Guerre portuali: lo scontro Stati Uniti-Cina
3 Ottobre 2020 | di Lorenzo Bodrero
L’Italia è ormai terreno di scontro tra Cina e Stati Uniti. Le posizioni sempre più distanti dei due colossi mondiali sono ancora più evidenti nel nostro Paese, considerato dai primi come canale ideale per collegare i terminali asiatici della Nuova via della seta con quelli europei, e dai secondi quale alleato storico e dunque troppo importante per cedere alle avances cinesi. In mezzo alle due posizioni, l’Unione Europea: «La Cina rappresenta un partner, un alleato commerciale con cui trovare un equilibrio di interessi» ma anche un «competitor economico» oltre che, ammoniva la Commissione a marzo 2019, un «rivale sistemico che promuove modelli di governance alternativi» ai nostri.
Il 30 settembre il segretario di Stato Mike Pompeo è stato in visita a palazzo Chigi proprio per rinsaldare la storica alleanza Italia-Usa e ricordare a Roma da quale parte stare. Diversi i temi sul tavolo degli incontri con il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il ministro degli Esteri Luigi di Maio, tra cui soprattutto la necessità di non cedere alle pressioni di Huawei, la tech giant cinese, come fornitore della tecnologia 5G in Italia, infrastruttura da cui passeranno dati sensibili della telefonia mobile. Dall’Italia c’è stata comunque la rassicurazione che «la sicurezza è una priorità assoluta». Il riferimento è al decreto del 7 agosto in cui il consiglio dei ministri stabilisce che la tutela della sicurezza nazionale della rete sarà totalmente delegata a Tim, rendendo di fatto più complicata – seppur non impossibile – la scalata di Huawei e Zte come provider dell’infrastruttura italiana.
Il porto di Taranto sotto la lente
Ma nel taccuino di Pompeo in visita a Roma non c’erano solo le infrastrutture digitali. Infatti, l’altro fronte caldo dell’avanzata cinese nel Belpaese sono i porti, con quello di Taranto che più di altri preoccupa gli Usa per gli interessi del colosso cinese COSCO che dello scalo pugliese vorrebbe fare una tappa lungo la Nuova via della seta.
La Nuova via della seta, cos'è?
Era il 2013 quando il presidente cinese Xi Jinping, dalla celebre città di Samarcanda in Uzbekistan, annunciava per la prima volta al mondo un ambizioso piano di investimenti globali in infrastrutture chiamato Yi Dai Yi Lu (一带一路)), “un nastro, una via”. Tradotto in inglese con “Belt and Road Initiative”, e mutato in italiano in la Nuova via della seta, il progetto cinese punta ad aumentare i collegamenti commerciali tra la Repubblica Popolare e l’Europa con investimenti per 900 miliardi di dollari in porti, ferrovie, strade e centrali energetiche.
La Nuova via della seta è composta da due direttrici: una terrestre, che percorre l’Asia centrale per approdare in Germania, e una marittima, dall’Oceano indiano fino all’Africa, proseguendo poi verso il canale di Suez e la Grecia per concludersi sulle coste italiane. I porti di Venezia, Trieste e Genova, storicamente legati ai commerci con l’Oriente, rappresentano snodi cruciali per la seconda direttrice.
L’Italia ha aderito ufficiosamente alla trattativa nel maggio 2017 quando l’allora premier Paolo Gentiloni ha partecipato al primo Belt and Road Forum a Pechino come unico leader dei Paesi del G7.
Da allora, la pressione Usa verso l’Italia si è intensificata, volta a persuadere il nostro Paese a non cedere agli investimenti cinesi, in particolare per quanto riguarda le infrastrutture digitali (5G) e marittime (porti). L’Unione europea ha più volte ribadito la necessità per i Paesi membri di agire verso la Cina con politiche comuni e di evitare iniziative personali. Particolarmente rigide, nei confronti della Cina, sono le posizioni di Germania, Francia e Regno Unito.
