Agricoltura biologica, i limiti delle certificazioni

21 Aprile 2023 | di Paolo Riva

L’agricoltura biologica vive un momento importante. «Sul settore c’è un’attenzione come mai prima», dice Francesco Giardina, direttore di Coldiretti Bio. A livello europeo, nel 2020 la Commissione Ue, all’interno della strategia Farm to Fork, ha proposto di raggiungere il 25% di terreni Ue coltivati a biologico entro il 2030. Nel nostro Paese, nel marzo 2022, dopo quindici anni di attesa, è stata approvata una legge per far crescere ulteriormente il settore.

Per il consumatore, ma anche per i distributori che comprano dalle aziende produttrici, “biologico” è ciò che è certificato come tale, e i prezzi più alti di questi prodotti sono giustificati dal bollino verde, concesso all’azienda da un ente terzo. L’Italia è storicamente uno dei produttori europei maggiori, con una forte vocazione all’esportazione. Ma il sistema di certificazione, come sostengono alcuni attori del settore e confermano operazioni recenti e processi in corso, non dà sufficienti garanzie.

A fine febbraio, la Procura di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) ha messo sotto indagine sette persone per associazione a delinquere finalizzata al falso ideologico e alla frode aggravata in commercio. Per gli inquirenti, riporta l’Ansa, gli indagati avrebbero commercializzato per anni, tra il 2016 e il 2022, ingenti quantità di prodotti falsamente dichiarati come biologici, come mandorle e pomodori.

«Quello che abbiamo visto scoperto dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere per noi non è una sorpresa», commenta Paolo Carnemolla, agronomo, da decenni attivo nel settore e oggi segretario generale di Federbio. A suo giudizio, sono anni che si ripete «lo stesso schema di frode, che è già stato oggetto di altre indagini e inchieste». Una di queste è quella che ha portato a un processo che si sta tenendo al Tribunale di Ragusa e per il quale, ad inizio aprile, c’è stato il rinvio a giudizio.

Truffe certificate

Gli imputati sono i titolari e i rappresentanti legali di nove aziende agricole della provincia di Ragusa che, secondo il pubblico ministero, sarebbero responsabili di «delitti di frode in commercio, falsi e truffe aggravate per il conseguimento di contributi, finanziamenti ed erogazioni pubbliche elargiti dall’Agea (Agenzia per le erogazioni in agricoltura, ndr)», «in danno di acquirenti e di consumatori di prodotti biologici, avvalendosi di documentazione, fatture, etichettatura e rapporti di prova di analisi chimiche in cui venivano rappresentati fatti non rispondenti al vero».

I fatti risalgono al periodo 2015-2017 quando, secondo l’accusa, gli imputati «attraverso un collaudato sistema di compravendite» da aziende terze «consegnavano agli acquirenti di società italiane ed estere» prodotti agricoli «per origine, provenienza e qualità diverse da quelle dichiarate o pattuite, perché in origine provenienti da terreni coltivati con “metodo convenzionale”». Carote, patate, pomodori, zucchine convenzionali sarebbero stati venduti come biologici a distributori e catene di supermercati specializzati in Italia, Francia e Germania. E le aziende che facevano questa operazione avrebbero preso ingiustamente anche i contributi della Politica agricola comune Ue per il bio, per un profitto totale che gli inquirenti hanno calcolato essere vicino al milione di euro.

Tutto ciò di cui le aziende agricole siciliane sono accusate sarebbe avvenuto nonostante fossero «in possesso di certificazione biologica ed accreditati dagli organismi di controllo Bioagricert srl, QCertificazioni srl e Suolo e Salute srl, così come previsto dalla normativa nazionale ed europea vigente», scrive ancora il pubblico ministero.

Va precisato che, nel processo, gli organismi di controllo sono persone offese.

