivo nel comune di Cles (TN). Dei 10.700 ettari dedicati alla frutticoltura in Trentino, 1.071 sono biologici, il doppio rispetto al 2016 - Foto: Edoardo Anziano

Un meleto intensivo nel comune di Cles (TN). Dei 10.700 ettari dedicati alla frutticoltura in Trentino, 1.071 sono biologici, il doppio rispetto al 2016 – Foto: Edoardo Anziano

Contaminazioni

Proprio a Clés incontriamo il Comitato per il Diritto alla Salute in Val di Non, che ci spiega perché i pesticidi vengano percepiti come meno dannosi di quanto in realtà siano. I membri del Comitato hanno richiesto di rimanere anonimi. «Per noi – ci scrivono dopo l’intervista – è una grande umiliazione non poter parlare liberamente e metterci la faccia, ma abbiamo delle responsabilità su altri soggetti (parenti e figli) che non ci permettono di rischiare un’altra volta». Nel 2012, infatti, il Comitato era stato denunciato per diffamazione da APOT, il consorzio di cui fa parte Melinda, per aver «diffuso notizie false e tendenziose circa gravi pericoli alla salute derivanti dall’utilizzo di sostanze fitosanitarie nel locale ambiente agricolo». Accuse infondate secondo il PM Marco Gallina che, nella richiesta di archiviazione, aveva sottolineato come le preoccupazioni del Comitato fossero supportate «da analisi chimiche e biologiche evidenzianti situazioni inquinanti – se non allarmanti, certamente preoccupanti».

«Una volta i pesticidi venivano polverizzati di meno – spiegano i membri del Comitato – quindi le gocce sparate erano più visibili: vedevi il nuvolone. Oggi vengono sparati sotto forma di aerosol perché coprono meglio le superfici delle foglie e dal punto di vista ottico è un vantaggio perché non vedi quasi nulla. Però in realtà si disperde ancora di più». Sono diverse le evidenze scientifiche a sostegno di questa tesi. Oltre ad una spiegazione strettamente fisica, nella stessa regione del Trentino-Alto Adige sono state trovate delle contaminazioni da pesticidi anche fuori dai terreni coltivati.

In uno studio del 2021, alcuni ricercatori hanno esaminato l’erba presente nelle aree di gioco per bambini a meno di 100 metri da campi agricoli intensivi e hanno trovato residui di molti pesticidi, tra cui anche potenziali cancerogeni come il captano o agenti neurotossici come il chlorpyrifos – vietato in Ue dal 2020. In alcuni casi, i livelli eccedevano anche il livello massimo di residui consentiti negli alimenti – il che vuol dire che se una persona iniziasse a curare un orto in quella stessa zona, rischierebbe di mangiare alimenti dannosi per la salute umana.

Risultati simili vengono anche da un report meno recente (2010) redatto proprio dal Comitato per il Diritto alla Salute in Val di Non. I membri hanno analizzato vari aspetti legati ai pesticidi, a partire dal numero di infrazioni commesse in una porzione di territorio della Val di Non. In soli tre mesi di monitoraggio, hanno notato circa 500 casi di violazione delle ordinanze comunali che regolano la distanza minima dalle case per utilizzare i pesticidi e le condizioni atmosferiche necessarie. Oltre a questo, hanno fatto analizzare dei campioni presi dalle loro case, trovando numerosi residui di varie sostanze attive contenute nei fitofarmaci. Infine hanno fatto analizzare le urine di alcuni abitanti dell’area, compresi alcuni bambini, scoprendo la presenza di alcuni valori anomali dovuti molto probabilmente alla contaminazione da pesticidi.

Questo stesso studio è stato citato dal PM Marco Gallina, il quale nella richiesta di archiviazione della denuncia per diffamazione che «estremamente significativa appare la relazione tecnica predisposta dallo stesso comitato, circa la problematica della “deriva” dei prodotti fitosanitari nelle zone residenziali della valle». Più avanti sottolinea anche che «il tutto viene supportato da analisi chimiche e biologiche evidenzianti situazioni inquinanti – se non allarmanti, certamente preoccupanti».

Giorgio Baldo mostra un preparato biodinamico a base di fiori - Foto: Edoardo Anziano
Giorgio Baldo mostra un preparato biodinamico a base di fiori – Foto: Edoardo Anziano

La soluzione ideale, per il Comitato, è passare all’agricoltura biodinamica. A più riprese ce ne sottolineano le qualità, e non sono gli unici. In un lungo discorso sulla storia agricola della Val di Non, Italo Francisci, un agricoltore della zona, ci parla del biodinamico come «la cura alla malattia», in cui la malattia è l’agricoltura intensiva e in generale la monocoltura. Quando facciamo notare ai vari sostenitori di questa dottrina che ci sono molti aspetti scientificamente infondati all’interno del biodinamico, dicono che spetterebbe alla scienza capire meglio perché l’agricoltura biodinamica dia luogo a frutti migliori e a una qualità del suolo più alta. In realtà non sono molti gli studi scientifici che analizzano questi aspetti e non esiste un accordo all’interno della comunità scientifica (due diverse review sulla letteratura scientifica sul tema, ad esempio, sono arrivate a conclusioni opposte).

Resta il fatto che l’agricoltura biodinamica sembra impraticabile su larga scala. Tutti gli agricoltori biodinamici con cui abbiamo parlato ammettono che questo tipo di agricoltura rende ancora meno di quella biologica in termini di produzione e richiede molto più lavoro, oltre ad essere attualmente molto poco diffusa – secondo il Sole24Ore, solo il 5-6% delle aziende biologiche in Italia applicano anche metodi biodinamici.

Il partito degli agricoltori

In un contesto in cui ci sono così tanti conflitti di priorità, visioni e interessi tra i cittadini, il ruolo delle istituzioni politiche, economiche e scientifiche dell’area è fondamentale. Queste intervengono nel dibattito e lo influenzano in vario modo, oltre a fornire le direttive e le normative a cui gli agricoltori devono attenersi. Il problema è che rapporti tra i soggetti coinvolti non sono limpidissimi.

Uno dei maggiori attori in questo gioco è proprio APOT (Associazione Produttori Ortofrutticoli Trentini). É questo infatti che, insieme a vari gruppi tecnici e alla giunta provinciale, definisce e aggiorna annualmente i Disciplinari di Produzione, delle regole precise che servono ad rendere effettive le linee guida date dal Ministero a livello nazionale. É evidente quindi che si tratta di un soggetto molto influente nelle dinamiche politiche locali.

Non è facile definire il peso di Melinda all’interno di APOT (e quindi anche nella politica locale). Sergio e Giovanni non sono d’accordo fra di loro. Uno dice che sono due cose totalmente diverse, che Melinda non c’entra nulla nel processo di definizione delle regole e delle normative tecniche. L’altro nel frattempo ridacchia e sottolinea che alla fine è comunque Melinda che organizza i corsi di aggiornamento e che si spende per fare in modo che gli agricoltori partecipino. Dal Comitato ci dicono che effettivamente Melinda ha un ruolo importante sia dentro APOT – dopotutto ne è il socio più grande – sia in generale nella politica dell’area. «Gli agricoltori in questa zona sono 12-15mila – spiega un esponente del Comitato – e sono una parte influente della popolazione. É normale quindi che un consorzio così grande come Melinda sia sempre presente ai tavoli politici. E anche quando non c’è formalmente, in qualche modo influisce».

Nella sede del Consiglio Provinciale, nel centro storico di Trento, il consigliere ex-5Stelle Filippo Degasperi ci descrive più nel dettaglio chi sono i personaggi principali in questa dinamica. In particolare parla della Fondazione Mach, un’organizzazione che – come si legge sul sito – si occupa di ricerca scientifica, istruzione e formazione, sperimentazione, consulenza e servizio alle imprese, nei settori agricolo, agroalimentare e ambientale. Alessandro Dalpiaz entra più nel dettaglio e sottolinea che tra Fondazione Mach e APOT è stata stipulata una convenzione triennale, che comprende «le attività di ricerca e sperimentazione, le attività di consulenza tecnica e di controllo», e che vede un impegno finanziario diretto da parte di APOT è di un milione di euro l’anno.

Secondo Degasperi, è da Fondazione Mach che la politica prende le conoscenze tecniche necessarie per sviluppare i regolamenti e le norme tecniche sui trattamenti fitosanitari. «La regia vera – dice – ce l’ha la Fondazione Mach». La Fondazione ha aiutato la Giunta Provinciale a sviluppare gli ultimi Disciplinari di Produzione del Trentino. Il problema per Degasperi è che anche dentro Mach è mancata la spinta per andare verso soluzioni più sostenibili: «Ci si è adagiati su una situazione di vantaggio competitivo, che ha portato tanti benefici alla Val di Non ma che ha avuto molte ricadute sull’ambiente».

La fascia di diserbo in un meleto in prossimità del Rio Ribosc (Cles), un torrente inquinato dai pesticidi già a pochi chilometri dall'origine. I campionamenti ISPRA nel 2019 avevano rilevato 25 differenti fitofarmaci nell'acqua - Foto: Edoardo Anziano
La fascia di diserbo in un meleto in prossimità del Rio Ribosc (Cles), un torrente inquinato dai pesticidi già a pochi chilometri dall’origine. I campionamenti ISPRA nel 2019 avevano rilevato 25 differenti fitofarmaci nell’acqua – Foto: Edoardo Anziano

Dalpiaz fornisce alcune informazioni in più sull’impegno della fondazione per cercare soluzioni alternative all’agricoltura convenzionale. «Come frutto di una stretta cooperazione – spiega – con la Fondazione E. Mach e con i suoi ricercatori e tecnici, nel rispetto dei disciplinari di difesa integrata e biologica nazionali e provinciali, si possono oggi testimoniare importanti risultati». Fra questi, c’è il metodo della «confusione sessuale», che impedisce la riproduzione di alcuni lepidotteri dannosi per i meli, applicato stabilmente su «oltre 7.000 ettari di superficie melicola». Dalpiaz sottolinea comunque che oggi è ancora necessario usare i pesticidi per garantire la sostenibilità economica alle famiglie impiegate nel settore, ma che la ricerca scientifica porterà sempre di più verso soluzioni sostenibili applicabili su larga scala. Ed è proprio questa la linea che emerge da alcune delle ultime dichiarazioni provenienti da Mach: il biologico non può funzionare su larga scala, la soluzione arriva dal progresso della ricerca tecnica. Fondazione Mach non ha risposto alle domande presentate da Scomodo e IrpiMedia.

Ai piani alti

Secondo chi vuole un passaggio più rapido possibile verso un’agricoltura biologica su larga scala in Val di Non, è anche la presenza di questi tre attori – APOT, Melinda e Fondazione Mach – a rallentare la trasformazione. Ma, come sottolinea anche Degasperi, tutto questo è possibile solo perché la legislazione a livelli più alti – statale e europeo – offre un quadro normativo poco stringente. In Europa, la principale strategia per la riduzione dell’utilizzo dei pesticidi si chiama Farm to Fork. Tra i suoi obiettivi c’è quello di abbassare del 50% l’uso dei prodotti fitosanitari più pericolosi. Il problema è che questi rischiano di rimanere solamente sulla carta.

Ferroni del WWF la racconta come una delle maggiori occasioni perse degli ultimi tempi: «Le strategie non sono vincolanti per gli Stati membri. La possibilità di rendere vincolanti gli obiettivi ce la siamo giocata quando il Parlamento europeo ha votato i nuovi regolamenti della Politica Agricola Comune (PAC) e non ha recepito gli obiettivi delle strategie». E questo sarebbe stato molto importante, perché legare gli obiettivi alla PAC voleva dire legarli «ai soldi che la Commissione europea mette sull’agricoltura». Anche altri osservatori confermano questo scollamento tra gli obiettivi del Green Deal europeo e la Politica Agricola Comune. Il consorzio Melinda inoltre è stato uno dei maggiori beneficiari dei soldi della PAC nel 2018, ricevendo più di 16 milioni di euro (nel 2019 questa cifra si è molto ridotta, arrivando a poco più di 3 milioni).

Per il nostro Paese inoltre l’eccessiva elasticità delle leggi in materia è un problema particolarmente accentuato. Ogni Stato deve fornire alla Commissione europea un “Piano Strategico”, sostanzialmente un insieme di criteri e misure attuative per amministrare e distribuire i fondi della PAC. Il Piano italiano è stato criticato dalla Commissione europea proprio perché troppo vago sugli obiettivi ecologici legati ai pesticidi. In generale poi viene sottolineato che, rispetto agli impegni ambientali presi dall’Unione, «è improbabile che il piano proposto possa contribuire in modo sufficiente ed efficace a questo obiettivo generale».

E questo è solo uno degli aspetti deboli della legislazione italiana sul tema. Lo stesso Ferroni spiega come ogni Stato dovrebbe anche stilare un Piano d’Azione Nazionale per l’utilizzo sostenibile dei prodotti fitosanitari. Questo dovrebbe fornire una serie di prescrizioni precise come la distanza minima dalle case quando si utilizzano i pesticidi. «Beh, in Italia – dice Ferroni – abbiamo un Piano d’Azione che è scaduto a febbraio 2019. È stata poi fatta una consultazione pubblica chiusasi a ottobre 2019, sulla base di una bozza del piano che abbiamo trovato molto deficitaria in materia ambientale». Ad oggi, il Piano ancora non è stato reso definitivo.

CREDITI

Autori

Edoardo Anziano
Francesco Paolo Savatteri

Editing

Lorenzo Bagnoli

Mappe

Edoardo Anziano

Foto di copertina

Un trattore attrezzato con atomizzatore per i trattamenti fitosanitari passa fra i meleti di Aldeno (TN)
(Edoardo Anziano)

Come i pesticidi potenzialmente pericolosi restano legalmente sul mercato

#PesticidiAlLavoro

Come i pesticidi potenzialmente pericolosi restano legalmente sul mercato

Edoardo Anziano
Francesco Paolo Savatteri

In Italia, secondo gli open data forniti dal governo, i pesticidi ri-registrati – cioè quelli tuttora utilizzabili – sono 1.085 (a fronte di 1471 prodotti autorizzati e mai ri-registrati, e più di 12 mila prodotti revocati). Sulla carta il processo di ri-registrazione è perfettamente razionale. Man mano che la conoscenza scientifica avanza, le indicazioni d’uso di alcuni pesticidi cambiano e gli agricoltori, leggendo le nuove etichette, si adeguano. Tuttavia, la vita reale è molto diversa da ciò che viene scritto sulle etichette.

A dimostrarlo per primo è uno studio durato più di vent’anni sulle condizioni di lavoro degli agricoltori esposti ai pesticidi. Si chiama Pestexpo e si è concentrato soprattutto sulla Normandia. Ne abbiamo parlato nel primo episodio di questa inchiesta. In sostanza, i risultati a cui arriva – confermati poi da altre ricerche – sono due. Il primo è che i lavoratori agricoli molte volte non seguono le prescrizioni indicate nelle etichette o nei regolamenti, anche perché spesso queste sono irragionevoli e richiedono un livello di attenzione simile a quello di un’operazione chirurgica. Il secondo è che paradossalmente gli agricoltori che utilizzano i dispositivi di protezione individuali (guanti, tute ecc.) sono più esposti alle contaminazioni da pesticidi rispetto a chi non li usa.

