Le pubblicità fanno leva sull’emozione e le vittime sono il più delle volte già state bersaglio di altre truffe: ecco perché questo sistema è tanto difficile da interrompere
Frodi e bitcoin: la rete delle finte pubblicità con i vip della tv
#FraudFactory
Lorenzo Bagnoli
Lorenzo Bodrero
Almeno dal 2017 personaggi famosi, in Italia e nel mondo, trovano i loro volti su siti e banner pubblicitari tutti uguali, sempre associati a miracolosi “robot degli investimenti in bitcoin” in grado di far diventare milionario anche un novellino del trading. Un’opportunità di cui approfittare al più presto, «prima che le grandi banche la blocchino per sempre», è l’invito standard dei vari vip (tutti accomunati dal «parlare senza peli sulla lingua», recitano sempre i messaggi pubblicitari). Questi robot che investono in automatico si chiamano “bitcoin code”, “bitcoin future”, “bitcoin era”, “bitcoin revolution”, “bitcoin evolution” e via di seguito.
Sul piano legale, le loro pubblicità, inserite in sedicenti “articoli”, provocano un triplice danno: primo, nessuno ha mai chiesto l’autorizzazione ai vip in questione per usare la loro immagine; secondo, quei siti propongono dei prodotti altamente sconsigliati dalle autorità che regolamentano le Borse, a volte definiti delle truffe in piena regola; terzo, è falso, a differenza di quanto asserito nelle pubblicità, che i programmi di Rai e Mediaset e vari altri canali televisivi italiani abbiano dato spazio a queste notizie o interviste.
Le fake news si trovano a volte inserite all’interno di pagine internet conosciute, come contenuto “ospitato”. Altre volte in siti che graficamente ricordano portali di notizie e testate giornalistiche registrate, ma che in realtà rispondono a un indirizzo internet leggermente modificato (come, ad esempio, www.tgcom247.com). Queste pagine servono a raggirare utenti che nel caso migliore cedono a queste piattaforme i propri dati, in quello peggiore i propri soldi. Il risultato è una colossale truffa che continua a mietere vittime che si fanno abbindolare dalle promesse di un volto noto che assicura sull’affidabilità di strumenti finanziari oscuri ai più. E in rete si trova tutto e il contrario di tutto, compresi siti che si atteggiano ad anti-bufale che definiscono una montatura il fatto che i vari bot siano un’invenzione, continuando imperterriti a promuovere piattaforme d’investimento a cui si accede anche dai banner truffaldini.
L’inquinamento online è diventato insostenibile, al punto che il dipartimento legale del Gruppo Mediaset, insieme allo studio legale GVP di Milano, ha presentato una denuncia contro ignoti alla procura di Milano con l’obiettivo di tutelare l’immagine dei vip. In mezzo ci sono finiti personaggi come Barbara D’Urso, Federica Panicucci, Flavio Briatore e Jovanotti, per citare qualche nome.
Le pubblicità fasulle che rimandano a piattaforme di trading finte utilizzando i volti di personaggi famosi a seconda del Paese in cui sono pubblicate e a loro insaputa, tra cui Flavio Briatore, Barbara D’Urso, Jovanotti, Marcus Rashford e Adele
Il sostituto procuratore della Repubblica di Milano Francesco Cajani, del pool reati informatici del Tribunale di Milano, a settembre 2020 ha chiesto l’archiviazione del procedimento perché i siti segnalati dagli avvocati sono già oscurati e soprattutto perché, si legge nel provvedimento, «l’acquisto di una criptovaluta rappresenta una operazione altamente aleatoria alla quale non si applica l’istituto della risoluzione per eccessiva onerosità». In altri termini, perdere denaro se si investe in bitcoin fa parte del rischio, perché l’attività è altamente speculativa. Quindi la procura non può farci nulla. Gli avvocati si sono però opposti all’archiviazione perché i bitcoin non sono affatto il tema centrale della loro denuncia, ma lo è l’utilizzo dell’immagine pubblica dei vip senza autorizzazione e soprattutto l’accostamento di frasi e interviste palesemente false utilizzati per circuire l’utente. A volte su siti del tutto simili alle pagine di informazione dello stesso gruppo. Nonostante i siti richiamati nella denuncia siano stati oscurati anche senza l’intervento dell’autorità giudiziaria, il circo delle false pubblicità ospitate da altre pagine continua senza freni.
Ads Inc., l’origine del caos
A confezionare per prima le false pubblicità con i volti dei vip – replicando pagine che ricalcano, come oggi, famosi tabloid e siti di gossip e lifestyle del mondo – è stata una società di San Diego (California), la Ads Inc.
Il range di commissione che Ads Inc. può incassare per ogni utente registrato sui siti dei loro clienti varia da meno di un centinaio a oltre un migliaio di dollari
A fondarla, nel 2015, Asher Burke, allora 27enne. Personaggio magnetico e carismatico fin da quando ancora non aveva compiuto vent’anni, ha iniziato a frequentare l’ambiente della politica, sponda repubblicana, dal 2008. Era il mago delle campagne elettorali, quello che dai social network riusciva a pescare nuovi elettori. Intanto iniziava a frequentare i circoli più esclusivi della città. La sua seconda vita da startupper è cominciata in seguito: ha fatto il botto in tempi rapidissimi, vendendo ai propri clienti soluzioni per ottenere vertiginosi volumi di traffico online. Dietro l’epica del successo, c’era una realtà più prosaica: la società californiana era un covo di black hat, i berretti neri che in gergo informatico definiscono gli hacker con cattive intenzioni.