Il quadro descritto dai magistrati, però, porta a domandarsi come sarebbe stato possibile per gli accusati eludere, per anni, l’attività di questi enti. IrpiMedia lo ha chiesto ai tre organismi di controllo coinvolti, ricevendo un riscontro solo da Bioagricert. L’azienda ha spiegato che «tutti gli organismi di controllo e certificazione, qualora riscontrino delle non conformità (anche quelle minori) sono tenuti a segnalarle all’autorità pubblica, tramite un sistema denominato Banca dati vigilanza del ministero dell’Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste, utilizzato anche per supportare le attività di indagine». Se questo sia avvenuto anche per le aziende del ragusano non ci è stato precisato, perché Bioagricert preferisce «non entrare nel merito specifico perché il processo è ancora in corso»

Un sistema complesso, che non dà fiducia

Procedimenti giudiziari come quello di Ragusa alimentano il dibattito sull’efficacia del sistema di certificazione. Secondo il presidente dell’Associazione italiana agricoltura biologica (Aiab), Giuseppe Romano, «il sistema è stracontrollato a più livelli e funziona». «Le frodi sono limitate, ma molto rumorose», aggiunge facendo riferimento al processo Vertical bio, un altro importante processo per frodi biologiche che si è concluso lo scorso dicembre con tutti gli imputati assolti.

La posizione di Romano sembra molto distante da quella di Carnemolla. Lo conferma anche un comunicato dell’associazione, che nel procedimento di Ragusa si è costituita parte civile e che ha denunciato il rischio della prescrizione. «Il fatto che una truffa di tali proporzioni sia stata scoperta – vi si legge – significa che il sistema di controllo ha funzionato e funziona e che i cittadini possono fidarsi». Un’affermazione di questo tipo sembrerebbe indicare che l’indagine sia partita grazie agli enti certificatori, mentre, come in altre circostanze, sarebbe nata da una segnalazione proveniente dall’estero.

Eppure, in questo come in altri casi, la truffa è stata scoperta quando i prodotti erano già stati messi sul mercato, danneggiando i consumatori, ma anche gli operatori biologici onesti in termini di reputazione.

«Le frodi sono un problema enorme, perché rischiano di minare molto profondamente la fiducia delle persone», ragiona Simona Limentani, fondatrice di Zolle, un’impresa che a Roma consegna alimenti bio o a filiera corta. «Il biologico non ha trovato un sistema in cui la certificazione potesse ricreare questo rapporto di fiducia su basi solide», afferma.

Ma come funziona esattamente questo sistema? La cornice è data dall’Unione Europea.

La produzione biologica, l’etichettatura e i controlli sono regolamentati a livello europeo dal 1991 e, in particolare, dal nuovo regolamento biologico (Ue) 2018/848, entrato in vigore lo scorso anno. Per farlo rispettare, ogni stato membro nomina un’autorità competente, che per l’Italia è il ministero dell’Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste. Quest’ultimo autorizza gli organismi di controllo, che possono effettuare i controlli e rilasciare la certificazione delle produzioni biologiche. La loro competenza, indipendenza e imparzialità è attestata da Accredia, che è l’ente nazionale di accreditamento.

Infine, vi sono gli operatori del settore biologico – produttori, trasformatori e distributori – che pagano gli organismi di controllo per ottenere la certificazione e poter così operare nel settore.

«Si parte da un costo minimo di qualche centinaio di euro, per le aziende agricole piccole e marginali, fino ad alcune migliaia di euro per le aziende molto ampie con colture complesse (come ad esempio, frutta e ortaggi) o che svolgono anche attività di preparazione» ha spiegato Bioagricert, rispondendo a una delle nostre domande. Il costo annuale della certificazione e del relativo controllo per averla varia in relazione alla tipologia di operatore, alle dimensioni aziendali e al livello di rischio dell’operatore.

Seguendo le indicazioni stilate da Accredia, infatti, gli organismi di controllo svolgono per ciascun operatore da accreditare una valutazione del rischio che determina il numero di controlli annuali da effettuare:

  • attività a basso rischio: un controllo ufficiale ordinario;
  • attività a medio rischio: un controllo ufficiale ordinario ed un controllo ufficiale aggiuntivo preferibilmente senza preavviso all’anno;
  • attività ad alto rischio: un controllo ufficiale ordinario e due controlli ufficiali aggiuntivi (di cui uno senza preavviso).