Oltre a questo, le carte di alcuni processi giudiziari in corso mostrano come in Italia in alcuni casi vengano tuttora utilizzati pesticidi vietati, senza alcun riguardo per le condizioni di sicurezza dei lavoratori.

Il processo di ri-registrazione delle sostanze rischia di essere inutile nella migliore delle ipotesi; nella peggiore, un modo per tenere sul mercato prodotti fitosanitari che potrebbero danneggiare la salute degli agricoltori. Esempi di questo genere non mancano: il mancozeb è una sostanza attiva revocata dalla Commissione europea a fine 2020. Diversi studi suggeriscono che un’esposizione prolungata a questo composto può concorrere alla comparsa di malattie neurodegenerative come il morbo di Parkinson. Eppure è stato definitivamente pensionato solo dal gennaio 2022.

Il sistema di autorizzazione dei pesticidi

La legge che definisce i principi di base dell’immissione sul mercato dei pesticidi in Europa è il regolamento 1107, approvato dal Parlamento europeo nel 2009. A questo sono seguiti diversi decreti e provvedimenti attuativi. Le sostanze attive, cioè i composti chimici che permettono a un pesticida di svolgere la sua funzione, sono approvate a livello europeo. Invece i singoli prodotti fitosanitari sono approvati o revocati a livello dei singoli Stati membri. Per questo esiste un database europeo delle sostanze attive approvate in Ue e allo stesso tempo un database italiano dei pesticidi approvati.

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Una protesta contro la multinazionale Ferrero di fronte alla sede di Federalimentari a Roma il 17 aprile 2018. Coltivatori dall'Italia, Georgia e Turchia lamentano la strategia aziendale - secondo cui i contratti riducono gli agricoltori a meri lavoratori - e l'utilizzo intensivo di fertilizzanti e pesticidi - Foto: Stefano Montesi/Corbis-Getty

Una protesta contro la multinazionale Ferrero di fronte alla sede di Federalimentari a Roma il 17 aprile 2018. Coltivatori dall’Italia, Georgia e Turchia lamentano la strategia aziendale – secondo cui i contratti riducono gli agricoltori a meri lavoratori – e l’utilizzo intensivo di fertilizzanti e pesticidi – Foto: Stefano Montesi/Corbis-Getty

Le sostanze ammesse in Europa hanno una data di scadenza. Infatti, le autorizzazioni rilasciate dalla Commissione europea durano un tempo limitato, solitamente intorno ai 10 anni. Alla fine di questo periodo, la sostanza viene riesaminata sulla base delle nuove evidenze scientifiche emerse e si decide se rinnovare l’autorizzazione o meno.

A volte però può capitare che una certa sostanza non venga totalmente vietata ma solamente che ne vengano modificate le indicazioni d’uso. Per fare un esempio, può essere che al momento della revisione si scopra che una certa sostanza può essere letale se viene ingerita. Dieci anni prima, al momento della sua approvazione iniziale, si pensava potesse arrecare danni ma senza portare alla morte. A quel punto, la Commissione può decidere che si possono continuare a utilizzare i pesticidi a base di quella sostanza ma che da ora in poi sull’etichetta deve essere scritto «Attenzione: letale se ingerito». A questo punto la palla passa agli Stati membri, che devono fare in modo che ciò accada per ogni singolo pesticida coinvolto.

Questo è quello che si chiama un processo di “ri-registrazione” di un prodotto fitosanitario.

Il processo, è opportuno specificarlo, non è sempre così lineare. Può capitare che un singolo stato ri-registri alcuni pesticidi solamente a causa di nuove disposizioni nazionali o altro.

La ri-registrazione di Ziram e mancozeb

Un esempio può aiutare a capire nel concreto cosa questo processo comporta. L’autorizzazione del prodotto Crittam WG, a base della sostanza attiva Ziram, dovrebbe scadere il 30 aprile di quest’anno ma nel 2020 è stato ri-registrato con una nuova etichetta. Sebbene l’etichetta subito precedente all’ultima ri-registrazione non sia rintracciabile su internet, si trovano facilmente quella del 2012 e quella attuale. È probabile che in questo lasso di tempo ci siano state varie ri-registrazioni del prodotto e quella del 2020 è solo l’ultima di una serie. Vale la pena comunque di vedere le differenze tra le due.

Innanzitutto vengono aggiunti due simboli di pericolo. In particolare uno che indica che il prodotto è corrosivo e un altro che segnala che può provocare danni gravi se inalato o ingerito. Cambiano anche le indicazioni di pericolo. L’inalazione del pesticida diventa da «molto tossica» a «letale», e anche le procedure da seguire in caso di incidente cambiano: nel 2020 si specifica che in caso di inalazione l’infortunato deve essere portato all’aria aperta e messo in una posizione che favorisca la respirazione; nel 2012 invece si riportava solamente che bisognava allontanarlo dalla zona contaminata e «mantenerlo a riposo». Il lavoratore che utilizza questo pesticida oggi dovrebbe fare quindi decisamente più attenzione una volta notate queste modifiche.

In Italia se un lavoratore agricolo sviluppa il morbo di Parkinson dopo un’esposizione ripetuta per diversi anni a un pesticida a base di mancozeb, l’Inail considera automaticamente tale patologia come un caso di malattia professionale (a patto che si siano sempre rispettate tutte le norme di sicurezza, cosa non affatto scontata). Attualmente questa è l’unica sostanza per cui le cose funzionano in questo modo oltre al maneb – una sostanza molto simile alla prima, revocata molti anni fa. Prima di essere finalmente revocati, i prodotti a base di mancozeb sono stati ri-registrati varie volte. Secondo la banca dati del Ministero della salute, le scorte di alcuni tra questi prodotti potevano essere smaltite fino a circa due mesi fa.

La scappatoia delle emergenze fitosanitarie

Il regolamento europeo del 2009 contiene anche una normativa che permette a ciascuno Stato membro di consentire l’uso di fitofarmaci in deroga alle norme sulla sicurezza sanitaria e ambientale. Questo significa che, per un periodo limitato di tempo – al massimo due mesi – possono essere venduti e usati pesticidi al di fuori dei limiti entro cui erano stati originariamente approvati.

Si tratta dell’articolo 53, che regolamenta l’utilizzo di pesticidi per «situazioni di emergenza fitosanitaria». Secondo questa norma, i cosiddetti «portatori di interesse» – organizzazioni agricole o enti locali – possono segnalare la presenza, su un determinato territorio, di un fungo, un parassita o un insetto che non può essere combattuto con altri mezzi se non con l’approvazione in deroga di un determinato prodotto. Il costo di ciascuna richiesta è di 4 mila euro.

La procedura dell’approvazione in emergenza, però, solleva molti problemi.

Prima di tutto, possono essere approvati in emergenza anche pesticidi non autorizzati nell’Unione europea, a condizione che si forniscano «informazioni dettagliate […] sui possibili rischi per la salute umana e per l’ambiente» che hanno portato alla mancata approvazione. Non solo, la procedura può essere ripetuta per più anni consecutivi. La condizione è che il prodotto «non abbia comportato effetti negativi per l’ambiente e siano state fornite adeguate informazioni sanitarie relativamente ad operatori, astanti e residenti».

Tuttavia, come hanno dimostrato le puntate precedenti dell’inchiesta #PesticidiAlLavoro, nonostante lo spargimento di pesticidi richieda l’utilizzo di dispositivi di protezione personale, le reali condizioni di lavoro rendono questa prescrizione impossibile. Inoltre, studi scientifici hanno sollevato dubbi sulla reale efficacia di mascherine e tute durante i trattamenti fitosanitari.

La premessa, come descritto dal Ministero della salute, è che «le autorizzazioni in deroga per situazioni di emergenza fitosanitaria non dovrebbero essere reiterate». Al contrario, i dati mostrano che molti prodotti vengono approvati in deroga consecutivamente, anno dopo anno e, talvolta, anche più volte durante lo stesso anno, per diverse colture o avversità. Inoltre, in Italia l’utilizzo dell’approvazione in emergenza è in costante crescita: le 51 approvazioni del 2015 sono quasi raddoppiate (91) nel 2021.

I prodotti autorizzati in Italia per emergenza fitosanitaria

Il numero di decreti rilasciati in Italia tra il 2015 e il 2021 per estendere l’impiego di prodotti fitosanitari (già approvati) ad usi di emergenza fitosanitaria

Non è solo un problema di numeri, ma anche di trasparenza. Il sito del Ministero della salute riporta tutti i decreti di approvazione in emergenza. I dati sono disponibili dal 2015 ad oggi, ma solo per i primi due anni sono presenti i nomi di alcuni portatori di interesse che hanno presentato l’istanza, ad esempio il Consorzio Basilico Genovese D.O.P. o la Federazione Provinciale Coldiretti di Lecce. Dal 2017 al 2021, però, è presente solamente la generica indicazione «Alcuni portatori di interesse»; non è possibile quindi rintracciare l’associazione che ha presentato la richiesta, fra cui rientrano anche le «Organizzazioni di Produttori».

In risposta a una richiesta di accesso civico generalizzato presentata da Scomodo, il Ministero della salute non ha fornito la lista dei portatori di interesse. Inoltre, i dati disponibili mostrano solamente le istanze approvate, ma non il numero di quelle presentate. Non è noto, pertanto, se e quante richieste siano state rigettate. Anche su questo punto, nella sua risposta, il Ministero della salute non ha fornito informazioni, limitandosi a rimandare alla pagina web. In cui, però, compaiono solo le procedure che hanno avuto esito favorevole. Sul sito del Ministero non è disponibile alcun documento che menzioni approvazioni in emergenza con esito “contrario” o “sfavorevole”.

I prodotti autorizzati in Europa per emergenza fitosanitaria

Il numero di decreti approvati in emergenza sanitaria tra il 2016 e il 2021 nei Paesi Ue, e raffronto con l’Italia e la media europea

“Potenzialmente cancerogeni” eppure sul mercato

Nelle liste dei prodotti per cui è stato concesso l’utilizzo in deroga si trovano sostanze di ogni tipo. Ci sono «prodotti fitosanitari a base dei composti del rame» come la poltiglia bordolese, un antifungino naturale al quale è correlata l’insorgenza del morbo di Parkinson, a seguito di un’eccessiva esposizione.

Un altro prodotto approvato in emergenza dal 2015 al 2017 e poi nuovamente nel 2021 è l’1,3 Dicloropropene. L’Environmental Protection Agency statunitense lo inserisce nell’insieme dei prodotti potenzialmente cancerogeni, per quanto le informazioni a riguardo siano definite «limitate». Una ricerca del 2021 pubblicata sulla Critical Reviews in Toxicology, comunque, ha evidenziato che il potenziale cancerogeno di questa sostanza «non è rilevante a livelli di esposizione umana».

In Italia, dopo che l’1,3 Dicloropropene è stato riapprovato nel 2021, la Coldiretti ha criticato la necessità di rispettare un intervallo di due anni fra un utilizzo e un altro. Inoltre, l’associazione dei coltivatori ha sottolineato la mancanza dell’approvazione per alcune colture, sulle quali «l’impossibilità di impiego del dicloropropene rischia di avere ricadute economiche pesantissime».

L'utilizzo di pesticidi in una vigna a Franciacorta (Brescia) - Foto: m.bonotto/Shutterstock

L’utilizzo di pesticidi in una vigna a Franciacorta (Brescia) – Foto: m.bonotto/Shutterstock

C’è poi il Penncozeb Dg, un fungicida approvato quattro volte negli ultimi sette anni. Uno studio del 2021 ha evidenziato che il principio attivo contenuto in questo prodotto, il già citato mancozeb, è «potenziale causa di diversi problemi di salute, principalmente epatici, renali e genotossici». «Il deliberato uso di questo prodotto – conclude lo studio – […] è un problema di salute pubblica». Un’altra ricerca, condotta nel 2018 dall’Università di Milano, ha dimostrato come l’esposizione al mancozeb è bassa se gli agricoltori utilizzano i dispositivi di protezione personale. Una condizione che, in condizioni lavorative reali, difficilmente si realizza.

Fra i prodotti approvati in emergenza si trovano anche sostanze come il Reldan, un insetticida vietato dalla Commissione europea nel 2020, il cui nome – come avevamo già raccontato – compare nelle carte dell’inchiesta Job tax della Procura di Latina. Nonostante questo pesticida sia potenzialmente tossico per il Dna e per il tessuto nervoso, dalle intercettazioni emerge come fosse utilizzato da lavoratori senza formazione specifica né dispositivi di protezione personale. Nelle carte della stessa inchiesta viene menzionato un altro insetticida, il Karate, approvato in emergenza del 2017, 2019 e 2020. Una conversazione fra due indagati nell’inchiesta Job tax mostra come il prodotto fosse utilizzato in quantità superiori al consentito: «Ci è andato 120 ml di Karate in più» dice il proprietario dell’azienda agricola. Questo pesticida è potenzialmente cancerogeno e in grado di danneggiare gli organi in caso di esposizione prolungata.

Approvazioni reiterate

Il numero di volte in cui un prodotto è stato approvato e ri-approvato in emergenza in Italia tra il 2015 e il 2021

Alcuni pesticidi, poi, sono stati approvati in emergenza almeno una volta all’anno negli ultimi sette anni. Ad esempio il Devrinol (11 volte), un diserbante per cui le informazioni disponibili non consentono di escludere danni alla salute umana in caso di esposizione. Oppure l’insetticida Movento (9 volte): già nel 2012 uno studio del Norwegian Scientific Committee for Food Safety aveva mostrato come la sostanza attiva contenuta in questo prodotto «mostra effetti tossici in cani e ratti che potrebbero essere rilevanti per gli esseri umani». Una ricerca condotta in Iran nel 2016 ha concluso che l’esposizione al Movento può danneggiare il sistema riproduttivo.

Il sistema delle autorizzazioni di pesticidi in deroga alle norme di tutela sanitaria e ambientale, in conclusione, viene utilizzato in modo sistematico, come mostrano i numeri in crescita e le approvazioni reiterate. Come denunciato dall’Associazione dei consumatori europei, con questo meccanismo, «gruppi di interesse premono per ottenere deroga per presunte “emergenze” favorendo la diffusione di sostanze tossiche e nocive autorizzate per presunte “mancanze di alternative”». L’associazione Pesticide Action Network Europe ha denunciato come «nel mondo dell’agricoltura, scappatoie e porte di servizio sono le vie principali per consentire l’uso dei pesticidi». Una di queste porte di servizio è proprio l’approvazione in emergenza.