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Specializzata in pubblicità su Facebook, Ads Inc. ha iniziato subito a fatturare milioni di dollari con annunci di strani cosmetici, creme contro le disfunzioni erettili, extension per capelli e un vastissimo campionario dei prodotti più assurdi. La società era abilissima ad aggirare le regole pubblicitarie – tra cui la restrizione imposta dal 2018 su certi prodotti tra cui quelli finanziari correlati a criptomonete – “noleggiando”, per 15 dollari al mese, profili Facebook di veri utenti attraverso cui piazzare le proprie campagne senza lasciare traccia. È così che ha disseminato Facebook di pubblicità-spazzatura con i volti dei vip in oltre 50 Paesi del mondo. Lo schema è stato scoperto da Buzzfeed, partner di quest’inchiesta, a ottobre 2019: Ads Inc. ha speso per piazzare i propri prodotti sul social network di Mark Zuckerberg 50 milioni di dollari in quattro anni (2016-2019).
Documenti interni ad Ads Inc. ottenuti da Buzzfeed mostrano che le criptovalute sono diventate il prodotto più remunerativo a partire dallo scorso anno. Il flusso generato nel secondo quadrimestre è stato di 1,15 milioni di dollari, con un ritorno, per il settore “crypto”, del 120%. Il range di commissione che l’azienda può incassare per nuovo utente registrato sui siti dei loro clienti varia da meno di un centinaio a oltre un migliaio di dollari. Le criptomonete sono tra le più redditizie: una fonte del settore che opera in Russia ha fatto riferimento a commissioni da oltre 600 dollari anche per il mercato russo.
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Di 17 “robot dei bitcoin” sponsorizzati via Facebook da società come Ads Inc., almeno dieci sono stati segnalati da diverse autorità di vigilanza delle Borse nel mondo tra cui la Consob in Italia. Nonostante la società californiana avesse annunciato la chiusura a fine 2019, dopo aver ricevuto da Facebook una lettera di diffida, nei fatti ha continuato a operare, tanto che il database ottenuto dai giornalisti svedesi di Dagens Nyheter con 800 mila pubblicità a inizio 2020 contiene ancora pagine pubblicitarie costruite dalla società fondata da Asher Burke.
Il castello di carta della start-up californiana è crollato dopo che il fondatore è morto in un incidente d’elicottero in Kenya, a febbraio 2019, con altri tre amici. Da allora in Ads Inc. regnano tensioni interne, pressioni dei finanziatori in ansia per il futuro dell’azienda, crisi di coscienza dei dipendenti. Le criptovalute sono diventate l’appiglio a cui aggrappare i destini finanziari: una presentazione del luglio 2019 (quindi prima dell’annunciata chiusura) ottenuta da Buzzfeed definisce il settore “crypto” «una vittoria da festeggiare».
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Il commento di Facebook e Google alle nostre domande
I principali contenitori di pubblicità online sono Google e Facebook, che conseguentemente traggono dai loro inserzionisti anche profitti consistenti. Le sponsorizzazioni dei contenuti sono la principale fonte di guadagno delle due big tech.
«Non permettiamo pubblicità ingannevoli che cercano di aggirare o ingannare i nostri processi di controllo sulle pubblicità», è stata la risposta di Google alle nostre domande. Una di queste tecniche è il cloaking, “occultamento” in italiano, una tecnica attraverso cui nascondere il link di destinazione finale, in modo che un utente possa raggiungere anche siti di cui sarebbe vietata la pubblicità. «Abbiamo migliaia di persone che lavorano per migliorare e potenziare la tecnologia e sviluppare nuove politiche per affrontare queste minacce non appena emergono», aggiunge il dipartimento relazioni con i media della società.
Il portavoce di Facebook Rob Leathern ha invece spiegato ai giornalisti che l’azienda «sta prendendo il problema seriamente»: ha intentato azioni legali «contro individui che svolgono operazioni del genere» e, in linea con quanto previsto dalla legge, ha condiviso informazioni per rintracciarli con forze di polizia e autorità di vigilanza delle Borse. Anche per Facebook contenere il cloaking è una priorità e l’azienda riconosce che Ads Inc. è stata ancora una volta pioniera nell’abuso di questa tecnica di mascheramento. Le nuove metodologie di frode osservate dall’azienda prevedono l’omissione di parole troppo sospette come “criptomoneta” o “bitcoin”; qualche errore di battitura volontario per celare i finti testimonial dei prodotti che non si potrebbero pubblicizzare; l’aggiunta di qualche carattere di altri alfabeti per mascherare le parole chiave più pericolose.