Registri ufficiali e registri di campagna

Nel caso di Ragusa è verosimile pensare che le imprese coinvolte fossero considerate a medio o alto rischio, soprattutto perché producevano e commerciavano prodotti ortofrutticoli, che portano punteggi più alti in questo tipo di valutazioni. Qualora le accuse fossero confermate, però, nemmeno un maggior numero di controlli sarebbe riuscito a impedire la truffa.

Infatti, non solo parte dei prodotti non rispettosi delle prescrizioni del biologico sarebbe stata acquistata da aziende terze ma, dalle carte del processo, emerge anche che gli imputati avrebbero fatto eseguire a un analista di laboratorio loro complice (e anch’egli imputato) «campionamenti ed analisi chimiche aventi ad oggetto i prodotti ortofrutticoli biologici delle aziende coinvolte anche alterando i rapporti di prova». O che, scrive ancora il Pm, le aziende coinvolte avrebbero gestito «un “Registro di Campagna” a fogli mobili, parallelo a quello ufficiale, distinto per concimazioni e trattamenti, dove venivano annotate le operazioni colturali e riportati i trattamenti fitosanitari e le concimazioni, relativamente ad appezzamento, data e coltura, eseguiti anche con prodotti non ammessi in agricoltura biologica».

E il tutto sarebbe proseguito fino all’arrivo, nel novembre 2017, degli agenti della Guardia di finanza e dell’Ispettorato centrale tutela qualità e repressione frodi dei prodotti agroalimentari (Icqrf).

Per approfondire

Le lobby agroalimentari contro la Farm to Fork

Il Parlamento Ue ha approvato il testo della strategia per un settore agroalimentare più sostenibile. Ma le lobby sono al lavoro per ammorbidirne gli obiettivi, dopo aver già modificato la Politica Agricola Comune

Proprio Icqrf pubblica annualmente un rapporto sulle attività svolte nel settore bio. Nel 2021 (ultimo dato disponibile), ha effettuato 6.097 controlli, sottoponendo a verifica 3.355 operatori e 5.040 prodotti. Gli operatori irregolari sono risultati il 12% circa, mentre i prodotti irregolari il 9% del totale. Le percentuali sono molto inferiori a quelle che Icqrf registra in altri ambiti, come le produzioni Dop/Igp/Stg, ma molto più elevate rispetto al passato: nel 2011, erano rispettivamente poco più del 5% e quasi il 4% per i prodotti. Sono dieci anni in cui il biologico ha vissuto una grande crescita: sono aumentati gli operatori, le superfici coltivate e anche le percentuali di irregolarità.

Per Giardina di Coldiretti, negli ultimi anni, il comparto del bio ha avuto «un’enorme evoluzione», ma «il sistema di certificazione non si è evoluto in maniera adeguata». «La certificazione è necessaria ma dovrebbe evolvere», gli fa eco Massimiliano Solano, presidente della cooperativa agricola Valdibella, che produce biologico in provincia di Palermo dal 1998. «Serve una riforma strutturale, senza più il rapporto tra organismo di controllo e produttore. Un agricoltore da solo non commette la truffa», prosegue.

Secondo Carnemolla di Federbio, il sistema di certificazione del biologico in Italia è «iperburocratizzato e poco efficace: in questo momento produce carta ma non sufficiente affidabilità». «Paradossalmente – prosegue – gli organismi di controllo che lavorano meglio, quindi fanno più pressione sulle aziende e si fanno pagare necessariamente di più, vengono penalizzati da un sistema come quello attuale».

Chi me lo fa fare?

Gli organismi di controllo autorizzati per le produzioni biologiche in Italia sono 19. L’ultimo arrivato ha ottenuto l’ok dal ministero dell’Agricoltura lo scorso febbraio, mentre il precedente a ottobre 2022.