CREDITI

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Edoardo Anziano
Francesco Paolo Savatteri

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Edoardo Anziano

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Lorenzo Bagnoli

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L’utilizzo di pesticidi in una vigna a Franciacorta in provincia di Brescia
(m.bonotto/Shutterstock)

La zona grigia dell’agricoltura dei pesticidi

#PesticidiAlLavoro

La zona grigia dell’agricoltura dei pesticidi

Edoardo Anziano
Lorenzo Bagnoli
Francesco Paolo Savatteri

Èun mistero il numero di lavoratori agricoli che si sono ammalati o sono morti in Europa di malattie come Parkinson e tumore alla prostata negli ultimi cinquant’anni. Nonostante la pletora di studi che riconoscono il nesso tra alcune patologie e le sostanze attive dei fitofarmaci, i dati sanitari sui lavoratori scarseggiano, anche per la poca volontà di conoscere fino in fondo la situazione, come raccontato nella scorsa puntata di #PesticidiAlLavoro.

A mantenere l’alone di mistero intorno ai dati italiani sulle malattie correlate all’uso dei pesticidi, ci sono prassi consolidate, regolamenti sorpassati e disinteresse nella gestione dei rischi di infortunio sul lavoro. Di fondo, c’è un’opacità del mondo agricolo che è dovuta in parte alla mancanza di personale che dovrebbe svolgere i controlli: ispettori del lavoro, forze dell’ordine (Guardia di finanza e Nas), ispettori Inps e Inail, ispettori regionali dei fitofarmaci. Sei categorie sotto organico – hanno spiegato a IrpiMedia fonti del settore – che non riescono a controllare quanto dovrebbero, soprattutto le aziende più piccole, le più numerose e le più esposte.

L'inchiesta in breve
  • In Italia i pochi dati sulle morti e i casi di malattia riconducibili all’uso dei pesticidi sono dovuti a una serie di fattori strutturali.
  • Il mercato agricolo italiano è composto da aziende a conduzione familiare spesso piccole e con poca capacità ad adeguarsi alle regole per la sicurezza. Le organizzazioni che dovrebbero svolgere controlli periodici sulle condizioni di lavoro sono sotto organico e questo incentiva delle condizioni di irregolarità nella gestione dei prodotti più pericolosi.
  • Momo e Job Tax sono due inchieste delle procure di Cuneo e Latina per sfruttamento lavorativo. Entrambe, però, hanno raccolto prove dell’uso di fitofarmaci senza mascherine e senza la minima formazione da parte degli stessi lavoratori stagionali stranieri sfruttati.
  • Tra i fitofarmaci usati senza precauzioni ci sono anche prodotti che sono stati recentemente vietati dalla Commissione europea perché ritenuti pericolosi.
  • Tra questi ce n’è anche uno di quelli inseriti dall’Inail tra le lavorazioni previste per il riconoscimento del morbo di Parkinson. Lavorazione, malattia e tempo utile della denuncia sono le tre condizioni richieste per l’ottenimento della malattia occupazionale.
  • C’è la possibilità anche di ottenere il riconoscimento di un indennizzo attraverso una causa legale, ma non sempre medici del lavoro e patronati sono preparati a sufficienza per dare un vero contributo ai ricorsi.

L’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) spiega che solo 260 ispettori (dati 2020) si occupano della categoria Salute e sicurezza, in cui rientrano anche il mancato uso dei dispositivi di protezione individuale (Dpi) e la mancata formazione dei lavoratori. Per il settore agricolo, le violazioni in materia di Salute e sicurezza accertate dall’Inl nel 2020 sono state 660. «Si sta cercando solo adesso di incentivare la conoscenza e di migliorare le condizioni di prevenzione alla sicurezza nell’uso dei fitofarmaci», spiega l’agronomo Carlo Antellini, formatore di corsi Inail per l’uso dei fitofarmaci che opera nella regione della Sabina, nel Lazio.

Malgrado le regole da seguire, «il mercato è talmente viziato che i prodotti si vendono online», aggiunge. In teoria, infatti, il mercato dei pesticidi dovrebbe essere altamente regolato. I punti vendita dovrebbero consegnare il prodotto solo a chi può esibire un patentino. Invece sulle piattaforme e-commerce generaliste chiunque può comprare, anche prodotti che ormai sono vietati sul mercato europeo, ma che continuano a circolare altrove (vedi articolo precedente). Significa che il patentino obbligatorio per l’acquisto di un fitosanitario non verrà richiesto. «Servirebbero più controlli», è l’auspicio di Antellini. I consorzi di agricoltori autorizzati a vendere i pesticidi non hanno risposto alle richieste di chiarimenti di Scomodo e IrpiMedia in merito al funzionamento del mercato dei prodotti fitosanitari e ai connessi problemi di controlli..

Da alcuni casi giudiziari è possibile comunque ricostruire il modo in cui alcune aziende hanno gestito i fitofarmaci negli ultimi anni. Sono una fonte collaterale, perché i procedimenti sono scaturiti dopo segnalazioni di sfruttamento lavorativo, quindi nulla a che vedere con l’uso dei fitofarmaci.

Le malattie tabellate

Perché un lavoratore, una volta che si presentano i sintomi di una patologia, possa ottenerne da parte dell’Inail il riconoscimento “automatico” del suo carattere professionale, devono verificarsi tre condizioni: la malattia deve essere inserita nelle tabelle Inail delle malattie riconosciute come professionali; la malattia deve essere provocata da una lavorazione prevista dall’Inail; deve essere denunciata entro un periodo stabilito («periodo massimo di indennizzabilità»). Altrimenti può sempre percorrere la via giudiziaria e presentarsi di fronte a un giudice del lavoro. Strada che però è più difficile e costosa.

Per il morbo di Parkinson, le lavorazioni previste sono quelle «che espongono
all’azione del etilenbisditiocarbammato di manganese» entro dieci anni. L’etilenbisditiocarbammato di manganese è una molecola che si trova all’interno di certi fungicidi come il Mancozeb, revocato nel febbraio 2021.

Le operazioni Momo e Job Tax

I dati del Laboratorio sullo sfruttamento lavorativo dell’associazione AdiR – L’altro diritto aggiornati al 2020 riportano un solo caso, a Saluzzo, in cui i braccianti agricoli entravano a contatto con i fitofarmaci – sia nei campi che nei magazzini – senza alcun tipo di dispositivo di protezione personale. L’inchiesta, denominata operazione Momo, è iniziata nel maggio del 2019 sotto la guida della Procura di Cuneo. Un presunto caporale era stato arrestato, mentre due imprenditori erano finiti ai domiciliari con l’accusa di sfruttamento lavorativo. Durante il processo, iniziato a settembre 2020 e ancora in corso, gli imprenditori hanno rigettato l’accusa di sfruttamento, sottolineando di non aver mai effettuato trattamenti fitosanitari mentre i lavoratori si trovavano nei campi.

Ad aprile 2021, in provincia di Latina, sette persone – fra imprenditori agricoli e presunti caporali – sono state arrestate con l’accusa di associazione a delinquere dedita allo sfruttamento e all’estorsione. L’operazione, denominata Job Tax, è stata condotta dai Nas, con il coordinamento della Procura di Latina. Agli indagati è stato contestato l’impiego illegale di pesticidi, anche vietati.

L’operazione Momo a Cuneo e l’operazione Job Tax a Latina hanno in comune un contesto di presunto sfruttamento lavorativo, un minimo comune denominatore che fa da sfondo all’impiego di pesticidi senza protezioni per i lavoratori. Il fenomeno, come indicano le inchieste giudiziarie, appare diffuso in tutta Italia. Secondo Marco Omizzolo, sociologo esperto di sfruttamento in agricoltura di lavoratori migranti, «a livello nazionale ci sono stati interventi soprattutto delle forze dell’ordine e delle diverse procure. Hanno certificato l’esistenza del fenomeno sul piano investigativo ed è un dato interessante che riguarda sia il sud che il nord Italia, ovvero forme di economia, di sviluppo e produzione agricola diverse, ma spesso caratterizzate dall’utilizzo di fitofarmaci in quantità eccedente quella legale o l’utilizzo di fitofarmaci illegali».

Agricoltura a conduzione familiare

L’ultimo rapporto Istat sull’agricoltura (dati 2017, il prossimo censimento verrà aggiornato a giugno 2022) conta 413 mila imprese agricole, cioè imprese che hanno come attività primaria la gestione di campi, boschi o allevamenti. Sono inserite nel più ampio insieme delle aziende agricole (1,6 milioni), cioè tutte le imprese che svolgono attività relative all’agricoltura.

Le imprese agricole rappresentano due terzi della dimensione economica italiana e circa il 65% dei 12,8 milioni di ettari coltivabili. Poco più di un terzo del totale di tutte le aziende agricole hanno un titolare che è «unità economica non attiva». Significa che il settore agricolo non è il suo unico lavoro.

Un altro 30% delle aziende agricole è a conduzione familiare con dimensioni molto piccole, sotto i due ettari. In altri termini, l’agricoltura italiana è composta da piccole imprese. Dal censimento Istat 2010 emergeva anche che «la formazione dei capi azienda è decisamente ancora molto legata all’esperienza di campo e meno al grado di istruzione conseguito. Il 71,5% dei capi azienda ha un livello d’istruzione pari o inferiore alla terza media (70,8% per gli uomini e 73% per le donne). Solo il 6,2% dei capi azienda è laureato e inoltre solo lo 0,8% risulta aver acquisito una laurea ad indirizzo agrario».

Il livello di istruzione dei titolari di aziende agricole


«Riteniamo certo che in dieci anni la quota dei conduttori fino alla terza media sia molto diminuita», precisa Roberto Gismondi, dirigente di ricerca dell’Istat che si che si occupa del Servizio statistiche e rilevazioni sull'agricoltura, ma resta molto significativo. Conduzione familiare e scarso livello di istruzione sono due fattori che possono spiegare la scarsa attenzione alla dimensione della sicurezza sul lavoro che da un lato si può tradurre in poca attenzione all’uso dei Dpi e alla conservazione dei fitofarmaci, che a sua volta è un impedimento per ottenere il riconoscimento della malattia professionale.

Nessuna protezione

Durante il processo di Cuneo, il presunto caporale, Tassembedo Moumouni – dal cui soprannome, Momo, prende il nome l’inchiesta – interrogato dal Pubblico Ministero Carla Longo, spiega che i lavoratori non avevano alcun tipo di dispositivo di protezione personale. Moumouni racconta di non aver «mai» ricevuto guanti o occhiali protettivi, e spiega come, mentre i braccianti lavoravano nei campi, venivano sparsi fitofarmaci tutto intorno. «Quindi, voi lavoravate nella raccolta e… in altre zone o nella stessa zona dove eravate voi si buttava il diserbante?» domanda il magistrato. «Nella stessa zona – spiega Moumouni –. Stiamo lavorando in questa fila, lui passa qua, nella fila si butta. Qualche volta ci spostiamo solo due metri e poi ritorniamo».

Questo viene confermato da uno dei lavoratori costituitisi parte civile nel processo. Il bracciante, originario del Burkina Faso, spiega che sostanze antiparassitarie venivano irrorate nei campi mentre, in contemporanea, veniva effettuata la potatura. «Ogni tanto – racconta – il prodotto toccava anche loro». I lavoratori dormivano nello stesso magazzino in cui i pesticidi venivano stoccati, «davanti a quella porta c’era pure un segno, con scritto pericoloso», e gli stessi pesticidi venivano poi sparsi «mentre loro lavorano». Tuttavia, due lavoratori interrogati come testimoni, affermano che i trattamenti fitosanitari venivano effettuati, ma non quando i lavoratori erano presenti sul campo.

Nelle carte dell’operazione Job Tax, invece, i proprietari di un’azienda agricola di San Felice Circeo, in provincia di Latina, vengono accusati di aver sfruttato manodopera straniera – di nazionalità bengalese, indiana e pakistana –, facendogli eseguire anche trattamenti con fitofarmaci, nonostante i lavoratori stessi non fossero in possesso dell’autorizzazione all’utilizzo di prodotti fitosanitari. Si tratta del cosiddetto “patentino”, che viene rilasciato dopo la frequenza di un corso di formazione e il superamento di un esame. Per i lavoratori agricoli è obbligatorio.

Jean-Baptiste Lefoulon, agricoltore, partecipa allo studio “Pestexpo”. È dotato di patch che consentono agli scienziati di misurare la sua esposizione ai pesticidi (Lingèvres, Francia, 28 maggio 2021) - Foto: Ed Alcock/MYOP, Le Monde

Jean-Baptiste Lefoulon, agricoltore, partecipa allo studio “Pestexpo”. È dotato di patch che consentono agli scienziati di misurare la sua esposizione ai pesticidi (Lingèvres, Francia, 28 maggio 2021) - Foto: Ed Alcock/MYOP, Le Monde

Dalle carte emerge come gli stessi proprietari avessero impiegato un cittadino indiano senza permesso di soggiorno, Kumar Ravi, per «compiti strategici nello svolgimento dell'attività agricola», fra cui l’«impiego di fitofarmaci nelle colture», senza che questi fosse abilitato all’utilizzo dei pesticidi, né tanto meno «formalmente istruito».

Ancora i proprietari, insieme all’agronomo dell’azienda agricola, sono accusati di aver “adulterato” gli ortaggi coltivati, nello specifico ravanelli, con pesticidi non autorizzati, rendendo le colture «pericolose per la salute pubblica». L’agronomo avrebbe fornito indicazioni sulle tempistiche in modo che dalle analisi non risultasse l’uso di prodotti che, secondo le valutazioni della polizia giudiziaria, erano «estremamente pericolosi per la salute pubblica». «All'interno di un locale pozzo artesiano – si legge nei verbali di perquisizione – sono stati rinvenuti e sequestrati prodotti fitosanitari risultati non consentiti sulle colture in atto».

Durante le ricerche dei Nas, «i responsabili aziendali […] freneticamente si adoperavano per occultare altre confezioni di fitofarmaci non autorizzati per l'impiego sui ravanelli». Nei certificati di analisi che l’azienda effettuava sui propri prodotti, gli investigatori troveranno concentrazioni di pesticidi più alte del consentito. Questo fatto, scrive il Giudice per le indagini preliminari, è particolarmente significativo considerando «che lavoratori dipendenti privi della prescritta autorizzazione risulteranno essere adibiti all'impiego di fitofarmaci vietati nell'utilizzo sulle colture».

Prodotti vietati eppure in circolazione

Dalle intercettazioni emerge che lavoratori senza abilitazione né formazione – e quindi verosimilmente senza dispositivi di protezione personale – venivano impiegati in trattamenti fitosanitari. Al telefono con Kumar Ravi, uno dei soci dell’azienda agricola domanda «Tu capace sicuro?». Alla risposta affermativa del bracciante indiano, l’imprenditore detta le istruzioni con i quantitativi di fitofarmaci da irrorare: «1,5 litri di Reldan» e «85 di Butisan». «[…] tu mi raccomando non ti sbaglià mai a misurà la medicina eh il Reldan e Butisan eh» si preoccupa al telefono l’imprenditore, che dopo le rassicurazioni del bracciante aggiunge: «Eh non fare cazzate, perchè dopo esci quando fai analisi sopra i ravanelli esce fuori io ammazzo te eh!».