L’accordo con l’Italia è diventato ufficiale nel marzo 2019 durante l’incontro tra il ministro dell’interno italiano, Giuseppe Conte, e il presidente della Repubblica popolare cinese, Xi Jinping con la firma del memorandum d’intesa tra Italia e Cina sul progetto.
Con le firme sul memorandum d’intesa Italia-Cina messe a marzo 2019 durante la visita in Italia del presidente Xi Jinping, venivano citati i sei hub portuali giudicati strategici per la partnership tra i due Paesi. Da allora il dialogo già in corso tra società cinesi e autorità portuali italiane si è intensificato, con tentativi falliti, riusciti solo in parte oppure mai decollati. E al momento l’attenzione è tutta sul porto di Taranto.
Due anni è fa stata affidata alla turca Yilport Holding la gestione del terminal container del porto pugliese per i prossimi 49 anni. Il 23 agosto, però, il Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, riprendendo un’informativa dei servizi segreti italiani, ha rivelato che la società turca è in società con la cinese COSCO per la gestione della banchina, inutilizzata per cinque anni e ora di nuovo in moto. Questo elemento non era stato reso pubblico dalle parti in causa, circostanza che ha fatto scattare forti preoccupazioni nella nostra intelligence.
La China Ocean Shipping Company (COSCO) è la più grande società di spedizioni al mondo, la terza per portacontainer e il quinto operatore portuale a livello globale, nonché il primo investitore cinese nei porti del Mediterraneo. Un colosso dei mari – dietro solo agli storici rivali Maersk e Mediterranean Shipping Company (MSC) – le cui quote di maggioranza sono distribuite tra il Partito Comunista Cinese e la Sasac, la commissione che amministra e supervisiona le società pubbliche cinesi, rendendo di fatto la COSCO una società pubblica.
Sul molo di Taranto, lungo quasi due chilometri, si gioca molto della partita cinese ma anche il futuro di una città messa in ginocchio dal caso Ilva. La ripresa delle attività è funzionale non solo alle mire cinesi su uno dei più importanti, per posizione geografica, porti del Mediterraneo ma anche per l’Italia nell’ottica di una ripresa occupazionale dell’area. Di quanto gli investimenti su Taranto siano importanti per tamponare l’emorragia di lavoratori (cinquemila dipendenti dell’Ilva su 8.200 sono in cassa integrazione) lo dimostrano le parole del presidente di Confindustria Taranto, Antonio Marinaro, riportate sulle colonne di Repubblica il 27 settembre: «La città ha bisogno di investimenti e di lavoro. Non ci possiamo permettere di soffermarci sulla provenienza degli investitori. Ma sulla loro serietà».
Le quote in mano a società cinesi nei terminal d’Europa e del Mediterraneo
I timori americani circa il futuro dello scalo pugliese sono inoltre giustificati dalla presenza a Taranto di un’importante base navale italiana, utilizzata anche come rampa di lancio per le missioni Usa e Nato verso Nord Africa e Medio Oriente. Inoltre, sul porto pugliese è in corso la partita che vede il Gruppo Ferretti – tra i leader degli yacht di lusso e ora controllato all’85% dal colosso industriale cinese Weichai – puntare alla costruzione, in un’area di 200mila metri quadrati, di un avveniristico cantiere navale e di un centro di ricerca.
Proprio per la convergenza di questi fattori, alle preoccupazioni americane si sono aggiunte quelle del Copasir secondo cui a Taranto «la situazione, così come tratteggiata, può rappresentare un problema per la sicurezza nazionale». Lo stesso tema battuto da Pompeo.
Ma cosa c’è dietro i timori americani e la prudenza europea, condivisi da una buona fetta della politica e dell’opinione pubblica italiana? Lo scenario da evitare, per i detrattori del dialogo Italia-Cina, è la perdita di autonomia politica a seguito di una sempre più profonda penetrazione cinese nel tessuto economico italiano, specie quando gli investimenti sono diretti a settori strategici, come quelli dei porti e delle telecomunicazioni. Per capire quanto fondate siano tali preoccupazioni è utile osservare il caso del porto del Pireo, unico – al momento – snodo marittimo europeo in cui una società cinese detiene il controllo dell’intera autorità portuale, e le conseguenze che ha prodotto.