Secondo diversi osservatori del settore, l’elevato e crescente numero di questi enti ha generato alcune conseguenze negative. La maggiore concorrenza, per esempio, potrebbe aver influito sui prezzi delle certificazioni e anche sulla qualità dei controlli, come lascia intendere Carnemolla. Inoltre, una così ampia scelta potrebbe favorire le aziende meno corrette, che potrebbero cambiare più spesso l’ente a cui rivolgersi, anche se va registrato che la nuova normativa pone dei limiti a queste furbizie.

La domanda però rimane: gli organismi di controllo sono troppi?
Sicuramente tutti quelli esistenti soddisfano i requisiti richiesti da Accredia, come prevede la normativa. Ma il dubbio resta, sia per i meccanismi appena evidenziati, sia perché nel resto d’Europa ci si muove in modo diverso.

La Francia, che ha percentualmente meno superfici bio dell’Italia ma una crescita più forte, ha autorizzato 10 organismi di controllo. La Spagna, che gestisce questi enti a livello regionale, conta nove organismi in Andalucia, cinque in Aragona e ancora nove sia in Castiglia Leon sia in Castiglia-La Mancia. In altre regioni come la Catalogna e la Galizia, invece, il modello è totalmente differente e l’organismo di controllo è unico e pubblico.

Non accade solo in Spagna: la Dg Agri della Commissione Ue spiega che ci sono enti pubblici di questo tipo anche in Finlandia, Danimarca, Estonia e Paesi Bassi (anche se si tratta di un ente pubblico/privato). Potrebbe essere una soluzione anche per l’Italia. Dagli addetti ai lavori però arrivano richieste e proposte di altro tipo. Come portare il costo della certificazione bio a credito d’imposta. O come creare una banca dati delle transazioni, unica e pubblica.

Sia Federbio sia Aiab sostengono l’idea, che consentirebbe di contrastare più efficacemente frodi come quella di Ragusa. «La chiediamo da anni, è urgente», si scalda Romano. Lo strumento digitale monitorerebbe quanti quintali produce un’azienda, quanti ne vende e quanti, eventualmente, risultano di provenienza sospetta, perché in eccesso rispetto alla produzione dichiarata. «Serve una piattaforma che consenta lo scambio di dati e informazioni in tempo reale», aggiunge Carnemolla. Oggi manca e, a suo giudizio, questo consente «a chi vuole frodare, di costruire quantità di prodotto biologico che sono solo sulla carta».

La speranza delle organizzazioni del settore è che la questione controlli e certificazioni venga affrontata nell’ambito del Piano d’azione nazionale per il biologico, attualmente in discussione al ministero dell’Agricoltura. Se e come ciò verrà fatto, però, rimane ancora tutto da capire. Alla fine, il Governo, come già avvenuto in passato, potrebbe anche decidere di non farlo.

L’immobilismo però porterebbe con sé conseguenze negative. In una fase di potenziale crescita, potendo contare su contributi Ue dedicati e su prezzi che, per ora, sono ancora superiori a quelli del convenzionale, il biologico potrebbe far sempre più gola ad aziende poco trasparenti, e non porre un limite al loro ingresso inciderebbe negativamente sulla reputazione del comparto, molto votato alle esportazioni.

«I rischi – ammette Giardina – sono elevati e ne siamo consapevoli. Il momento è particolare». Così particolare che c’è anche chi alla certificazione bio rinuncia. O la abbandona proprio.

«Ci sono aziende piccole, ma anche medie che mollano la certificazione», dice Romano di Aiab. Accade in Veneto, per esempio. «Ci sono tanti produttori che lavorano bene in modo sostenibile e non sono certificati. Tentano, si approcciano, vengono da noi a formarsi, ma poi alla fine non si certificano», racconta Stefano Bianchi, di Aiab Veneto. «Altri, invece, escono dal sistema di controllo perché hanno consumatori locali che si fidano dell’azienda da decenni e che vanno direttamente in azienda, loro stessi, a controllare», prosegue. Bianchi spiega che sono aziende che vendono al loro spaccio o nei mercati contadini e, dopo anni di certificazione, si chiedono: «Perchè spendere soldi e impiegare tempo con la burocrazia? Se tanto i miei clienti comprano lo stesso, chi me lo fa fare?».

