Le mille vite del lobbista di Gheddafi, Hassan Tatanaki

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Le mille vite del lobbista di Gheddafi, Hassan Tatanaki

Occrp

Nel tumultuoso ambiente politico della Libia, Hassan Tatanaki è un survivor. Nato a Bengasi, nell’est della Libia, discende da una famiglia di imprenditori. Oggi dice di essere più coinvolto nella filantropia che nell’impresa, per quanto ricopra ancora posizioni apicali nelle società del suo gruppo, che spazia dallo sviluppo immobiliare al marketing, dall’oil&gas, il business principale, alla fornitura di calcestruzzo. Grazie alla sua influenza e al suo potere economico è sempre stato un pezzo importante della politica libica, sia come promotore degli interessi della famiglia Gheddafi, sia come finanziatore della rivoluzione del 2011. Ora ha fondato un partito con il quale ha deciso di correre per le elezioni presidenziali della Libia che avrebbero dovuto tenersi nel dicembre 2014.

Il longevo dittatore Muammar Gheddafi negli anni Settanta aveva nazionalizzato tutte le attività economiche della Libia, comprese quelle della famiglia Tatanaki. Hassan Tatanaki ha per questo trascorso diversi anni all’estero fino a quando nel 1990 ha deciso di fare ritorno in patria per lanciarsi nel settore petrolifero con la Challenger Limited. Da allora in avanti ha finanziato gli sforzi di promozione del governo di Gheddafi negli Stati Uniti, anche quando la Libia era un Paese sotto sanzioni internazionali.

Hassan Tatanaki

Dopo l’esplosione delle proteste contro il regime Gheddafi nel 2011 però, Tatanaki si è rapidamente sintonizzato sulle frequenze dei manifestanti, dei quali è diventato un sostenitore. Durante la guerra civile che ne è seguita, ha sostenuto Khalifa Haftar, il generale ribelle che combatte contro il governo di Tripoli riconosciuto dalle Nazioni unite, e ha fondato anche un canale televisivo apertamente anti-islamista. L’Esercito nazionale libico di Haftar conta infatti tra i suoi alleati milizie che si schierano contro i gruppi militari d’ispirazione religiosa (a parte pochissime eccezioni). Ora ha deciso di candidarsi alle elezioni in Libia con il supporto di un partito laico e con l’obiettivo di sostenere le martoriate istituzioni pubbliche della Libia.

All’inizio degli anni Duemila, una società di trading petrolifero in cui era coinvolto è stata accusata di aver ottenuto contratti vantaggiosi a discapito delle finanze pubbliche della Giordania e del Venezuela. In Libia, le autorità insediatesi post Gheddafi lo hanno brevemente inserito nella lista dei ricercati dell’Interpol per crimini finanziari come molti ritenuti vicini all’ex rais.

Dal 1988 Tatanaki è stato anche titolare di almeno otto conti presso il Credit Suisse, di cui il più ricco, nel 2010, appena un anno prima della rivolta libica, conteneva 530 milioni di franchi svizzeri (736 milioni di euro, con il cambio dell’epoca) depositati, come rivelano i dati di Suisse Secrets. Almeno due di questi conti sono rimasti aperti fino a pochi anni fa.

Tatanaki, contattato da Occrp, ha negato qualsiasi accusa a suo carico e ha ribadito di essere solo un normale uomo d’affari, che a volte è stato frainteso o attaccato in malafede. Ha affermato di non aver mai sostenuto personalmente né Gheddafi né Haftar. Occrp non ha prove che abbia effettivamente commesso dei crimini.

Tatanaki ha confermato di essere un cliente di Credit Suisse, ma ha detto di non essere a conoscenza del conto corrente da 530 milioni di franchi.

#SuisseSecrets, il progetto

Suisse Secrets è un progetto di giornalismo collaborativo basato sui dati forniti da una fonte anonima al giornale tedesco Süddeutsche Zeitung. I dati sono stati condivisi con Occrp e altri 48 media di tutto il mondo. IrpiMedia e La Stampa sono i partner italiani del progetto.

Centocinquantadue giornalisti nei cinque continenti hanno rastrellato migliaia di dati bancari e intervistato decine di banchieri, legislatori, procuratori, esperti e accademici, e ottenuto centinaia di documenti giudiziari e finanziari. Il leak contiene più di 18 mila conti bancari aperti dagli anni Quaranta fino all’ultima decade degli anni Duemila. In totale, lo scrigno è di oltre 88 miliardi di euro.

«Ritengo le leggi sul segreto bancario svizzero immorali – ha dichiarato la fonte ai giornalisti-. Il pretesto di proteggere la privacy finanziaria è semplicemente una foglia di fico che nasconde il vergognoso ruolo delle banche svizzere quali collaboratori degli evasori fiscali. Questa situazione facilita la corruzione e affama i Paesi in via di sviluppo che tanto dovrebbero ricevere i proventi delle tasse. Questi sono i Paesi che più hanno sofferto del ruolo di Robin Hood invertito della Svizzera».

Nel database di Suiss Secrets ci sono politici, faccendieri, trafficanti, funzionari pubblici accusati di aver sottratto denaro alle casse del loro Paese, uomini d’affari coinvolti in casi di corruzione, agenti dei servizi segreti. Ci sono anche molti nomi sconosciuti alle cronache giudiziarie.

Credit Suisse non ha dato risposta alle domande specifiche su Tatanaki, ma in un comunicato ha dichiarato di «rigettare con forza le affermazioni e le deduzioni sulle presunte pratiche commerciali della banca» formulate dai giornalisti nel progetto Suisse Secrets.

«Le questioni riportate sono prevalentemente storiche, in alcuni casi risalenti agli anni Settanta, e i resoconti riguardo tali questioni si basano su informazioni parziali e selettive estrapolate dal contesto, dando luogo a interpretazioni tendenziose della condotta commerciale della banca», ha scritto la banca nel suo comunicato di risposta.

Secondo Graham Barrow, consulente britannico in materia di criminalità finanziaria, le banche hanno una particolare responsabilità nel controllare i clienti accusati di corruzione oppure che hanno legami con governi coinvolti in simili reati: «Tutti dovrebbero avere accesso al sistema bancario… – ha spiegato -. Si dovrebbe però evitare di permettere che il sistema bancario legittimi la ricchezza acquisita con la corruzione e ripulsca il denaro». «Alla fine – ha concluso – è impossibile distinguere il denaro pulito da quello sporco».

Gli oligarchi della Libia

di Lorenzo Bagnoli

Anche la Libia ha i suoi oligarchi. Quest’inchiesta di Occrp su Hassan Tatanaki apre uno squarcio su ciò che resta di un sistema di potere che passa ancora per alcuni degli uomini che più hanno aiutato Muammar Gheddafi a prosperare, anche se con la rivoluzione del 2011 hanno poi cambiato bandiera. Non solo: rivela anche come la guerra per procura che si combatte in Libia (per semplificare: Turchia e Unione europea schierati – seppur con fratture in seno all’Ue – a favore di Tripoli e Russia ed Emirati arabi uniti a favore di Haftar) passi anche attraverso uomini d’affari libici che si muovono fuori dal Paese. Hassan Tatanaki non fa eccezione: ha una parte consistente del suo impero commerciale negli Emirati arabi uniti, che hanno ovviamente molto interesse a mantenere una presenza amica nella Libia che verrà.

Sono anni che in Libia le Nazioni unite cercano di organizzare le elezioni. Quelle evaporate della fine del 2021 erano entrate nel vivo quando a un certo punto aveva cercato di candidarsi Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi ed ex socio di Tatanaki, accreditato di un certo consenso. Sembra tuttavia sempre più difficile riappacificare la Libia attraverso un voto.

Intorno al caos che domina sul campo, però, ci sono influenti uomini d’affari che hanno buona parte dei loro business all’estero, ma che vogliono comunque cercare di entrare a far parte nel nuovo gruppo di potere che emergerà nella futura Libia. La loro principale preoccupazione, a tutela dei loro affari, è garantire, attraverso le proprie reti di lobbisti, anche una legittimità internazionale alla Libia che verrà. In fondo lo stesso Abdul Hamid Dbeibeh, il presidente ad interim del Governo di unità nazionale di Tripoli, che intende anche lui candidarsi quando si andrà alle urne, è un imprenditore delle costruzioni che ha avuto un forte sostegno da Muammar Gheddafi. Lo sostiene Mohamed El-Taher Issa, che è proprietario di una nuova compagnia aerea che dalla Libia porta a Malta. A volte gli interessi di questi businessman s’intrecciano

Un altro imprenditore che in vista del voto aveva fatto ritorno in Libia è stato Husni Bey, uomo d’affari che lavora nei settori finanziario, assicurativo, immobiliare e di distribuzione di beni di consumo. È finito più volte in carcere nell’epoca di Gheddafi perché aveva interessi diversi da quelli del dittatore. Ha ottimi rapporti in particolare in Italia, dove c’è una delle più importanti sedi del suo gruppo imprenditoriale.

Questi soggetti sono quelli che più di tutti hanno costruito una serie di relazioni fuori dalla Libia. Saranno importanti per il futuro del Paese tanto quanto i signori della guerra locali come i Busriba, di cui abbiamo scritto, oppure i Koshlaf.

Lobbista per la Libia

Nel marzo 1992, il Consiglio di sicurezza dell’Onu impose sanzioni alla Libia per spingere Gheddafi a collaborare alle indagini sull’attentato di Lockerbie, in Scozia. Il 21 dicembre 1988 l’esplosione di un aereo della PanAm, infatti, provocò la morte di 270 persone (principalmente americani), 259 a bordo e undici a terra. Pochi mesi prima, nel novembre 1991, i due principali organi della magistratura di Stati Uniti e Scozia accusarono un agente segreto libico di essere l’esecutore dell’attentato (è stato condannato nel 2001). L’embargo ha avuto un forte impatto economico sul Paese e ha reso più difficile per il governo libico operare all’estero.

Dopo aver vietato l’impresa privata, nazionalizzando tutti i settori dell’economia, il regime di Gheddafi ha iniziato a far coltivare numerosi uomini d’affari, a volte gli stessi a cui erano state prima confiscate le proprietà. Li ha impiegati come “intermediari” finanziari per spostare denaro dalla Libia all’estero, spiega Tim Eaton, ricercatore del think tank londinese Chatham House: «Con le sanzioni dopo l’attentato di Lockerbie – aggiunge – è emerso chiaramente il vero e proprio disastro economico che era in corso in Libia e il regime ha capito che doveva cambiare rotta».

All’epoca Tatanaki era tornato in Libia dopo anni trascorsi all’estero. Aveva appena fondato, grazie alle amicizie con Gheddafi, la sua società petrolifera. Lo stesso mese in cui furono imposte le sanzioni dell’Onu, Tatanaki iniziò quella che sarebbe stata una lunga carriera di finanziamento delle attività di lobbying per promuovere il governo di Gheddafi negli Stati Uniti.

Per prima cosa firmò un accordo con un’azienda dell’isola di Jersey chiamata GBM Consultancy Ltd, di proprietà di due ex membri del Congresso degli Stati Uniti, David Bowen e John Murphy. Già nel 1980 Murphy era stato costretto a dimettersi dal Congresso in seguito a uno scandalo per concussione ed ha trascorso in carcere quasi due anni. Il contratto di un anno, firmato in Marocco, stabiliva che Tatanaki avrebbe agito come procuratore per la società, pagando 450 mila dollari come anticipo e 225 mila dollari al mese per coprire i costi. In cambio, l’azienda avrebbe lavorato per «normalizzare le relazioni tra gli Stati Uniti d’America e la Libia» e «ritrarre l’immagine della Libia e della sua amministrazione [sic] in una visione più favorevole».

Nel 1993, quando la società era già stata chiusa, Bowen e Murphy sono stati multati dal governo statunitense per aver violato le sanzioni sulla Libia e sono stati condannati a pagare 30 mila dollari, una cifra irrisoria rispetto al volume che avrebbero voluto spostare. Il collegamento tra Tatanaki e i due è stato ampiamente riportato dai giornali, così come l’attività di lobbista per conto del governo di Gheddafi. Eppure questo ruolo non sembra aver influito sulla possibilità di essere un cliente di Credit Suisse: tre conti correnti, aperti nel 1988 e nel 1991, sono infatti rimasti aperti anche a seguito di questi episodi. Un quarto è stato aperto nel 1999 a suo nome, insieme ad altri tre titolari, tra cui due membri della famiglia.

Tatanaki ha dichiarato a OCCRP che la sua attività di lobbying è stata legale e non era finalizzata a promuovere Gheddafi o il suo regime, ma piuttosto ad aiutare il popolo libico, che stava sopportando il peso delle sanzioni.

Muammar al-Gaddafi nel 2009 - Foto: Jesse B. Awalt/Released, Public Domain
Muammar al-Gaddafi nel 2009 – Foto: Jesse B. Awalt/Released, Public Domain

Dopo che le Nazioni unite hanno revocato le sanzioni alla Libia nel 2003, Tatanaki ha continuato a finanziare attività di lobby mentre il Paese cercava di rilanciarsi. Nel 2007 avrebbe contribuito a finanziare uno sforzo del governo, guidato dal figlio di Gheddafi Saif Al-Islam, per trasformare l’antica città di Cirene in un centro di “eco-turismo” (il progetto non è mai decollato e non è chiaro se e quanto denaro sia stato effettivamente fornito).

Nel 2008, Tatanaki ha finanziato un’altra campagna a favore della Libia. Nel gennaio dello stesso anno ha firmato un contratto con la società di consulenza statunitense Brown Lloyd James Worldwide, accettando di pagare 35.000 dollari al mese. In cambio, la società ha dichiarato che avrebbe aiutato «cittadini libici», non meglio identificati a contattare politici e accademici statunitensi, e di aver aiutato Saif Al-Islam a organizzare programmi di ricerca e per lo studio all’estero.

In un altro documento, Brown Lloyd James ha dichiarato di aver fornito consulenza su un editoriale a firma di Gheddafi e di aver contribuito a organizzare la famosa visita del 2009 del dittatore a New York per partecipare all’Assemblea generale delle Nazioni unite, durante la quale Gheddafi ha strappato pubblicamente una copia dello Statuto dell’Onu. Brown Lloyd James ha poi dichiarato di aver ricevuto oltre 1,25 milioni di dollari dalla missione libica presso il Palazzo di Vetro.

Lo scandalo del petrolio giordano

Le connessioni ad alto livello di Tatanaki si estendevano però ben oltre la Libia. Dopo il trasferimento della sua famiglia in Egitto negli anni Settanta, Tatanaki ha collaborato con personalità di spicco. Mentre studiava in Gran Bretagna, ha frequentato anche i membri della famiglia reale emiratina. Ha persino ottenuto un passaporto degli Emirati, oltre a quelli di Egitto, Turchia e Brasile.

Nel 2004, uno scandalo in Giordania ha mostrato come le connessioni internazionali di Tatanaki potessero invischiarlo in accuse di appropriazione indebita, commessa grazie alla partecipazione a un sistema clientelare.

La controversia ebbe inizio dopo l’annuncio che il Kuwait aveva concesso alla Giordania una fornitura di 25 mila barili di petrolio al giorno per un anno. L’allora ministro del petrolio del Kuwait, Ahmed Al-Fahad, disse ai media che la fornitura era stata «offerta alla Giordania come compensazione per ciò che aveva perso dal petrolio iracheno durante la guerra di liberazione dell’Iraq».

Ahmed Al-Fahd nel 2015 - Foto: Tasnim News Agency
Ahmed Al-Fahd nel 2015 – Foto: Tasnim News Agency

Il ministro Al-Fahad ha però glissato sul fatto che il petrolio non sarebbe stato utilizzato direttamente dalla Giordania, ma venduto sui mercati internazionali. I funzionari giordani hanno sostenuto che fosse necessario in quanto il greggio era troppo pesante per essere raffinato nel loro Paese.

Non è stato nemmeno reso noto che i proventi della vendita del petrolio non sarebbero stati depositati nelle casse pubbliche della Giordania, ma sarebbero invece stati trasferiti sul conto statunitense di una società registrata nel Delaware chiamata Free Market Petroleum. Tra gli azionisti di quest’ultima società c’era anche Tatanaki.

Quando un membro del parlamento kuwaitiano ha reso pubbliche queste informazioni, si è scatenato un putiferio in Kuwait e in Giordania.

I funzionari giordani e kuwaitiani non hanno mai detto quanto petrolio sia stato effettivamente venduto nè a quale prezzo. Dato che all’epoca il costo al barile oscillava tra i 30 e i 40 dollari, si può stimare con prudenza una fornitura da 270 milioni di dollari all’anno.

Sui giornali di Giordania e Kuwait ci sono state molte critiche all’accordo, e sospetti in merito alla destinazione finale dei fondi. Parlamentari giordani hanno chiesto di sapere perché i pagamenti non erano stati fatti attraverso la loro banca centrale, una domanda rimasta senza risposta da parte del governo giordano.

L’intera storia non è mai stata davvero chiarita, ma la controversia, col tempo, è scomparsa dai titoli dei giornali.

Secondo Tatanaki l’accordo mirava solo ad aiutare a vendere il petrolio per conto dei giordani, ma non è mai stato completato. Ha aggiunto che le accuse dei membri del parlamento giordano nei suoi confronti sono infondate e «totalmente fuori luogo» e che non si è quindi mai preoccupato di rispondere. Ha confermato di essere un azionista della Free Market Petroleum, ma non ha fornito ulteriori informazioni. La società, ha detto, è stata in definitiva uno «spreco di denaro» perché non ha prodotto alcun affare concreto.

Alla domanda se fossero stati effettuati pagamenti sul conto della Free Market Petroleum, ha risposto: «Per quanto ricordo, nessuno».

I rapporti di Tatanaki con Credit Suisse sono proseguiti anche dopo la denuncia del suo ruolo nell’affaire Giordania-Kuwait: nel 2006 sono stati aperti due conti a suo nome, uno dei quali insieme ad altri due membri della sua famiglia. Un altro, anch’esso con due parenti, è stato aperto nel 2009.

Da Amman a Caracas

A migliaia di chilometri di distanza, la Free Market Petroleum è stata coinvolta in un altro caso simile, questa volta riguardante la vendita di petrolio per conto della compagnia petrolifera statale venezuelana Petróleos de Venezuela S.A. (PDVSA).

In base a un accordo triennale firmato nel gennaio 2003, la Free Market Petroleum avrebbe dovuto vendere 50 mila barili di petrolio al giorno, dalla PDVSA alla Strategic Petroleum Reserve del Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti. I termini dell’accordo non sono stati resi pubblici, ma i dettagli sono poi trapelati ai media.

Petróleos de Venezuela S.A. (PDVSA), la compagnia petrolifera statale venezuelana - Foto: Humberto Matheus/Alamy Stock Photo
Petróleos de Venezuela S.A. (PDVSA), la compagnia petrolifera statale venezuelana – Foto: Humberto Matheus/Alamy

L’accordo, del valore potenziale di oltre 1 miliardo di dollari, ha suscitato un’attenzione particolare in Venezuela e negli Stati Uniti per diversi motivi. La PDVSA è solita condurre le trattative direttamente con gli acquirenti, non attraverso intermediari, e la Free Market Petroleum – che avrebbe potuto realizzare un profitto significativo – non era in alcun modo accreditata in Venezuela. Una bozza dell’accordo, visionata da Occrp, includeva anche una clausola che permetteva alla Free Market Petroleum di vendere il greggio ad acquirenti diversi dalla Strategic Petroleum Reserve con l’approvazione della PDVSA.

Il rappresentante venezuelano per l’accordo era l’ex ministro dell’Energia e presidente della PDVSA Rafael Ramírez, che la Commissione del congresso venezuelano del 2016 ha ritenuto responsabile di corruzione e illeciti che sono costati alla PDVSA 11 miliardi di dollari.

L’accordo ha attirato l’attenzione anche per il coinvolgimento di Jack Kemp, ex segretario degli Stati Uniti per la casa e lo sviluppo urbano e candidato alla vicepresidenza nella lista di Bob Dole, senatore Repubblicano e candidato alla presidenza degli USA nel 1996. La bozza del contratto indicava Kemp come firmatario della Free Market Petroleum e indicava fra i suoi azionisti l’avvocato americano dell’industria energetica William Hickman e Arturo Sarmiento, un uomo d’affari venezuelano che si è arricchito commerciando petrolio e importando whisky scozzese (nessuno dei due ha risposto alle telefonate e alle richieste di commento).

I documenti dei Paradise Papers – trapelati al quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung e condivisi con l’International Consortium of Investigative Journalists – elencano Tatanaki e queste stesse persone come proprietari di una Free Market Petroleum registrata alle Bermuda nel 2003, questa volta insieme a Jamal Ali Abdulla Sanad Al-Suwaidi, che in seguito è diventato consigliere politico di Mohamed bin Zayed quand’era principe della Corona di Abu Dhabi.

Tatanaki ha negato qualsiasi ipotesi di illecito nell’accordo, che a suo dire non è mai stato attuato. Ha sottolineato che all’epoca non esistevano sanzioni o altri divieti a trattare con il Venezuela.

Dopo la rivoluzione

Nel febbraio 2011, la Primavera araba ha investito la Libia. Le manifestazioni hanno rapidamente lasciato il posto a una rivolta armata, sostenuta dalla potenza aerea della Nato.

Mentre i ribelli avanzavano, Tatanaki iniziò a modificare il suo brand, innanzitutto creando un’associazione di beneficenza chiamata Libya Al Hurra Foundation (Fondazione Libia Libera), registrata in California con uffici in Egitto, Libia e Tunisia. Nel 2011, la testata statunitense The Hill ha identificato Tatanaki come il suo principale donatore. Lo ha confermato Omar Khalifa, che si è descritto come un consigliere della fondazione, secondo cui la Fondazione aveva speso più di 20 milioni di dollari dall’inizio della rivoluzione.

Nell’ottobre 2011, la Libya Al Hurra Foundation ha accettato di pagare 15 mila dollari al mese alla Franklin Partnership, una società di lobbisti con sede a Washington DC costituita per informare i politici statunitensi sulle attività della fondazione in Libia, che includono opere civili, sviluppo di infrastrutture e cura dei libici feriti in Egitto e Tunisia.