Il Reldan è un insetticida a base di Chlorpyrifos-Methyl. La Commissione Europea ha confermato, il 10 gennaio 2020, la decisione degli stati membri di non rinnovare l’autorizzazione di prodotti contenenti Chlorpyrifos-Methyl, per la sua possibile genotossicità e neurotossicità. All’epoca delle intercettazioni dell’operazione Job Tax (2019) il prodotto non era ancora stato vietato. Uno studio pubblicato nel 2018 sulla rivista Environmental Health ha revisionato test di tossicità forniti dai produttori di pesticidi a base di Chlorpyrifos e Chlorpyrifos-Methyl: «Uno studio di tossicità finanziato dall'industria conclude che non si verificano effetti selettivi sul neurosviluppo nemmeno in caso di esposizioni elevate». Tuttavia, secondo i ricercatori, gli studi contengono «problemi che riducono impropriamente la capacità degli studi di rivelare effetti reali, tra cui un regime di dosaggio che ha portato a un'esposizione troppo bassa». Ciò ha conseguenze sulla «capacità delle autorità di regolamentazione di effettuare una valutazione valida e sicura di tali antiparassitari». Fra la pubblicazione dello studio e la revoca di fitofarmaci a base di Chlorpyrifos-Methyl sono passati due anni.

In Italia la maggior parte dei prodotti commercializzati come “Reldan” sono stati revocati fra gli anni ‘90 e i primi anni 2000. Soltanto per il Reldan 22 – lo stesso trovato nell’azienda agricola di Latina durante una perquisizione dei Nas a Dicembre 2019 e revocato a Gennaio 2020 – è stato concesso lo smaltimento fino all’Aprile dello stesso anno. Come dichiarato dal Ministero della Salute in una richiesta di accesso civico generalizzato presentata da Scomodo, «lo smaltimento si applica ai lotti di prodotti fitosanitari che riportano una data di produzione antecedente a quella del provvedimento di revoca del prodotto stesso o di modifica delle condizioni di autorizzazione del prodotto oggetto dello smaltimento». Tuttavia, «il dato riferito al quantitativo dei prodotti fitosanitari da smaltire non è oggetto di specifica valutazione o comunque non a conoscenza dell’Ufficio, in quanto afferisce alla gestione interna dell’azienda che detiene la proprietà del prodotto».

Il Ministero, quindi, non è a conoscenza delle quantità di pesticidi (proibiti in quanto pericolosi) le cui scorte possono comunque essere utilizzate per molti mesi dopo la revoca. La conferma arriva da Agrofarma - Federchimica: l'associazione di categoria non è in grado di sapere quanti lotti erano nei magazzini al momento della revoca, né quanti siano stati effettivamente smaltiti. Lungo la filiera, infatti, ci sono altri attori, fra cui le imprese produttrici e i rivenditori. I consorzi agrari e le aziende produttrici contattate non hanno fornito chiarimenti.

Dalle intercettazioni di Job Tax emergono ulteriori dettagli rispetto all’utilizzo di pesticidi ormai vietati da tempo. Intercettato, l’agronomo dell’azienda spiega preoccupato a uno dei soci: «L'altra volta quando abbiamo fatto pulire il magazzino degli attrezzi io non so chi l'ha pulito hanno lasciato un cartone di SCLEROSAN dentro». Come risulta dalla banca dati dei prodotti fitosanitari del Ministero della Salute, l’ultimo prodotto in commercio col nome di Sclerosan è stato revocato nel 2009. L’esposizione al Dicloram, il principio attivo contenuto in questo fungicida, «può danneggiare la riproduzione e/o lo sviluppo».

Come sintetizza il Gip, «le sostanze rinvenute sono risultate non utilizzabili nelle colture di ravanelli oltre che caratterizzati da un profilo di “conclamata pericolosità”, tanto da aver determinato per talune una revoca dell'autorizzazione all'uso (è il caso del Clorpirifos Metil)». Nonostante ciò, l’utilizzo di questi pesticidi «in maniera sistematica e diffusa», è pienamente consapevole: secondo il Gip, infatti, tutti gli indagati «sono a piena conoscenza del fatto che se tali sostanze attive vengono rilevate dalle analisi verrebbe bloccata la commercializzazione del prodotto».

Quello che emerge dai casi giudiziari di Latina e Cuneo è un quadro in cui si intrecciano lavoro nero, sfruttamento e mancato rispetto delle norme di sicurezza. Il sociologo Marco Omizzolo ne ha avuto esperienza diretta: «Io ho lavorato nelle campagne pontine (nella stessa provincia di Latina in cui è stata condotta l’operazione Job Tax, ndr) per diversi mesi come infiltrato – racconta a Scomodo – accanto ai braccianti immigrati, soprattutto indiani. Una delle cose per me più inquietante è l’assenza di qualunque misura di sicurezza, e quando dovevamo distribuire i veleni lo facevamo senza alcun genere di protezione, già dieci anni fa. Noi braccianti andavamo nelle campagne anche d’inverno indossando una sciarpa per proteggerci dal freddo, la sciarpa diventava la nostra mascherina anche quando diffondiamo quei veleni. Quella sciarpa si trasformava in una sorta di aerosol di veleno per i lavoratori, perché si impregna di quelle sostanze. Non c’era quindi l’effetto protettivo, al contrario, diventava un bagno tossico di quei prodotti».

Quando i vani della seminatrice sono pieni, il coltivatore semina il mais - Foto: Ed Alcock/MYOP, Le Monde
Quando i vani della seminatrice sono pieni, il coltivatore semina il mais - Foto: Ed Alcock/MYOP, Le Monde

Omizzolo ha anche raccolto centinaia di testimonianze dei cosiddetti “bagni di veleno”: quando i braccianti lavorano alla raccolta, «il caporale o il datore di lavoro passa con il vaporizzatore, ovvero una botte piena di veleni e acqua, il cui contenuto viene poi spruzzato in aria e loro si fanno il bagno. Alcuni mi hanno raccontato che hanno delle irritazioni cutanee, altri iniziano a perdere liquidi dal naso, a lacrimare, a tossire. Fare tutto questo per 14 ore al giorno quasi tutti i giorni del mese significa vivere sotto una pressione costante, prima o poi ti rompi».

Patronati e medici del lavoro

I primi a riconoscere le caratteristiche della malattia professionale dovrebbero essere i medici del lavoro. Nell’esperienza di Alberto Vedrani, avvocato di Lucca che ha difeso durante la sua carriera decine di lavoratori, da due anni è in pensione: «I medici dei patronati - racconta Vedrani - sono i primi ad istruire la pratica per il lavoratore e non sempre sono inattaccabili. A volte c'è manchevolezze sul piano professionale e a volte non riescono a dare una svolta alle pratiche in termini di evidenze mediche».

Vedrani che si è trovato a difendere lavoratori quando le malattie “tabellate”, quindi riconosciute dall’Inail, erano di molto inferiori, spiega: «Quando una malattia non è tabellata non è che la porta è chiusa - spiega -. Rimane aperta, solo che comporta un lavorìo notevole per il ricorrente, il quale deve dimostrare in modo certo che quella malattia è in connessione con l'attività lavorativa svolta: è il rapporto cosiddetto di causa-effetto. Si riesce abbastanza spesso, non tutte le volte ma spesso».

Nel 2005 è riuscito a ottenere il riconoscimento del morbo di Parkinson per un floricoltore della piana di Lucca che aveva fatto per anni uso di pesticidi a base di manganese, quelli che sono tabellati oggi. Come ha scritto in un contributo pubblicato nel 2019 da Olympus - centro di ricerche nato dalla collaborazione tra la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, della Regione Marche e dell'Inail - Direzione regionale per le Marche - «a seguito di consulenza medico-legale disposta dalla stessa Corte, veniva dichiarata sufficiente la probabilità indicata nel 70 % circa il rapporto di causa-effetto fra uso di pesticidi a base di manganese e morbo di Parkinson».

La causa è durata dieci anni e si è conclusa solo con la compensazione delle spese. Nonostante l’esito positivo, non c’è stato nessun altro lavoratore che ha chiesto all’avvocato di dedicarsi a una causa analoga.

CREDITI

Autori

Edoardo Anziano
Lorenzo Bagnoli
Francesco Paolo Savatteri

Hanno collaborato

Gaia Buono, Nicolò Benassi (Scomodo)

In partnership con

Scomodo (Italia)
Le Monde (Francia)
Ippen Investigativ (Germania)
BR (Germania)
Investigative reporting Denmark (Danimarca)
Oštro (Slovenia/Croazia)
Tygodnik Powszechny (Polonia)
TV2 (Danimarca)
De Groene Amsterdammer (Olanda)

Infografiche

Lorenzo Bodrero

Editing

Luca Rinaldi

Foto di copertina

Ed Alcock/MYOP (Le Monde)

Con il sostegno di

Agricoltori a rischio: il mito dei dispositivi di protezione contro i pesticidi

#PesticidiAlLavoro

Agricoltori a rischio: il mito dei dispositivi di protezione contro i pesticidi

Edoardo Anziano
Lorenzo Bagnoli
Francesco Paolo Savatteri

Le prime evidenze scientifiche sono emerse circa vent’anni fa: tumori, linfomi e malattie neurodegenerative possono essere provocati dall’esposizione a fungicidi, insetticidi, erbicidi e a tutti gli altri prodotti chimici che si spargono sui terreni agricoli di tutto il mondo. In Francia, il Paese europeo all’avanguardia nell’approfondimento scientifico sul nesso malattie-pesticidi, l’ultimo studio risale al giugno 2021 e lo firma Inserm, l’Istituto nazionale della sanità e della ricerca medica, una delle principali istituzioni pubbliche francesi che si occupa di ricerca scientifica, salute pubblica, sviluppo tecnologico.

Lo studio si basa sulla revisione di 5.300 documenti e sentenzia: «Considerando gli studi che riguardano figure professionali che manipolano o sono a contatto frequente con pesticidi e che sono a priori i più esposti, gli esperti confermano la forte presunzione di un legame tra esposizione a pesticidi e sei patologie: linfoma non Hodgkin (NHL), mieloma multiplo, cancro alla prostata, morbo di Parkinson, disturbi cognitivi, nonché alcuni disturbi del sistema respiratorio (broncopneumopatia cronica ostruttiva e bronchite cronica)».

«Andate a vedere gli agricoltori che muoiono di morte naturale – invita l’agronomo Carlo Antellini, che di mestiere forma gli agricoltori italiani in merito all’utilizzo corretto dei trattamenti con prodotti chimici -. Sono quelli che stanno in zone dove non si fanno trattamenti». In realtà uno studio italiano complessivo dedicato all’impatto dei pesticidi sulla salute degli agricoltori non esiste, né in Italia, né a livello europeo. L’unica eccezione è ancora la Francia. In Italia però esistono i monitoraggi dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) sulle tracce di pesticidi in acqua: «In Italia si usano 114.000 tonnellate l’anno di pesticidi, che rappresentano circa 400 sostanze diverse», si legge su Transizione ecologica aperta, dove va l’ambiente italiano? rapporto presentato al Parlamento a dicembre 2021.

Più avanti: «Nel 2019 le concentrazioni misurate di pesticidi hanno superato i limiti previsti dalle normative nel 25% dei siti di monitoraggio per le acque superficiali e nel 5% di quelli per le acque sotterranee». Il dato è ancora più significativo alla luce della considerazione seguente: «La contaminazione rilevata è ancora sottostimata, a causa delle difficoltà tecniche e metodologiche, anche se negli anni l’efficacia del monitoraggio sta migliorando in relazione alla copertura territoriale, al numero di campioni analizzati e alle sostanze cercate».

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L’inchiesta in breve
  • Sono sempre più numerosi gli studi scientifici che collegano alcune malattie, come il morbo di Parkinson, all’uso dei pesticidi in agricoltura.
  • I dati che riguardano gli agricoltori che si ammalano in Europa sono scarsi, così come i numeri sulle malattie professionali riconosciute.
  • In Italia il quadro è di 20 denunce per l’insorgere del morbo di Parkinson e dieci indennizzi riconosciuti per disturbi extrapiramidali e del movimento tra il 2016 e il 2020. In Europa il quadro non è migliore: in Germania si discute da oltre dodici anni se introdurre il Parkinson come malattia occupazionale, in Svezia i casi sono tre negli ultimi cinque anni, in Danimarca non conoscono il problema e in Polonia si riconoscono quasi esclusivamente i morsi delle zecche come infortuni sul lavoro.
  • La soluzione per contenere i rischi sanitari che corrono gli agricoltori è un regolamento europeo sulla carta molto stringente che impone l’impiego di dispositivi di protezione individuale (Dpi).
  • L’uso prescritto dei Dpi è impossibile da seguire in condizioni di lavoro normali: temperature, difficoltà di movimento e costi dei dispositivi spesso producono il riciclo di materiali che dovrebbero essere monouso oppure il mancato impiego di certi indumenti.
  • Studi scientifici come Pestexpo in Francia hanno dimostrato che i Dpi non vengono utilizzati e quando accade, in attività come la pulizia e il trattamento, alla fine producono maggiore contaminazione. Non rappresentano quindi una misura certa di contenimento dei rischi sanitari per gli agricoltori.
  • L’unica soluzione vera è ridurre al minimo i trattamenti con i pesticidi: anche i prodotti naturali hanno un impatto ecologico e sanitario.

“Sottostima” e “difficoltà tecniche” nel tracciamento della contaminazione da pesticidi sono ancora più evidenti quando si parla dell’impatto dei pesticidi sulla vita degli agricoltori. Nonostante l’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (Inail) sia l’unico ente europeo che – insieme al corrispettivo francese – ammette patologie come il morbo di Parkinson quali malattie professionali legate all’uso di prodotti chimici in agricoltura, l’istituto ha finora raccolto dati molto bassi sia di denunce di Parkinson quale malattia professionale in agricoltura (venti tra il 2016 e il 2020), sia di casi di «disturbi extrapiramidali e del movimento», tra cui il Parkinson (dieci tra il 2016 e il 2020). Nelle tabelle dell’Inail il morbo di Parkinson compare addirittura dal 2008, ma a parte un caso nel 2005, gli altri riconoscimenti della malattia occupazionale, per quanto è stato possibile dimostrare, si sono verificati tra il 2014 e il 2015.

È evidente che si tratti di numeri irrisori per un Paese in cui i lavoratori agricoli – stagionali e non – oscillano tra un milione e un milione e cento mila secondo i dati dell’Inps (a questi vanno poi aggiunti i lavoratori in nero, ovviamente non considerati in queste stime). I malati di Parkinson secondo il Ministero della salute sono circa 230 mila in Italia e l’Istituto superiore di sanità (Iss) indica l’agricoltura come il primo settore occupazionale di rischio.

L’uso di pesticidi in Europa

Raffronto tra la media europea (Ue27), l’Italia e i Paesi membri sull’utilizzo di pesticidi per ettaro su terreno coltivabile dal 1990 al 2019 [Valori in Kg/ha]

Secondo il report dell’Inail sulle malattie occupazionali in agricoltura del 2021 «da alcune ricerche (sugli agricoltori, ndr) sembrerebbe esserci anche un’associazione tra questo tumore (il melanoma, ndr) e l’esposizione a pesticidi». «Numerosi lavori – si legge – hanno indicato che i lavoratori agricoli hanno maggiori probabilità di sviluppare il morbo di Parkinson rispetto alle persone nella popolazione generale e ulteriori indagini suggeriscono che questo rischio sia dovuto all’esposizione a erbicidi tossici, quali il Paraquat, di cui è vietato l’utilizzo in Europa dal 2007».