Una risposta la offre il report European seaports and Chinese strategic influence di Clingendael, istituto olandese di relazioni internazionali finanziato prevalentemente dai ministri degli esteri e della difesa dei Paesi Bassi. Lo scorso dicembre ha pubblicato un’analisi su se e quali conseguenze politiche possano scaturire da ingenti investimenti cinesi nel settore portuale (vedi box di approfondimento). Secondo i ricercatori olandesi, proprio per gli investimenti nel Pireo (800 milioni di euro dal 2009 a oggi) «è ragionevole pensare che la Grecia sia disposta a mostrare sempre maggiore indulgenza verso gli interessi cinesi», soprattutto a fronte di ulteriori investimenti della COSCO in arrivo a breve termine. Nel 2017, il Paese ellenico è stato l’unico a opporsi a una dichiarazione congiunta della Ue presso le Nazioni Unite contro le violazioni dei diritti umani perpetrate dalla Cina. Lo stesso anno, la Grecia si è opposta alla stesura di linee guida più stringenti circa gli investimenti da Paesi terzi, cinesi in primis. E a Bruxelles osservano con preoccupazione l’adesione della Grecia alla piattaforma “16+1”, la quale promuove rapporti economici e diplomatici tra la Cina e i Paesi dell’Europa centro-orientale.
La conclusione del think tank olandese non è però univoca. L’influenza politica cinese verso la Grecia «è sì rilevante ma non abbastanza per dettarne l’agenda», riassume a IrpiMedia Frans-Paul van der Putten, autore dello studio; che però sottolinea come «la chiave per esercitarla [l’influenza, ndr] non sono tanto gli investimenti in sé, quanto invece la possibilità di direzionare il traffico di container verso quei porti in cui le società cinesi detengono delle quote». Avere infatti sotto controllo l’intera filiera della distribuzione, garantisce a COSCO un indubbio vantaggio economico sui suoi competitor, tanto in termini di abbattimento di costi, quanto di potenzialità di espansione.
Il caso del Pireo: rischio o opportunità?
In quanto azienda di Stato, «gli interessi di COSCO e del partito comunista cinese coincidono ed è presumibile che questi includano lo sviluppo della società in un player di primo piano nel settore della logistica a livello mondiale», si legge nel report European seaports and Chinese strategic influence dell’istituto olandese di relazioni internazionali, Clingendael. A oggi, il risultato sembra raggiunto, e non solo grazie a COSCO. Una ricerca di IrpiMedia mostra come sono almeno 22 i terminal e le autorità portuali in Europa e nel Mediterraneo in cui tre delle principali società navali cinesi (COSCO, CMPort e Qingdao Port International) detengono quote rilevanti.
Nella sola Europa, COSCO detiene quote di minoranza nei porti di Rotterdam (Olanda), Las Palmas (Spagna) e Anversa (Belgio) e, oltre al Pireo, quote di maggioranza nei terminal di Valencia e Bilbao (Spagna) e Zeebrugge (Belgio). Il 99% della tratta Asia-Europa è dominato da tre conglomerati, scrivono i ricercatori olandesi, uno dei quali è la Ocean Alliance che controlla il 36% del settore dei portacontainer. La COSCO detiene quote maggioritarie nella Ocean Alliance e può quindi spingere il traffico navale verso quei porti in cui ha degli interessi. Ad oggi è il principale investitore cinese nei porti europei, dove gestisce circa l’11% del volume di container movimentati.