La svolta di Tatanaki verso una posizione più favorevole alla rivoluzione non ha impedito alle autorità libiche, dopo la caduta di Gheddafi, di inserirlo per un breve periodo nella red notice, la lista dell’Interpol che include latitanti da tutto il mondo, con l’accusa di frode. I documenti dell’Interpol non chiariscono quando o perché Tatanaki sia stato rimosso. Tatanaki ha detto che le accuse sono derivate da un attacco personale da parte di un singolo funzionario e sono state chiarite «nel giro di una settimana» dopo aver presentato i documenti necessari alle autorità.

Dopo la caduta di Gheddafi, la Libia è stata dilaniata dagli scontri tra milizie rivali. Nel maggio 2014, il generale ribelle Khalifa Haftar ha lanciato una campagna per attaccare le milizie filo-islamiste a Bengasi, nella Libia orientale. La campagna si è poi trasformata in una vera e propria ribellione contro il governo riconosciuto dalle Nazioni unite a Tripoli, nella Libia occidentale, dividendo il Paese in due.

Khalifa Heftar - Foto: Reuters/Alamy Stock Photo
Khalifa Heftar – Foto: Reuters/Alamy

Nei resoconti dei media, Tatanaki è stato spesso descritto come un sostenitore di Haftar. In un’intervista, ha definito la campagna di Haftar «il futuro della Libia». Nell’agosto 2014, in un’intervista rilasciata a Foreign Policy dal suo ufficio a Dubai, si è definito «partner» del generale ribelle.

Tatanaki ha dichiarato a Occrp di non aver sostenuto Haftar in prima persona, ma di aver appoggiato la campagna agli inizi perché la vedeva come un possibile modo per affrontare la minaccia delle milizie islamiste e per ricostruire le istituzioni libiche.

Nel 2017, il nome di Tatanaki è emerso anche in relazione all’ex procuratore capo della Corte penale internazionale, Luis Moreno Ocampo. Secondo i documenti ottenuti dal giornale francese Mediapart, analizzati dalla European Investigative Collaborations e condivisi con Occrp, nel 2015 Tatanaki ha firmato un accordo per pagare a Ocampo tre milioni di dollari in tre anni per servizi di consulenza (il contratto è stato concluso prima della scadenza e solo la prima rata di 750 mila dollari è stata pagata).

Ocampo ha dichiarato di aver accettato il lavoro nel tentativo di aiutare i libici. Ma i documenti dimostrano che era stato informato dei legami potenzialmente problematici di Tatanaki.

Diverse e-mail, ad esempio, indicano chiaramente la sua relazione con Haftar e i suoi sostenitori regionali. In una di queste, Omar Khalifa, dipendente di Tatanaki, ha anche detto a Ocampo che si erano incontrati con «apparati di sicurezza» egiziani e che «Hassan è in comunicazione con il capo dell’intelligence nazionale egiziana».

In un’altra e-mail, uno dei dipendenti di Ocampo segnala un audio su YouTube, apparentemente di una telefonata intercettata di Saif Al-Islam Gheddafi durante i primi giorni della rivolta, in cui il figlio del dittatore dice che Tatanaki stava ancora «facendo il suo lavoro» per sostenere il regime. Tatanaki ha replicato di essere stato travisato nella telefonata e di non aver avuto alcun contatto con Saif Al-Islam all’epoca.

Nel maggio 2015, un leader militare vicino ad Haftar è apparso sul canale televisivo Libya Awalan, di proprietà di Tatanaki per dichiarare che coloro che non si fossero uniti a Haftar sarebbero stati «massacrati» e «le loro donne violentate davanti ai loro occhi». Il video non chiarisce se fosse una minaccia o se fosse un allarme per le atrocità che i militanti islamisti avrebbero potuto commettere se non fermati in tempo, ma le email di cui Mediapart è entrata in possesso mostrano che il team di Ocampo considerava l’incidente come potenzialmente problematico.

Pochi giorni dopo, Ocampo scrisse a Omar Khalifa per suggerirgli di sviluppare un piano per proteggere Tatanaki da un eventuale processo della Corte penale internazionale, come risulta dai documenti. I risultati sono stati ampiamente riportati da Der Spiegel, Financial Times e Sunday Times.

Raggiunto per un commento, Ocampo ha detto: «Non ci sono errori a cui dare spiegazioni: Hassan Tatanaki, un cittadino libico, mi ha chiesto un consiglio su come la giustizia internazionale potesse contribuire a porre fine alla violenza nel suo Paese».

Ocampo ha sostenuto di aver subito un furto di dati personali nell’ambito di un conflitto tra i Paesi del Golfo che coinvolge la Libia e che «le informazioni confidenziali sono state utilizzate per condurre un attacco infondato contro la reputazione di Tatanaki, la mia integrità e la Corte penale internazionale».

Tre dei conti Credit Suisse di Tatanaki sono stati chiusi nell’anno successivo all’inizio della rivolta. Ma almeno due sono rimasti aperti fino a pochi anni fa, secondo i dati di Suisse Secrets.

Alla fine dello scorso anno, Tatanaki ha annunciato che sarebbe entrato nella mischia politica libica e si sarebbe candidato alle elezioni presidenziali previste per dicembre.

Il suo aereo è arrivato all’aeroporto Mitiga di Tripoli il 22 novembre. Per ragioni non chiare, è stato brevemente trattenuto, ma presto rilasciato. Ha presentato la sua candidatura e il suo nome è stato inserito in una lista di oltre 70 candidati.

A seguito di altre complicazioni interne e divisioni politiche c’è stato un nuovo rinvio delle elezioni in Libia. Secondo gli esperti, le possibilità di successo elettorale di Tatanaki sono sempre state scarse. Ma questo non lo ha scoraggiato. Alla domanda se avesse ancora intenzione di candidarsi alla presidenza, ha risposto a Occrp: «Assolutamente sì».

L’articolo è un adattamento in italiano di IrpiMedia. Questo è l’articolo in inglese originale.

Luis Moreno Ocampo - Foto: imageBROKER/Alamy Stock Photo
Luis Moreno Ocampo – Foto: imageBROKER/Alamy

CREDITI

Autori

Occrp

Traduzione e adattamento

Lorenzo Bagnoli

Editing

Giulio Rubino

Foto di copertina

Hassan Tatanaki discute le strategie elettorali, a novembre 2021
(Hassan Tatanaki/Facebook)

Credit Suisse è stata condannata per riciclaggio dei capitali della mafia bulgara

4 Luglio 2022 | di Edoardo Anziano

Il 27 giugno 2022 i giudici del Tribunale Penale Federale di Bellinzona, nel Canton Ticino, hanno emesso una sentenza storica. La banca Credit Suisse è stata dichiarata colpevole di aver aiutato l’organizzazione criminale del narcotrafficante bulgaro Evelin Banev, alias “Brendo”, a ripulire soldi sporchi guadagnati con il contrabbando di cocaina. È la prima volta che un istituto bancario viene dichiarato colpevole di riciclaggio in Svizzera

Fra il 2004 e il 2008 i mafiosi bulgari, con a capo Banev, avevano aperto decine di conti cifrati in Credit Suisse – simili a quelli di cui IrpiMedia aveva già raccontato nell’inchiesta SuisseSecrets. Su questi conti sono poi affluiti centinaia di milioni di euro, i proventi di un gigantesco traffico internazionale di droga, senza che la banca provvedesse a effettuare un’adeguata due diligence per controllare l’origine dei soldi. 

Secondo le accuse dei pubblici ministeri gli indizi sull’origine illecita dei fondi erano chiari. Nonostante ciò, in Credit Suisse non è scattato nessun allarme. Anzi, le transazioni con l’organizzazione di Banev sembravano deliberatamente organizzate in modo da non destare alcun sospetto di riciclaggio.   

Il Tribunale ha accertato «carenze all’interno della banca nel periodo in questione [fra luglio 2007 e dicembre 2008; i fatti antecedenti sono caduti in prescrizione ndr], sia per quanto riguarda la gestione dei rapporti con i clienti dell’organizzazione criminale, sia per quanto riguarda il monitoraggio dell’attuazione delle norme antiriciclaggio». Per questo motivo, Credit Suisse è stata multata per due milioni di franchi svizzeri, poco più di due milioni di euro, e costretta a risarcire il governo cantonale per 18.6 milioni di euro.  Dopo il verdetto, l’istituto ha annunciato che ricorrerà in appello, prendendo atto «di questa decisione relativa a precedenti carenze organizzative».

#SuisseSecrets, il progetto d'inchiesta
#SuisseSecrets, il progetto

Suisse Secrets è un progetto di giornalismo collaborativo basato sui dati forniti da una fonte anonima al giornale tedesco Süddeutsche Zeitung. I dati sono stati condivisi con OCCRP e altri 48 media di tutto il mondo. IrpiMedia e La Stampa sono i partner italiani del progetto. 

Centocinquantadue giornalisti nei cinque continenti hanno rastrellato migliaia di dati bancari e intervistato decine di banchieri, legislatori, procuratori, esperti e accademici, e ottenuto centinaia di documenti giudiziari e finanziari. Il leak contiene più di 18mila conti bancari aperti dagli anni Quaranta fino all’ultima decade degli anni Duemila. In totale, lo scrigno è di oltre 88 miliardi di euro.

«Ritengo le leggi sul segreto bancario svizzero immorali – ha dichiarato la fonte ai giornalisti-. Il pretesto di proteggere la privacy finanziaria è semplicemente una foglia di fico che nasconde il vergognoso ruolo delle banche svizzere quali collaboratori degli evasori fiscali. Questa situazione facilita la corruzione e affama i Paesi in via di sviluppo che tanto dovrebbero ricevere i proventi delle tasse. Questi sono i Paesi che più hanno sofferto del ruolo di Robin Hood invertito della Svizzera».

Nel database di Suiss Secrets ci sono politici, faccendieri, trafficanti, funzionari pubblici accusati di aver sottratto denaro alle casse del loro Paese, uomini d’affari coinvolti in casi di corruzione, agenti di servizi segreti. Ci sono anche molti nomi sconosciuti alle cronache giudiziarie.

Oltre alla banca fondata nel 1856, sono stati riconosciuti colpevoli due cittadini bulgari – considerati i faccendieri in Svizzera del boss Banev, non indagato -, e due ex funzionari di banca, fra cui la consulente alla clientela della sede zurighese di Credit Suisse all’epoca dei fatti: colei che avrebbe materialmente aiutato i trafficanti ad aprire i conti correnti. Tutte le pene carcerarie sono state sospese, tranne quella di uno degli uomini di fiducia di Banev, condannato a tre anni (di cui solo metà sospesa) per associazione a delinquere, riciclaggio e tentato riciclaggio

I giudici svizzeri, con questa sentenza, hanno portato a conclusione una vicenda processuale che era cominciata nel 2013, ma che affonda le proprie radici in un piccolo sequestro di cocaina avvenuto in Italia oltre 15 anni fa.  

Evelin Nikolov Banev nella lista dei ricercati dell’Interpol – Screenshot Interpol.int (4/7/22)

L’alleanza mafia fra mafia bulgara e ‘ndrangheta

Sono le 13 del 7 novembre 2005. Al casello autostradale di Agrate Brianza, 20 chilometri da Milano, i Carabinieri del Nucleo radiomobile fermano una Lancia Y per un controllo. Alla guida c’è Paolo Fenu, ispettore capo di Polizia presso la Questura di Venezia. All’interno dell’auto i militari trovano circa un chilo e mezzo di cocaina, e arrestano Fenu. Dal piccolo sequestro al casello di Agrate, il Ros di Torino, col coordinamento della Dda di Milano, segue le tracce di un fiume di cocaina che si dipana tra Veneto e Piemonte. In tre anni ne vengono sequestrate 10 tonnellate

Gli investigatori scoprono che Fenu era stato assunto come corriere da un cittadino bulgaro nato a Padova. Così, rivelano, con lunghe indagini che durano fino al 2012, l’esistenza di un sodalizio tra la mafia bulgara e una locale di ‘ndrangheta in Piemonte, collegata alla ‘ndrina Bellocco di Rosarno. L’organizzazione criminale si avvaleva di una rete di spacciatori veneti e piemontesi per distribuire la cocaina, che veniva importata via mare dalla Repubblica Dominicana, passando per Amsterdam e Milano

Alla testa dell’organizzazione c’è Brendo, il “re della cocaina”. Specializzato in narcotraffico sulla rotta Sud America – Europa occidentale, ha contatti con i guerriglieri delle FARC – le Forze Armate Rivoluzionarie colombiane – e con altri cartelli. Insieme a lui finiscono in manette, per associazione a delinquere e spaccio, altre 29 persone. Tuttavia, l’operazione svela molto di più che una rete transnazionale di traffico di stupefacenti. All’organizzazione la polizia sequestra beni per 30 milioni di euro, fra cui diversi conti cifrati presso la banca svizzera Credit Suisse

Centinaia di milioni in Credit Suisse

Secondo quanto emerge dalle prime indagini della Dda di Milano, nel 2012, ammonterebbero ad almeno 10 milioni di euro i depositi in conti cifrati presso Credit Suisse riconducibili al clan mafioso di Banev. Un sodalizio che però riesce a importare in Europa una media di 40 tonnellate di cocaina all’anno, piazzandola sul mercato a 30 milioni di euro a tonnellata. E infatti, nei primi conti scoperti nella sede zurighese di Paradeplatz non c’è che una minima frazione della fortuna accumulata dai narcotrafficanti bulgari. 

Tra il 2004 e il 2006, Banev – insieme con familiari e affiliati – apre 84 conti e affitta 8 cassette di sicurezza presso Credit Suisse. Su cui iniziano ad affluire decine di milioni di soldi sporchi, sia provenienti da società offshore che depositati direttamente in contanti, come ricostruito dal giornalista svizzero Federico Franchini. Con la protezione del segreto bancario, i mafiosi bulgari consegnano il denaro, anche in trolley pieni di cash, e la banca accetta senza battere ciglio. In tre anni l’istituto di credito aiuta Banev a riciclare più di 70 milioni di franchi. Secondo altre fonti i proventi illeciti riciclati ammonterebbero in totale a 145 milioni di franchi

«In poco tempo, – scrive Franchini – Zurigo diventa la più importante base finanziaria per l’organizzazione», con il boss Banev che riesce persino a farsi concedere un prestito da 10 milioni di euro da Credit Suisse, per investire nel settore immobiliare. Infatti, proprio nel paese elvetico il “re della cocaina” pensa di trasferirsi con la moglie

Non fa in tempo. Nell’aprile del 2007 Evelin Banev viene arrestato in Bulgaria perché accusato di frode immobiliare e riciclaggio di denaro per due milioni di euro. Rilasciato su cauzione, viene arrestato di nuovo nel 2012 a Sozopol, in Bulgaria, su ordine del Tribunale di Milano, che smantella la sua rete di trafficanti e apre le porte all’indagine svizzera su Credit Suisse. La Corte della città di Sofia lo condanna a sette anni e sei mesi l’anno seguente, ma le accuse vengono annullate in appello. Sempre nel 2013, i giudici milanesi lo condannano, stavolta a 20 anni di carcere, per associazione a delinquere e traffico internazionale di stupefacenti. Nel frattempo è ricercato anche dalla DIICOT, la Direzione Investigativa contro il Crimine Organizzato e il Terrorismo in Romania, per aver trafficato 50 kg di cocaina

Il “re” rimane imprendibile

In totale, fra droga e riciclaggio, Banev deve scontare 36 anni di prigione fra Italia, Romania e Bulgaria. Nel 2015, tuttavia, dopo essere stato estradato dall’Italia a Sofia – dove il boss bulgaro ha entrature con i servizi segreti – Banev sparisce.  

Per sei anni, “Brendo” si dà alla macchia, finché, nel settembre 2021 viene arrestato in Ucraina, a Kiev. Gli viene però concessa la cittadinanza ucraina, viene rimesso in libertà e la Corte d’appello di Kiev si oppone alla sua estradizione, proprio in quanto cittadino ucraino

Nel frattempo il processo contro Credit Suisse per la vicenda del riciclaggio del denaro sporco di Banev va avanti. A febbraio 2022 lo stesso Banev, seppur non come indagato, viene chiamato a comparire di fronte ai giudici del Tribunale penale federale di Bellinzona. Il trafficante non si presenta e i magistrati di Kiev affermano di non sapere più dove viva

Alla fine di giugno 2022, i giudici di Bellinzona condannano i suoi sodali per aver riciclato i soldi della droga con il silenzio della banca svizzera. Eppure, a mancare all’appello è proprio il “Brendo”, il capo dell’organizzazione criminale bulgara alleata dei Bellocco in Piemonte. Forse protetto dalle sue amicizie politiche e istituzionali, Evelin Banev per adesso è sempre riuscito a evitare il carcere, e non ha scontato che una minima parte della sua pena.

I professionisti della segretezza di Credit Suisse

#SuisseSecrets

I professionisti della segretezza di Credit Suisse

Lorenzo Bagnoli

L’invasione russa dell’Ucraina sembra aver fatto perdere alla Svizzera la sua tradizionale neutralità e sta mettendo in crisi lo stesso principio di assoluta protezione della privacy dei clienti ultraricchi. La Confederazione elvetica svolge due ruoli fondamentali nel grande gioco finanziario del capitalismo di Stato russo: da un lato è la piazza dove si scambia circa l’80% delle materie prime russe nel mercato internazionale (commodities trading); dall’altro è il luogo sia di residenza fisica, sia di conservazione del patrimonio di diversi oligarchi. Sul piano del mercato delle materie prime, il New York Times il 7 marzo sottolineava che, a quella data, Mosca ancora non era stata esclusa dalle piazze finanziarie svizzere dove si negozia il prezzo di grano, petrolio, metallo e altre materie prime (i legami tra Russia e Svizzera in questo settore risalgono addirittura agli anni Settanta). Sul piano della caccia ai patrimoni degli oligarchi, invece, la Svizzera si è allineata decisamente alle posizioni europee, adottando le medesime sanzioni.

Questa scelta ha avuto dei contraccolpi nel sistema di protezione dei clienti delle banche svizzere. Il 2 marzo il Financial Times ha rivelato che Credit Suisse, la banca al centro dell’inchiesta SuisseSecrets, ha chiesto persone fisiche, hedge fund o fiduciarie che lavorano con clienti dell’istituto di credito di distruggere i documenti che fanno riferimento a yacht, aerei privati e patrimoni immobiliari riconducibili a oligarchi russi sotto sanzione allo scopo di limitare la fuga di notizie. Il giorno seguente il membro del Consiglio degli Stati (la Camera del Parlamento svizzero) Carlo Sommaruga ha depositato un esposto per chiedere che il Ministero Pubblico della Confederazione, la procura generale svizzera, promuova delle indagini sul comportamento della banca.

La distruzione dei documenti è un tentativo di mantenere intatta la coltre di segretezza. Quest’ultima è un valore assoluto che Credit Suisse ha preservato anche in diverse aule di tribunale. A portarla di fronte ai giudici sono stati alcuni clienti super ricchi, proprio coloro che sono di solito protetti da questa segretezza speciale. Questo principio è stato usato per difendersi dalle accuse di frode mosse da clienti che dicono di non essere nemmeno a conoscenza degli investimenti che la banca faceva con i loro soldi. I ricorrenti sono magnati dell’area ex sovietica d’altri tempi, diventati ricchi e influenti quando Putin e il suo cerchio magico nemmeno erano al potere. I processi sono partiti dalla gestione di un ex manager prodigio, ma sono arrivati a contestare i meccanismi di controllo dell’istituto di credito.

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#SuisseSecrets, il progetto

Suisse Secrets è un progetto di giornalismo collaborativo basato sui dati forniti da una fonte anonima al giornale tedesco Süddeutsche Zeitung. I dati sono stati condivisi con OCCRP e altri 48 media di tutto il mondo. IrpiMedia e La Stampa sono i partner italiani del progetto. 

Centosessantatre giornalisti nei cinque continenti hanno rastrellato migliaia di dati bancari e intervistato decine di banchieri, legislatori, procuratori, esperti e accademici, e ottenuto centinaia di documenti giudiziari e finanziari. Il leak contiene più di 18mila conti bancari aperti dagli anni Quaranta fino all’ultima decade degli anni Duemila. In totale, lo scrigno è di oltre 88 miliardi di euro.

«Ritengo le leggi sul segreto bancario svizzero immorali – ha dichiarato la fonte ai giornalisti-. Il pretesto di proteggere la privacy finanziaria è semplicemente una foglia di fico che nasconde il vergognoso ruolo delle banche svizzere quali collaboratori degli evasori fiscali. Questa situazione facilita la corruzione e affama i Paesi in via di sviluppo che tanto dovrebbero ricevere i proventi delle tasse. Questi sono i Paesi che più hanno sofferto del ruolo di Robin Hood invertito della Svizzera».

Nel database di Suiss Secrets ci sono politici, faccendieri, trafficanti, funzionari pubblici accusati di aver sottratto denaro alle casse del loro Paese, uomini d’affari coinvolti in casi di corruzione, agenti di servizi segreti. Ci sono anche molti nomi sconosciuti alle cronache giudiziarie.

Fino a prima dell’invasione dell’Ucraina, i ricchi uomini d’affari russi o dell’area ex sovietica – a prescindere dal loro allineamento con il Cremlino – erano tra i clienti più contesi nelle guerre fiscali. Le banche per individuarli e gestire il loro patrimoni dispongono dei relationship manager, in gergo RM, gestori patrimoniali impiegati direttamente dalla banca che si occupano di consigliare il cliente. Per le banche che combattono le guerre fiscali sono la prima linea della fanteria, quella che per prima va incontro al nemico per conquistare e mantenere la collina più alta: il cliente più facoltoso. È la fanteria in cui si contano anche le perdite più ingenti: se qualcosa non va con il cliente, alla fine possono essere loro, e non la banca, a pagare con l’allontanamento dall’istituto. In Credit Suisse sono in tutto 3.700, divisi in diverse aree geografiche di interesse.

Tra i compiti dei relationship manager c’è mantenere la segretezza, soprattutto di qualche correntista. L’esistenza di clienti particolari è nota grazie a operazioni come quella che abbiamo raccontato della Guardia di finanza di Milano. Dopo Credit Suisse, a Milano sono state indagate altre banche svizzere, come Ubs e Pkb Privatbank. Nessun procedimento si è potuto concentrare sulla figura dei relationship manager che però sono uno degli ingranaggi del sistema attraverso il quale una banca come Credit Suisse incamerato patrimoni di origine criminale o illecita di SuisseSecrets.

La drammatica fine di una stella del mondo bancario svizzero

Tuttavia in Svizzera alcune indagini che riguardano i RM ci sono. La più clamorosa ha coinvolto Patrice Lescaudron, manager francese che lavorava con la sezione di Credit Suisse “Ultra High Net Worth” e procacciava clienti nell’area geografica dei Paesi ex Urss.