Foto: Una serra in Veneto per la coltivazione biologica di fragole – REDA&CO/Getty
Editing: Giulio Rubino
In partnership con: Scena9
Con il supporto di: JournalismFund

Il giusto prezzo: lo sfruttamento lavorativo nell’agricoltura biologica

#InvisibleWorkers

Il giusto prezzo: lo sfruttamento lavorativo nell’agricoltura biologica

Paolo Riva

3,22 euro contro 4,50 euro. Il primo è il prezzo cui viene venduta on line una confezione di passata di pomodori datterini biologici. A produrla e commercializzarla è l’OP Principe di Puglia che, sul suo sito internet, si definisce «una delle più importanti aziende produttrici di verdura e frutta biologica del territorio pugliese». Il secondo è il compenso orario che, stando alle testimonianze raccolte dagli inquirenti, una delle imprese del circuito aziendale dell’OP Principe di Puglia pagava ad Aboubacar Baman, un bracciante della Costa d’Avorio di 34 anni, che, con fatica e senza diritti, quei pomodorini biologici li raccoglieva. Nell’aprile 2021, l’OP Principe di Puglia è stata al centro di un’operazione della Procura di Foggia contro l’intermediazione illecita e lo sfruttamento del lavoro. In pratica, contro il caporalato. Ora si attende il rinvio a giudizio.

L’agricoltura biologica è molto cresciuta negli ultimi anni, è sempre più richiesta da certe fasce di consumatori e ora è anche sostenuta dall’Unione europea con la strategia Farm to fork. Chi compra bio sceglie di pagare di più per avere prodotti buoni per la salute e l’ambiente. Ma questi prodotti sono buoni anche per chi li produce? Casi come quello dell’OP Principe di Puglia portano a chiedersi se e quanto, grazie a sussidi e a prezzi più corretti, il biologico possa contribuire a migliorare le condizioni dei lavoratori agricoli e a cambiare, anche a livello generazionale, l’agricoltura italiana.

Il fotoreportage

The fields that feed Europe (I campi che nutrono l’Europa) è il fotoreportage di Diego Ravier che accompagna l’inchiesta di Paolo Riva. Le foto sono scattate nella zona di Foggia, nel settembre 2021, durante gli ultimi giorni della raccolta di uva e pomodori.

Lavoratori appartenenti all’associazione contro il caporalato No Cap. L’Italia è il secondo Paese produttore di pomodori, dopo gli Usa. La Puglia produce più della metà dei pomodori in scatola italiani, in particolare nella zona di Foggia.

Rignano Gargano (Foggia), Prima Bio

Braccianti dall’Africa e dall’Europa raccolgono frutta e verdura che verranno utilizzate per produrre passate, vini, pizze e insalate. Il valore del settore biologico è raddoppiato dal 2009, raggiungendo i 45 miliardi di euro.
Rignano Garganico (Foggia), Prima Bio
L’Italia è il secondo Paese produttore di pomodori, dopo gli Usa. La Puglia produce più della metà dei pomodori in scatola italiani, in particolare nella zona di Foggia.

Rignano Garganico (Foggia) – Lavoratori appartenenti all’associazione contro il caporalato No Cap. L’Italia è il secondo Paese produttore di pomodori, dopo gli Usa. La Puglia produce più della metà dei pomodori in scatola italiani, in particolare nella zona di Foggia.

Braccianti dall’Africa e dall’Europa raccolgono frutta e verdura che verranno utilizzate per produrre passate, vini, pizze e insalate. Il valore del settore biologico è raddoppiato dal 2009, raggiungendo i 45 miliardi di euro.

Rignano Garganico (Foggia), Prima Bio – Braccianti dall’Africa e dall’Europa raccolgono frutta e verdura che verranno utilizzate per produrre passate, vini, pizze e insalate. Il valore del settore biologico è raddoppiato dal 2009, raggiungendo i 45 miliardi di euro.