«Svuotare l’oceano con un secchiello»
Sull’efficacia dei “robot dei bitcoin” pubblicizzati su Facebook o su Google, si sono espresse, già lo scorso anno, le autorità regolatrici della Borsa di tutto il mondo, costrette a intervenire a seguito degli esposti di cittadini che hanno perso migliaia di euro. La Consob, ad esempio, ha segnalato le piattaforme che promuovevano questi bot a partire almeno dal 2019. La caccia è impossibile: chiuso un portale, se ne apre un altro. Un esempio: a ottobre 2019 Jovanotti aveva smentito ogni coinvolgimento con i bitcoin pubblicamente eppure quattro mesi dopo è comparso ancora una volta il suo volto in un sito monopagina, costruito solo allo scopo di pubblicizzare il robot “bitcoin evolution”. Le parole chiave per trovarlo in rete sono le stesse di quello oscurato.
Sembra di essere tornati agli albori del gioco d’azzardo illegale online, intorno al 2013, quando le autorità giudiziarie italiane dovevano inseguire gruppi di criminali, a volte collegati alle organizzazioni mafiose, le cui società si spostavano di giurisdizione in giurisdizione alla ricerca delle più favorevoli dove nascondersi. Anche in quel caso, oscurare i siti era da sola un’attività palliativa sul piano repressivo. Le misure patrimoniali di contrasto, invece, hanno dato risultati più significativi, insieme a imputazioni per evasione fiscale, il reato per il quale si è dimostrato più semplice portare delle indagini fino in fondo. La presenza dei clan, nel caso del gioco d’azzardo, è stato forse un incentivo ad approfondire. Sul fronte delle frodi via pubblicità con i bitcoin, a oggi, gli sforzi investigativi e giudiziari ancora non danno i risultati auspicabili, a parità di difficoltà nel ricostruire le reti di soggetti coinvolti.
Per gli investigatori, il fenomeno da contrastare è l’“abusivismo finanziario”, cioè l’offerta di servizi finanziari da soggetti che non ne hanno titolo. «Le procedure investigative adottate dalla Guardia di Finanza – spiega il colonnello Cosimo Virgilio, Comandante del gruppo tutela risparmio del nucleo speciale Polizia valutaria – sono incentrate sull’esame dei flussi finanziari oggetto di illeciti, anche a livello internazionale». Il bandolo della matassa, spesso, è un conto corrente unico «solitamente localizzato all’estero»: lo chiamano conto “Omnibus”. Qui, prosegue il colonnello Virgilio, «confluiscono fondi o titoli di molteplici soggetti intestati all’intermediario, nel cui ambito risulta difficoltosa l’individuazione del “sottoconto” attribuibile al cliente specifico a nome del quale quest’ultimo ha operato». L’anonimato dei correntisti è il primo scrigno di segretezza da rompere, a cui segue il difficilissimo setaccio per distinguere quali denari appartengono a quali proprietari.
Le frodi dei robot di bitcoin «sono talmente tante che è impossibile monitorarle. Dobbiamo tuttavia diventare capaci a farlo in modo più veloce, anche con risorse umane dedicate se necessario». A parlare in chat con un vip finlandese è Aura Salla, fino a febbraio di quest’anno consulente alla Commissione europea, oggi direttrice delle Politiche pubbliche di Facebook a Bruxelles. Cercare di limitare il fenomeno semplicemente chiudendo i siti «è come svuotare l’oceano con un secchiello», ci ha confidato un funzionario italiano preposto al contrasto di queste piattaforme.
Mathieu Fohlen, procuratore generale a Bordeaux, è tra i magistrati che in Francia seguono più casi di frodi di questo genere. Spiega ai colleghi di Le Monde che i truffatori «hanno esaurito tutti i sistemi bancari europei»: prima avevano conti in Polonia, poi nei Paesi baltici, poi ancora in Portogallo. Mano a mano che gli inquirenti li scoprivano, si allontanavano, fino a scegliere l’Asia come meta privilegiata dei loro flussi di denaro. Nonostante gli inquirenti lo sappiano, stare dietro a questi criminali è complicato: per poter accedere ai documenti di un conto corrente bancario di Hong Kong, ad esempio, serve più di un anno, tempo più che sufficiente ai malintenzionati per spostare il denaro, così da richiedere una nuova rogatoria per intervenire.
Ci sono conti che funzionano come lavatrici di denaro sporco, che ripuliscono il denaro spostandolo su conti diversi, appoggiati in paradisi fiscali, con tecniche delle quali su IrpiMedia abbiamo già parlato. Anche quando la caccia si conclude, la preda che si raggiunge è spesso solo una testa di legno: «È il limite della strategia del “follow the money”», chiosa il procuratore Fohlen. I risultati si riassumono in un dato incontrovertibile: a dispetto della mole di persone coinvolte nella filiera delle fabbriche delle frodi, gli arresti sono ancora molto rari.
CREDITI
Autori
Lorenzo Bagnoli
Lorenzo Bodrero
Ha collaborato
Gianluca Paolucci
In partnership con
Dagens Nyheter
OCCRP
Helsingin Sanomat
Le Monde
Direkt36
The Guardian
Buzzfeed News
La Stampa
Infografica
Editing
Luca Rinaldi