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Il processo a Patrice Lescaudron, le sanzioni agli oligarchi russi, i procedimenti di vecchi clienti contro la banca. Come lavorano i custodi della riservatezza dei clienti più abbienti

Nel 2016 ha garantito all’istituto bancario 25 milioni di dollari di profitti. Nel febbraio 2018 si è dichiarato colpevole e conseguentemente è stato condannato dal tribunale di Ginevra a cinque anni di prigione per aver sottratto ai suoi clienti circa 150 milioni di dollari, reinvestiti attraverso operazioni mai autorizzate dai clienti in società e beni di lusso di cui era lui stesso il titolare effettivo. «Era considerato una star», ma «ha preso in giro i clienti e la banca», riporta la Reuters, citando il pronunciamento della sentenza. Per muovere il denaro, Lescaudron ha ammesso di aver distribuito bilanci e comunicazioni finanziarie con le firme falsificate dei suoi clienti. Durante il processo a Ginevra, il suo ex responsabile non ha saputo dare una spiegazione del perché nessuno in banca si sia accorto del comportamento dell’ex manager prodigio. Nel 2020 Lescaudron si è tolto la vita in carcere, poco dopo il suo 57esimo compleanno.

«Violate le norme di conformità»

La FINMA, L’Autorità federale svizzera di vigilanza sui mercati finanziari, tra il 2015 e il 2016 ha aperto due procedimenti contro Credit Suisse: il primo perché voleva chiarire la posizione della banca in alcuni importanti casi di presunta corruzione internazionale; il secondo incentrato su «un’importante relazione d’affari che la banca ha intrattenuto con una persona politicamente esposta», recitava il comunicato stampa del 2018. Il manager coinvolto era Lescaudron: anche se il nome non compare. Il comunicato si limita a identificare un «relationship manager» «che aveva un grande successo in termini di patrimonio in gestione» e che «ha violato le norme di conformità della banca ripetutamente e in modo documentato per un certo numero di anni.

Tuttavia, invece di disciplinare prontamente e proporzionalmente il manager dei clienti, la banca lo ha premiato con pagamenti elevati e valutazioni positive dei dipendenti. La supervisione del relationship manager era inadeguata a causa di questo status speciale». Emergeranno maggiori dettagli del report solo a seguito di una fuga di notizie di febbraio 2021, che ha sostanzialmente confermato come la banca non avesse preso le misure necessarie per interrompere le attività illecite di Lescaudron, che conosceva almeno dal 2011.

Questo caso è stato molto particolare nella storia degli scandali finanziari svizzeri. Come spiega l’ufficio stampa dell’autorità di vigilanza, «la FINMA non si esprime in merito ai singoli assoggettati o a eventuali accertamenti e procedimenti», a parte in casi eccezionali come appunto il caso Credit Suisse-Lescaudron. L’obiettivo della confidenzialità sta nel mandato della FINMA: mantenere una «situazione conforme», cioè dove tutti rispettano le regole. «La FINMA – spiega ancora l’ufficio stampa dell’autorità di vigilanza a IrpiMedia – esige che gli assoggettati gestiscano in modo adeguato i rischi, nello specifico sono tenuti a individuarli, valutarli e ridurli al minimo».

In generale i procedimenti della FINMA, spiega l’avvocato svizzero Paolo Bernasconi, sono molto temuti perché l’autorità può sospendere le licenze per operare nel mercato o all’estero, come accaduto nel caso di Ubs. Quando un’impresa commette un crimine o un delitto, invece, la multa massima prevista dal codice penale svizzero è di 5 milioni di franchi: un’inezia per un istituto di credito. La FINMA non ha potere di comminare multe, innescare procedimenti penali o arrestare, però può sporgere denuncia alla magistratura svizzera. I suoi «procedimenti di enforcement» vengono rispettati proprio per evitare sospensioni delle licenze di operare. I report sono molto dettagliati e le banche cercano sempre di impedire che vengano depositati a processo perché qualunque ente sotto la FINMA è obbligato a collaborare con l’autorità di vigilanza del mercato, che per questo ha accesso a un’enorme mole di prove. Con le procure invece non c’è alcuna collaborazione obbligatoria per lo stesso principio per cui un imputato a processo non è obbligato a dire la verità e accusarsi da solo.

Mentre il filone svizzero d’indagine su Lescaudron si è chiuso con l’ammissione di colpevolezza, quello sulle responsabilità della banca resta ancora aperto. Lescaudron può infatti essere stato un «caso isolato», come sostenuto dalla dirigenza della banca dell’epoca, oppure il sintomo di un problema più endemico, come ipotizzato da alcuni suoi clienti. Nel nostro ordinamento sarebbe proprio la banca a dover dimostrare che il caso non è ripetibile e che le procedure interne di controllo sono adeguate, in Svizzera invece resta un’ipotesi di alcuni clienti che il comportamento dei RM sia più endemico, e avallato dalla dirigenza dell’istituto.

Due ex clienti sono arrivati a chiedere per due volte, l’ultima alla Camera d’appello penale della Corte di giustizia di Ginevra, la ricusazione del magistrato che ha condotto le indagini su Lescaudron e Credit Suisse, Yves Bertossa. A loro parere in quattro anni non avrebbe investigato adeguatamente le responsabilità dell’istituto di credito. La Camera d’appello ha respinto la richiesta a luglio 2021, ma ha sottolineato la «riluttanza» del magistrato a istruire questo filone processuale e il fatto che «non si conoscono sviluppi significativi». Eppure Bertossa è uno dei magistrati che più si batte per velocizzare la giustizia svizzera nel contrasto alla criminalità economica e spesso è vittima di tentativi di ricusazione finalizzati solo a dilatare i tempi del processo, come lui stesso ha spiegato al sito d’informazione svizzero Naufraghi.

Tra le società scelte da Lescaudron per i suoi investimenti c’è stata anche la Meinl European Land Ltd, società di Jersey che ha improvvisamente perso valore nel 2007 e per questo era finita sotto indagine all’epoca. L’indagine a Jersey si è chiusa nel 2012 perché «non sono state trovate violazioni». Anche la doppia battaglia giudiziaria tra l’attuale compagine societaria, Atrium European Real Estate, e la banca che gestiva la società, Meinl, si è chiusa nel 2011 senza vincitori. Meinl è l’istituto di credito coinvolto nella vicenda dell’Aeroporto di Parma di cui IrpiMedia ha scritto nel novembre 2011.

Per approfondire

La strana storia dell’aeroporto di Parma

Il rilancio si basa su previsioni economiche di documenti fantasma dagli scenari improbabili. La vicenda dell’ex azionista di maggioranza, la banca austriaca Meinl, accusata di riciclaggio e con licenza bancaria sospesa. In gioco 12 milioni pubblici

Ivanishvili v. Credit Suisse

Bidzina Ivanishvili è stato primo ministro della Georgia tra il 2012 e il 2013 ed è il fondatore del partito di governo Sogno georgiano. Nel 2021 ha dichiarato di aver completamente lasciato la politica attiva. Il suo nome così come quello di alcuni suoi familiari compare più volte nei file di SuisseSecrets con conti aperti tra il 2004 e il 2013. Alcuni di questi sono ancora attivi ma sono oggetto di un contenzioso con la banca.

Storicamente, Ivanishvili è diventato un imprenditore nella prima Russia post-comunista. Ogni suo legame con la Russia si è però interrotto definitivamente nel 2012 (il processo di allontanamento è cominciato già nel 2004) e non ha alcuna forma di appartenenza al gruppo di oligarchi oggi sotto sanzione.

La sua fortuna nasce in Russia nel settore metallurgico e bancario, negli anni dopo la caduta del Muro di Berlino. È stato legato all’ex presidente russo Boris Eltsin, di cui ha dichiarato di aver sostenuto la campagna elettorale nel 1996 e in questo senso apparteneva all’elite del potere politico-economico della Russia allargata post-comunista. Bloomberg stima il suo patrimonio in 6 miliardi di dollari, più del Pil del suo intero Paese. Quando Lescaudron lo ha portato in Credit Suisse, l’ex relationship manager ha iniziato la sua incredibile carriera. Nel 2017, però, Ivanishvili ha cominciato una sua battaglia per recuperare il denaro che Lescaudron gli ha sottratto: circa 400 milioni di dollari.

Il rifiuto del 2004 alle autorità russe

Mikhail Khodorkovsky è stato il primo degli oligarchi contrari a Vladimir Putin ha costruire un legame storico con la Svizzera. Negli anni della perestrojka, la politica economica di Mikhail Gorbachev che ha accompagnato l’Unione sovietica nel capitalismo tra la seconda metà degli anni Ottanta e la fine dell’Urss, è diventato uno degli imprenditori più ricchi del Paese ed è stato tra i principali sostenitori di Boris Eltsin. È in quegli anni che diventa il numero uno della Yukos, la principale società petrolifera russa della prima fase post-comunista. Quando Vladimir Putin è diventato presidente della Russia, nel 1999, i suoi rapporti con il Cremlino si sono velocemente deteriorati dal momento in cui Khodorkovsky ha rifiutato l’offerta di “pace” in cambio di una sua uscita di scena dalla politica russa.

Nel 2003 è stato accusato di evasione fiscale e frode, due capi d’imputazione usati in seguito contro altri oligarchi usciti dal circolo del potere del Cremlino. Dopo una prima condanna nel 2005, alla lista dei reati di Yukos sono stati aggiunti appropriazione indebita e riciclaggio. Alla fine l’oligarca-oppositore è stato rilasciato nel 2013. Le autorità russe fin dal 2004 hanno chiesto assistenza alla loro controparte svizzera perché è nella Confederazione elvetica che Khodorkovsky e Yukos avevano le proprie casseforti. Dopo un’iniziale sequestro di 6 miliardi di franchi nel 2004, il Tribunale federale svizzero, facendo leva su decisioni simili del Consiglio d’Europa, ha bollato come «politica» la decisione delle autorità giudiziarie russe nei confronti di Khodorkovsky e si è rifiutato di collaborare con Mosca.

Lo scontro tra Ivanishvili e Credit Suisse si sviluppa su due fronti fondamentali: Singapore e Bermuda. Consigliato da Credit Suisse, l’uomo d’affari georgiano a Singapore aveva costruito un trust amministrato dalla stessa banca, mentre alle Bermuda aveva sottoscritto una polizza-mantello di Credit Suisse Life (Bermuda) Ltd, lo stesso strumento finanziario mascherato da polizza assicurativa scovato a Milano nel 2013. A Singapore la sentenza è attesa per la fine del 2022, mentre alle Bermuda ci sono già state due sentenze e una terza, conclusiva, è attesa. Le prime sono entrate nel merito di quali documenti dovessero essere prodotti da Credit Suisse Life (Bermuda) Ltd a giustificazione delle perdite subite da Ivanishvili e dalla sua famiglia, mentre la terza si pronuncerà sull’eventuale responsabilità della società delle Bermuda di Credit Suisse.

Tra le operazioni più spericolate di Lescaudron c’è stato l’acquisizione con trust e veicoli riconducibili a Ivanishvili di circa il 20% delle quote societarie di una piccola società biotech da poco quotata in borsa dove, secondo il Wall Street Journal, aveva delle azioni lui stesso. Ivanishvili ha sostenuto di aver seguito le indicazioni degli esperti della gestione patrimoniale, senza sapere nulla dell’enorme rischio a cui lo stava esponendo Lescaudron attraverso quella rete di partecipazioni via società offshore, di cui dice di essere sempre stato all’oscuro.

Tra il crollo della biotech e altre speculazioni per spese personali, il conto finale pagato da Ivanishvili sarà di 400 milioni di dollari sui 755 depositati in Credit Suisse, secondo quanto risulta dai documenti giudiziari delle Bermuda. «Quello che so è che Credit Suisse ha perso i miei soldi», ha detto l’ex primo ministro georgiano all’avvocato della banca durante un’udienza dell’ultimo filone processuale tenutasi alle Bermuda, a metà novembre 2021. «Avevo dato i soldi a Credit Suisse e non ho mai saputo [altro]», ha aggiunto. «Cosa avrebbe dovuto fare Credit Suisse?», si è chiesto invece l’avvocato di Credit Suisse Life alle Bermuda, Stephen Moverley Smith. La piccola società di biotech era un investimento incerto: «Una speculazione su un titolo farmaceutico rischioso, ecco cosa fanno gli oligarchi con i soldi che avanzano», è stata la considerazione dell’avvocato.

Nelle sentenze di febbraio 2020 e settembre 2021 la Corte Suprema delle Bermuda ha stabilito che Credit Suisse Life (Bermuda) Ltd è costretta a produrre il materiale richiesto dalla controparte per capire se la responsabilità delle perdite economiche sono del cliente o della società. «CS Life non si è fatta carico né ha commissionato alcuna indagine in merito alle transazioni fraudolente che poi potesse diventare materiale mostrabile», ha testimoniato un ex dipendente, citato nella sentenza del 2021. Più avanti: «La ragione per cui non ci sono documenti di questa categoria che si possono produrre è che questo materiale è confidenziale». Talmente confidenziale che non è nemmeno in possesso alle Bermuda ma solo alla sede di Zurigo.

La prassi del segreto bancario impedisce all’ufficio centrale di consegnare documenti di un cliente. La difesa le chiama «considerazioni di riservatezza» che «impediscono alla Banca di fornire il rapporto FINMA a Credit Suisse Life (Bermuda) Ltd». Non solo: visto che i contenuti del rapporto sono stati resi noti da una fuga di notizie, Credit Suisse ha fatto appello all’Alta corte inglese che le ha concesso un’ingiunzione per impedire che la famiglia Ivanishvili possa fare «uso» del rapporto. Questo complica ulteriormente la gestione del dossier.

Da sempre nella storia dei processi alle banche svizzere gli istituti di credito fanno resistenza all’acquisizione di documenti del genere: «Il proceduralista accorto fa spesso valere l’argomento che un rapporto del genere non è utilizzabile come prova in sede penale perché è stato acquisito con altre regole», spiega l’avvocato svizzero Paolo Bernasconi. In pratica, mentre la FINMA è un organismo con il quale la banca è obbligata a collaborare non vale lo stesso con una procura. Il discorso però non vale per i processi civili, come nel caso delle Bermuda.

Il costo della segretezza

La riservatezza è uno dei beni più preziosi storicamente del sistema bancario svizzero e i clienti che hanno un conto “segreto” sono ritenuti «speciali». Sono quelli con cui si fanno i maggiori margini di profitto, come quelli che Leuscardon faceva con i clienti dell’area ex sovietica: il costo dei servizi è fino al 70% più elevato di quello standard di altre banche.

Una giornalista del consorzio SuisseSecrets, per capire come funziona questo mercato, si è finta una ricca investitrice interessata. «Pochi, anche all’interno della banca, potranno accedere alle informazioni relative al suo conto», le ha assicurato un manager in una conversazione. Ci sono diverse alternative per una gestione sicura e riservata che vanno dai conti cifrati, cioè anonimi, fino alle polizze-mantello e ai trust. Tra gli schemi proposti, c’era anche la costituzione di una società il cui socio unico sarebbe stato un prestanome fornito da Credit Suisse. Questo sarebbe apparso come il proprietario formale di yacht, beni immobili e aeroplani, e il patrimonio che finisce sotto la lente degli investigatori o sotto sanzione sarebbe stato amministrato da un trust gestito dalla stessa Credit Suisse.

Tra gli schemi proposti da Credit Suisse c’era anche la costituzione di una società il cui socio unico sarebbe stato un prestanome fornito da Credit Suisse

Finora i clienti dalla Svizzera che hanno scelto questa opzione si sono sempre dovuti appoggiare a trust stranieri (come quello a Singapore di Bidzina Ivanishvili) ma a gennaio 2022 il Parlamento ha incaricato il Consiglio federale di creare le basi legislative per avere istituti del genere anche nella Confederazione. Si tratta di uno dei modi per continuare a essere competitivi nel mercato finanziario globale, a seguito dell’introduzione della comunicazione automatica imposta dal sistema di scambio di informazioni bancarie Crs. In pratica, è un modo per cercare di restare una potenza nello scenario delle guerre fiscali: il segreto bancario è di casa anche a Singapore, i Paesi Bassi sono anche più in alto nella classifica del Tax Justice Network dei Paesi con maggiore opacità fiscale, ma la Svizzera in questi anni ha subito più attacchi.

L’opzione per un deposito bancario cifrato, del tutto anonimo, è stata proposta alla potenziale cliente al costo di 2.250 dollari all’anno. In una comunicazione via mail con la futura potenziale cliente, il vice presidente della sede di Zurigo che si occupa dei mercati emergenti ha tuttavia precisato che «i conti cifrati sono in realtà un servizio che stiamo gradualmente eliminando, dato che il livello di protezione offerto è diminuito molto negli anni».

Per un’investitrice dall’Africa, però, resta ancora un’opzione: la Nigeria ha aderito al Crs solo nel 2020, il Ghana dal 2019, le isole Mauritius dal 2018 e il Sudafrica all’inizio, nel 2017. Gli altri Paesi sono fuori dal sistema di scambio automatico di informazioni bancarie.

Secondo quanto risulta a SuisseSecrets, in un sondaggio interno a Credit Suisse 50 mila dipendenti hanno identificato «un’urgente necessità di un ambiente che aiuti le persone che si occupano di rischio e conformità fiscale a parlare». Il segreto assoluto, forse, non è più un valore così indiscutibile, nemmeno all’interno della sua cattedrale.

CORREZIONE: L’articolo è stato modificato il 12 marzo per eliminare ogni connessione tra Bidzina Ivanishvili e il Cremlino. 

CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli

Editing

Giulio Rubino

Foto di copertina

Le offerte della Chiesa cattolica negli scrigni di Credit Suisse

#SuisseSecrets

Le offerte della Chiesa cattolica negli scrigni di Credit Suisse

Lorenzo Bagnoli
Gianluca Paolucci

Tra i conti segreti di Suisse Secrets, c’è anche l’Obolo di San Pietro per le opere di carità del Papa, il principale collettore delle offerte dei cattolici al Santo Padre gestito dalla Segreteria di Stato vaticana. L’Ufficio del Revisore Generale dell’Istituto per le Opere di Religione (Ior), la banca vaticana, nel 2019 denunciava che una parte dell’Obolo «era stata impiegata in fondi che, a loro volta, investivano in titoli di cui il cliente (cioè lo stesso Vaticano, ndr) non era messo a conoscenza» e in fondi speculativi offshore. Tra le operazioni contestate c’è stato l’acquisto dell’ex sede dei magazzini Harrod’s a Sloane Avenue, a Londra, dal valore complessivo di 350 milioni di euro, perfezionato tra il 2014 e il 2018. Il palazzo è stato poi rivenduto dal Vaticano nel gennaio 2022, con l’obiettivo di chiudere la compravendita definitivamente nel prossimo giugno.

Dalla revisione dei conti del 2019 e da altri procedimenti civili cominciati a Londra nel 2020 è scattata poi un’indagine del Tribunale della Santa Sede che a luglio 2021 ha ottenuto il rinvio a giudizio per dieci indagati. Il processo è ancora in corso. I magistrati vaticani contestano truffa, peculato, abuso d’ufficio, appropriazione indebita, riciclaggio ed autoriciclaggio, corruzione, estorsione, pubblicazione di documenti coperti dal segreto, falso materiale di atto pubblico, falso in scrittura privata. Tra gli imputati c’è il cardinale Giovanni Angelo Becciu, l’ex numero tre del Vaticano (in particolare per peculato, abuso d’ufficio in concorso e subordinazione), insieme altri alti funzionari della Segreteria di Stato vaticana oltre ai finanzieri esterni alla Santa Sede Gianluigi Torzi, Enrico Crasso e Raffaele Mincione. Becciu ha reagito all’uscita di Suisse Secrets con una lettera in cui lamenta una descrizione scorretta dei fatti che lo riguardano e specifica che il conto dell’istituto di credito svizzero è della Segreteria di Stato e non suo. Becciu aveva spiegato ai giornalisti «di non aver mai favorito membri della famiglia o altre persone attraverso donazioni di fondi Vaticani di qualunque genere».

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Quando Svizzera e Vaticano smisero di dialogare
C’è stato un tempo in cui il Vaticano e la Svizzera non andavano d’accordo. Era la seconda metà dell’Ottocento e la Confederazione elvetica, ancora giovane (è stata fondata nel 1848), subiva l’influenza delle politiche anticlericali tedesche, dopo la sconfitta dei cantoni cattolici. Nel 1873 i rapporti si sono interrotti del tutto, almeno ufficialmente. È durante la Prima Guerra Mondiale che sono invece ripresi. Nel 1915 il diplomatico Luigi Maglione era stato inviato come rappresentante della Santa Sede presso la Conferenza delle Nazioni, l’antenata dell’Onu, per cercare di trovare una soluzione al conflitto. Il diplomatico nel 1920 è riuscito a ristabilire i contatti tra Svizzera e Vaticano, che da allora sono diventati sempre più stretti. Maglione ha anche trasformato la chiesa di Friburgo nella cattedrale della diocesi di Losanna, Ginevra e Friburgo dal 1924-25. Nel Cantone di Friburgo per secoli la stragrande maggioranza della popolazione è stata cattolica ed è lì che nel dopoguerra, ricorda lo storico Jean-Pierre Dorand, alcuni criminali nazisti hanno trovato riparo grazie all’aiuto delle gerarchie ecclesiastiche. Il cantone è ad oggi il vero centro dei legami della Svizzera con il mondo cattolico, anche nelle relazioni finanziarie.

«L’investitore era Credit Suisse Ag»

Grazie a Suisse Secrets è possibile oggi ricostruire anche il ruolo di Credit Suisse – che secondo gli accertamenti del Vaticano ha gestito fino al 77% dei fondi della Segreteria di Stato – nella vicenda del palazzo di Sloane Avenue. Un ruolo rimasto fuori dalle indagini e dal processo attualmente in corso in Vaticano, ma tutt’altro che secondario, che va al di là delle responsabilità di Enrico Crasso, il banchiere che per conto di Credit Suisse ha tenuto i rapporti con la Segreteria fin dagli anni Novanta

Un po’ di storia: il conto a Credit Suisse viene aperto dal Vaticano nel 1930. Inizialmente, ad alimentarlo – lo spiega una nota dell’Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica (Apsa) in risposta alle richieste di chiarimenti formulate per questa inchiesta – sono le «compensazioni» dello Stato italiano alla Santa Sede decise con i Patti lateranensi. La stessa nota spiega come «il conto è utilizzato per la prudente gestione del patrimonio della Santa Sede (liquidità e investimenti) per perseguire la missione del Santo Padre».