Eppure nelle slide di un corso del 2016 sull’uso dei fitofarmaci, organizzato dalla Regione Veneto, con dati su Veneto e Trentino Alto-Adige, due delle principali regioni che consumano pesticidi in Italia, si legge: «A una ipotizzata prevalenza di sindromi parkinsoniane in soggetti residenti in aree rurali ed agricole, non corrisponde ancora un adeguato andamento di richieste ad Inail di riconoscimento come malattia professionale».

L'inchiesta
#PesticidiAlLavoro è un’inchiesta collaborativa sulle conseguenze sanitarie per gli agricoltori che impiegano i pesticidi. L’inchiesta è coordinata da Investigative Reporting Denmark e Le Monde. Partecipano Tygodnik Powszechny (Polonia), Ostro (Croatia e Slovenia), De Groene Amsterdammer (Olanda), Ippen Investigativ (Germania), TV2 (Danimarca), Marcos Garcia Rey (Spagna) e The Midwest Center for Investigative Reporting dagli Stati Uniti. In Italia, IrpiMedia è in partnership con Scomodo.

L’unico caso di malattia professionale segnalata nella presentazione, che si concentra solo nell’area geografica di Veneto e Trentino Alto-Adige, riguarda un lavoratore della Val di Non che nel 2015, a 71 anni, si è visto riconoscere il morbo di Parkinson insorto nel 2013 come malattia occupazionale. Aveva utilizzato dal 1965 il Mancozeb, fungicida revocato dalla Commissione europea e dal Ministero della salute nel gennaio 2021, tra le polemiche. Da notare che il prodotto, secondo i dati ufficiali, circola dal 1971 – sei anni dopo il primo impiego rintracciato nel caso del lavoratore della Val di Non – e continua a essere disponibile online.

Stando a diverse fonti sentite tra avvocati, agronomi, sindacalisti, ingegneri che si occupano di ispezioni del lavoro, agricoltori, i motivi di questo risultato spaziano da una mancanza di consapevolezza degli agricoltori, che spesso non rispettano alcune regole sulla gestione dei fitosanitari e quindi non hanno nemmeno interesse a denunciarsi, all’impreparazione di medici del lavoro e patronati, fino alle maglie dell’Inail troppo strette per poter ottenere alla fine il riconoscimento della malattia occupazionale.

In Francia esiste un’associazione delle vittime di prodotti fitosanitari, fondata nel 2011. Tra il 2012 e il 2020 Phyto-Victimes, questo il nome dell’associazione, ha raccolto richieste di aiuto di oltre 540 lavoratori agricoli che temono di essersi ammalati per l’esposizione ai pesticidi. Si tratta per di più di uomini nati tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta. In Olanda, l’associazione nazionale di malati di Parkinson ha aperto una linea telefonica destinata a chi lavora nei campi e ha ricevuto circa 130 segnalazioni in un anno. Anche in Italia il Comitato Italiano Associazioni Parkinson si sta muovendo per colmare il vuoto dei dati, chiedendo informazioni ai suoi iscritti, partendo proprio da un censimento preciso delle persone con Parkinson, tuttora non presente, per poi avanzare lungo la strada di supporto e indennizzo a lavoratori e lavoratrici.

Il Parkinson in agricoltura

Numero di casi di disturbi del sistema nervoso (morbo di Parkinson e simili) denunciati e accertati in Italia come malattie professionali in agricoltura

Il quadro europeo

In Francia, dove il morbo di Parkinson è stato inserito tra le malattie professionali nel 2012, i dati dell’Inrs – il corrispettivo francese dell’Inail – mostrano che tra i 2012 e il 2017 sono stati riconosciuti 221 casi di malattia occupazionale: numeri che, per quanto non altissimi, sono molto più grandi di quelli italiani (al ritmo attuale l’Inail ci metterebbe 110 anni per arrivare allo stesso numero di casi approvati). Eppure secondo i dati Eurostat, l’Italia ha circa 900 mila lavoratori agricoli mentre la Francia 700 mila.

In Polonia – dove il comparto agricolo conta 2,3 milioni di addetti – l’ultimo cancro sviluppato sul posto di lavoro, stando ai dati ufficiali, risale a oltre dieci anni fa. Non ci sono mai state intossicazioni da agenti chimici e gli unici infortuni costantemente riconosciuti sono per i morsi delle zecche, che rappresentano l’80% delle compensazioni complessive.

In Germania alcuni documenti governativi ottenuti dai partner tedeschi di questa inchiesta, dimostrano che l’agenzia che dipende dal Ministero del lavoro e che delibera in materia di malattie occupazionale, discute da oltre dodici anni se inserire o meno il morbo di Parkinson tra le malattie provocate dai pesticidi. Senza questa decisione, per ottenere un indennizzo i lavoratori tedeschi devono andare in tribunale. Dal 2010 sono stati 61 i lavoratori agricoli tedeschi che si sono registrati con l’associazione specializzata che si occupa delle assicurazioni SVLFG per ottenere il riconoscimento del Parkinson come malattia occupazionale. Nessuno ci è ancora riuscito.

In Danimarca il sindacato 3F, specializzato sui lavoratori agricoli, dichiara di non aver mai sentito di insorgenze di malattie legate all’impiego di pesticidi. In Svezia, dove gli indennizzi riconosciuti per malattie occupazionali nel 2020 sono stati circa 35 mila, quelli legati all’impiego dei pesticidi sono stati tre negli ultimi cinque anni.

I dispositivi di protezione individuale nella vita reale

Per mitigare il rischio ambientale e sanitario, sia per chi abita vicino ai campi coltivati, sia per i lavoratori, a livello europeo la normativa prevede regole molto stringenti in merito alle modalità d’impiego dei pesticidi. L’Efsa, l’agenzia europea che si occupa della sicurezza alimentare, rivede insieme alla Commissione e agli Stati membri quali fitosanitari introdurre nel mercato e in quali condizioni. Per i lavoratori che trattano i pesticidi, è obbligatorio impiegare dispositivi di protezione indviduale (Dpi): tute, maschere con filtri per la respirazione, guanti, occhiali, stivali, cabine di trattori con speciali sistemi di ventilazione.

In teoria, si dovrebbero conseguire dei patentini per utilizzarli, si dovrebbero acquistare solo da rivenditori autorizzati, si dovrebbe disporre di una documentazione specifica da esibire in caso di controlli, si dovrebbero disporre gli spargimenti solo in alcune finestre temporali. In pratica, specialmente in Italia, c’è un fiorente mercato nero dove circolano anche prodotti teoricamente vietati, i prodotti si acquistano facilmente online, i controlli, troppo bassi, non sono un disincentivo all’incuria nella gestione dei materiali, per quanto tossici.

«Il problema fondamentale è l’utilizzo dei dispositivi di protezione», commenta Carlo Antellini, agronomo della regione della Sabina che si occupa di fare formazione agli agricoltori. Come conferma Tina Balì, Segretaria di Flai Cgil nazionale, all’organizzazione sindacale non risulta che la maggior parte dei lavoratori utilizzino Dpi durante i trattamenti fitosanitari. Al di fuori delle serre, i fitofarmaci vengono sparsi da marzo a ottobre-novembre, un periodo per di più caldo. Quando si indossano certi dispositivi che hanno la caratteristica di essere completamente impermeabili «diventa impossibile starci dentro, ma se sono permeabili si dovrà fare molta attenzione», ragiona Antellini.

Sui pacchi dei semi di mais sono presenti i nomi dei fungicidi (protioconazolo e metalaxil) ma nessuna istruzione per l'uso - Foto: Ed Alcock/MYOP, Le Monde
Sui pacchi dei semi di mais sono presenti i nomi dei fungicidi (protioconazolo e metalaxil) ma nessuna istruzione per l’uso – Foto: Ed Alcock/MYOP, Le Monde

Indossarli rende difficile, se non impossibile, muoversi. Lo confermano gli agricoltori tedeschi, spagnoli, polacchi, francesi, sloveni e croati: i dispositivi di protezione individuale spesso non vengono utilizzati. «Poi molti li riciclano, mentre io puntualizzo e consiglio sempre di farne monouso», aggiunge Antellini. Tra i motivi ci sono anche i costi dei dispositivi, troppo alti secondo Antellini. La pandemia ha avuto l’effetto di contenere almeno il prezzo dei guanti.

In Polonia, se un agricoltore viene scoperto senza Dpi rischia di perdere la pensione. Motivo per cui le denunce nel Paese sono tanto basse: il rischio è che la responsabilità della malattia ricada sullo stesso malato, che però è inadempiente perché non indossa dei presidi sanitari che secondo gli stessi addetti ai lavori spesse volte sono inutilizzabili.

Il silenzio dopo lo studio Pestexpo

Il mancato uso dei Dpi, ormai un dato di fatto sottaciuto per anni, è stato corroborato dallo studio Pestexpo – Pesticides exposure. Cominciato vent’anni fa tra la Normandia e la regione di Bordeaux, lo studio si pone l’obiettivo di osservare sul campo, nel corso del tempo, gli effetti dell’uso dei pesticidi sugli agricoltori. È stato il primo studio che ha saggiato gli effetti reali dei modelli matematici attraverso cui si stima il limite tollerabile dell’esposizione ai pesticidi. Nel 2006 anche il Ministero dell’agricoltura francese ha evidenziato che solo una percentuale intorno al 40% degli agricoltori transalpini usa davvero i dispositivi di protezione personale.

Due ricercatori francesi di Pestexpo, Isabelle Baldi e Pierre Garrigou, nel 2007 hanno pubblicato un documento di segnalazione del rischio, note d’alerte in francese, con l’Università di Bordeaux. S’intitola Dall’inefficacia delle tute per proteggere dal rischio fitosanitario alle carenze organizzative nella prevenzione. Secondo i risultati dello studio, i viticoltori che indossano le tute protettive durante «le fasi di trattamento e di pulizia», cioè quando preparano e applicano i prodotti fitosanitari e quando puliscono le tute dai residui di pesticidi, «sono complessivamente più esposti alla contaminazione di chi non le indossa» rispettivamente di due e tre volte.

I motivi sono diversi e i primi due sono legati da un lato al riutilizzo di materiale che non sempre è pulito nel modo corretto dalle tracce di agenti chimici, dall’altro al fatto che il getto d’acqua sparato sulla superficie della tuta, può defluire verso l’interno, insieme alle tracce di agenti chimici. A questo si aggiunge un terzo elemento: la composizione chimica dei pesticidi permette loro di penetrare qualunque cellula. Il polivinilcloruro (pvc) di cui sono fatti certi grembiuli, per esempio, resiste perfettamente all’acqua, ma non al filtraggio dei pesticidi.

L’Agenzia francese per la sicurezza sanitaria dell’ambiente e del lavoro (Affset) nel gennaio 2010 ha condotto un suo studio per verificare indipendentemente l’efficacia protettiva delle tute. «L’indossare un indumento non garantisce da solo la protezione dei lavoratori», si legge nelle conclusioni. «L’impiego di indumenti protettivi non deve quindi intervenire in sostituzione, ma a completamento di una protezione collettiva e di un’organizzazione del lavoro adeguata», prosegue il rapporto. Da ultimo, il rapporto accenna a quello che ancora non si conosce: «L’adeguatezza (delle performance, ndr) delle tute immesse sul mercato alle sostanze o miscele di sostanze utilizzate in condizioni reali rimane una questione essenziale poiché i prodotti testati sulle tute e indicati sul manuale di istruzioni differiscono dai prodotti utilizzati nel settore, così come poiché le condizioni di laboratorio non riflettono le condizioni reali».

Se in Francia almeno c’è stata una presa di posizione, nel resto d’Europa non è successo nulla. Dopo dieci anni dall’uscita dello studio dell’agenzia ministeriale francese, un gruppo di ricercatori, tra cui Baldi e Garrigou, hanno ripreso i risultati delle loro ricerche sui dispositivi di protezione individuale in un paper dal titolo Revisione critica del ruolo dei Dpi nella prevenzione della rischi legati all’uso di pesticidi in agricoltura, pubblicato sul giornale scientifico Safety Science nel 2019. «Alcuni prodotti pericolosi – scrivono i ricercatori – hanno ricevuto la licenza (per la commercializzazione, ndr) solo perché si dà per assodato che l’impiego di Dpi limiti considerevolmente l’esposizione». Concludono che «senza questa presupposta protezione, sarebbero vietati».

La reazione europea, stavolta, non è tardata ad arrivare. CropLife Europe, lobby che rappresenta a livello europeo i produttori dei fitosanitari e aziende del biotech, ha risposto con una lettera al giornale in cui ha accusato i ricercatori di aver preso «una posizione emotiva», priva di base scientifica, e di essere «esagerati nella migliore delle ipotesi, fuorvianti nella peggiore». CropLife Europe ha negato l’intervista a Le Monde, partner di questo progetto, ma ha fornito alcune dichiarazioni scritte: «Non abbiamo ritenuto che (il paper di Baldi e Garrigou, ndr) presentasse una visione equilibrata», si legge. La ricerca, concludono da CropLife Europe, «ha esagerato i rischi per la salute per gli operatori e enfatizzato eccessivamente l’importanza assegnata in fase di autorizzazione (dei pesticidi, ndr) ai fattori di protezione».

Prodotti naturali ma pericolosi

La poltiglia bordolese, o solfato di rame, è un prodotto che si spruzza per combattere alcune malattie delle piante. Secondo Carlo Antellini è tra i trattamenti tradizionali erroneamente considerati del tutto innocui perché naturali: «Conosco molte persone che hanno avuto il morbo di Parkinson in forma precoce, ma nessuno ha mai correlato la malattia con l’uso di prodotti come la poltiglia bordolese». Sostiene che in tanti ancora facciano resistenza ad ammettere la sua pericolosità. «Il solfato di rame addirittura veniva usato per medicarsi – aggiunge -. Serviva a curare la zoppia delle pecore e così si usava anche per curare per esempio il nervo sciatico infiammato». Il rimedio consisteva nell’immergere nel prodotto direttamente i piedi. «Il rame è un metallo pesante e la forma di assorbimento è, guarda caso, quella cutanea», continua Antellini.

Tra gli effetti oggi riconducibili all’eccessiva esposizione al rame c’è anche il morbo di Parkinson. Il rame come antifungino è tollerato anche nell’agricoltura biologica purché rispetti dei limiti fissati dal Ministero delle politiche agricole. Al di là degli effetti nocivi della salute, infatti può inquinare le falde acquifere.