La COSCO è attiva nel Pireo già dal 2009 quando la China Investments Bank le garantì un prestito di 215 milioni di euro per investimenti nel solo porto greco. Da allora ha allargato il terminal 2 e costruito da zero il terminal 3. Nel 2014, la società annunciava inoltre «il lancio di un trasporto intermodale ferrovia-mare così da far diventare il terminal la porta d’ingresso nell’Europa meridionale». È infatti in corso di realizzazione la Land-Sea Express Route (LSER), una linea ferroviaria che intende diventare il più efficiente vettore di collegamento tra le linee marittime cinesi e il cuore dell’Europa, collegando su rotaia Pireo con Amburgo. La Cina è inoltre in procinto di chiudere diversi accordi lungo la direttrice che attraversa la Macedonia del Nord, la Serbia, l’Ungheria, l’Austria, la Slovacchia e la Repubblica Ceca fino alla Germania. Lo scorso maggio, ad esempio, il parlamento ungherese ha approvato l’ammodernamento della linea ferroviaria che collega Budapest a Belgrado sulla base di un finanziamento all’Ungheria da parte della Import-Export Bank of China.
Di quanto il Pireo sia funzionale alla realizzazione della via marittima lo certificano i numeri. A oggi, secondo Clingendael, la COSCO ha investito 800 milioni di euro nel porto greco, un decimo del budget totale destinato alla realizzazione dell’intera via della seta.
Non c’è dubbio che gli investimenti di COSCO nel Pireo abbiano beneficiato entrambe le parti. Tra il 2007 e il 2017, scrivono i ricercatori olandesi, il volume del traffico di container è cresciuto del 200%, portando il porto greco al sesto posto a livello europeo per dimensioni. Nel 2017 la società ha registrato 17 milioni di euro di utili e le previsioni per il futuro sono ancora in crescita: nel 2021 – come da accordi contrattuali – COSCO avrà il diritto di acquistare un ulteriore 16% delle quote in mano all’Autorità portuale del Pireo (APP) per 88 milioni di euro, con la garanzia che la stessa Autorità ne investirà altri 294 milioni per l’ammodernamento del porto. E i due Paesi di recente hanno rilanciato la posta in gioco. Lo scorso novembre il primo ministro greco Kyriakos Mītsotakīs e il presidente cinese Xi Jinping hanno annunciato l’avvio di 16 accordi commerciali, comprensivi di investimenti per 600 milioni di euro nel porto del Pireo da parte di COSCO, con l’obiettivo di farlo diventare il porto commerciale più grande d’Europa.
È dunque ragionevole pensare che il governo greco, si legge nel report del Clingendael, diventi sempre più predisposto a «mostrare indulgenza verso gli interessi cinesi» . Tale “dipendenza” economica si è già tramutata in scelte politiche. Nel 2017 il Paese ellenico è stato l’unico a bloccare una risoluzione della Ue critica nei confronti della Cina e destinata al Consiglio dei diritti umani dell’Onu. Sempre nel 2017 si è opposto alla stesura di linee guida per controlli più severi verso gli investimenti provenienti da Paesi terzi. E a Bruxelles non è certo passata inosservata l’adesione della Grecia alla piattaforma “16+1”, la quale promuove rapporti economici e diplomatici tra la Cina e i Paesi dell’Europa centro-orientale, e considerata da molti Paesi occidentali una minaccia per l’unità comunitaria.
Tuttavia, il report del think tank olandese conclude che la stessa influenza politica nei confronti della Grecia è importante ma non abbastanza per dettarne l’agenda. Dall’altro lato, però, «la chiave per esercitarla non sono tanto gli investimenti quanto invece la possibilità di direzionare il traffico di container verso la Grecia», conclude van der Putten. In quest’ottica, controllare sia i porti sia i portacontainer è un vantaggio non da poco, specie in un mercato particolarmente concentrato.
di Lorenzo Bodrero
Al momento, tuttavia, le aziende di Stato cinesi gestiscono una porzione ridotta, circa l’11%, dei cargo in entrata e in uscita dall’Unione europea. Le partecipazioni cinesi nei porti europei negli ultimi tredici anni sono però aumentate in modo netto, dall’1% del 2007 al 10% nel 2019. Una crescita testimoniata dall’acquisizione di quote rilevanti in quattro dei principali snodi marittimi europei: due nel Mediterraneo (il Pireo in Grecia e Valencia in Spagna) e due in Nord Europa (Rotterdam nei Paesi Bassi e Zeebrugge in Belgio).