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Secondo Wrm Group, la holding del finanziere Raffaele Mincione che gestiva alcuni fondi dove erano investiti i soldi del Vaticano, «l’investitore era Credit Suisse Ag e il titolare delle quote Credit Suisse London Nominees», la fiduciaria londinese del gruppo bancario. La posizione di Mincione – indagato per truffa, peculato, abuso d’ufficio, appropriazione indebita e autoriciclaggio e destinatario di un provvedimento di sequestro da 48 milioni- era stata inizialmente stralciata a fine 2021 a seguito di diverse eccezioni della difesa sull’incompletezza degli atti di citazione. Il broker è stato rinviato nuovamente a giudizio insieme ad altri quattro imputati a gennaio 2022.

Rispondendo alle domande formulate dai giornalisti del consorzio, Wrm ha spiegato che negli stessi documenti del fondo Athena è scritto che «Credit Suisse Ag conferma di aver adempiuto a tutti gli obblighi applicabili di due diligence (…) nessuno dei nostri clienti investiti nel fondo attraverso la fiduciaria è una Pep, una persona o società con legami familiari o personali o di affari con Pep (persone politicamente esposte, ndr)». Ma questa affermazione non risulta proprio corretta: Giovanni Angelo Becciu e il monsignore responsabile dell’Ufficio Amministrativo della Segreteria di Stato, Alberto Perlasca, entrambi con potere di firma nel conto di Credit Suisse, per quanto «a basso rischio» secondo la normativa europea in materia, sono senz’altro “Pep”, anche nell’esercizio delle loro funzioni per conto della Segreteria di Stato.

La serie

Suisse Secrets

Da almeno vent’anni Credit Suisse promette una stretta su criminali e corrotti, prende tempo e patteggia con amministrazioni giudiziarie di Europa e Stati Uniti per omessi controlli sui loro clienti

Rispondendo alle domande formulate dai giornalisti del consorzio, Wrm ha spiegato che negli stessi documenti del fondo Athena è scritto che «Credit Suisse Ag conferma di aver adempiuto a tutti gli obblighi applicabili di due diligence (…) nessuno dei nostri clienti investiti nel fondo attraverso la fiduciaria è una Pep, una persona o società con legami familiari o personali o di affari con Pep (persone politicamente esposte, ndr)». Ma questa affermazione non risulta proprio corretta: Giovanni Angelo Becciu e il monsignore responsabile dell’Ufficio Amministrativo della Segreteria di Stato, Alberto Perlasca, entrambi con potere di firma nel conto di Credit Suisse, per quanto «a basso rischio» secondo la normativa europea in materia, sono senz’altro “Pep”, anche nell’esercizio delle loro funzioni per conto della Segreteria di Stato.

28 giugno 2018: Papa Francesco (sullo sfondo) nomina durante il concistoro 14 cardinali, tra cui Giovanni Angelo Becciu (a destra) – Foto: Alessandra Benedetti – Corbis/Corbis via Getty Images

Gianluigi Torzi è stato invece il broker chiamato ad aiutare la Santa Sede ad uscire dal fondo di Mincione. I 15 milioni che avrebbe ottenuto come pagamento dell’intermediazione, secondo l’accusa, sarebbero stati poi reinvestiti in società di comodo che gli avrebbero procurato guadagni e illeciti benefici fiscali. Per questo è accusato di autoriciclaggio. Il 22 febbraio 2022 è stato arrestato dalla Guardia di Finanza di Milano per truffa in «operazioni di cartolarizzazione di crediti cosiddetti sanitari», il cui valore su carta superava il miliardo di euro. Torzi è stato anche coinvolto nell’indagine che riguarda la società di mutua assistenza Cesare Pozzo.

L’indagine della Gendarmeria vaticana

Indicazioni sul ruolo di Credit Suisse si trovano anche nei vari atti dell’indagine della Gendarmeria vaticana. Enrico Crasso spiega che furono due manager di Credit Suisse – Alessandro Noceti e Andrea Negri, entrambi poi usciti dalla banca – a introdurre nell’affare dei fondi della Santa Sede il finanziere Mincione, per trovare alternative all’investimento nel petrolio angolano voluto dal cardinale Angelo Becciu. Negri non è proprio un manager di secondo piano: all’epoca era a capo dell’investment banking per Credit Suisse a Londra. Di Noceti e dei suoi rapporti con il Vaticano c’è invece traccia nelle carte dell’indagine sul palazzo di Londra. A Becciu e Fabrizio Tirabassi, ex funzionario della Segreteria, viene infatti contestato anche il «tentativo di bonifico» da una società di Jersey a una società delle Isole vergini britanniche riferibile allo stesso Noceti. Il bonifico viene bloccato, ma qualche giorno dopo, il 9 gennaio 2018, mentre Oltretevere la vicenda degli investimenti fatti con i fondi dell’Obolo è già arrivata fino al Papa, il bonifico va a buon fine. A incassare è la Ruby Red, sede a Londra e anche questa secondo gli inquirenti riconducibile a Noceti.


CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli
Gianluca Paolucci (La Stampa)

Editing

Luca Rinaldi

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Franco Origlia/Getty Images

Il «disegno criminoso» di Credit Suisse per aiutare evasione e riciclaggio

#SuisseSecrets

Il «disegno criminoso» di Credit Suisse per aiutare evasione e riciclaggio

Lorenzo Bagnoli
Luca Rinaldi

Cronache dal fronte italo-svizzero delle guerre fiscali, il conflitto per accaparrarsi i patrimoni dei più ricchi del mondo. I soldati spostano denari oltreconfine invece che sparare, gli ufficiali disegnano strategie per nascondere i titolari effettivi invece che manovre di invasione. Le guerre fiscali sono combattute da eserciti di banche, fiduciarie, fondazioni e trust in competizione tra loro per conquistare la collina più alta, il cliente e la multinazionale più facoltosi. Alcuni di questi ricchi compongono la lista dei correntisti di Suisse Secrets. Le manovre “militari” delle banche di rilievo nazionale sono spesso coordinate con avvocati d’affari e legislatori. Sono loro che scrivono le regole per rendere il proprio regime fiscale più attrattivo. Quello che per gli istituti di credito sarà un cliente facoltoso, per le casse pubbliche diventerà un ricco contribuente. Anche se pagherà poco, le sue tasse saranno comunque molto gradite.

Magistrati, forze di polizia giudiziaria e autorità fiscali sono le forze speciali che conducono offensive per tentare di recuperare i gettiti sottratti a livello globale. L’equità fiscale non è una scienza esatta, ma un difficile equilibrio tra politica economica internazionale e bilancia fiscale. L’entità del maltolto e il suo conseguente recupero, quando oltreconfine, sono spesso oggetto di controversie giudiziarie, accordi bilaterali, informazioni scambiate in toto o in parte tra le autorità nazionali di accusatori e accusati. Molto spesso la battaglia dev’essere condotta su due binari paralleli: un procedimento penale e una verifica fiscale amministrativa. Nel caso di un gruppo di correntisti di Credit Suisse scovati a Milano a fine 2013 quest’ultima s’è dimostrata la partita più difficile.

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#SuisseSecrets, il progetto

Suisse Secrets è un progetto di giornalismo collaborativo basato sui dati forniti da una fonte anonima al giornale tedesco Süddeutsche Zeitung. I dati sono stati condivisi con OCCRP e altri 48 media di tutto il mondo. IrpiMedia e La Stampa sono i partner italiani del progetto. 

Centosessantatre giornalisti nei cinque continenti hanno rastrellato migliaia di dati bancari e intervistato decine di banchieri, legislatori, procuratori, esperti e accademici, e ottenuto centinaia di documenti giudiziari e finanziari. Il leak contiene più di 18mila conti bancari aperti dagli anni Quaranta fino all’ultima decade degli anni Duemila. In totale, lo scrigno è di oltre 88 miliardi di euro.

«Ritengo le leggi sul segreto bancario svizzero immorali – ha dichiarato la fonte ai giornalisti-. Il pretesto di proteggere la privacy finanziaria è semplicemente una foglia di fico che nasconde il vergognoso ruolo delle banche svizzere quali collaboratori degli evasori fiscali. Questa situazione facilita la corruzione e affama i Paesi in via di sviluppo che tanto dovrebbero ricevere i proventi delle tasse. Questi sono i Paesi che più hanno sofferto del ruolo di Robin Hood invertito della Svizzera».

Nel database di Suiss Secrets ci sono politici, faccendieri, trafficanti, funzionari pubblici accusati di aver sottratto denaro alle casse del loro Paese, uomini d’affari coinvolti in casi di corruzione, agenti di servizi segreti. Ci sono anche molti nomi sconosciuti alle cronache giudiziarie.

Sono anni che si combatte sul fronte svizzero: Suisse Secrets racconta il modo in cui Credit Suisse, approfittando delle disposizioni elvetiche in materia bancaria, ha mantenuto segreti alcuni dei suoi facoltosi correntisti. Un caso che a Milano si è chiuso con un patteggiamento nel 2017 dimostra che già gli inquirenti avevano scoperto dei sistemi adottati dalla banca per “schermare” investimenti offshore. «Il sistema bancario svizzero è immorale – ha scritto il whistleblower che ha condiviso il materiale con i giornalisti di Suisse Secrets – Il pretesto di proteggere la privacy finanziaria è una mera foglia di fico per coprire il vergognoso ruolo delle banche svizzere come facilitatrici dell’evasione fiscale». La società di comunicazione incaricata da Credit Suisse di rispondere ai giornalisti che le affermazioni di Suisse Secrets sono «false, dannose e fuorvianti» e basate «su presunti fatti in gran parte vecchi».

In questo particolare momento storico, Credit Suisse attraversa una fase di profonda crisi. Nell’ultimo trimestre ha registrato una perdita di 1,8 miliardi di euro e ha chiuso il 2021 con un rosso di 1,4 miliardi di euro. Nel 2021 la banca ha ridotto enormemente il comparto che si occupava di fondi d’investimento ad alto rischio. È il settore che si è enormemente esposto con l’hedge fund americano Archegos Capital Management, specializzato nella gestione dei patrimoni di famiglie ricche. A furia di investire in azioni molto volatili, cioè dal prezzo instabile, è andato in default, ossia è fallito, provocando un buco da 5,5 miliardi di dollari nei conti di Credit Suisse.

Un caso che a Milano si è chiuso con un patteggiamento nel 2017 dimostra che già gli inquirenti avevano scoperto dei sistemi adottati dalla banca per “schermare” investimenti offshore

Solo a marzo 2021 Credit Suisse ha annunciato la liquidazione di fondi dal valore complessivo di 10 miliardi di dollari gestiti insieme a Greensnill Capital, una società australiana-inglese che si occupava di anticipare le fatture dei grandi fornitori della “supply chain”. I funzionari di Credit Suisse si sono accorti troppo tardi che i conti e le coperture della società di investimento non erano a posto e tre manager sono stati successivamente licenziati dalla banca. Scandali come Greensnill e Archegos hanno causato qualche turbamento anche ai piani alti della banca. Al momento attuale, l’attività che ancora garantisce buoni profitti e su cui Credit Suisse si vorrebbe concentrare è la gestione dei patrimoni delle famiglie ricche.

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I professionisti della segretezza di Credit Suisse

Il processo a Patrice Lescaudron, le sanzioni agli oligarchi russi, i procedimenti di vecchi clienti contro la banca. Come lavorano i custodi della riservatezza dei clienti più abbienti

La campagna di Milano e le verifiche fiscali che falliscono

Al dicembre 2013 la Guardia di finanza, su mandato della procura di Milano, ha perquisito gli uffici di Credit Suisse in via Santa Margherita 3. La banca svizzera aveva già subito retate simili in Germania. Secondo l’accusa a Milano avrebbe favorito alcuni reati fiscali evitando di proposito di controllare quello che i suoi dipendenti facevano. A febbraio 2017 il secondo istituto di credito della Svizzera ha patteggiato davanti al Giudice per le indagini preliminari di Milano Chiara Valori una multa da un milione di euro per omissione di controllo, a cui vanno aggiunti altri 7,5 milioni di profitti illeciti confiscati. Quei denari, per il tribunale, sono provento di commissioni irregolarmente collezionate dalla banca nell’ultimo trimestre del 2011 e nel 2012.

Secondo gli inquirenti – i pubblici ministeri titolari erano Francesco Greco, Antonio Pastore e Gaetano Ruta – sei società del gruppo non hanno adottato ed efficacemente attuato «modelli di organizzazione e gestione idonei a evitare la commissione di reati di riciclaggio di provenienza delittuosa […] realizzati nell’interesse non esclusivo degli autori degli stessi reati», si legge nella sentenza di patteggiamento. Il «disegno criminoso» era eseguito «da “apicali” e “soggetti sottoposti all’altrui direzione e vigilanza”».

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Erano al corrente della pratica irregolare, quindi, sia dirigenti, sia impiegati. L’Agenzia delle Entrate a ottobre 2016 aveva già chiuso con l’istituto di credito elvetico un contenzioso amministrativo con una sanzione da 101 milioni di euro. Sembrano una valanga di soldi, ma sono comunque un’inezia rispetto ai 14 miliardi di euro di illeciti contestati in una prima fase.

Il pool che ha difeso la banca sia nel penale sia nel tributario contava alcuni dei professionisti più famosi d’Italia: l’avvocata Paola Severino, ministro della Giustizia del governo di Mario Monti tra il 2011 e il 2013 e lo studio Tremonti Vitali Romagnoli Piccardi, di cui lo storico ministro dell’Economia dei governi Berlusconi Giulio Tremonti è il fondatore. Nell’ordinamento italiano è la legge 231 del 2001 che prevede la responsabilità amministrativa delle imprese nelle quali si commette un reato, «anche quando l’autore del reato non è stato identificato o non è imputabile», recita l’articolo 8. È stata la prima volta in cui gli inquirenti ne hanno fatto uso contro una banca. Secondo quanto stabilisce la 231 l’onere della prova è in capo al difensore.

«Il «disegno criminoso» era eseguito «da “apicali” e “soggetti sottoposti all’altrui direzione e vigilanza”»

Dalla sentenza di patteggiamento del 2017 tra Credit Suisse e il tribunale di Milano

Il patteggiamento ha chiuso il procedimento penale. Ancora in corso invece sono le verifiche tributarie dei nomi della lista, che hanno lo scopo di recuperare altro potenziale gettito perso. Sono migliaia gli avvisi di accertamento fiscale mandati dall’Agenzia. Sfruttando il logoramento della diplomazia svizzera di fronte al segreto bancario, dal 2017 si è aperto qualche spiraglio nella condivisione delle informazioni, che si è concluso poi con l’adesione della Svizzera (con tutti i suoi limiti) al sistema comune Crs nel 2018. Se i primi 3.297 clienti della lista milanese sono stati identificati come aderenti a voluntary disclosure e scudo fiscale, per gli altri 9.953 i finanzieri hanno fatto richiesta, già a luglio 2017, di cooperazione giudiziaria ai colleghi svizzeri. La richiesta, ad oggi, è stata accolta solo parzialmente e secondo una fonte giudiziaria il modo in cui la Svizzera condivide i dati è ancora incompleto: solo un nome e un cognome, spesso nemmeno la data di nascita.

Dallo scudo fiscale alla voluntary disclosure

Testo del toggle17 febbraio 2004, Silvio Berlusconi guida il suo secondo governo, il più lungo: «Se lo Stato mi chiede il 50-60% (di tasse, ndr) sento che è una richiesta scorretta e mi sento moralmente autorizzato a evadere», dichiara durante una conferenza stampa. La soglia tollerabile, per il fondatore di Forza Italia, era il 33%, circa dieci punti percentuali di troppo per un italiano con il suo imponibile. Ancora oggi Silvio Berlusconi è il politico con il maggiore patrimonio in Europa, con oltre 50 milioni di euro. Il taglio delle tasse è sempre stato uno dei cavalli di battaglia di Forza Italia.

Il secondo governo Berlusconi, nel 2001, ha promosso lo scudo fiscale, di cui ci sono state due edizioni, di cui la più importante nel 2009, uscita insieme a un decreto che cambiava alcune norme sulla verifica fiscale. A guidare il ministero dell’Economia c’era Giulio Tremonti, lo stesso fondatore dello studio che poi ha difeso Credit Suisse nel 2017. «Lo scudo va preso come un primo tentativo compiuto in anni ormai passati di andare verso una direzione che allora era sconosciuta», cioè quella di recuperare patrimoni nascosti all’estero, commenta Marco Allena, professore di Diritto tributario all’Università Cattolica del Sacro Cuore. «Ha avuto in quegli anni lo scopo di dare un primo scossone a questa massa di disponibilità giacenti all’estero in situazioni più o meno irregolari», aggiunge. Lo scudo fiscale del 2009 ha regolarizzato 104,5 miliardi di euro e generato un gettito fiscale di 5,6 miliardi di euro. Il dato, secondo diversi esperti sentiti sull’argomento, può essere visto da un punto di vista duplice: per un verso, è gettito recuperato che altrimenti sarebbe stato difficilissimo da recuperare; per un altro verso, è poco rispetto all’ammontare dei patrimoni evasi.

Grande protagonista delle regolarizzazioni tramite scudo fiscale era l’intermediario che si occupava del flusso di denaro in entrata, al quale applicava la ritenuta a titolo di imposta versata allo Stato e a quel punto la giacenza andava ad affluire in un conto secretato.
Sei anni dopo è arrivata la voluntary disclosure, la sua evoluzione introdotta dal governo di Matteo Renzi: nelle sue due versioni, 2015 e 2017, regolarizzerà 64,3 miliardi di euro, per un gettito di 4,8 miliardi. «La voluntary è stata frutto di contraddittori e veri e propri accertamenti che potremmo dire spontanei ma tra il contribuente e per ogni singola posizione dell’Agenzia delle Entrate competente», precisa Allena. «Scudo fiscale e voluntary disclosure sono Istituti diversi: mentre lo scudo è stato sostanzialmente una sanatoria a un costo molto basso (il 2-4% sul totale degli imponibili rimpatriati o regolarizzati) la voluntary disclosure è stato uno strumento assai più complesso e strutturato», aggiunge il professore. Ritiene che entrambi non possano esser considerati “condoni”: non sono totali annullamenti di pena, ma sconti. In più lasciano spazio a verifiche ulteriori: «Il condono è un segno di arrendevolezza del sistema di fronte all’incapacità di accertare – prosegue – perché depone le armi e sana completamente e a prescindere situazioni pregresse». È stato l’unico modo per sanare posizioni altrimenti impossibili da accertare per le autorità fiscali e di conseguenza è stato necessario creare incentivi, come gli sconti sulle possibili pene e gli abbuoni fiscali, affinché fossero fatte le dichiarazioni.

Al di là degli aspetti tecnici, secondo il professor Allena quello che è cambiato è il clima culturale internazionale intorno all’evasione fiscale: le scappatoie sono sempre meno, i Paesi sono almeno formalmente sempre più allineati. È una politica economica sempre più diffusa quella di aggredire i patrimoni all’estero non dichiarati.

Sul piano giudiziario, però, l’Italia condanna poco per reati fiscali. Il Sole24Ore in un articolo del 2019 ne stimava all’anno circa 3mila di media. Nel 2014 i procedimenti archiviati sono stati 15mila e 23mila nuovi casi sono stati aperti. Nel 2019 i detenuti per reati fiscali, riporta Agi, erano 281. Eppure i casi di evasione fiscale transfrontaliera continuano a essere scoperti.
Nell’ultima Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva, curata dal Mef, si legge che sono 921 «i casi di evasione fiscale internazionale e di occultamento di redditi e patrimoni all’estero scoperti dalla Guardia di Finanza nel 2020». Nel 2019 erano stati 1.627, nel 2018 1.702 e nel 2017 1.809. La voluntary disclosure oggi è ancora informalmente impiegata per risolvere i contenziosi tra contribuenti e Agenzia delle Entrate, nonostante la finestra di tempo sia ormai “chiusa”.

Delle circa 130 mila richieste di regolarizzazione pervenute all’Agenzia delle Entrate entro l’inizio del dicembre 2015, quasi al termine dell’operazione, circa il 70% erano per posizioni aperte in Svizzera. Per l’80% circa hanno riguardato quattro banche: Credit Suisse, Ubs, Bsi e Julius Baer. «Con la voluntary disclosure ci si è riproposti di far pagare le imposte sulle giacenze all’estero, tendenzialmente negli ultimi cinque anni – spiega Marco Allena, professore di Diritto tributario all’Università Cattolica del Sacro Cuore -. Chi non ha avuto redditi da quelle giacenze non ha pagato imposte». Le giacenze sono le somme di denaro depositate in un conto corrente. Quindi la voluntary disclosure puntava a radiografare le fonti di guadagno di un contribuente all’estero, dai patrimoni fino ai redditi passivi, come gli interessi su un investimento, i dividendi di una società. Le sanzioni per la mancata dichiarazione erano del 16,65%. Tra chi ha sfruttato gli sconti delle manovre per far rientrare i soldi dall’estero ci sono il gruppo Gucci e alcuni manager storici. Scrive Il Fatto quotidiano, in un’inchiesta collaborativa con il consorzio Eic, che almeno dal 2011 al 2017 il gruppo ha evitato di pagare al fisco 5 miliardi di euro. Uno dei manager che aveva partecipato allo schema ha aderito alla voluntary e ha pagato 16 milioni di euro per rimettere a posto la sua posizione fiscale.

Almeno una ventina di accertamenti fiscali di cui si è occupato il dottore commercialista tributarista Maurizio Reggi si sono chiusi in primo o secondo grado a favore dei contribuenti accusati di evasione. Spesso si legge che «l’onere probatorio» non è stato assolto nella maniera corretta dall’Agenzia delle Entrate, che ha fallito in molte circostanze persino a provare il legame tra presunto sottoscrittore e assicurazione sulla vita. In una sentenza del 2021 si legge, ad esempio, che la polizza «non è mai stata prodotta in giudizio». Mentre la banca ha patteggiato per l’accusa di aver facilitato i clienti nella creazione di strumenti per schermare gli investimenti all’estero, quando si va alla verifica fiscale questo assunto spesso non è dimostrato dall’Agenzia delle Entrate, a leggere le sentenze.