Ridurre i trattamenti

Vito Merra è un agricoltore biologico di Cerignola, provincia di Foggia. Figlio di agricoltori, si sente appartenere agli ideali di Giuseppe Di Vittorio, lo storico sindacalista, tra i fondatori della Cgil, costretto ad abbandonare la scuola per fare il bracciante dopo che il padre si è ammalato lavorando nei campi. Si sente riconoscente verso chi ha permesso che anche i figli dei lavoratori agricoli potessero andare a scuola: «Questo mi ha consentito nel momento in cui ho deciso di prendere i terreni di mio padre di fare la conversione al biologico», racconta. «Qui siamo in un contesto di 60 mila ettari coltivati, con molte aziende agricole medio-grandi – continua -. Lavorare in queste aziende significava esporsi con molta frequenza all’uso pesticidi che venivano utilizzati da persone scarsamente istruite che certo non avevano nessuna cognizione del pericolo, né tanto meno consapevoli di tutte le precauzioni che ci sono oggi».

Chiama “nemico” le conseguenze sulla salute dell’uso degli agenti chimici: «Per almeno 40-50 anni una generazione ha affrontato a mani nude il nemico: non aveva gli strumenti cognitivi per prendere precauzioni».

Passare al biologico è stata una scelta naturale dopo che Merra ha visto diverse persone ammalarsi, compreso suo zio morto per tumore alla prostata. È una delle malattie che secondo gli ultimi studi è più riconducibile ai pesticidi, insieme al Parkinson. «Chi può dire che un tumore alla prostata o una leucemia siano stati causati o concausati dall’uso di prodotti sul posto di lavoro – si chiede Merra -. Credo che sia abbastanza complicato sul caso singolo ma sui grandi numeri sicuramente si potrebbe trarre qualche conclusione».

Di studi a riguardo, però, non ce ne sono. «Credo che ci sia ancora tanta leggerezza nel gestire questi prodotti e penso che gli agricoltori abbiano bisogno di avere più formazione», aggiunge. Formazione che alla fine dovrebbe portare a cercare di ridurre al minimo indispensabile i trattamenti, anche quelli naturali consentiti nell’agricoltura biologica: «Cerchiamo di non esagerare col rame perché è sì consentito, ma se utilizzato quando non serve produce solo sprechi e inquinamento inutile».

CREDITI

Autori

Edoardo Anziano
Lorenzo Bagnoli
Francesco Paolo Savatteri

Hanno collaborato

Stéphane Horel (Le Monde)
Marcos Garcia Rey
Eva Achinger (BR)
Daniel Drepper (Ippen Investigativ)
Katrin Langhans (Ippen Investigativ)
Staffan Dahllöf
Nils Mulvad (Investigative reporting Denmark)
Krzysztof Story (Tygodnik Powszechny)
Ante Pavić (Oštro Croazia)
Matej Zwitter (Oštro Slovenia)
Rasit Elibol (De Groene Amsterdammer)
Katharine Quarmby
Gaia Buono, Nicolò Benassi (Scomodo)

In partnership con

Scomodo (Italia)
Le Monde (Francia)
BuzzFeed News (Germania)
BR (Germania)
Investigative reporting Denmark (Danimarca)
Oštro (Slovenia/Croazia)
VSquare (Polonia)

Infografiche

Lorenzo Bodrero

Editing

Luca Rinaldi

Foto di copertina

Ed Alcock/MYOP (Le Monde)

Con il sostegno di

Le lobby agroalimentari contro la Farm to Fork

#GreenWashing

Le lobby agroalimentari contro la Farm to Fork

Francesca Cicculli
Alessandro Leone
Simone Manda

Nei prossimi anni cambierà il modo in cui consumeremo il nostro cibo. E si dovrà pensare alla sostenibilità non solo in termini ambientali ma anche economici e sociali. Per rendere il sistema alimentare europeo più sano, equo e sostenibile il 20 maggio la Commissione europea ha presentato la strategia “Farm to Fork – dal produttore al consumatore” (F2F), votata ieri dal Parlamento. La F2F è stata definita come il cuore del Green Deal, il piano che mira a fare dell’Europa il primo continente a zero emissioni entro il 2050.

La strategia, di durata decennale, si sviluppa intorno a sei macro-obiettivi: una riduzione del 50% dell’uso di pesticidi chimici; il dimezzamento della perdita di nutrienti e quindi la riduzione di almeno il 20% dell’uso di fertilizzanti; la riduzione del 50% di antimicrobici per gli animali d’allevamento e di antibiotici per l’acquacoltura; un aumento del 25% dei terreni agricoli destinati all’agricoltura biologica e infine la riduzione del 10% del suolo utilizzato per gli allevamenti intensivi.

A questo si aggiungono: una nuova etichettatura nutrizionale, un miglioramento del benessere degli animali e l’inversione della perdita di biodiversità. La F2F punta quindi a premiare gli agricoltori, i pescatori e gli altri soggetti attivi lungo la filiera alimentare che abbiano già cominciato la transizione verso pratiche sostenibili.

Il nuovo sistema di etichettatura

La Farm to Fork introduce un nuovo sistema di etichettatura fronte-pacco, su cui gli Stati membri si stanno dividendo. Da una parte, Francia, Germania e Belgio propongono il Nutri-Score: per ogni singolo alimento è associato un colore, dal verde al rosso, che indica la presenza di nutrienti da limitare, come calorie, grassi e zuccheri, e quelli da preferire, come fibre, proteine, frutta e verdura. Dall’altra, l’Italia sponsorizza il NutrInform, un sistema composto da una batteria, dove la parte carica indica la percentuale di nutrienti di una porzione.

«Riteniamo il Nutri-Score un sistema sbagliato, perché categorizza i cibi in buoni o cattivi in virtù di un algoritmo che nulla ha a che vedere con indicazioni e studi scientifici», ha spiegato a IrpiMedia Alessandra Moretti, europarlamentare del Pd, che siede in Commissione Ambiente. La discussione è ancora aperta, la Commissione auspica di adottare le nuove etichette entro la fine del 2022.

L’industria agroalimentare è responsabile di un terzo delle emissioni globali di gas serra: 17 miliardi di tonnellate di CO2 l’anno, secondo uno studio della rivista Nature Food, di cui il 29% deriva dalla produzione di alimenti di origine vegetale e il 57% dai cibi di origine animale. Gli allevamenti intensivi, il disboscamento per il pascolo, la produzione di mangimi e le emissioni di metano sono tra le principali cause dei cambiamenti climatici. In particolare, nell’Unione europea l’agricoltura è responsabile del 10,3% delle emissioni di gas serra e di queste quasi il 70% proviene dal settore zootecnico. Per l’Università della Tuscia, in Italia gli allevamenti stanno consumando il 39% delle risorse naturali messe a disposizione dal territorio agricolo italiano.

Nel testo della Farm to Fork si legge che la strategia è «il risultato di anni di politiche dell’Ue per proteggere la salute umana, animale e vegetale e gli sforzi di agricoltori e allevatori», un’inversione di rotta rispetto alla Politica Agricola Comune (Pac), che fino a oggi ha favorito soprattutto l’industria intensiva. In realtà i principali destinatari della F2F, cioè piccoli allevatori e piccoli agricoltori non sono informati sugli impatti che questa potrebbe avere sulle loro attività.

Al mercato di Campagna Amica della Coldiretti, al Circo Massimo di Roma, la gran parte degli agricoltori e degli allevatori che abbiamo intervistato ci ha detto di non conoscere la F2F, nonostante appartengano a un’organizzazione di categoria come la Coldiretti, che dovrebbe informare i suoi associati.

«Non conosco la Farm to Fork. Per noi piccole aziende con poca manodopera è difficile essere informati su cosa accade in Europa e su tutti gli incentivi», racconta a IrpiMedia Gabriele, che gestisce un’azienda agricola di famiglia. «Noi dobbiamo preoccuparci di mandare avanti l’azienda e anche le nostre vite. Non so cosa propongano in Commissione, ma spero che qualcuno faccia i nostri interessi», ha aggiunto. «Mi sembra strano che non ci sia informazione a riguardo», afferma Paolo Di Stefano, dall’ufficio di Coldiretti a Bruxelles, «la nostra comunicazione mi sembra efficace ma non mi stupisce che gli agricoltori non colleghino direttamente le misure di cui parliamo con i lavori del Parlamento europeo».

Ma a farsi portavoce delle istanze dei piccoli produttori in Europa sono state proprio le associazioni di categoria, di cui fanno parte grandi aziende agroalimentari. Per queste, la porta della Commissione europea sembra essere sempre spalancata. La Farm to Fork è stata infatti attaccata dai gruppi di interesse degli agricoltori e dei produttori di carne, al cui fianco si sono schierati i giganti dell’industria dei pesticidi.

Questa inchiesta è il risultato di una partnership internazionale coordinata da Lighthouse Reports, in collaborazione con IrpiMedia (Italia), Follow the Money (Olanda), Deutsche Welle (Germania), Domani (Italia) e Mediapart (Francia)

Le lobby temono che la strategia porti a una diminuzione della produzione. Per questo chiedono alla Commissione europea una valutazione d’impatto, preoccupati dalla perdita di competitività delle aziende europee sul mercato agroalimentare. Il loro obiettivo era far arrivare in Parlamento europeo un testo che di fatto è un compromesso al ribasso: «Devo dire che siamo riusciti a fare un bel lavoro con il Parlamento europeo, quello che è uscito è un testo molto più moderato, dove le nostre istanze sono passate», ha confermato a IrpiMedia Michele Spangaro di Assica, l’Associazione Industriali delle Carni e dei Salumi che, come organizzazione di categoria, tutela una parte degli allevatori di bestiame iscritti a Confindustria.

La strategia dei gruppi di pressione

Copa-Cogeca, l’unione europea delle organizzazioni professionali di agricoltori e delle cooperative agricole è il più grande gruppo lobbistico in Europa per la difesa dell’agribusiness, di cui fanno parte, tra gli altri, anche Coldiretti e la Cia, la Confederazione Italiana Agricoltori. Intervistata da IrpiMedia, la Cia ha voluto ricordare che «studi importanti, non ultimo quello commissionato dal Copa-Cogeca, dimostrano che gli obiettivi della Farm to Fork incidono negativamente sull’agricoltura europea, con un aumento dei costi di produzione e dei prezzi del prodotto finale, condizionando le scelte dei consumatori e agevolando il mercato dei prodotti importati».

Il 27 settembre scorso, a pochi giorni dal voto in Commissione, Copa-Cogeca ha dato indicazioni a numerosi europarlamentari, che hanno così deciso di presentare sei emendamenti al testo, uno dei quali elimina l’aggettivo “vincolante” dagli obiettivi della riforma sull’uso dei pesticidi. La votazione sul testo finale ha però confermato la necessità di “obiettivi di riduzione vincolanti”.

L’industria agroalimentare è responsabile di un terzo delle emissioni globali di gas serra: 17 miliardi di tonnellate di CO2 l’anno, di cui il 29% dalla produzione di alimenti di origine vegetale e il 57% dai cibi di origine animale

Questi emendamenti, votati ieri in Parlamento, sono il risultato di un accordo con le commissioni Agricoltura e Ambiente. Nella prima siede, tra gli altri, il deputato italiano Herbert Dorfmann, del Partito Popolare Europeo, uno dei due relatori del testo sulla F2F. Proprio lui è il primo firmatario di un emendamento che richiede al Parlamento una valutazione di impatto della misura, mostrandosi in linea con le posizioni delle associazioni di categoria.

Ad accompagnare le attività di Copa-Cogeca troviamo anche CropLife Europe e European Livestock Voice (di cui fa parte Assica), altre due lobby che hanno commissionato rispettivamente uno studio e prodotto una massiccia campagna informativa online. Anche Confragricoltura, un altro partner di Copa-Cogeca, tramite la sua responsabile a Bruxelles Cristina Tinelli, fa sapere che sono mesi che viene richiesta una valutazione d’impatto olistica alla Commissione. Come dichiarato a IrpiMedia, Confagricoltura vorrebbe «che gli agricoltori continuassero a produrre cibo e a vivere di questo e non di soli sussidi. […] Vogliamo continuare a essere competitivi sul mercato». Questo approccio però, ha portato il settore alle sue attuali condizioni di insostenibilità ambientale.

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Per rafforzare le loro posizioni, le lobby hanno commissionato vari studi. Il primo, il 9 settembre, è stato finanziato dal Grain Club, organizzazione dell’agribusiness tedesca attiva nel settore dei cereali e dell’alimentazione animale, e condotto in tandem con i ricercatori dell’università di Kiel. Un aspetto fondamentale evidenziato dallo studio è la consistente riduzione della produzione agricola nell’Unione europea del 21,4% per i cereali e del 20% per le oleaginose, come colza e semi di girasole. Per la carne bovina la riduzione sarà del 20%. La ricerca commissionata da CropLife Europe e condotta dall’università olandese di Wageningen individua invece una riduzione della produzione agricola in una forbice tra il 10 e il 20%, addirittura del 30% per alcuni cereali.

Ultimo, in ordine di pubblicazione, è lo studio condotto dal Joint Research Centre (JRC) della Commissione europea a fine luglio e reso pubblico a ottobre, che dipinge un quadro estremamente negativo della produzione agricola e del bestiame, con conseguente aumento dei prezzi delle materie prime sia per il mercato interno che per quello diretto all’estero dall’Europa.

Il tema dell’aumento dei prezzi è ricorrente in tutti gli studi sopra citati. Quello di Wageningen ipotizza un aumento dei prezzi dei prodotti agricoli del 13% e l’università di Kiel del 12-18% per quanto riguarda i prodotti vegetali e del 58% per la carne bovina. Come riporta Politico, Marco Contiero, direttore delle politiche agricole per Greenpeace, ha accusato Copa-Cogeca e CropLife di condurre «una campagna di disinformazione basata su dati parziali e incompleti, studi autofinanziati e spazi nei media acquistati per veicolare i loro messaggi». Copa-Cogeca ha risposto definendo la sua strategia come «normale advocacy».

Gli studi si basano tutti su un modello, il “CAPRI model“, utilizzato ormai da più di dieci anni per l’analisi quantitativa dei dati relativi all’agricoltura europea. Quantitativa, non qualitativa. Lo studio del JRC specifica che l’impatto delle misure concernenti la preservazione della biodiversità e la riduzione delle emissioni inquinanti non sono stati presi in considerazione per la stesura del testo. Inoltre, il JRC stima una riduzione delle emissioni inquinanti di almeno il 20%.

Jeroen Candel, professore alla Wageningen University, in un thread su Twitter ha scritto: «Sebbene i ricercatori riconoscano che i benefici del clima e della biodiversità non sono stati inclusi, è proprio a questo che è destinata l’intera strategia». E, continua, «conducendo la ricerca in questo modo, non sorprende che tali studi siano usati come munizioni contro la Farm To Fork dalle forze dello status quo»

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Dall’analisi dei fondi europei che dovrebbero avere stringenti politiche sulla sostenibilità emerge che quasi la metà investe nell’industria fossile o nelle compagnie aeree

Un punto non preso in considerazione da nessuna delle associazioni di categoria intervistate da IrpiMedia riguarda proprio gli aspetti positivi valutati dallo studio dell’università di Kiel per i piccoli allevatori. Riducendo la produzione intensiva si riduce di conseguenza la quota del mercato occupato dalle grandi aziende e, conseguentemente, assieme a un inevitabile aumento dei prezzi, si liberano fette di mercato per le piccole aziende che già producono e vendono a prezzi più alti. Confagricoltura e Assica, alla richiesta di commento a riguardo, hanno riferito di essersi concentrati su altre sezioni degli studi: «Non ci avevo fatto caso. Ho i miei dubbi, di solito i piccoli sono sempre i primi a sparire», sostiene Michele Spangaro.