La mano cinese sui porti italiani
I giganti del mare cinesi hanno dimostrato interessi significativi verso i porti italiani. C’è un limite però alla possibilità di penetrazione degli investimenti di Paesi terzi nei nostri porti. Le autorità portuali infatti non possono finire, per legge, in mani private. Sono una diretta emanazione del Ministero dei trasporti anche se di fatto si limitano a coordinare quei soggetti imprenditoriali deputati alle attività e agli investimenti (banchine, terminal, cantieri ecc.).
Proprio con la COSCO ha da pochi mesi preso il via il terminal Vado Gateway di Vado Ligure. La società cinese detiene il 40% della neonata Apm Terminals Vado Ligure Spa, il 9,9% appartiene al porto di cinese di Qingdao, mentre la quota di maggioranza del 50,1% è in mano alla casa madre olandese, Apm Terminals. Possedere quote di minoranza, seppur rilevanti, in un terminal cargo è ben altra cosa dal detenere la proprietà di un’autorità portuale come nel caso del Pireo. In Grecia, COSCO, aveva però cominciato proprio così quando tra il 2009 e il 2016, prima di perfezionare l’acquisto dell’autorità, aveva già investito centinaia di milioni di euro nel terminal 2 e completato la costruzione del terminal 3.
Su Trieste, invece, la Cina ha subìto un brusco arresto. Alla vigilia della visita di Mike Pompeo in Italia, l’Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Orientale ha infatti chiuso un accordo con cui entro fine anno la tedesca HHLA diventerà prima azionista della Piattaforma logistica dello scalo friulano, chiudendo di fatto le porte ai colossi cinesi CMPort e Cccc. Detto di Taranto, la COSCO si è invece ritirata dal porto di Napoli quattro anni fa, cedendo a MSC le quote detenute nella società che gestiva due terminal container, probabilmente per fare cassa e sferrare il decisivo assalto all’autorità portuale del Pireo avvenuto un mese più tardi. E se a Venezia i rapporti con la Cina sono in stallo e a Genova la COSCO è presente già dal 1963, il porto di Ravenna due anni fa è diventato la sede europea della cinese Cmit, società di proprietà dell’azienda di stato cinese CMPort.
Un Pireo cinese in Italia è però possibile? «In termini di proprietà, come quella detenuta nell’Autorità portuale del porto greco, è difficilmente realizzabile per i costi che investimenti simili comporterebbero», spiega van der Putten. «La loro strategia è creare alternative alla supremazia dei porti europei più importanti, investendo in piccole realtà per farle diventare di medie dimensioni oppure investire in quelle più grandi perché mantengano un forte legame commerciale con la Cina». Resta da decidere, isolandosi dai proclami Usa e coinvolgendo altri Paesi Ue, se e come affidare parte della ripresa economica agli investimenti cinesi.
Sul fronte europeo, infatti, il dialogo con la Cina non registra passi avanti, bloccato com’è in uno stallo che da un lato scontenta entrambe le parti e dall’altro rinsalda l’oltranzismo americano. Nell’ultimo summit Ue-China dello scorso 14 settembre, infatti, «le relazioni tra i due blocchi hanno raggiunto i minimi termini», analizza Bruegel, il think tank europeo su economia e politica di base in Belgio. Rivolgendosi alla cancelliera tedesca Angela Merkel, al presidente del Consiglio europeo Charles Michel e alla presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, il presidente cinese Xi Jinping ha richiesto di non interferire negli affari interni cinesi (le repressioni nel Xinjiang e a Hong Kong) e ha aperto uno spiraglio all’aumento delle importazioni europee in Cina, concessione quest’ultima, giudicata altamente insufficiente rispetto all’obiettivo di maggiori aperture sul mercato orientale per le aziende europee. «Viene da chiedersi perché sia stato organizzato un incontro simile, considerata la distanza delle posizioni delle due parti, e se un simile meeting sia da considerarsi un “summit”, vista la pochezza dei risultati raggiunti», concludono gli analisti belgi.
Foto: il molo polisettoriale del porto di Taranto/port.taranto.it | Editing: Lorenzo Bagnoli, Giulio Rubino | Ha collaborato: Silvia Pittoni