I motivi principali di questi esiti sono due. Il primo è che i redditi oggetto di accertamenti risalgono a troppi anni fa. Le polizze erano spesso del 2005, 2006 e 2007 e solo nel 2009 è stata introdotta una norma per cui l’autorità fiscale presumeva che i patrimoni degli italiani nei paradisi fiscali fossero in nero. Questa norma non è retroattiva, dice la Cassazione, anche perché la prova di dimostrare il contrario era a carico dei contribuenti. Il secondo motivo riguarda i nominativi a disposizione nella lista di Milano: sono parziali, incompleti e approssimativi e spesso non è nemmeno chiaro il motivo per cui siano stati ritrovati nella sede di Milano. Per completarli serve la collaborazione delle sedi svizzere di Credit Suisse – dove fisicamente sembrerebbe siano stati firmati i contratti delle assicurazioni a vita – e dell’autorità svizzera. L’aiuto è arrivato – parzialmente – solo molto più tardi, stando agli inquirenti.

Mentre la banca ha patteggiato per l’accusa di aver facilitato i clienti nella creazione di strumenti per schermare gli investimenti all’estero, quando si va alla verifica fiscale questo assunto spesso non è dimostrato dall’Agenzia delle Entrate, a leggere le sentenze

Il triangolo delle Bermuda dove scompaiono i patrimoni

La tipologia di polizze che hanno trovato i militari della Guardia di Finanza a Milano è soprannominata “polizza mantello”. Sotto la veste di una normale assicurazione per la vita, la polizza mantello nasconde prodotti prettamente finanziari, dai quali si può investire e disinvestire quando si vuole. La differenza fondamentale è che le polizze vita non devono finire nella dichiarazione dei redditi, gli investimenti finanziari invece sì. Durante le udienze per gli accertamenti fiscali è emerso che i prodotti sono stati sottoscritti in uffici di Credit Suisse in Svizzera tanto è vero che a Milano non sono state scoperte delle polizze originali, ma solo questo elenco, prodotto in udienza in uno scarno foglio excel. Nella sentenza di patteggiamento si legge che Credit Suisse «aveva sollecitato alla sottoscrizione delle polizze almeno 4mila clienti». Il prodotto proposto si chiamava “Polizza Bermuda”, un prodotto di Credit Suisse Life (Bermuda) Limited, soggetto che per il Tribunale «non [è] legittimato allo svolgimento di alcuna attività finanziaria e assicurativa nel territorio dello Stato (italiano, ndr)». La sottoscrizione con una società delle Bermuda permetteva sia di tenere la polizza mantello nascosta (l’Agenzia delle Entrate parla di «conti separati» nelle verifiche fiscali), sia di evitare l’euroritenuta, una somma che la società assicurativa avrebbe dovuto trattenere al cliente e poi dividere tra amministrazioni tributarie coinvolte nell’operazione. Credit Suisse però non lo faceva, secondo il patteggiamento.

Inoltre per i clienti di Credit Suisse si accendevano conti a Guernsey, Panama, Singapore, Liechtenstein, Bahamas, Cipro, Isole Vergini Britanniche, Antille Olandesi, Costa Rica, Svizzera e Hong Kong, Paesi offshore dove riusciva a garantire l’anonimato ai propri clienti, che così si rendevano invisibili al fisco italiano. Secondo il dispositivo di patteggiamento, la banca si prendeva cura di organizzare lo spallonaggio attraverso cui far rientrare i soldi in Italia. I consulenti che se ne occupavano, i relationship manager, gravitavano sulla sede di Milano. Questi consulenti dovevano seguire un codice di comportamento quasi da agente segreto, che l’Espresso nel 2016 ha definito “il manuale del perfetto evasore”. Si tratta di slide di corsi di formazione aziendale in cui si suggeriva «massima discrezione per evitare che eventuali terzi intuiscano lo scopo della chiamata» dalla banca al cliente, si suggeriva di stare attenti al «pericolo di intercettazioni» telefoniche, per le trasferte dai clienti «prendere solo automobili a nolo», di non portarsi dietro agende, di parcheggiare lontano dai luoghi degli incontri, di evitare gli incontri in sede, di non lasciare documenti incustoditi, di cambiare albergo «ogni 2-3 giorni», di annunciarsi solo con nome e cognome e mai come istituto di credito, di contattare solo clienti introdotti da persone già conosciute alla banca, di non rispondere alle domande dei finanzieri sulla propria professione se non alle dogane e soprattutto «non fornire info in merito all’attività svolta».

L’ex consigliere economico del principe Andrea si è comprato Credit Suisse Life & Pensions

Credit Suisse Life & Pensions AG – principale società del settore assicurativo di Credit Suisse con sede a Vaduz, in Liechtenstein – a gennaio 2022 è stata acquisita dal gruppo assicurativo Octium, specializzato nelle polizze vita che contengono prodotti finanziari. Proprietario è l’uomo d’affari britannico di stanza a Guernsey David Rowland, ex tesoriere del partito conservatore britannico, amico e consigliere finanziario del Principe Andrea, la cui lunga carriera che l’ha portato da figlio di un commerciante di rottami a magnate immobiliare della Londra dei nobili negli anni è stata interrotta da qualche piccolo incidente giudiziario, riporta il Guardian. Nel 2017 Octium ha acquisito il branch assicurativo di Ubs e ora punta a diventare una potenza nel settore.

Nell’ultimo bilancio di Credit Suisse Life (Bermuda) Limited si legge che dal 2014 il branch non ha alcun nuovo business. Dopo lo scandalo delle polizze, infatti, l’autorità di vigilanza del mercato delle Bermuda, la Bermuda Monetary Authority (Bma), ha ordinato una revisione di un campione dei suoi prodotti assicurativi per fare in modo che sia certificato da un revisore indipendente che si occupa di antiriciclaggio. Nel bilancio si legge che Credit Suisse da allora attende istruzioni dalla Bma. La società gestisce ancora cinque polizze, che non può chiudere per motivi legali, che generano un patrimonio complessivo di circa 14 milioni di dollari e dal 2016 le rimanenti sono state trasferite in capo ad altre società del gruppo Credit Suisse.

Il fronte svizzero nelle guerre fiscali

Dopo il patteggiamento di Credit Suisse anche altri istituti bancari sui quali erano state formulate le stesse accuse hanno pagato. Nell’ottobre 2019 Ubs, la prima banca svizzera, ha patteggiato 2,1 milioni di sanzione, con confisca di 8,1 milioni di euro per riciclaggio. Il contenzioso con l’Agenzia delle entrate era stato chiuso a giugno con una sanzione da 101 milioni di euro «per non aver pagato all’erario le imposte legate alle sue attività con clienti italiani dal 2012 al 2017», scrive Reuters. Nel 2021 ha patteggiato anche Pkb Privatbank, pagando nei procedimenti penali e tributari, tra confisca e sanzioni, circa 120 milioni di euro. L’ufficio stampa del dipartimento federale delle finanze ha risposto alle domande di Suisse Secret precisando che «la legislazione svizzera in materia di lotta contro il riciclaggio di denaro e di scambio internazionale di informazioni in materia fiscale è regolarmente oggetto di verifiche da parte degli organismi internazionali competenti» e che la Svizzera è «conforme agli standard internazionali». «Ogni grande piazza finanziaria ha un certo rischio di essere sfruttata per operazioni illegali – aggiunge l’ufficio stampa -. La Svizzera affronta questi rischi in modo mirato nella lotta contro il riciclaggio di denaro, il finanziamento del terrorismo, i reati fiscali e la criminalità finanziaria, conformemente agli standard internazionali».

Dopo il patteggiamento di Credit Suisse anche altri istituti bancari sui quali erano state formulate le stesse accuse hanno pagato

Per approfondire

La sede della banca nazionale svizzera a Bern - Foto: marekusz/Shutterstock

Guerra al segreto bancario svizzero

Dal 1932 ad oggi, storia degli assalti al privilegio della riservatezza svizzera. Tra compiacenze degli Stati europei e interessi americani nel grande mercato dell’evasione fiscale

«I conti cifrati sono strumenti che fanno parte di un’altra epoca – commenta Marco Allena, professore di Diritto tributario all’Università Cattolica del Sacro Cuore -. È impensabile che rimangano tali quando tutti gli istituti bancari trasmettono i dati e quando le varie amministrazioni fiscali sono in grado di esporre dati e informazioni di un contribuente praticamente in tempo reale». Sulle polizze mantello, osserva che «le polizze mantello si sono rivelate uno strumento che indubbiamente non favoriva la compliance e la trasparenza» ma che in generale sulle polizze sia la giurisprudenza italiana, sia quelli di altri Paesi abbia in corso «una riconsiderazione dello strumento».

Però per tutto questo serve tempo. Ritardare l’impiego di automatismi, lasciar sopravvivere prodotti del mondo bancario ormai in declino sono strategie da combattimento ritardatore, per dirla con l’avvocato Paolo Bernasconi. Mentre la Svizzera fa resistenza, per altro, ci sono fronti delle guerre fiscali che ancora sono (quasi) totalmente inesplorati: dalla Cina ai Paesi del Golfo, al Medio Oriente. Invece dei caschi blu dell’Onu, le forze di pace sono gli esperti contabili dell’Ocse che dopo i trattati impongono l’introduzione di strumenti attraverso cui scambiare informazioni – bene primario di ogni conflitto – in modo automatico. Al di là di accordi e proclami e di oggettivi passi in avanti, la guerra non sembra comunque destinata a concludersi. E del tempo che passa se ne approfittano riciclatori, criminali ed evasori che cercano riparo ai loro soldi in nero.

CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli
Luca Rinaldi

Editing

Giulio Rubino

Foto di copertina

Harold Cunningham/Getty Images

Guerra al segreto bancario svizzero

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Guerra al segreto bancario svizzero

Lorenzo Bagnoli

Prendere tempo è stata la principale strategia adottata dalla Svizzera per consolidare e preservare il proprio segreto bancario. La “riservatezza” degli istituti di credito non è infatti una legge, bensì una prassi: è stata appresa e praticata dai banchieri della Confederazione a partire dagli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento, fino a farla diventare una sorta di religione di Stato. Spiega Sebastien Guex – professore di storia contemporanea all’Università di Losanna, tra i pochi intellettuali svizzeri che abbia mai scritto dell’origine del segreto bancario – che già all’alba del Ventesimo secolo i banchieri elvetici dispensavano ai clienti più importanti la massima discrezione.

La Svizzera diventò anche per questo un polo attrattivo per i ricchi borghesi di Francia, Germania e Austria (pochi gli italiani, al tempo). «Tra il 1906 e il 1907 il governo francese aveva già intrapreso delle azioni per ottenere dai governi di Svizzera, Belgio e Gran Bretagna quello che oggi si chiama Scambio automatico d’informazioni fiscali», racconta Guex. Il Common Reporting Standard (Crs), questa la sigla del sistema odierno condiviso all’interno della comunità dei Paesi Ocse, è stato introdotto in Svizzera solo nel 2018. Permette alle autorità fiscali dei Paesi aderenti di scambiarsi i dati standardizzati dei contribuenti, in modo che possano condurre verifiche patrimoniali. Di fatto è il mezzo che abolisce il segreto bancario. Almeno per i contribuenti residenti all’estero.

È stato un percorso lungo e accidentato per la Svizzera arrivare fino a questo punto: «Se si dovesse insegnare all’università il combattimento ritardatore, bisognerebbe prendere come modello la diplomazia svizzera», commenta Paolo Bernasconi, avvocato, ex magistrato, padre della legge svizzera sul riciclaggio degli anni Novanta. Il combattimento ritardatore è una tecnica difensiva: significa reagire agli attacchi per non perdere posizioni. Per cent’anni la diplomazia svizzera ha resistito agli assalti al suo segreto bancario. Gli Stati Uniti pensavano di aver vinto nel 1996, quando firmarono il primo accordo di collaborazione. Prevedeva lo scambio dei rapporti ma non dei conti correnti: un’informazione inutile ai fini di un procedimento penale. La guerra non era nemmeno cominciata.

Punire i delatori

Le prime schermaglie giudiziarie contro le banche svizzere cominciarono negli anni Trenta. Non era ancora una guerra, ma la cronaca di allora ricalca quello che si vede anche oggi, sia da parte della Svizzera, sia dei suoi aggressori.

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Il 27 ottobre 1932, per rompere la segretezza svizzera il ministero delle Finanze francese ha mosso persino la magistratura. La Banca commerciale di Basilea, un istituto di credito tra i più importanti dell’epoca, aveva un’agenzia clandestina a Parigi, nascosta nelle stanze del lussuoso hotel La Trémoille, a due isolati di distanza dall’Eliseo. Le fece perquisire il Commissario della sicurezza generale Roger Barthelet, una sorta di superpoliziotto alle dipendenze di un dipartimento del ministero dell’Interno, il quale interrogò poi sia gli impiegati della banca – il direttore e i suoi due vice, svizzeri – sia la clientela francese. Tra i documenti trovò una lista di conti correnti depositati nella sede centrale della banca, a Basilea. Nessun accenno a chi fossero i proprietari: erano conti cifrati. Sepolta in mezzo alle pagine di un quaderno, però, c’era una lista con un migliaio di nomi: la prima nella lunga storia degli scandali bancari della Svizzera. Era la chiave per decrittare i proprietari dei conti.

Gli inquirenti francesi scoprirono così che almeno dal 1927, a loro insaputa, all’hotel La Trémoille c’era un via vai di clienti francesi che venivano a riscuotere cedole, obbligazioni, dividendi, interessi maturati sui conti accesi in Svizzera. Il meccanismo permetteva ai clienti francesi di evadere circa il 20% delle tasse. Al fisco francese erano stati strappati così tra l’uno e i due miliardi di franchi svizzeri. Nella lista degli evasori c’erano alcune della famiglie francesi più ricche dell’epoca (tra cui gli industriali Peugeot e gli editori di Le Figaro, i Coty), politici di primo piano di diverse estrazioni, ex ministri, una dozzina di generali, due vescovi e due giudici della Corte d’appello. All’interno della banca ci fu una discussione se collaborare o meno con le autorità francesi. Alla fine la linea della tutela del segreto bancario prevalse.

Nella lista degli evasori c’erano alcune della famiglie francesi più ricche dell’epoca, politici di primo piano di diverse estrazioni, ex ministri, una dozzina di generali, due vescovi e due giudici della Corte d’appello

Dopo il caso della Banca commerciale di Basilea ne vennero altri, nei mesi seguenti. Banche minori che, memori del precedente, spostarono tutti i documenti in Svizzera prima dell’arrivo degli inquirenti. Qualche lista di clienti spuntò comunque. I magistrati francesi decisero di rendere pubblici i nomi di 130 correntisti con il patrimonio in Svizzera: la «classifica dei buoni francesi che evadono il fisco», scrisse il settimanale socialista Le Populaire.

Dopo il clamore iniziale, il caso si sgonfiò: i 38 magistrati che indagavano avevano infatti a disposizione solo quattro contabili per analizzare un migliaio di documenti; l’Ordine degli avvocati protestò al ministero della Giustizia contro i metodi d’indagine e qualche giornale conservatore, tra cui Le Figaro, cominciò una campagna contro il governo: «Verso la dittatura della delazione», titolava l’editoriale del 27 novembre 1932. Faceva il caso di monsieur Blum, «un distinto giurista»: «Per il solo essere nominato nei documenti della Banca di Basilea, viene incolpato e il suo nome rispettato, uno dei più antichi di Francia, viene messo alla pubblica gogna, il signor Blum!», s’indignava l’articolo. «Il vero scandalo – prosegue l’articolo – è il saccheggio fiscale d’ispirazione socialista e demagogica che rovina la Francia».

Cent’anni di liste dei correntisti segreti

Senza le liste clienti sequestrate o fuoriuscite dagli uffici delle banche che si trovano in Paesi che mantengono riservata l’identità dei clienti non sapremmo nulla di patrimoni all’estero. L’episodio di Parigi è stato solo il primo di una serie. In fondo, è stato una sorta di leak d’altri tempi. La lista più famosa riguardante clienti di una banca è quella procurata da Hervé Falciani nel 2008. L’ex dipendente della sede svizzera di Hsbc aveva girato circa duemila nomi di potenziali evasori fiscali all’allora ministro delle Finanze francese Christine Lagarde. La Lista Lagarde è un sottoinsieme della Lista Falciani, contenente 120 mila nomi. Da lì è nata l’inchiesta collaborativa di Icij SwissLeaks. Falciani è stato poi condannato a cinque anni per spionaggio industriali e violazione del segreto bancario nel 2015.

Sempre del 2008 è anche la Lista Vaduz, un cd-rom con 388 nomi di presunti evasori in Liechtenstein. In Italia, nel 2009, la Guardia di Finanza di Milano ha scoperto sul computer dell’avvocato svizzero Fabrizio Pessina una lista di clienti importanti con patrimoni nascosti all’estero. Aveva una società in Svizzera dalla quale ha costruito fiduciarie e società schermate in diversi paradisi fiscali.

Nel dicembre 2013 sempre la Guardia di Finanza milanese ha trovato la lista di circa 13mila clienti di Credit Suisse che hanno sottoscritto false polizze assicurative tra Liechtenstein e Bahamas. La banca ha patteggiato, però per tanti clienti la situazione è incerta, tanto che molte polizze nemmeno si trovano. Nel 2019 sempre le Fiamme Gialle hanno iniziato a setacciare i 4.500 nomi di clienti di Payopm, una piattaforma facente capo a un avvocato italiano residente a Panama che secondo un esposto sarebbe uno strumento per evadere il fisco.

Le conseguenze del caso della Banca Commerciale di Basilea e la discussione interna all’istituto di credito sono due delle motivazioni principali per le quali nel 1934, sotto la pressione dell’ambiente bancario svizzero, la confederazione ha introdotto la sua legge bancaria. L’articolo 47, spiega il professor Guex, è il più importante: «Dice che tutti gli impiegati, i direttori o i proprietari di una banca che trasmettono informazioni sulla clientela dell’istituto di credito commettono un delitto». Quando la pressione internazionale si è fatta più forte, nel 2014, la pena prevista per i delatori è stata ampliata ad altre categorie professionali che entrano in possesso dei dati (con pene fino ai tre anni di carcere; sono cinque per chi rivela i dati dei correntisti per ottenere «per sé o per altri un vantaggio patrimoniale»). Fin dall’origine della legge, tuttavia, lo Stato, in quanto protettore del bene della segretezza, può procedere d’ufficio. Due anni dopo la sua introduzione, nel 1936, fu riformato anche il codice penale per introdurre il reato di spionaggio bancario. «A quel punto il segreto bancario è davvero protetto dal punto di vista legale e diventa un bene pubblico in Svizzera – spiega Guex -. A mia conoscenza si tratta dell’unico governo che prima della Seconda Guerra Mondiale ha adottato delle disposizioni legali a tutela del segreto bancario». Questo sistema, secondo Guex, ha creati «una cultura del segreto bancario, interiorizzata dagli impiegati di banca o, per meglio dire, da una buona parte della società svizzera».

Finché ci sarà l’articolo 47, il segreto bancario avrà il suo salvacondotto. Per quanto la Svizzera abbia stretto accordi di collaborazione con le autorità fiscali di oltre un centinaio di Paesi e abbia adottato lo standard comune nello scambio di informazioni, il suo passato non passa del tutto. Del resto il Dipartimento federale è conscio che «ogni grande centro finanziario – dice a IrpiMedia un portavoce – corre il rischio di essere sfruttato per transazioni illegali».

Per i cittadini svizzeri e per i residenti in Svizzera la riservatezza dei conti correnti è ancora tutelata. Dal punto di vista di Guex, il fatto che i correntisti delle banche svizzere con un patrimonio superiore ai 50 milioni di euro sia cresciuto dal 2015 dimostra che i servizi di gestione del patrimonio elvetici si rivolgono sempre di più a una fetta specifica del mercato.

L’articolo 47 della legge bancaria svizzera (1934) prevede che tutti gli impiegati, i direttori o i proprietari di una banca che trasmettono informazioni sulla clientela dell’istituto di credito commettono un delitto. Due anni più tardi fu introdotto nel codice penale il reato di spionaggio bancario

E questo va di pari passo con una maggiore possibilità di concedere residenza e cittadinanza: «Un primo modo per continuare a far funzionare il segreto bancario è trasformare i clienti più importanti in cittadini svizzeri». «Ciò che tiene insieme il popolo svizzero, così diverso per valori e lingue, è il franco. La ricchezza. E per mantenere lo status quo, è stato fatto credere agli svizzeri, serve il segreto bancario», conclude il professore.

«Una volta i clienti stranieri delle banche svizzere non fiscalizzati erano l’80%, se non il 90%. Oggi non è più così», dice Paolo Bernasconi, ex magistrato. Al di là del segreto bancario, infatti, il sistema penale svizzero si è dotato di nuovi reati per punire il riciclaggio anche da proventi di reati fiscali (introdotto nel 2016) e ha costretto i distretti finanziari svizzeri a preoccuparsi delle potenziali inchieste in casa propria.

Le prime reazioni a Suisse Secrets

Credit Suisse in una nuova nota di risposta a Suisse Secrets ribadisce di essere «pienamente consapevole delle proprie responsabilità, nei confronti dei clienti e del sistema finanziario nel suo complesso, relative al mantenimento dei massimi standard di condotta». «Queste dichiarazioni pubblicate sui media – aggiunge la banca – costituiscono un evidente tentativo di screditare non solo la banca ma anche la piazza finanziaria svizzera nel suo insieme, che ha attraversato un periodo di cambiamenti significativi nel corso degli ultimi anni». Nel Parlamento svizzero, però, la questione dell’articolo 47 sta diventando di natura politica: «Suisse Secrets mostra ancora una volta che le banche svizzere continuano a fare affari con dittatori, autocrati e criminali – è stato il commento del partito dei Verdi, che sono all’opposizione -. Sono inoltre tutelate da un inasprimento dell’articolo 47 della legge sulle banche, che risale a un’iniziativa parlamentare del PLR (Partito liberale radicale)». Il Partito liberale radicale è un gruppo politico di centrodestra tra i principali rappresentanti degli interessi del mondo economico e finanziario svizzero. Nel 2014 il PLR ha proposto l’inasprimento dell’articolo 47 della legge bancaria per punire la «violazione del segreto professionale», che poi è stato ratificato dal Parlamento. In questo modo i colpevoli del reato non sarebbero stati solo i dipendenti della banca ma anche chi ottiene questi dati o chi induce chi ne è in possesso a cederli. Su twitter, Samira Marti – deputata dei socialdemocratici, partito che fa parte del governo ma in minoranza – ha scritto che l’assenza di un media svizzero al consorzio Suisse Secrets per il timore di ripercussioni legali (carcere compreso) è la dimostrazione del livello di censura che le banche riescono a imporre. Aggiunge che il suo partito «presenterà una proposta nella sessione primaverile» par cambiare l’articolo 47 e chiede ai centristi di Die Mitte/Le Centre e alla sinistra dei Verdi Liberali di votare assieme . Julie Cantalou, dei Verdi Liberali, le ha risposto: «Il giornalismo svolge il suo ruolo essenziale quando svela pratiche illecite – si legge nel suo comunicato-. Vogliamo quindi sostenere la riforma dell’articolo 47 e non vediamo l’ora di collaborare con Samira Marti su questa importante materia».