I piani europei dovrebbero andare di pari passo con gli obiettivi mondiali nella riduzione delle emissioni di CO2 e nella lotta all’insicurezza alimentare. Lo afferma anche l’europarlamentare Herbert Dorfmann: «Tutto questo può funzionare solo se il consumatore sta dalla parte giusta. Se continua a chiedere prodotti di bassa qualità a basso prezzo la strategia rimane una bella strategia ma niente di meglio».

L’impatto sui piccoli imprenditori agricoli

La maggioranza dei piccoli allevatori e agricoltori intervistati da IrpiMedia non sono preoccupati dal possibile aumento dei prezzi: «Se fanno costare il pomodoro due euro al chilo io sono felice perché tanto comunque a cinque li vendo. Il piccolo produttore non ha nessun problema con questa iniziativa», sostiene Alessandro Giuggioli, fondatore dell’azienda Quintosapore a Città della Pieve (Perugia).

Anche la riduzione dei pesticidi e l’incremento delle terre destinate al biologico non sembrano spaventare, perché molte aziende di piccole e medie dimensioni già producono in maniera sostenibile. L’Italia ha una percentuale di campi bio che sfiora il 16%, il doppio rispetto alla media europea, secondo i dati Sinab. «Non usiamo antibiotici, conservanti, i nostri prodotti sono già dal produttore al consumatore, quindi anche i costi della nostra frutta e verdura sono già più alti. Ovviamente, alla grande distribuzione questo non piace perché loro vincono se i prezzi sono più bassi», dice Valentina Pallavicino, che lavora nell’azienda CuorOrto di Sezze (Latina).

La strategia per la biodiversità

Nel quadro del Green Deal, la Farm to Fork viaggia parallelamente alla strategia dell’Ue sulla biodiversità per il 2030, che prevede un finanziamento di 20 miliardi di euro l’anno tra fondi Ue, nazionali e privati. La strategia per la biodiversità è un piano a lungo termine per proteggere la natura e invertire il degrado degli ecosistemi e mira a portare la biodiversità dell’Europa sulla via della ripresa entro il 2030, tramite azioni e impegni specifici. Tra questi, la protezione di almeno il 30% delle aree terrestri e il 30% di quelle marine; il ripristino degli ecosistemi degradati terrestri e marini in tutta Europa attraverso l’utilizzo di agricoltura sostenibile; la protezione della fertilità del suolo e l’adozione del piano d’azione per l’inquinamento zero di aria, acqua e suolo; ma anche l’arresto del declino degli impollinatori, il ripristino di almeno 25.000 km di fiumi europei, la riduzione dell’uso e del rischio di pesticidi del 50% e la piantagione di 3 miliardi di alberi entro il 2030.

La strategia è stata presentata il 20 maggio 2020 insieme alla Farm to Fork e approvata durante la sessione plenaria del Parlamento europeo che si è tenuta a Strasburgo dal 7 al 10 giugno.

Lo scetticismo subentra quando si prendono in esame alcuni dei possibili effetti secondari, come lo spostamento della produzione verso Paesi terzi, soprattutto se il consumatore non sarà disposto a supportare l’aumento dei prezzi. «Il problema è essere autosufficienti come territorio, come Europa, perché poi se importiamo la soia e la carne dall’Argentina e dal Brasile ci puliamo la coscienza», pensa Daniele Colognesi, allevatore de La torre di Colognesi di Anguillara Sabazia (Roma). Emanuele Pullano, dipendente dell’Orto di Fabiana (Roma), è convinto che con una maggiore sensibilizzazione le persone accetteranno di pagare di più per un prodotto più sano.

Massimo Nesta, allevatore dei Fratelli Nesta a Magliano Sabina (Rieti), invece, non ritiene che sia il momento di alzare i prezzi e ha paura che la grande distribuzione faccia ancora «da padrona». La sua rassegnazione è giustificata dall’impatto che ha avuto storicamente la Politica agricola comune (Pac) su aziende come questa. Nata nel 1962 con l’intento di promuovere l’autosufficienza alimentare dell’Europa, la Pac ha premiato metodi di coltivazione e allevamento sempre più intensivi e industrializzati, penalizzando i piccoli produttori. Secondo un’analisi del Guardian, circa l’80% dei 40 miliardi di euro di sussidi diretti della Pac 2013-2021, uno dei pilastri della misura, è finito in mano al 20% degli agricoltori.

Mentre il numero di capi di pollame e bestiame tra il 2005 e il 2016 è aumentato, quello degli allevamenti è diminuito drasticamente, segno di un rafforzamento della produzione intensiva concentrata in poche aziende. Nello stesso periodo infatti, il numero complessivo di attività agricole è passato da 14,5 a 10,3 milioni. Solo in Italia è andato perduto il 76% degli allevamenti di suini, una decrescita in atto in tutti Paesi europei da decenni, ma che ha colpito in modo particolare i paesi orientali dal loro ingresso nell’Unione: la Bulgaria e la Slovacchia hanno perso il 72% dei loro allevamenti di bestiame e pollame, l’Ungheria il 48%.

Gli agricoltori e gli allevatori europei hanno ottenuto finanziamenti sulla base degli ettari posseduti, per una media di 267 euro per ettaro. In Germania, che in totale ha ricevuto oltre 6 miliardi dei 40 della Pac, questo sistema si è tradotto in sussidi da oltre un milione di euro per 125 aziende. «Tante persone, come il mio vicino di azienda, hanno terreni su cui non coltivano e a fine anno prendono i finanziamenti della Pac. In molti agiscono in questo modo», denuncia Giuggioli. La scomparsa dei piccoli produttori ha portato il commissario europeo per l’agricoltura, Janusz Wojciechowski, a fare autocritica, come ha dichiarato al Guardian: «La mia intenzione è che questo processo di scomparsa delle piccole aziende agricole venga fermato. Il settore alimentare europeo in passato si basava su di loro e dovrebbe farlo anche in futuro».

In questo contesto si inserisce la nuova Pac 2021-2027, con un accordo provvisorio raggiunto dai ministri dell’Agricoltura dell’Ue con il Parlamento europeo a giugno di quest’anno. Il piano godrà del maggior finanziamento di sempre, oltre 386 miliardi di euro, diviso tra aiuti diretti, di cui il 25% sarà dedicato agli eco-schemi – le pratiche di agricoltura considerate sostenibili – e ai piani di sviluppo rurale, ma manca ancora il voto definitivo, previsto per la sessione plenaria del Parlamento a fine novembre.

I fondi a bilancio della Pac

Gli stanziamenti destinati nel 2021 e quelli previsti nel quadro finanziario pluriennale 2021-2027
[€/mld]

La nuova Pac, che entrerà in vigore nel 2023 dopo due anni di transizione, avrebbe dovuto fissare il massimale a 100.000 euro su proposta del Parlamento, nonostante alcuni gruppi, come i Verdi, avessero chiesto di abbassarlo a 60.000. Tuttavia, il Consiglio europeo si è opposto al limite obbligatorio. Gli Stati membri, che potranno comunque inserire il tetto nei loro piani strategici, dovranno semplicemente orientare il 10% dei pagamenti diretti alle aziende agricole di piccole e medie dimensioni. «L’accordo trovato dalle istituzioni europee sulla nuova Pac mantiene pressoché inalterato lo status quo, ovvero un modello di distribuzione dei sussidi agricoli che, essendo basato sugli ettari di terra posseduti, premia le aziende agricole più grandi», dice a IrpiMedia l’europarlamentare dei Verdi Eleonora Evi.

Sulla questione del limite ai sussidi, le grandi lobby del settore, come Copa-Cogeca, si sono espresse contrariamente già a partire dal 2018, in una riunione bilaterale con la Direzione generale per l’agricoltura e lo sviluppo rurale. A luglio del 2020, Copa-Cogeca ha ringraziato in un tweet la presidenza tedesca dell’Ue per aver incontrato i loro dirigenti poco prima della riunione del Consiglio, in cui i Paesi dell’Ue hanno concordato una posizione a favore del tetto volontario delle sovvenzioni, sostenuta in Italia anche da Confagricoltura: «Noi ci siamo sempre espressi in modo contrario a questo tetto, ma il principio è passato in modo facoltativo», afferma Cristina Tinelli. Tra il 2023 e il 2025 anche la condizionalità sociale, le misure per assicurare che i fondi non vadano alle aziende che violano i diritti dei lavoratori, sarà volontaria e non obbligatoria.

«Dopo aver vinto la battaglia sulla Pac, gli sforzi si sposteranno ora sulla Farm to Fork, nel tentativo di svuotarla della sua ambizione e lasciare sulla carta i suoi target», sostiene Evi. Nel testo della nuova Pac non c’è alcun riferimento al Green Deal, con il rischio, secondo l’europarlamentare dei Verdi, che gli obiettivi della Farm to Fork finiscano per essere slegati dai finanziamenti europei: «Avevamo proposto di allineare la Pac agli obiettivi del Green Deal europeo, in modo che i quasi 400 miliardi di euro di sussidi agricoli della Pac venissero erogati coerentemente con il raggiungimento di questi obiettivi. Purtroppo così non è stato».

La Farm to Fork di per sé non è vincolante. La Commissione adesso dovrà presentare delle proposte legislative per tradurre gli obiettivi della strategia in target giuridicamente vincolanti che saranno poi gli Stati membri a dover implementare. Un processo che vedrà compimento soltanto tra qualche anno. Le lobby si dicono già pronte a intervenire, come afferma Michele Spangaro: «Qui si sta decidendo quale sarà il modello di produzione alimentare che prevarrà. La vera guerra, la vera sfida è lavorare sui testi legislativi quando usciranno. Stiamo già lavorando affinché vengano presentati nel miglior modo possibile, ma poi ci sarà tutto l’iter legislativo e dovremo intervenire».

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Il crimine invisibile: il traffico dei pesticidi illegali in Europa

Il crimine invisibile: il traffico dei pesticidi illegali in Europa

Lorenzo Bagnoli
Lorenzo Bodrero

Porto di Anversa, Belgio, 28 aprile 2020. Le dogane sequestrano 778 tonnellate di pesticidi definiti «non conformi» e «sospetti». I prodotti, di per sé, sarebbero legali: sono un erbicida e un fungicida autorizzati. Tuttavia nelle etichette che li accompagnano qualcosa non torna: i dati sono alterati. In altre parole, le sostanze primarie che li compongono sono legali, la miscela che ne deriva invece no, è potenzialmente tossica e non rispetta le prescrizioni europee.

L’erbicida è composto partendo dal bentazone, un prodotto usato per controllare la crescita di cipolle, fagioli e scalogno; mentre il fungicida è un composto che parte dal captano, impiegato per pere e mele. Il principio attivo, l’anima del composto chimico che si miscela ad altri elementi, è autorizzato a livello di Unione Europea, mentre spetta a ciascun Paese membro stabilire quali prodotti possono essere commercializzati nei propri confini nazionali e quali no. L’indagine che ha portato al sequestro di Anversa, frutto di una collaborazione degli inquirenti belgi con l’Agenzia federale per la sicurezza alimentare (Afsca), è cominciata nel 2019 con l’analisi di impurità trovate in pesticidi aventi come principio attivo proprio il bentazone.

Per gli investigatori di tutta Europa trasformare i sequestri come quelli di Anversa in un’indagine sull’intera filiera del traffico di pesticidi è estremamente difficile.

Prima di tutto per il numero di attori coinvolti: da produttore a consumatore la filiera, spiega un report delle Nazioni Unite, può coinvolgere fino a 25 diversi soggetti. «E il rischio di essere arrestati e condannati è minimo, mentre i margini di profitto per il prodotto sono enormi», spiega Rien Van Diesen, poliziotto di Europol esperto nella lotta al traffico dei pesticidi illegali.

Da cinque anni la polizia europea coordina un’inchiesta collettiva paneuropea chiamata Silver Axe, finalizzata a intercettare i fitofarmaci illegali. Arrivata alla sua quinta edizione, dal 2016 l’ammontare sequestrato è di 2.568 tonnellate di pesticidi, una media di 514 tonnellate all’anno. Ma sono solo una frazione: secondo l’Europol, su 350.000 tonnellate utilizzate ogni anno in Europa, 48.000 sono illegali. La loro elevata pericolosità sta nel fatto che non se ne conosce la composizione chimica: i prodotti illegali non hanno fatto test, non si conosce quali possano essere i loro effetti. Nella sola Unione Europea il traffico illegale di pesticidi costa alle aziende circa 1,3 miliardi di euro all’anno, circa il 13% di tutta l’industria continentale.

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Stima dell’incidenza dei sequestri di pesticidi illegali sull’intero mercato europeo (sx) e andamento dei sequestri dell’operazione Silver Axe (dx)

«Alle dogane, un disperato colombiano può finire in carcere per un anno a causa di un chilogrammo di cocaina che ha in corpo, mentre uno che traffica sei container di pesticidi se la cava con una multa di 40 mila euro – ragiona Rob de Rijck, procuratore di Rotterdam tra i maggiori esperti in materia in Europa -. Non lo capisco. Non ho una risposta, onestamente, sul perché accada». Ritiene che il traffico di pesticidi illegali sia un problema sottostimato rispetto i classici reati ambientali, dall’inquinamento allo smaltimento dei rifiuti.

Le difficoltà aumentano a causa della natura dei composti. Questi prodotti possono essere versioni contraffatte di un fitofarmaco regolarmente commercializzato da un’azienda, oppure il risultato dell’alterazione nei dosaggi previsti dai regolamenti europei o ancora essere prodotti vietati perché ritenuti potenzialmente pericolosi. Sapere esattamente da quali elementi sono composti e che effetto possono avere sulla salute delle persone e dei prodotti coltivati è impossibile.

Di solito vengono ordinati online e poi acquistati a rivenditori di fiducia. India e Cina sono i principali Paesi di provenienza dei principi attivi contraffatti, ordinati spesso via Amazon o Alibaba. Per l’acquirente si tratta di normali operazioni online, visto che molti dei prodotti vietati in Europa sono legali altrove. Le aziende produttrici stanno cercando di impedire le pubblicità sulle piattaforme di e-commerce spingendo i governi a firmare accordi bilaterali con le aziende online, come fatto dal Ministero dell’Agricoltura con Alibaba nel 2018. Negli Stati Uniti, invece, Amazon nel 2018 ha dovuto pagare 1,2 milioni di dollari di multa alla Environmental Protection Agency, l’agenzia di protezione dell’ambiente, per aver commercializzato pesticidi irregolari.