Lo sbarco degli americani

Il combattimento ritardatore svizzero ha tenuto botta finché il conflitto fiscale si è combattuto in Europa. Poi, nel 2008, sono arrivati gli americani e si sono portati dietro la comunità internazionale.

La Pearl Harbour che ha trasformato in mondiale la guerra fiscale europea è stata la testimonianza di Bradley Birkenfeld, gestore del risparmio che lavorava all’epoca con Ubs e che, di fronte a un Tribunale della Florida, si è dichiarato colpevole di aver aiutato i suoi clienti a evadere milioni di dollari tra il 2001 e il 2006. Apriti cielo: il Dipartimento di Giustizia americano ha cominciato a usare in modo sistematico il concetto di «concorso nel reato» da parte dei professionisti residenti all’estero che hanno aiutato i contribuenti americani a evadere il fisco. «2008, anno nero dell’Ubs», titolava Swissinfo a dicembre 2008: l’Unione bancaria svizzera si apprestava a chiuedere un bilancio bucato dall’enorme esposizione sul mercato dei mutui americano (l’origine della crisi finanziaria) e una serie di controversie giudiziarie. L’istituto bancario è stato salvato dall’intervento del governo elvetico e della banca centrale.

L’anno successivo la War on tax è stata dichiarata tema centrale del G20. «È stata la prima volta che gli Stati hanno fatto sul serio. In materia fiscale di solito non era così», ricorda Bernasconi. È stata l’Ocse a decidere di stilare l’elenco dei Paesi non collaborativi: quelle banche avrebbero dovuto passare scrutini straordinari per ogni singola transazione. «L’asticella fissata per non essere in blacklist però era irraggiungibile per la Svizzera», ricostruisce l’avvocato: servivano dodici accordi in materia di doppia imposizione che prevedesse la possibilità di cooperare su richiesta nei casi non solo di frode fiscale, ma anche di evasione. Anche i pochi alleati europei della Svizzera – Austria e Lussemburgo – si sono adeguati al contesto internazionale. Era impossibile per la Svizzera andare avanti da sola. Anche Ubs, quindi, si è dovuta arrendere.

Il D-Day delle guerre fiscali, l’inizio della cavalcata contro il segreto fiscale svizzero, è cominciata il 12 agosto 2009, quando l’istituto elvetico ha accettato di consegnare i nomi di 250 clienti (su 4.500 richiesti) alle autorità americane. «Se vuole illegalmente, perché in violazione del segreto bancario», sottolinea Paolo Bernasconi. Questa concessione però è stata spiegata di fronte al Tribunale federale svizzero: la banca si trovava in «stato di necessità». Se non si fosse adeguata, non avrebbe più potuto fare compensazioni finanziarie (in pratica operazioni interbancarie per scambiarsi assegni o denaro) in dollari, rimanendo tagliata fuori completamente dal mercato internazionale. «La banca doveva evitare l’avvio di un procedimento penale formale, perché avrebbe fatto scattare una serie di misure che l’avrebbero messa al tappeto», prosegue Bernasconi. Sarebbero scattate sanzioni come quelle applicate alle banche russe dopo l’invasione della Crimea. Insomma, se non avesse ceduto, sarebbe fallita.

La definizione

Con evasione fiscale si definiscono i comportamenti illeciti che si adottano per non pagare o pagare meno le tasse. L’elusione fiscale è invece il modo attraverso cui, in modo lecito ma spregiudicato, si aggirano le regole tributarie per pagare meno di quanto dovuto. La frode fiscale è un reato che si commette emettendo fatture false e dichiarazioni dei redditi fasulle.

L’accordo Irs-Ubs è stato un precedente che ha condizionato per sempre le relazioni Svizzera-Stati Uniti. Anche Credit Suisse, Banca Svizzera Italiana, Pkb Privatbank e Wegelin & Co hanno dovuto patteggiare con gli americani. Quest’ultima – la più antica banca svizzera – finendo in bancarotta a causa della sanzione.

Come in ogni guerra, l’intervento di una potenza in un conflitto è teso a proteggere i propri confini. In questo caso Delaware, South Dakota, Alaska, Nevada, ovvero alcuni tra i paradisi fiscali sul suolo americano specializzati in particolare nella costruzione di società “bucalettere”. Secondo il report 2009 della Tax Justice Network, l’organizzazione che traccia i furti di gettito a livello complessivo, nel 2007 gli Stati Uniti hanno attratto 2.600 miliardi di rapporti finanziari, ancora più della Svizzera. «Mentre gli Stati Uniti saltano su e giù e dicono “Ah, cattive, cattive banche svizzere”, gli Stati Uniti stanno facendo esattamente le stesse cose per quanto riguarda i titolari di conti bancari non residenti», spiegava alla Reuters Sarah Lewis, all’epoca direttore esecutivo della Tax Justice Network.

Con il Fatca – Foreign Account Tax Compliance Act, introdotto in USA da Barack Obama – le banche sono obbligate a fornire al fisco americano tutte le informazioni sui contribuenti americani. Ma non viceversa

Barack Obama, appena eletto presidente degli Stati Uniti, ha promosso lo standard americano di scambi di informazioni, il Foreign Account Tax Compliance Act (Fatca). Però non ha affrontato i paradisi di casa propria: per quello ci sono voluti più di dieci anni. Il Corporate Transparency Act del 2020 è il tentativo più credibile fatto finora per la riforma delle leggi antiriciclaggio statunitensi.

Ma le perplessità restano, soprattutto in materia bancaria: gli Usa, infatti, rifiutano il sistema di scambio automatico delle informazioni previsto per i Paesi dell’Ocse, il CRS. Con il Fatca di Obama si sono costruiti il loro. «Sono stati gli Stati Uniti a fare da locomotiva contro il segreto bancario svizzero, perché hanno lanciato i provvedimenti contro le banche e hanno lanciato il loro sistema automatico, ma non di scambio», conclude Bernasconi. In pratica con il Fatca le banche sono obbligate a fornire al fisco americano tutte le informazioni sui contribuenti americani. Non viceversa. Secondo una fonte investigativa italiana, è totalmente sbilanciato nello scambio di informazioni: «Noi agli Stati Uniti diciamo tutto, loro niente». Trucchi da L’arte della guerra. Quella fiscale.

CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli

Editing

Giulio Rubino

Foto di copertina

La sede della banca nazionale svizzera a Bern
(marekusz/Shutterstock)

Provate a prenderli, quei conti in Credit Suisse

#SuisseSecrets

Provate a prenderli, quei conti in Credit Suisse

Cecilia Anesi
Ben Wieder (Miami Herald)
OCCRP

«Si sono venduti questi merdosi… la Svizzera diventerà un Paese di merda», sbotta Antonio Velardo. L’imprenditore campano è agitato, fa una serie di telefonate, vuole scoprire se è vero che la Svizzera cambierà le regole sul segreto bancario che fino a quel momento erano state serratissime. Avere soldi lì, era come tenerli in scrigni invisibili chiusi a chiave.

Era il 14 marzo 2009, e il giorno prima la Svizzera aveva annunciato l’adesione ai protocolli Ocse. Da quel momento le autorità straniere avrebbero potuto chiedere accertamenti sui titolari di conti, se sospettati di evasione fiscale. Così, almeno, gli aveva annunciato il suo socio dell’epoca, Henry “Harry” Fitzsimons, un ex-terrorista dell’IRA (Irish Republican Army).

«Senti, mi servono tutte le informazioni sulla Svizzera. Hanno lanciato qualcosa sulla Svizzera, mi fai un dossier», chiedeva Velardo a un suo collaboratore.

«Non mi piace proprio questo fatto. Non mi sembra una cosa giusta. Merda…» si sfoga mentre di sottofondo si sente il rombo di una Ferrari. «La senti la bestia?», si vanta con il compare.

Velardo non è un uomo noto, piuttosto è uno dei tanti, uno dei 700 italiani domiciliati all’estero che compaiono nel leak di Suisse Secrets e che risultano avere tanti, tantissimi soldi. Ed è proprio questo anonimato, questa invisibilità, che Velardo voleva mantenere rivolgendosi alle banche svizzere.

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L'inchiesta in breve
  • Tra il 2007 e il 2008 due procure antimafia calabresi, quella di Reggio Calabria e quella di Catanzaro, iniziano a indagare il potenziale riciclaggio di capitali mafiosi di due clan di ‘ndrangheta, i Morabito di Africo e i Mancuso di Limbadi
  • Durante le indagini, emerge la figura dell’imprenditore immobiliare Antonio Velardo e dei suoi soci, tra cui l’ex terrorista IRA Henry Fitzsimons
  • A marzo 2009, Velardo e Fitzsimons vengono intercettati preoccupati per i paventati cambi nella legislazione svizzera rispetto al segreto bancario, svelando così di avere dei conti bancari in Svizzera
  • Le rogatorie internazionali mandate dalla Calabria e che chiedono una verifica sui conti in Svizzera non forniranno informazioni utili durante le indagini. Il sospetto è che i capitali legati al villaggio turistico “Gioiello del Mare” siano transitati da lì
  • Solo nel 2014 l’autorità giudiziaria svizzera informa la controparte italiana della presenza di cinque conti correnti di Credit Suisse su cui Velardo ha il potere di firma
  • Due di questi conti correnti compaiono nel database di Suisse Secrets, assieme a un terzo conto mai comunicato agli italiani
  • Tre di questi conti, poichè intestati a un’azienda nelle isole Marshall, non potranno essere sequestrati
  • Nel 2016, il costruttore del Gioiello del Mare viene condannato per appartenenza alla ‘ndrangheta, e il villaggio confiscato. Velardo e Fitzsimons verranno assolti per mancanza di prove a causa della scarsa collaborazione delle autorità straniere
  • Degli oltre 450 appartamenti venduti, solo 33 clienti stranieri hanno ottenuto una casa
#SuisseSecrets, il progetto

Suisse Secrets è un progetto di giornalismo collaborativo basato sui dati forniti da una fonte anonima al giornale tedesco Süddeutsche Zeitung. I dati sono stati condivisi con OCCRP e altri 48 media di tutto il mondo. IrpiMedia e La Stampa sono i partner italiani del progetto. 

Centosessantatre giornalisti nei cinque continenti hanno rastrellato migliaia di dati bancari e intervistato decine di banchieri, legislatori, procuratori, esperti e accademici, e ottenuto centinaia di documenti giudiziari e finanziari. Il leak contiene più di 18mila conti bancari aperti dagli anni Quaranta fino all’ultima decade degli anni Duemila. In totale, lo scrigno è di oltre 88 miliardi di euro.

«Ritengo le leggi sul segreto bancario svizzero immorali – ha dichiarato la fonte ai giornalisti-. Il pretesto di proteggere la privacy finanziaria è semplicemente una foglia di fico che nasconde il vergognoso ruolo delle banche svizzere quali collaboratori degli evasori fiscali. Questa situazione facilita la corruzione e affama i Paesi in via di sviluppo che tanto dovrebbero ricevere i proventi delle tasse. Questi sono i Paesi che più hanno sofferto del ruolo di Robin Hood invertito della Svizzera».

Nel database di Suiss Secrets ci sono politici, faccendieri, trafficanti, funzionari pubblici accusati di aver sottratto denaro alle casse del loro Paese, uomini d’affari coinvolti in casi di corruzione, agenti di servizi segreti. Ci sono anche molti nomi sconosciuti alle cronache giudiziarie.

Aveva ragione Velardo ad essere preoccupato perché già da un anno, in Calabria, due procure antimafia – quella di Reggio Calabria e quella di Catanzaro – lo avevano messo sotto intercettazione perché sospettato di muovere capitali riconducibili alla ‘ndrangheta e all’IRA. Due indagini complesse, rese ancor più difficili dai troppi salti di giurisdizione dei soldi e dei personaggi coinvolti, e che sono finite con l’assoluzione sia di Velardo che di Fitzsimons.

La traccia dei soldi che partendo dalla Calabria arriva fino a Miami, è rimasta sepolta grazie alla discrezione della Svizzera, che non è mai davvero venuta meno. E i segreti finanziari di Velardo incastonati tra le Alpi, quella parte mai scoperta dalle procure, sono rimasti tali. Almeno finora.

Grazie alle informazioni del leak, carte giudiziarie e altri documenti ottenuti in vari paesi del mondo, Suisse Secrets può oggi svelare nuovi dettagli sui movimenti di Velardo e dei suoi soci, sia in Calabria che, oggi, nei Caraibi.

Da Capo Verde ad Africo 

Nato a Napoli, il quarantaquattrenne Antonio Velardo si presenta con uno scintillante profilo Linkedin dove si descrive come “venture capitalist” nel mondo dell’immobiliare.

Oggi di base ai Caraibi, Velardo ha iniziato a vendere case agli stranieri da ventenne. Dopo una laurea in ingegneria presa in Inghilterra, si è trasferito a Capo Verde – arcipelago di 15 isole al largo del Senegal, nel mezzo dell’Oceano Atlantico.

Capo Verde, terra natale della famosissima musica morna, proprio come la sua musica è sempre stato un frullatore di note e gente diversa, un tempo tristemente ultima tappa della tratta degli schiavi prima dell’imbarco verso le Americhe, oggi noto hub per il rimbalzo di carichi di cocaina che viaggiano nella direzione opposta.

Amatissima dagli italiani, Capo Verde era un mercato turistico e immobiliare perfetto dove muovere i primi passi. Ed è qui che Velardo inizia a collaborare con Henry Fitzsimons. Condannato per un attacco bomba dell’IRA a inizio anni ‘70, l’irlandese – uscito di prigione dieci anni dopo – è diventato un magnate dell’immobiliare a Belfast in un batter d’occhio. Ma Fitzsimons era soprattutto noto in quanto proprietario del Rumours, un night famoso per le sue feste e per la clientela, fatta, secondo alcune fonti, per buona parte da membri dell’IRA.

A Capo Verde, Fitzsimons ha accolto Velardo sotto la sua ala, pagandogli – secondo le intercettazioni – 4mila sterline a settimana affinché lo aiutasse con vendite immobiliari nell’arcipelago.

#SuisseSecrets

I professionisti della segretezza di Credit Suisse

Il processo a Patrice Lescaudron, le sanzioni agli oligarchi russi, i procedimenti di vecchi clienti contro la banca. Come lavorano i custodi della riservatezza dei clienti più abbienti

Presto, la coppia ha iniziato a espandere le attività investendo in resort turistici in Europa. Stando alle indagini della Guardia di finanza di Reggio Calabria, Velardo non si pone mai il problema di quanto costino i beni da acquistare, «come se disponesse di una quantità di denaro illimitata».

Alla fine del 2006 aprono insieme la società irlandese VFI Overseas Properties Real Estate Agent Ltd per seguire progetti immobiliari anche in Calabria, sia nel vibonese e catanzarese, che nella Locride. Qui, dopo avere sentito della possibilità di costruire un grande villaggio turistico sulla Costa dei Gelsomini nella zona di Brancaleone (Africo), Velardo si era messo in moto per entrare in contatto con chi aveva in mano il progetto. La costa di Africo però non è una tipica meta turistica, più che altro è nota per l’ingombrante presenza di uno dei clan di ‘ndrangheta più potenti al mondo, i Morabito alias Tiradrittu. Egemoni del traffico di cocaina dall’America Latina all’Europa, nel territorio di Africo non si muove una foglia, che questo clan non voglia.

Amatissima dagli italiani, Capo Verde era un mercato turistico e immobiliare perfetto dove muovere i primi passi. Ed è qui che Velardo inizia a collaborare con Henry Fitzsimons

Anna Sergi, autrice e ricercatrice sulla ‘ndrangheta e professoressa di criminologia presso l’Università di Essex, spiega come la zona di Africo si incastoni in una lunga costellazione di paesini sulla statale 106 jonica, la strada che connette Reggio Calabria a Catanzaro attraversando tutta la Locride. «Uno dopo l’altro, senza volto, piccoli paesini. Bova Marina, Brancaleone, Africo, Bovalino, e sù fino a Locri, Siderno e oltre, tutti sulla costa, dimenticati eppure bellissimi. E tutti parte di un territorio, di una rete di ‘ndrangheta, che riconosce il comando del “clan più forte”, i Morabito di Africo, la ‘ndrina che comanda anche il territorio di Brancaleone».

La circostanza non aveva frenato Velardo e Fitzsimon che, ai primi di marzo 2007 diventano ufficialmente coinvolti, come promotori e agenti immobiliari, nel più grande sviluppo immobiliare di sempre in Locride: il Gioiello del Mare.

Il sei marzo 2007 infatti Velardo apre la filiale italiana della VFI, registrandola in Calabria. Pochi giorni prima, con Fitzsimons avevano firmato un contratto con la RDV srl di Antonio Cuppari, titolare del sito di costruzione a Brancaleone. L’accordo dava mandato alla VFI per vendere gli appartamenti, pubblicizzando il mega-progetto in Irlanda, Inghilterra ma anche Norvegia, Svezia e Russia. E per ogni appartamento venduto “su carta”, VFI prendeva una commissione del 31% sul prezzo finale di vendita

Pochi mesi dopo, a maggio 2007, Velardo aveva acquistato con un’azienda immobiliare di sua proprietà, alcuni terreni all’asta vicino al grande cantiere di Cuppari. L’idea era quella di inglobarli nel progetto del Gioiello del Mare, facendoli diventare il “beachfront” – ovvero il lato spiaggia – del mega progetto. «Non avrei preso il terreno se non c’era lui», afferma Velardo in una conversazione intercettata. «Vabbè lui ha garantito la protezione sul territorio», commenta l’interlocutore. Una protezione, ritengono gli inquirenti grazie anche alle testimonianze di pentiti, che Cuppari ha potuto fornire in quanto membro della ‘ndrangheta di Africo con la dote di Vangelo. 

E Cuppari per i Morabito era un importante tassello, con il ruolo di imprenditore edile in grado di realizzare un complesso turistico-residenziale di quella portata. Il Gioiello del Mare infatti prevedeva almeno 620 appartamenti circondati da servizi di lusso come campi da golf, piscine, un hotel 5 stelle.

 Il Gioiello del Mare infatti prevedeva almeno 620 appartamenti circondati da servizi di lusso come campi da golf, piscine, un hotel 5 stelleScorri le immagini

Antonio Velardo nel corso di un’intervista

«Dalle intercettazioni e dalle carte processuali di Metropolis è chiaro che i proprietari della VFI non avessero idea che Cuppari avesse precedenti penali e che fosse associato con la mafia. Cuppari stesso ha dichiarato a processo di avere nascosto i suoi precedenti alla VFI perché, ha detto, temeva che la VFI non avrebbe più lavorato con lui se l’avesse scoperto. E aveva ragione», ha dichiarato Velardo tramite il suo PR Jamie Diaferia, dello studio Infinite Global di New York. Cuppari, contattato tramite il suo legale, non ha risposto.

Nel 2013 però, il Gip di Reggio Calabria mette i sigilli al Gioiello del Mare, bloccando definitivamente il cantiere. Cuppari viene arrestato con l’accusa di essere ‘ndranghetista, venendo poi condannato a 10 anni. Il funzionario dell’ufficio tecnico di Brancaleone firmatario dei permessi, viene assolto, e così Velardo e Fitzsimons in una sentenza che ha lasciato molti di sasso. 

Nonostante la VFI avesse venduto almeno 450 appartamenti del Gioiello, quando scattano gli arresti e il sequestro solo pochi stranieri erano riusciti ad ottenere un appartamento: 33 per la precisione, come ha potuto verificare IrpiMedia al catasto di Brancaleone.

Nonostante la VFI avesse venduto almeno 450 appartamenti del Gioiello, quando scattano gli arresti e il sequestro solo pochi stranieri erano riusciti ad ottenere un appartamento: 33 per la precisione

Simon Chambers è un avvocato irlandese che ha rappresentato decine di acquirenti. Dopo anni in causa contro uno studio di avvocati di Londra, Giambrone & Law, che si era occupato dei contratti di acquisto per gli appartamenti facendo da tramite tra la VFI di Velardo e Fitzsimons e il costruttore calabrese, Chambers è riuscito a fare compensare i suoi clienti solo della metà dei soldi persi nell’investimento, rivalendosi sull’assicurazione (di Giambrone). Chambers ha spiegato che molti suoi clienti avevano pagato, parzialmente o per intero, per appartamenti che non gli sono mai stati consegnati, in alcuni casi perché mai costruiti.

Ma se già all’epoca i conti di Velardo in Svizzera fossero stati noti, ha detto Chambers, le cose sarebbero potuto essere diverse. «Sapevamo che i soldi erano finiti da qualche parte. Dovevano essere finiti da qualche parte», ha concluso Chambers.

Scudi alzati

Nonostante la Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria sospettasse ricchezze nascoste da Velardo, gli inquirenti non riuscivano a localizzarle. Dalle intercettazioni, l’imprenditore immobiliare parla di investimenti di lusso – una Ferrari Scaglietti comprata per 300mila euro, una proprietà da 10 milioni di sterline a Londra – e conti milionari («Antò io ho 40 milioni di euro in contanti in banca solo io»). E a un amico che gli propone di investire in opere d’arte, Velardo risponde di voler investire «soldi più elevati», nell’ordine di 500mila euro.

Quando intercettato preoccupato rispetto ai cambi di legislazione sul segreto bancario in Svizzera, l’autorità giudiziaria aveva già provato a localizzare i suoi conti, senza però riuscirci. Gli svizzeri, senza il numero preciso dei conti correnti, non potevano aiutare. «Non conoscevamo il numero dei conti correnti – ha spiegato un inquirente dell’indagine Metropolis a IrpiMedia – sapevamo solo ne avesse, perché se ne vantava al telefono».

E anche da Irlanda e Inghilterra arriva poco aiuto: nonostante sollecitate, non comunicheranno informazioni sui conti bancari dei due soci. Così, la traccia di denaro resta come una via lattea in un cielo troppo lontano.

Scavando in un’altra direzione, la Guardia di finanza di Catanzaro – nell’indagine parallela chiamata Black Money che toccava gli investimenti del clan Mancuso – raggiunge una svolta il 18 marzo 2010 quando, al varco doganale di Ponte Chiasso, gli agenti fermano uno dei consulenti commercialisti di Velardo, proprio di ritorno da un incontro con lui a Lugano.

Tra la copiosa documentazione sequestrata, spuntava anche la prova che Velardo e Fitzsimons utilizzassero una fiduciaria di Cipro, la HF & AV HOLDING. Non solo, le intercettazioni tra i commercialisti calabresi e Velardo avvenute dopo la perquisizione a Ponte Chiasso, raccontavano di una certa preoccupazione tra gli indagati rispetto a ciò che le carte potessero rivelare.

Uno schema complesso

Grazie alla documentazione sequestrata al commercialista, gli inquirenti erano riusciti a delineare un puzzle dell’operazione finanziaria di Velardo e della sua squadra. La descrivono come divisa in due fasi: la prima rappresentata dalla realizzazione di grandi guadagni con l’attività di intermediazione immobiliare per clienti stranieri in Calabria. In questa fase, ritengono, il gruppo guadagnava più del dovuto eludendo il fisco grazie ad «una serie di accorgimenti giuridico – contabili finalizzati ad evitare l’imposizione fiscale sul territorio italiano dei redditi». Nella fase due, questi soldi non tassati (e tenuti offshore) venivano investiti aprendo nuove società in Italia – Calabria, Roma, Milano, Como – per realizzare e poi vendere nuovi complessi immobiliari.

La rete transnazionale di aziende passava da varie giurisdizioni: Inghilterra,Tunisia, Russia con società controllate da fiduciarie in paradisi fiscali come Cipro e Delaware.

Una schermatura, quella delle fiduciarie, che Velardo aveva scelto di usare anche in Italia. Infatti, nel 2010 aveva dato mandato alla fiduciaria milanese EOS Finanziari Fiduciari S.p.a, posseduta da una banca svizzera, di rappresentare il suo azionariato nelle aziende calabresi.

A giugno 2021 Il Fatto Quotidiano ha dato la notizia che Eos è finita sotto la lente della procura di Milano, per avere aiutato clienti a nascondere ricchezze frutto di reati finanziari, soldi che venivano prima nascosti offshore e poi scudati e fatti rientrare in Italia ripuliti.

Sei manager apicali di Eos sono finiti sotto indagine a Milano perché «assumevano e gestivano nel tempo i mandati fiduciari mediante la diffusa e consapevole inottemperanza della normativa primaria in materia di adozione di efficaci presidi antiriciclaggio».

Anche Velardo si era servito di EOS per far gestire una parte dei suoi asset, aderendo allo scudo fiscale introdotto con un decreto legge di luglio 2009, che cercava di recuperare capitali italiani detenuti all’estero.  

Tutto legale, o meglio legalizzato (salvo che accertamenti successivi non dimostrino che il denaro tenuto all’estero sia provento di attività criminale).

Ma poichè permesso, Velardo nel 2010 dà mandato a EOS di gestire il patrimonio scudato pagando la tassa di adesione allo scudo (del 5% sul capitale che viene fatto rientrare in Italia) e facendo investire lo stesso in operazioni finanziarie legate alle società che controllava tramite la fiduciaria.

A dicembre 2011 però, il governo Monti introduce un’imposta straordinaria di 1.5% facendo lievitare la tassa sui patrimoni scudati a 6.5%.

Velardo non ci sta. Decide di disinvestire parte dei suoi asset in Italia e gestiti tramite EOS, spostandoli nella Banca Julius Baer, a Lugano.

«La rinuncia allo scudo fiscale comporta ovviamente, il venir meno della causa di non punibilità», scrive il giudice per le indagini preliminari nell’ordinanza di custodia cautelare di Black Money.

IrpiMedia ha scoperto che quando le autorità svizzere finalmente si svegliano dal torpore, e rispondono alla rogatoria di Catanzaro è tardi. È il 2014 ed è già un anno che la fase delle indagini è stata chiusa, con l’ordinanza di custodia cautelare del 25 marzo 2013.

Comunica, l’autorità giudiziaria svizzera, di avere trovato cinque conti Credit Suisse su cui Velardo ha il potere di firma. Due personali, e tre intestati all’azienda Apax delle Isole Marshall. Comunica anche di avere proceduto al sequestro solo dei due conti personali, e di non potere toccare gli altri tre poiché aziendali.

Alcuni di questi conti risultano anche nel leak di Suisse Secrets, incluso uno in più, dalla vita breve (2011-2012), mai comunicato dall’autorità giudiziaria svizzera ai colleghi calabresi.

Velardo aveva aperto un conto personale presso Credit Suisse a settembre 2010, un conto intestato ad un’azienda due mesi dopo, e infine un terzo conto sempre aziendale a maggio 2011. Quest’ultimo è stato aperto per poco, chiuso nel 2012, e conteneva poche migliaia di euro.

I conti Credit Suisse, che in qualche modo sono sopravvissuti alle indagini, sollevano serie domande sulle procedure di due-diligence (cioè della valutazione della clientela) dell’istituto di credito

Gli altri due, invece, hanno raggiunto rispettivamente un picco di circa 1.4 milioni di euro (quello personale) e circa 1.2 milioni di euro (quello aziendale) nel 2011, ben tre anni prima che le autorità ne scoprissero l’esistenza. Entrambi sono rimasti aperti anche dopo le operazioni giudiziarie Metropolis e Black Money: nel 2016 c’erano più di 300mila euro in uno, e più di 500mila euro in un altro.

Per gli inquirenti, tracciare i flussi finanziari di Velardo e Fitzsimons è stato un compito arduo, perché come scrive il Gip si muovevano «attraverso operazioni finanziarie e societarie mirate a canalizzare il flusso di denaro per veicolarlo verso paradisi fiscali e farne perdere le tracce». «Era un’indagine innovativa sul riciclaggio, ma non siamo riusciti a portare a giudizio i giusti accertamenti patrimoniali che avrebbero tranquillizzato i giudici», ricorda uno dei pm con un velo di frustrazione. «Tutti i prestanome e i broker sono stati assolti – spiega un altro pm – era impossibile dimostrare il flusso dei soldi, che si muoveva a loro stesso dire in modo “psicopatico” tra diverse giurisdizioni e paradisi fiscali».

Ricapitolando, Velardo era stato accusato in due diversi procedimenti giudiziari: Metropolis a Reggio Calabria e Black Money a Catanzaro. È stato assolto a Reggio Calabria per non avere commesso il fatto, ma condannato in primo grado Catanzaro a quattro anni solo per associazione per delinquere finalizzata all’evasione fiscale. In appello, nel 2019, questa accusa viene cancellata dalla prescrizione. Anche Fitzsimons, all’epoca arrestato in Senegal (si crede sulla via per Capo Verde), viene assolto. Fitzsimons, tramite il suo avvocato Dan McGuinness, fa sapere di non avere più contatti con Velardo dal 2010. Aggiunge che a febbraio 2021 la Corte d’Appello di Reggio Calabria a cui si era rivolto, ha decretato l’ingiusto arresto e detenzione e ordinato un indennizzo.

Ora però Suisse Secrets getta una nuova luce su quei flussi di denaro. I conti Credit Suisse, che in qualche modo sono sopravvissuti alle indagini, sollevano serie domande sulle procedure di due-diligence (cioè della valutazione della clientela) dell’istituto di credito.

Quando nel 2013 Velardo finisce alla ribalta delle cronache perché accusato di riciclaggio in tandem con un ex-terrorista IRA, è davvero difficile pensare che Credit Suisse non se ne sia accorta. Credit Suisse, contattata da IrpiMedia e dai media partner, non ha risposto alle domande relative a questi conti bancari.

Sono tunisino ma sto ai Caraibi

Il disamore di Velardo per le tasse italiane potrebbe essere ciò che lo ha spinto a stoccare soldi in Svizzera. Nel 2009, quando la concessionaria Ferrari chiede la dichiarazione dei redditi, Velardo sbotta con un suo aiutante. «Non dichiaro niente io, non ho mai dichiarato in vita mia… digli: l’amministratore vive sempre fuori e non dichiara un cazzo…».

Un anno dopo, aprirà i primi due conti Credit Suisse, mettendo come domicilio la Tunisia. Una mossa, quella della residenza in Tunisia, che per la GdF aveva il solo scopo di eludere le tasse. «Una scoreggia in faccia a quel pezzente del Generale della Guardia di finanza che deve morire in culo perchè io ora sono tunisino!» dice euforico Velardo parlando con il suo consulente legale dell’epoca. «Mi devono sbocchinare».

In Tunisia, Velardo e Fitzsimons avevano avviato un’altra filiale di VFI, nascondendo la proprietà tramite una fiduciaria del Delaware – come i documenti ottenuti da Al Quatiba in Tunisia dimostrano. Sempre in Tunisia, Velardo ha poi aperto un’altra azienda – la Apax consulting – che ha due gemelle, quella detentrice dei conti in Svizzera e registrata alle Isole Marshall, e quella americana servita per investire nell’immobiliare in Florida. Nessuno degli indirizzi delle aziende, oggi, porta ad un ufficio, come hanno verificato i giornalisti di Al Quatiba.

In Tunisia, Velardo e Fitzsimons avevano avviato un’altra filiale di VFI, nascondendo la proprietà tramite una fiduciaria del Delaware

Tracce più concrete invece si trovano in Florida, dove Velardo e tre soci hanno acquistato – tra il 2012 e il 2014 – più di 130 case. Come ha scoperto il Miami Herald, la maggior parte sono state pagate in contanti, proprio negli anni successivi alle vendite del Gioiello del Mare.

Velardo oggi ha il suo centro d’affari nei Caraibi, da dove pubblicizza le sue competenze su un sito web personale, una pagina LinkedIn e un blog Medium. E, in Repubblica Dominicana, guida un’azienda di consulenza immobiliare e finanziaria, la Real Capital Caribe.

A possedere il capitale dell’azienda, invece, un suo amico dai tempi di Metropolis. Ex-bancario di Barclays a Londra, viene intercettato – ma mai indagato – mentre Velardo racconta dei suoi progetti immobiliari in Calabria, del suo timore di essere sotto controllo, dei suoi guadagni («ho fatturato 60 milioni di euro») e dei suoi conti bancari tra Lugano e Locarno. 

L’ex-bancario è anche stato un perno fondamentale per gli investimenti immobiliari in Florida, infatti come ha scritto il Miami Herald, dopo che Velardo viene ufficialmente accusato in Calabria, il suo nome scompare progressivamente dalle aziende in Florida venendo sostituito da quello del collega. E il fil-rouge con la Calabria non sembra essersi fermato. 

Nel 2018, l’amministratore di un’azienda di Vibo ritenuto prestanome di Velardo e indagato con lui in Black Money, tale Francesco Colacino, viene iscritto come procuratore della Real Capital Caribe. Avrà potere di firma sui conti bancari, e potrà occuparsi delle intermediazioni immobiliari dell’azienda. Colacino, contattato da IrpiMedia, ha negato di avere a che fare con la Real Capital Caribe.

La Real Capital Caribe sul suo sito pubblicizza la realizzazione di due condo-hotel a Santo Domingo, e le cui unità immobiliari sono disponibili sia come affitto che per investimento. «Una grande opportunità d’investimento nel cuore dei Caraibi», recita lo slogan, promettendo guadagni dell’11% per chi dovesse investire negli appartamenti di lusso.

Una pubblicità della Real Capital Caribe

Le rovine

Nel frattempo, a Brancaleone, il Gioiello del Mare cade in rovina. A tagliarlo in due, la statale 106 jonica e campi incolti. L’erba secca, altissima, da bordo strada incornicia le case sulla spiaggia – il “beachfront” – l’unica parte completata. Dall’altra parte, al di là della statale e del suo traffico continuo, lo Smeraldo. Quello che doveva essere un mega resort da 600 appartamenti, è oggi un cantiere abbandonato. Gli scheletri di cemento spuntano dalla collina come a ricordare un sogno sbagliato, mentre solo le prime quattro schiere sono finite. Tutto attorno, gli uliveti e i campi verdissimi in salita verso l’Aspromonte severo. Di fronte, il mare, quel mare a cui lo Smeraldo doveva essere collegato con strade e passaggi pedonali apposta. Invece, l’unico modo di arrivare al “beachfront” è dalla statale jonica, girando in un angusto sottopassaggio della ferrovia. Non proprio una facility di lusso.

Un dettaglio dell’attualità dell’area del Gioiello del Mare lato fonte spiaggia mappata dal catasto di Brancaleone

IrpiMedia ha raggiunto due dei proprietari, con appartamenti allo Smeraldo e al “beachfront”, parte del gruppo di 33 stranieri che hanno ottenuto un appartamento. «È un gioiello del mare, ma è diventato un totale incubo per noi», concordano.

Chiedono l’anonimato per timore di ripercussioni. Adesso che tutto è confiscato, non possono toccare nulla delle aree comuni, nemmeno fare manutenzione ordinaria. Eppure, se non fosse stato per i loro sforzi e per un giardiniere pagato di tasca propria dal 2013, «sarebbe tutto caduto in rovina». E adesso è stato approvato un ordine di demolizione per l’intero complesso Smeraldo, un ordine che include anche le loro proprietà.

Un dettaglio dell’attualità dell’area del Gioiello del Mare lato entroterra mappata dal catasto di Brancaleone

Il 29 gennaio 2016 il Tribunale di Locri assolve Velardo, Fitzsimons e Cuppari dall’accusa di riciclaggio dicendo che sì, indubbiamente il Gioiello del Mare era «destinato – per le sue proporzioni e la sua importanza – a stimolare gli “appetiti” delle cosche di ‘ndrangheta operanti nella zona di Brancaleone» e che l’appartenenza di Cuppari ai Morabito era una prova del fatto che il clan si fosse intromesso nell’investimento, ma che mancavano le prove concrete dell’utilizzazione di somme derivanti da attività illecite. Pertanto, i tre imputati dovevano essere assolti.

Questo però, ci tengono a specificare i giudici, non per colpa dell’accusa. Se da una parte si era riusciti a ricostruire i rapporti tra la VFI e la RDV, dall’altra «la scarsa collaborazione offerta dalle autorità di polizia straniere non ha certo consentito di approfondire le modalità di approvvigionamento dei conti correnti intestati ai soci della prima, Antonio Velardo ed Henry Fitzsimons. […] è però rimasto del tutto inesplorato tutto il capitolo relativo alla provenienza di tali somme».

Riceviamo, pubblichiamo e rispondiamo alla replica del sig. Antonio Velardo

La replica

Antonio Velardo sperava non succedesse mai più di trovare il suo nome pubblicato sui giornali associato a fatti e crimini a cui la sua estraneità è stata provata su tutti i piani a partire da quello giudiziario. Il suo nome ancora qualche giorno fa è uscito tra quelli di 700 italiani che avevano dei conti segreti in banche svizzere, nel reportage conosciuto come Suisse Secret.
Questo ha fatto emergere rappresentazioni giornalistiche destituite di fondamento Siamo sicuri della buona fede dei giornalisti quindi abbiamo iniziato in questi giorni un percorso di verità di rispetto e di trasparenza.

  1. I tre conti in Credit Suisse, non erano segreti, nel 2010 Antonio Velardo aveva conti regolari in Credit Suisse, infatti, sono gli stessi messi a disposizione della magistratura italiana, la cui trasparenza è stata una dei fondamenti delle sue assoluzioni. Pensate che i conti sono stati verificati in Italia e le autorità svizzere hanno firmato il decreto di “abbandono” non avendo motivo di credere che il denaro potesse avere origini illecite.
  2. Quindi parlare di questi conti assimilarli a quelli segreti d’altri e alludere che possano essere fonte d’illeciti è un’azione priva di ogni fondamento.
  3. Di più la natura e l’origine del denaro posto nei conti della banca Credit Suisse sono leciti rintracciabili e giustificati niente di più che i dividendi delle attività di marketing e vendita sono alla luce del sole.
  4. Antonio Velardo ha subito due processi con accuse lunari che sono finite con piene assoluzioni e che hanno escluso ogni legame con organizzazioni criminali, questo non dovrebbe consentire a nessuno di dire il contrario.
  5. Sul suo caso stiamo preparando un instant book in cui pubblicheremo tutti gli atti del processo, delle banche per chiudere definitivamente lo strazio che viene compiuto periodicamente alla sua Reputazione. Un’azione che non solo devasta la sua vita e quella della sua famiglia ma impatta sulla sua attività internazionale in modo devastante.

La nostra risposta

Prendiamo atto delle repliche ricevute, facendo presente che fin dai momenti precedenti la pubblicazione ci siamo premurati di concedere spazio alle posizioni del Sig. Velardo. Tanto che queste trovano spazio proprio all’interno di questa stessa pagina.

Sui punti sollevati ci preme rilevare quanto segue: 

I conti in Credit Suisse sono definiti “segreti” nel testo, come per tutti gli altri clienti Credit Suisse citati nell’inchiesta internazionale nominata Suisse Secret, in quanto protetti dalla stringente norma sul segreto bancario della Svizzera. Inoltre, non tutti i conti in Credit Suisse di Antonio Velardo sono stati messi a disposizione della magistratura italiana: infatti, i magistrati non sono mai stati informati rispetto al conto aperto nel 2011 e chiuso nel 2012. 

Non solo, le informazioni che l’autorità giudiziaria svizzera ha mandato all’omologa di Catanzaro nel 2014, arrivano a procedimento penale già chiuso quando l’unica azione possibile era un congelamento del conto e non un’indagine sui flussi di denaro. Non risulta inoltre alcuna comunicazione rispetto a questi conti fatta alla autorità giudiziaria di Reggio Calabria, tant’è che il giudice di Locri nella sentenza di assoluzione dice che la mancanza di prove rispetto all’origine del denaro era dovuta alla scarsa collaborazione dei collaterali esteri. Come del resto risulta da alcuni passaggi della sentenza di assoluzione datata 26 gennaio 2016 allo stesso modo citata all’interno di questo stesso pezzo.

CREDITI

Autori

Cecilia Anesi
Ben Wieder (Miami Herald)
OCCRP

Ha collaborato

Rahma Behi (Al Qatiba)
Walid Mejri (Al Qatiba)

In partnership con

Editing

Giulio Rubino

Foto di copertina

Occrp

Suisse Secrets: la replica di Credit Suisse

20 Febbraio 2022 | di Credit Suisse

In qualità di istituzione finanziaria leader a livello globale, Credit Suisse opera in molte giurisdizioni ed è profondamente consapevole della sua responsabilità nei confronti dei clienti e del sistema finanziario nel suo complesso per garantire il rispetto dei più elevati standard di comportamento. Credit Suisse opera nel rispetto di leggi e regolamenti applicabili a livello globale e locale. Negli ultimi anni la banca ha adottato una serie di misure significative in linea con le riforme finanziarie svizzere, compresi notevoli investimenti specifici nella compliance e nella lotta al crimine finanziario. Credit Suisse continua a rafforzare in tutta la banca la gestione del rischio e i sistemi di controllo.

Queste accuse dei media sembrano essere uno sforzo concertato per screditare il mercato finanziario svizzero, che ha subito cambiamenti fondamentali dopo la crisi finanziaria globale, e allo stesso tempo prendono specificamente di mira il Credit Suisse con una raffica di accuse infondate.

Come tutte le banche, Credit Suisse ha un rigoroso obbligo di riservatezza e cura nei confronti dei suoi clienti. Non siamo in grado di commentare le affermazioni che ci vengono rivolte riguardo a qualsiasi persona, sia essa cliente o meno. Sebbene non sia possibile una confutazione pubblica dettagliata di queste accuse, possiamo confermare che sono state adeguatamente registrate e, se del caso, esaminate.

Leggi la replica estesa dell’istituto di credito elvetico (in inglese)

Suisse Secrets, i conti segreti da 88 miliardi di euro

#SuisseSecrets

Suisse Secrets, i conti segreti da 88 miliardi di euro

Cecilia Anesi
Lorenzo Bagnoli
Gianluca Paolucci

Un generale algerino che ha guidato le torture durante la guerra civile. Un imprenditore dello Zimbabwe noto come “il Napoleone d’Africa” accusato di sottrazione di fondi pubblici, corruzione, evasione e finanziamento del conflitto in Repubblica Democratica del Congo. Impiegati pubblici che hanno distratto milioni di fondi del Venezuela contribuendo all’attuale devastante crisi umanitaria. Cardinali accusati di aver sperperato soldi destinati alle opere pie. Medi e grandi evasori italiani, chi semplice delinquente, chi invece dalle amicizie importanti tra le file della ‘ndrangheta.

Questi sono solo alcuni degli oscuri personaggi che hanno avuto conti presso Credit Suisse, nonostante l’istituto bancario svizzero abbia più volte promesso una stretta su criminali e corrotti. Le loro identità sono emerse grazie ad un leak – una segnalazione anonima – che dimostra come Credit Suisse abbia gestito conti correnti dal valore di milioni di euro senza fare le dovute verifiche.

Suisse Secrets è un progetto di giornalismo collaborativo guidato dal Süddeutsche Zeitung e OCCRP che scardina i segreti di casseforti nascoste per decenni tra le Alpi. E rivela almeno due aspetti inquietanti: da un lato, nonostante il segreto bancario non sia più un dogma indiscusso, la cultura e la legge bancaria svizzera difendono ancora i patrimoni nascosti in quel paese, dall’altro i clienti più a rischio, lungi dall’essere analizzati più a fondo, beneficiano di un’attenzione particolare e i loro conti sono gestiti esclusivamente da un élite all’interno della banca stessa.

Miliardi di euro che potrebbero essere stati sequestrati su richiesta dei tribunali di mezzo mondo ma su cui non si hanno notizie certe: la banca non ha risposto alle domande puntuali dei giornalisti del consorzio. Alcuni conti, ad oggi, sono ancora aperti. «Credit Suisse – ha risposto la banca – opera nel rispetto delle regole internazionali e locali. Negli ultimi anni, la banca ha adottato una serie di misure significative in linea con le riforme finanziarie della Svizzera, che includono investimenti considerevoli specialmente nella compliance e nel combattere il crimine finanziario. Credit Suisse ha un serio dovere di confidenzialità e cura dei propri clienti, e siamo quindi impossibilitati a commentare dichiarazioni che riguardano individui, siano essi clienti o meno».Seppure la Svizzera si sia adeguata al sistema di scambio automatico di informazioni, a detta degli stessi consulenti bancari dell’ente, la riservatezza resta uno dei capisaldi dell’istituto di credito.