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Le poche indagini che approdano in tribunale raramente portano a condanne per gli imputati. In Germania i processi in corso sono undici al momento, di cui nessuno finora arrivato a sentenza. In Polonia – tra i principali Paesi di transito per via della sua porosa frontiera con l’Ucraina – le multe tra il 2016 e il 2018 sono state 3.745, ma in media non hanno superato i 40 euro, meno di una contravvenzione per eccesso di velocità. Il Belgio è un Paese dove c’è attenzione sul tema e uno dei due processi andati a conclusione nel 2019 ha prodotto una multa da 60mila euro per una società produttrice inglese.

In Italia i Carabinieri dei Nas, le forze dell’ordine incaricate dei sequestri insieme a un dipartimento del Ministero della Salute e alle Dogane, dal 2017 hanno sequestrato 1.053 tonnellate di materiale e comminato 531 sanzioni amministrative. Negli ultimi cinque anni in Cassazione sono approdati quattro processi che hanno per oggetto traffici di pesticidi, uno dei quali conclusosi con la piena assoluzione, altri con pene che vanno dall’anno di carcere ai 600 o mille euro di sanzione. Al momento sono tutti pendenti in attesa della decisione sul ricorso presentato dagli imputati.

Da pesticidi a fitosanitari

“Pesticidi” è il termine più diffuso con cui si indicano composti chimici utilizzati in agricoltura per proteggere le piante da organismi considerati nocivi. Deriva dall’inglese. I tre tipi principali sono insetticidi, fungicidi e diserbanti.

Negli Stati Uniti – e gradualmente nel resto del mondo – l’utilizzo dei pesticidi è diventato massiccio a partire dagli anni Quaranta. Sono entrati così nelle case degli americani: l’azienda americana Penn Salt Chemicals nel 1947 ha riempito una pagina di Time magazine con una pubblicità del DDT, il primo insetticida moderno, poi messo al bando negli anni ‘70 per i suoi effetti cancerogeni. La pubblicità diceva “DDT is good for me”, il DDT fa bene, e indicava gli usi domestici dell’insetticida.

Il DDT è stato usato prima per contrastare la malaria in contesti di guerra, poi per uccidere gli insetti che provocavano malattie e infettavano i campi. In questo video del 1946 degli impiegati della sanità pubblica inglese lo spruzzano nel porridge per testimoniare la sua assoluta sicurezza e persuadere delle tribù del Kenya ad utilizzarlo. Diventerà poi l’esempio più clamoroso di come un pesticida, a seguito di adeguate indagini, possa rivelarsi molto pericoloso per la salute umana.

La lista dei prodotti vietati da agenzie nazionali e sovranazionali che si occupano di sicurezza alimentare è costantemente aggiornata ed episodi come il DDT, passato dall’essere una possibile soluzione alla causa del problema, sono molto numerosi. Con la nuova consapevolezza ambientale e sanitaria, il termine pesticida si è connotato così di un tratto negativo. Le campagne per l’agricoltura biologica e sostenibile predicano di evitare ogni prodotto di questo genere. Le normative per il loro utilizzo sono sempre più stringenti. È diventata la parola chiave delle campagne di prevenzione contro gli effetti nocivi su ambiente e salute, tanto da aver condizionato la comunicazione di questi prodotti. Così nelle normative italiane la parola scelta è prodotti fitosanitari e agrofarmaci.

Addetti ai lavori e legislatori considerano ormai la parola pesticida già nell’accezione negativa. In questo articolo consideriamo i termini due sinonimi.

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Perché in Italia esiste un mercato parallelo

«La maggior parte degli agricoltori (che acquista fitosanitari illegali, nda) è compiacente, anche perché vengono istruiti su come riconoscere il prodotto che acquistano privo della tipica scheda di etichetta, e su come utilizzarlo. Se accetti e se lo paghi meno della metà allora sei consapevole. I guadagni (e risparmi) sono alti, soprattutto per i grandi produttori», sostiene il comandante dei Nas di Latina, tra le zone più colpite dai traffici di fitofarmaci illegali, Felice Egidio.

Secondo un imprenditore, in passato coinvolto nell’acquisto dalla Cina di fitofarmaci vietati in Europa, ci sono prodotti usciti dal mercato europeo che sono ancora ritenuti efficienti dagli agricoltori e soprattutto possono essere acquistati tra la metà e un terzo del prezzo dei prodotti del mercato legale. Sostiene che gli agricoltori si sentano subissati dai vincoli europei e spinti, per questo, a cercare soluzioni altrove. Dal suo punto di vista, usare certi prodotti, vietati in Europa e non in Cina, significa ottenere abbassamento dei costi e impennata degli effetti. Tradotto, rivolgersi al mercato nero conviene, così da spendere meno e tenere il passo della concorrenza, rischiando poche centinaia di euro di multa.

Rivolgersi al mercato nero conviene, così da spendere meno e tenere il passo della concorrenza, rischiando poche centinaia di euro di multa

L’introduzione in Italia di prodotti vietati è stata depenalizzata nel 1999, quindi perché ci sia un reato e si vada a processo si deve configurare il pericolo per la salute pubblica, oppure il disastro ambientale.

Per gli investigatori e i magistrati è un lavoro complesso individuare questi due elementi nei casi specifici, a volte per mancanza di dati, a volte perché per misurarne le conseguenze serve molto tempo. L’arma repressiva, quindi, funziona fino a un certo punto. Esponenti delle compagnie produttrici di fitofarmaci che chiedono di non essere citati ritengono invece che scegliere di acquistare nel mercato legale sia una scelta in capo esclusivamente agli agricoltori, i quali dovrebbero essere formati dalle associazioni di categoria in modo adeguato. Al netto delle spiegazioni dei diversi soggetti coinvolti, resta lo spargimento di migliaia di tonnellate di materiale che impatta sulla salute e sull’ambiente, per quanto non sempre sia possibile stabilire, in punto di diritto, se costituisca un reato.

Il profitto assicurato è per i distributori, ossia quegli imprenditori che rivendono i prodotti del mercato nero: «Si tratta generalmente di ex rappresentanti di importanti aziende del settore i quali, forti della loro rete di contatti e delle loro competenze tecniche, riescono a collegare offerta e domanda», spiega il comandante dei Nas di Latina.

Il reato è conveniente sotto molti punti di vista. È semplice: si fanno ordini dalla Cina di prodotti chimici non autorizzati per, diciamo, 14 euro al litro e si contattano potenziali clienti in aree particolarmente competitive. È sicuro: i rischi sono calcolati e nella maggior parte dei casi si incappa in poche centinaia di euro di ammenda. È redditizio: detraendo le spese per il confezionamento e il trasporto, li si vende sul mercato nero a 50 euro al litro. Una singola spedizione di 160 tonnellate di prodotto può generare profitti per otto milioni di euro. Esentasse e a rischi minimi.

I regolamenti dei fitofarmaci

Il sistema autorizzativo per i prodotti fitosanitari oggi è molto rigido, paragonabile a quello per i farmaci, ed è impostato su due livelli: europeo, in cui l’Efsa (European food safety authority, l’agenzia dell’Unione europea per la sicurezza alimentare) valuta le sostanze attive nei prodotti; e nazionale, dove il prodotto è dapprima valutato e poi autorizzato per l’utilizzo.

In Italia spetta al Ministero della salute implementare le direttive comunitarie in materia di fitosanitari, disciplinati dal Regolamento quadro (CE) 1107/2009, mentre le questioni relative ai residui di pesticidi nei cibi sono trattate nel Regolamento (CE) 396/2005. Un terzo e ultimo livello assegna alle Asl la responsabilità circa i piani di controllo da mettere in atto.

Quando è in pericolo la salute pubblica?

Il settore dei fitosanitari vive inoltre un paradosso che determina una linea molto sottile tra legale e illegale. Ciò che è consentito utilizzare oggi può non esserlo domani. È il caso, per esempio, del Mesurol, nome commerciale di un composto dal principio attivo Methiocarb e prodotto dalla Bayer. Viene utilizzato nella produzione della concia per la coltivazione di mais e ha come obiettivo quello di respingere i volatili.

Il fitofarmaco nel 2018 è finito sotto la lente della Procura di Udine, allertata dal Consorzio apicoltori della medesima provincia che denunciava una moria di api diventata ormai insostenibile (da 60mila unità a 10-20mila per arnia). In una famiglia in pieno sviluppo, le api bottinatrici (che si occupano della raccolta dei cibi, ndr) sono circa 20 mila, ciascuna delle quali visita un massimo di 100 fiori al giorno. Un danno alle api, dunque, ma anche la mancata impollinazione di due milioni di fiori al giorno. E si intende un singolo alveare. Gli apicoltori hanno sostenuto che lungo tutta la primavera – periodo cruciale per lo sviluppo di un alveare – le api morissero nell’ordine delle decine di migliaia per famiglia. Il periodo coincide infatti con la dispersione sui campi coltivati a mais del concime trattato con il fitofarmaco della Bayer.

La moria di api in un apiario in provincia di Udine – Foto: Consorzio apicoltori della provincia di Udine

Le analisi di laboratorio hanno riscontrato la presenza di Mesurol nelle api morte, nei favi degli alveari e in alcuni casi anche nel miele. Sono finiti così sotto inchiesta 400 agricoltori, tutti operanti nel raggio di volo delle api dei cinque apiari più colpiti, e in 250 avevano subito il sequestro preventivo (poi annullato) dei propri campi. Da quel fascicolo di indagine, conclusosi con il patteggiamento di una ventina di agricoltori, ne è seguito un secondo in cui a 198 titolari di aziende agricole è contestato un utilizzo improprio del Mesurol e di altri insetticidi. Il processo, che dovrebbe celebrarsi il prossimo settembre, è considerato da Legambiente e Wwf «il più importante al mondo per inquinamento ambientale causato a danno delle api e del loro/nostro ambiente da errate pratiche agricole».

Il Ministero della salute lo scorso novembre ha messo al bando tutti i prodotti contenenti il Methiocarb a partire dal 3 aprile 2020.

Ma la difficoltà nel contrasto all’uso improprio e al traffico di fitosanitari illegali risiede anche nella difficoltà di collegare il rischio per la salute pubblica all’uso di specifici fitofarmaci illegali. La sentenza di appello di un processo ai danni di quattro persone nel Lazio ha completamente ribaltato quella di primo grado. I quattro imputati erano stati dichiarati colpevoli in primo grado del reato di contraffazione «in modo pericoloso per la salute pubblica» di due prodotti fuori dalle liste europee nel 2008 e 2009, e di associazione a delinquere. Il tribunale li aveva quindi condannati a 14 anni di reclusione. I giudici di secondo grado hanno però stabilito che l’utilizzo dei fitosanitari in questione non presupponeva un pericolo per la pubblica salute, bensì solo per chi ne faceva uso. Ne è seguita l’assoluzione piena per tutti gli imputati e la derubricazione in illecito amministrativo.

«Un’assoluzione dell’industria agroalimentare»

L’Agenzia europea per la sicurezza alimentare (Efsa) ogni anno pubblica i dati dei residui di pesticidi nel cibo. Che ve ne siano tracce, infatti, è normale, purché restino sotto una certa soglia. Efsa è il solo ente che, al di là del fenomeno criminale, può misurare davvero la pericolosità della situazione. Infatti i pesticidi sono comunque, per quanto legali, prodotti che impattano sulla salute e sull’ambiente, la cui esposizione deve essere mantenuta sotto controllo, proprio in nome della salute pubblica e del principio di precauzione per cui si evita di esporre la popolazione ad un potenziale rischio. Dei 91.015 campioni analizzati dall’Efsa nel 2018, il 95,5% ha residui sotto la soglia di preoccupazione per la salute. L’1,8% può essere considerato al di sopra della soglia. Il rimanente 2,7% è considerato irrilevante. In sostanza, per Efsa i dati non sono allarmanti.

A febbraio 2020 è uscita una seconda analisi di rischio dei residui di fitofarmaci nel cibo, con un focus in particolare sulle malattie degli effetti cronici sulla tiroide e degli effetti acuti sul sistema nervoso centrale, basata sui dati raccolti tra il 2014 e il 2016 dai Paesi membri. Era uno studio piuttosto atteso tra gli addetti ai lavori. La conclusione è che l’esposizione dell’uomo ai residui di pesticidi «non eccede le soglie».

«È uno studio superficiale e grossolano, un tentativo di assoluzione del modello agricolo industriale. Su 70 pagine di documento, 50 sono spese per l’analisi dell’incertezza»

Renata Alleva

Membro della Pesticide Action Network

Forti critiche alla metodologia di quest’ultimo studio sono arrivate dalle principali associazioni ambientaliste italiane tra cui ISDE, WWF, Legambiente e Slow Food: «Più che uno studio finalizzato a tutelare la salute pubblica [è] un tentativo di assoluzione del modello agricolo industriale, fondato sull’uso della chimica e ormai universalmente riconosciuto come fallito», hanno scritto in un’analisi. In altri termini, secondo le organizzazioni, il report non ha nemmeno provato a mettere in discussione l’uso che oggi viene fatto dei pesticidi.

Renata Alleva, nutrizionista, reviewer di importanti riviste scientifiche che si occupano di alimentazione e salute, presidente della sezione provinciale di Isde e membro della Pesticide Action Network, aggiunge: «Il report non aggiunge nulla. Su 70 pagine di documento, 50 sono spese per l’analisi dell’incertezza (dei dati, ndr). È uno studio superficiale e grossolano». Lo definisce una «presunzione matematica», perché invece di raccogliere analisi ad hoc ha cercato di sistematizzare quelli pre-esistenti e dare loro un senso.

I limiti più grandi individuati dalle organizzazioni italiane riguardano la decisione di concentrarsi solo sul cibo dimenticandosi dell’esposizione residenziale (di coloro che risiedono in prossimità dei luoghi di utilizzo dei prodotti, ndr); aver tralasciato le tiroiditi e i disturbi al cervello, scegliendo al contrario di concentrarsi solo sulla «tossicità acuta»; aver deliberatamente ignorato che le sostanze interagiscono tra loro in modo diverso, sono tra le principali criticità osservate. Non c’è nemmeno un’analisi, lamentano le associazioni, che duri nel tempo a sufficienza per rendersi conto dell’impatto sulla salute, che richiede anni per essere misurato.

In un settore in cui è spesso impossibile determinare cosa è legale e cosa non lo è e caratterizzato da strumenti di contrasto ancora fortemente spuntati, il vero vincitore è il mercato stesso, alimentato tanto dall’agricoltura tradizionale quanto dai contrabbandieri. E rispondono entrambi a una domanda sempre crescente.

CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli
Lorenzo Bodrero

Hanno collaborato

Eva Achinger
Antonio Baquero
George Brock
Kristof Clerix
Anuška Delić
Rasit Elibol
Caroline Henshaw
Nils Mulvad
Krzysztof Story

Editing

Luca Rinaldi

In partnership con

OŠTRO (Slovenia)
Knack (Belgio)
De Groene Amsterdammer (Olanda)
EuObserver (Belgio)
Tagesschau (Germania)
BR24 (Germania)
Tygodnik Powszechny (Polonia)
VSquare (Polonia)
Investigative reporting Denmark (Danimarca)

Infografiche

Lorenzo Bodrero