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L'inchiesta in breve
  • Suisse Secrets è un progetto di giornalismo collaborativo che indaga i proprietari di 18mila conti correnti segreti di Credit Suisse, la seconda banca svizzera, rivelati da un leak. 
  • Tra i correntisti ci sono politici, faccendieri, trafficanti, funzionari pubblici accusati di aver sottratto denaro alle casse del loro Paese, uomini d’affari coinvolti in casi di corruzione, agenti dei servizi segreti.
  • I residenti in Italia sono una ventina, gli italiani circa 700, tutti residenti all’estero (più della metà in Venezuela). Tra loro Mario Merello, imprenditore già noto per precedenti casi di frode fiscale. Ci sono anche i conti correnti del Vaticano coinvolti nello scandalo per l’acquisto dell’immobile di Londra. C’è poi un immobiliarista che ha fatto affari con un ex Ira irlandese e uomini della ‘ndrangheta, in Calabria. 
  • Credit Suisse incappa in patteggiamenti e procedimenti giudiziari a causa dei clienti a cui ha aperto rapporti finanziari da oltre vent’anni. È stata coinvolta nella sottrazione di fondi pubblici della Nigeria ai tempi di Sani Abacha, nelle tangenti Elf, nel riciclaggio della Lavanderia russa, nel caso di corruzione della Pdvsa in Venezuela. E i conti si trovano in Suisse Secrets. Ma la vicenda processuale più recente, tuttora in corso, riguarda un narcos bulgaro in contatto con la cosca Bellocco condannato in Italia. 
  • Tra i politici che hanno aperto conti in Credit Suisse ci sono il re Abdullah II, gli Obiang della Guinea Equatoriale e diversi eredi di leader destituiti con le primavere arabe. Alcuni di questi conti sono del tutto sconosciuti alle autorità fiscali e dimostrano quanto disattenta sia stata la verifica sui clienti. 

#SuisseSecrets, il progetto

Suisse Secrets è un progetto di giornalismo collaborativo basato sui dati forniti da una fonte anonima al giornale tedesco Süddeutsche Zeitung. I dati sono stati condivisi con OCCRP e altri 48 media di tutto il mondo. IrpiMedia e La Stampa sono i partner italiani del progetto. 

Centocinquantadue giornalisti nei cinque continenti hanno rastrellato migliaia di dati bancari e intervistato decine di banchieri, legislatori, procuratori, esperti e accademici, e ottenuto centinaia di documenti giudiziari e finanziari. Il leak contiene più di 18mila conti bancari aperti dagli anni Quaranta fino all’ultima decade degli anni Duemila. In totale, lo scrigno è di oltre 88 miliardi di euro.

«Ritengo le leggi sul segreto bancario svizzero immorali – ha dichiarato la fonte ai giornalisti-. Il pretesto di proteggere la privacy finanziaria è semplicemente una foglia di fico che nasconde il vergognoso ruolo delle banche svizzere quali collaboratori degli evasori fiscali. Questa situazione facilita la corruzione e affama i Paesi in via di sviluppo che tanto dovrebbero ricevere i proventi delle tasse. Questi sono i Paesi che più hanno sofferto del ruolo di Robin Hood invertito della Svizzera».

Nel database di Suiss Secrets ci sono politici, faccendieri, trafficanti, funzionari pubblici accusati di aver sottratto denaro alle casse del loro Paese, uomini d’affari coinvolti in casi di corruzione, agenti di servizi segreti. Ci sono anche molti nomi sconosciuti alle cronache giudiziarie.

Agli italiani piace Credit Suisse

Sono poche le eccezioni in cui il segreto bancario può essere sospeso. Se lo richiede un tribunale svizzero, se lo richiede un tribunale straniero ma solo nel caso in cui il crimine presupposto sia riconosciuto in entrambi i Paesi (per esempio riciclaggio sì, mafia no) e, in ogni caso, solo se si conosce già il numero di conto bancario della persona indagata. Nel caso delle procure antimafia italiane, che sono ben coscienti di come una parte dei capitali delle mafie finiscano proprio in Svizzera, la collaborazione è da sempre problematica. 

«Le banche svizzere sono state e sono di importanza chiave per la ‘ndrangheta – spiega a IrpiMedia un inquirente che da anni cerca di tracciare i soldi dei clan – È un rapporto consolidato nel tempo, iniziato già dagli anni Ottanta con gli spalloni, che entrano in Svizzera con le borse piene di soldi». Nel 2009, immediatamente dopo una promessa di apertura da parte della Svizzera a marzo di quell’anno, la Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria ha chiesto al Paese elvetico di tracciare i soldi di un cittadino italiano sospettato di riciclaggio per la ‘Ndrangheta. L’autorità giudiziaria elvetica ha risposto però di poter agire solo se se si avevano in mano i numeri dei conti correnti, altrimenti la richiesta sarebbe stata una cosiddetta “ricerca generica”, non permessa. Oggi, grazie ai dati di Suisse Secrets, IrpiMedia può dimostrare come proprio Antonio Velardo, l’imprenditore indagato oltre 10 anni fa dai magistrati reggini, avesse vari conti in Credit Suisse rimasti al sicuro per tutti questi anni.

Sono poche le eccezioni in cui il segreto bancario può essere sospeso. Se lo richiede un tribunale svizzero, se lo richiede un tribunale straniero ma solo nel caso in cui il crimine presupposto sia riconosciuto in entrambi i Paesi

Credit Suisse, con la Calabria, ha avuto – seppur fugacemente – uno strettissimo legame. Nel 2004 infatti, grazie all’acquisizione del giocatore giapponese Shunsuke Nakamura, l’allora presidente Pasquale Foti riesce a strappare alla filiale di Hong Kong la sponsorizzazione della Reggina Calcio. Con tanto di magliette con il logo “CS” portate dai giocatori dell’allora serie A.

Ma calcio a parte, sono almeno 700 gli italiani che hanno scelto di portare i propri soldi in Credit Suisse. I nomi che si ritrovano non sono particolarmente famosi, ma rivelano uno schema: sono quasi tutti residenti o domiciliati all’estero, in alcuni casi per davvero – come nel caso degli italiani che operano nel settore petrolifero o minerario e legname in Africa, o nel gaming in Asia, – in altri solo perché fiscalmente più conveniente.

I correntisti italiani più ricchi

I Paesi dove sono domiciliati i correntisti italiani più ricchi

I venezuel(itali)ani

Tra gli italiani domiciliati all’estero, quasi un terzo abita in Venezuela. Tra loro, anche Valentin Josè Bagarella Gleim che in Credit Suisse ha avuto 14 milioni di euro: un immobiliarista che assieme al petroliere italo-venezuelano Josè Francisco Arata possiede un borgo-castello in Toscana come ha già svelato IrpiMedia nell'inchiesta #OpenLux. 

Ma il più facoltoso tra i correntisti “venezuelani” è Mario Merello, imprenditore noto alle cronache rosa per essere il marito della cantante Marcella Bella e per le sue frequentazioni del mondo delle showbusiness, i cui patrimoni all’estero sono noti dal 2009 grazie alla lista Pessina. Secondo l’accusa, Merello era a capo di un’associazione per delinquere che tra il 2000 e il 2009 avrebbe frodato al fisco circa 450 milioni di euro. Creava società offshore a cui faceva emettere fatture per consulenze, polizze assicurative e prestazioni mai effettuate. Con questo castello di carte, spostava il denaro oltreconfine e abbatteva l’imponibile delle imprese.  Tra i dati di Suisse Secrets, emergono 13 conti - oggi tutti chiusi - che sommati hanno avuto un patrimonio massimo di oltre 24 milioni di euro. 

Alcuni patrimoni degli italiani in Svizzera sono stati dichiarati al fisco a fronte di ampi sconti su sanzioni e potenziali procedimenti penali, attraverso strumenti come la voluntary disclosure e lo scudo fiscale, in particolare negli anni tra il 2009 e il 2015. Mario Merello è stato tra quelli che sono riusciti ad aggirare lo scudo: con una mano faceva rientrare una parte dei capitali, con l’altra ne manteneva una parte offshore, trasformata in quote di una società schermata da un trust. Anche volendo utilizzare i dati dello scudo fiscale, nessuno sarebbe riuscito a individuare il beneficiario effettivo.

Nei casi in cui è stato possibile approfondire le informazioni ricevute con le autodichiarazioni, gli inquirenti si sono ritrovati di fronte non solo a conti cifrati ma anche a polizze assicurative trasformate in conti deposito nei quali investire e prelevare esentasse, in qualche paradiso offshore. Le hanno definite “polizze mantello”, come vedremo nei prossimi capitoli di questa inchiesta.

Vent’anni di scandali 

«La cultura del malaffare è radicata in profondità in Credit Suisse», spiega un ex banchiere Credit Suisse basato a Zurigo e che ha accettato di parlare anonimamente con il team di Suisse Secrets. «Le regole sono semplici. Il dipartimento di compliance della banca è maestro nella negazione plausibile (cioè nel dichiararsi estraneo a misfatti commessi da terzi sotto i suoi occhi, ndr): non si appunta nulla che potrebbe esporre un conto corrente non in regola e non si chiede mai nulla di cui non si vuole sapere la risposta. E certamente, non si scava a fondo».

Secondo questa e altre fonti, Credit Suisse non solo accettava, ma incoraggiava i propri dipendenti a fornire servizi a clienti con fondi di dubbia provenienza. In questi casi, spiega l’ex banchiere, i conti erano gestiti direttamente dalla direzione della banca, i conti più ricchi e al tempo stesso più a rischio erano «isolati e gestiti dagli alti dirigenti».

I conti più ricchi e al tempo stesso più a rischio, racconta una fonte che vuole restare anonima per ragioni di sicurezza, «non passano attraverso il normale processo di apertura di un conto bancario. Accedono ad un sistema separato, la loro documentazione è tenuta a parte, in cartelle che non accessibili al sistema standard. Solo i dirigenti sono a conoscenza di questi conti»

Sono vent’anni che Credit Suisse è costretta a rispondere ad autorità giudiziarie che la accusano a vario titolo di non aver fatto le verifiche necessarie sui propri clienti, favorendo di fatto dei reati finanziari: riciclaggio, corruzione, appropriazione indebita, peculato. 

Il primo scandalo della banca risale al 2000: il dittatore nigeriano, il generale Sani Abacha, era morto da due anni. È allora che viene a galla come Credit Suisse abbia aiutato Abacha a nascondere almeno 200 milioni di dollari che gli Abacha avevano sottratto al proprio Paese. Per cercare di tamponare lo scandalo, l’amministratore delegato dell’epoca nel 2000 dichiarò che la banca aveva «continuamente migliorato le proprie procedure di controllo e compliance».

Credit Suisse ha anche aderito, l’anno successivo, all’associazione di 13 banche internazionali che promuove gli standard dell’industria finanziaria, le politiche di verifica del cliente e il contrasto al riciclaggio, il Wolfsberg Group. Le banche si impegnano ad accettare «solo clienti di cui l’origine della ricchezza possa essere tracciata come legittima».Eppure da allora gli scandali in cui è stata coinvolta Credit Suisse sono innumerevoli.

Gli ultimi vent’anni di Credit Suisse

La banca, spesso insieme ad altri istituti di credito elvetici, è stata al centro di contenziosi giudiziari in tutto il mondo

Sempre nel 2001 viene a galla un importante caso di corruzione legato all’azienda petrolifera pubblica francese Elf. Secondo la procura francese, tra il 1989 e il 1993, alcuni dirigenti della società si sono appropriati di oltre 300 milioni di euro della società per pagare tangenti a politici in Francia e in diversi Paesi africani dove la compagnia petrolifera doveva acquisire licenze, ville private, gioielli e altri beni di lusso. È stato uno dei peggiori scandali politico-finanziari del dopoguerra.

Tra i politici che hanno potuto approfittare delle prebende dei manager, c’è stato anche l’ex ministro dell’Interno Charles Pasqua: un politico di lunghissimo corso scomparso nel 2015 lasciandosi dietro un alone di mistero. È stato infatti il protettore politico di Robert Feliciaggi, “Bob l’Africano”, uomo d’affari corso e politico dell’Assemblea nazionale con lo stesso partito di Pasqua, ucciso nel 2006 all’aeroporto di Ajaccio. Anche lui fu implicato nel caso Elf e in altre vicende giudiziarie in cui è stato coinvolto anche il suo socio Michel Tomi, «il padrino dei padrini» della Corsica. Il nipote di Feliciaggi, Romain, da quando è un adolescente è titolare di un conto corrente milionario in Credit Suisse, che dai dati di Suisse Secrets risulta ancora aperto. 

Nel 2009 la banca viene multata dagli Stati Uniti per 536 milioni di dollari per non avere rispettato le sanzioni e avere gestito fondi di individui e aziende provenienti da Iran, Sudan e altri Paesi sulla lista nera delle sanzioni USA. Il procuratore generale Eric Holder all’epoca disse che «l’ampiezza e la complessità dell’atteggiamento criminale di Credit Suisse in questo caso è semplicemente sconvolgente».

Nel 2011 comincia l’odissea dei soldi in Svizzera di Sergey Magnitsky,  l’avvocato russo che ha svelato una devastante frode fiscale da 230 milioni di dollari, in parte dirottati in Svizzera, morendo poi misteriosamente in carcere nel 2009. Dei 18 milioni di franchi inizialmente sequestrati da una procura svizzera a seguito delle indagini per riciclaggio, nove erano in Credit Suisse. La vicenda, dieci anni dopo, è stata archiviata.

Nel 2009 la banca viene multata dagli Stati Uniti per 536 milioni di dollari per non avere rispettato le sanzioni e avere gestito fondi di individui e aziende provenienti da Iran, Sudan e altri Paesi sulla lista nera delle sanzioni USA

Nel 2014, la banca patteggia per avere aiutato cittadini americani ad evadere il fisco, con tanto di false dichiarazioni dei redditi, venendo multata 2,6 miliardi di dollari. Due anni dopo, viene accusata di riciclare soldi di mazzette di funzionari della Petróleos de Venezuela, S.A (PDVSA), l’azienda petrolifera di stato. Si parla di miliardi di fondi pubblici distratti e poi reinvestiti nell’immobiliare in Florida. 

Nel 2017, altri due scandali. Da una parte fondi pubblici rubati dal primo ministro della Malesia, Najib Razak, e riciclati a Singapore. Dall’altra 160 milioni di franchi sequestrati all’allora CEO del Banco Espirito Santo in Angola, accusato di frode miliardaria basata su prestiti senza garanzie. Come se non bastasse, sull’altra costa del continente africano, tre bancari di Credit Suisse in Mozambico vengono arrestati per distrazione di fondi del Fondo Monetario Internazionale che Credit Suisse doveva girare al governo mozambicano per finanziare la costruzione di un impianto di allevamento del tonno.

Nel 2018 finirà in carcere con una sentenza di cinque anni Patrice Lescaurdon, relationship manager - una sorta di consulente dei clienti - di Credit Suisse. Lavorava in particolare con i clienti dalla Russia e da Paesi confinanti. Il tribunale di Ginevra ha stabilito che la banca dovesse restituire 120 milioni di dollari a diversi clienti frodati dall’ex manager. L’uomo si è poi tolto la vita nell’agosto 2020 poco dopo la sua scarcerazione anticipata, riporta il Financial Times.

Conti globali

La distribuzione per macro-aree degli oltre 30.000 correntisti

Non ultimo poi, nel 2019, lo scandalo vaticano. Ben 242 milioni di euro di fondi dell’Obolo di San Pietro - che servono per le opere pie - vengono spesi dal cardinale Becciu, firmatario del conto della Segreteria di Stato presso Credit Suisse, in investimenti immobiliari di lusso a Londra. In uno scambio con i giornalisti del consorzio, Raffaele Mincione, uno dei broker che ha partecipato all’investimento, ha spiegato tramite i suoi avvocati che il suo fondo è stato coinvolto direttamente da Credit Suisse e che «non fu fatta menzione né della provenienza dei fondi dal Vaticano, né dello scopo dei fondi investiti». 

Nel 2020 poi, una procura svizzera ha aperto un fascicolo su un caso di riciclaggio milionario da parte di un gruppo di narcos bulgari e italiani guidati da Evelin Banev. Tra i suoi clienti c’era anche la costola piemontese della cosca Bellocco. «Una decina di alti dirigenti del Credit Suisse, così come il suo dipartimento legale, era a conoscenza del fatto che un gruppo di clienti erano criminali trafficanti di droga, ma hanno approvato milioni di euro di transazioni per loro prima di congelare i loro conti», riporta il Financial Times

«Alla banca piace dire che è solo questione di alcuni bancari delinquenti - ha detto Jeff Neiman, l’avvocato americano che difende diversi whistleblower di Credit Suisse - ma quanti bancari delinquenti servono prima che si possa dire che è delinquente la banca stessa?» Neiman non rappresenta la fonte all’origine del leak di Suisse Secrets. Rappresenta però l’ex dipendente  che a novembre ha raccontato a un tribunale statunitense come Credit Suisse abbia continuato ad aiutare clienti americani a nascondere illecitamente milioni di dollari offshore, in paradisi fiscali

Se confermato, questa sarebbe una violazione della promessa che nel 2014 la banca aveva fatto alla giustizia americana, nel patteggiamento delle accuse dell’epoca. Attualmente, la commissione finanza del Senato sta indagando.

Grazie al leak di Suisse Secrets emergono i nomi di una serie di correntisti che fanno scattare l’allerta rispetto alle procedure di due-diligence (valutazione della clientela) seguite dalla banca negli anni passati

Conti ad alto rischio

Grazie al leak di Suisse Secrets emergono i nomi di una serie di correntisti che fanno scattare l’allerta rispetto alle procedure di due-diligence (valutazione della clientela) seguite dalla banca negli anni passati. Questi conti non sono emersi in scandali precedenti. Sono rimasti protetti dentro la “gestione separata” di cui erano a conoscenza solo i dirigenti della banca. È il caso del conto dell’ex capo dei servizi segreti venezuelani, Carlos Luis Aguilera Borjas, che dopo avere servito Hugo Chávez per un anno ha lasciato la posizione governativa entrando nel mondo degli affari e accumulando una ricchezza che pochissimi venezuelani possono anche solo immaginare.

Nel 2007, si assicura un contratto senza gara per rinnovare la metro di Caracas guadagnando, come commissione, 90 milioni di dollari. I dettagli dell’accordo emergono in una nota interna di CBH, una banca svizzera dove Aguilera aveva aperto un conto nel 2011. Nella nota, la banca lo descrive come «un cliente di qualità, che non rappresenta un rischio di livello per la banca».

Credit Suisse sembra essere giunta alla stessa valutazione, poiché sempre nel 2011 l’istituto di credito ha aperto due conti su cui sono stati versati almeno otto milioni di euro e che risulterebbero tuttora attivi. 

Un soggetto come Aguilera Borjas «è per definizione ad alto rischio» ha commentato Graham Barrow, esperto di crimini finanziari e compliance bancaria. Che ha aggiunto come le banche siano responsabili di assicurarsi che l’origine dei soldi di persone politicamente connesse sia legittima.

«Non dovrebbero poter accedere al sistema bancario se portano soldi sporchi. La gente del venezuela e di altri luoghi resterà povera, se le élite continueranno a distrarre risorse», ha aggiunto.

Un whistleblower, e che ha lavorato nella filiale di Zurigo, ricorda come la direzione spingesse i bancari a cercare rapporti con clienti “ad alto rischio”. «La direzione incentivava l’offrire servizi per soldi la cui origine era dubbia, mettendo pressione ai bancari, soprattutto i più giovani, per mantenere conti tossici. O si sarebbero pagate le conseguenze, che erano licenziamento o blocco dell’aumento dello stipendio».

Aguilera era in ottima compagnia. Infatti, i dati di Suisse Secrets mostrano una serie di altri clienti “ad alto rischio” in mezzo mondo. Un funzionario dell’intelligence egiziana che ha torturato persone sospettate di terrorismo dalla C.I.A., un dirigente della multinazionale tedesca Siemens che ha corrotto ufficiali nigeriani, il re di Giordania Abdullah II che aveva - con la regina e i figli - sette conti milionari in Credit Suisse, di cui uno che è arrivato a valere oltre 200 milioni di euro. II re è stato al centro di proteste che lo accusavano di essere un cleptocrate. Il re Abdullah II ha risposto alle domande dei giornalisti del consorzio dicendo che questi conti in Credit Suisse contengono ricchezze personali guadagnate fuori dalla Giordania e pertanto non soggette a tassazione in Giordania.

Un whistleblower, e che ha lavorato nella filiale di Zurigo, ricorda come la direzione spingesse i bancari a cercare rapporti con clienti “ad alto rischio”

Accanto ad Abdullah II, c’è anche la famiglia presidenziale della Guinea Equatoriale - largamente criticata per avere sottratto ricchezze a uno dei popoli più poveri della terra. Il dittatore Teodoro Obiang Nguema non mostra compassione: «Il petrolio della Guinea Equatoriale appartiene a me e alla mia famiglia», disse all’inizio degli anni Novanta, poco dopo che le compagnie petrolifere americane scoprirono i primi giacimenti del Paese.

Gli Obiang risultano avere un conto in Credit Suisse, intestato alla moglie del dittatore e ai due figli gemelli. Dentro pochi soldi, il picco massimo è di 700mila euro, ma secondo il partner Diario Rombre questa è una traccia importante: oltre a quella liquidità, potrebbero contenere metalli preziosi, polizze assicurative o addirittura criptovalute.

Affinché la verifica fiscale di un conto offshore possa portare qualche risultato, però, al di là dei nominativi dei proprietari, le autorità devono ripercorrere tutte le tappe della presunta fuga di capitali. Il conto corrente “segreto” potrebbe essere solo la prima. Come è accaduto per gli altri leak, fin dal 1932, la lista di Suisse Secrets sarà solo l’inizio della prossima battaglia fiscale.

CREDITI

Autori

Cecilia Anesi
Lorenzo Bagnoli
Gianluca Paolucci

Editing

Giulio Rubino

In partnership con

Occrp
Süddeutsche Zeitung

Infografiche

Lorenzo Bodrero

Foto di copertina

Richard Levine/Corbis via Getty Images