La definizione di biologico

Per provare a rispondere, è bene partire dalle definizioni. Il biologico, spiega Aiab, è «un metodo di coltivazione e di allevamento che ammette solo l’impiego di sostanze naturali, presenti cioè in natura, escludendo l’utilizzo di sostanze di sintesi chimica». Le aziende biologiche, quindi, sono tenute, come tutte le altre aziende, a rispettare le norme sul lavoro ma le certificazioni che devono ottenere non riguardano i lavoratori: riguardano i prodotti e il modo in cui vengono ottenuti. Questo non vuol dire, però, che il mondo del bio non mostri attenzione anche per gli aspetti più sociali dell’agricoltura. Secondo Ifoam, una delle più antiche organizzazioni internazionali ad occuparsi della materia, «coloro che sono coinvolti nell’agricoltura biologica dovrebbero condurre le relazioni umane in modo da assicurare l’equità a tutti i livelli e a tutte le parti – agricoltori, lavoratori, trasformatori, distributori, commercianti e consumatori».

La strategia europea

«La strategia Farm to Fork è il cuore del Green Deal europeo, che mira a rendere i sistemi alimentari equi, sani e rispettosi dell’ambiente», così la Commissione europea definisce la strategia che ha presentato nel maggio 2020 per «accelerare la transizione verso un sistema alimentare sostenibile». Tra gli obiettivi specifici dell’iniziativa, vi è anche raggiungere «almeno il 25% della superficie agricola dell’Ue in agricoltura biologica entro il 2030» perché questo tipo di agricoltura «ha un impatto positivo sulla biodiversità, crea posti di lavoro e attrae i giovani agricoltori».

Negli stati dell’Unione europea, la superficie destinata al bio è cresciuta di quasi il 66% negli ultimi dieci anni e oggi rappresenta l’8,5% della «superficie agricola utilizzata» totale dell’Ue. Grazie a un piano di azione pubblicato nel marzo 2021, potrebbe crescere ulteriormente. La strategia però non è vincolante di per sé: tuttavia i Paesi membri, nel momento in cui implementeranno norme e leggi o quando dovranno allinearsi a politiche comunitarie già esistenti, saranno vincolati a rispettare gli obiettivi stabiliti dalla Commissione. È il caso, per esempio, della PAC, la Politica agricola comune.

È forse ispirandosi a questo principio che, nel 2020, Federbio ha annunciato che si sarebbe costituita parte civile in un altro procedimento pugliese riguardante produzioni agricole biologiche. «FederBio – commentò allora la presidente Maria Grazia Mammuccini – collabora da sempre con la magistratura e le forze dell’ordine per tutelare le vere produzioni biologiche e a difesa del lavoro etico e sostenibile, equamente remunerato. Queste pratiche criminali vanno combattute ed eliminate per difendere la maggioranza di imprese oneste del biologico italiano». Il caso in questione era quello di Settimio Passalacqua.

La raccolta dei pomodori a Foggia comincia a luglio e finisce a ottobre. Il raccoglitore di frutta e verdura è uno dei lavori più duri che si possano svolgere in un campo.
Rignano Garganico (Foggia), Prima Bio
Senegal, Uganda, Burkina Faso e Nigeria: sono molti i Paesi d’origine dei braccianti che lavorano nelle aziende agricole dell’Italia sudorientale. Hanno percorso diverse strade per raggiungere i campi. Alcuni sono passati dal deserto e dai centri di accoglienza e di detenzione.
Rignano Garganico (Foggia), Prima Bio
Un bracciante ritorna dalla città, dove è andato a comprare dell’acqua. Vive in una fattoria abbandonata, dove non c’è acqua corrente.
Rignano Garganico (Foggia)
La raccolta dei pomodori a Foggia comincia a luglio e finisce a ottobre. Il raccoglitore di frutta e verdura è uno dei lavori più duri che si possano svolgere in un campo.
Rignano Garganico (Foggia), Prima Bio – La raccolta dei pomodori a Foggia comincia a luglio e finisce a ottobre. Il raccoglitore di frutta e verdura è uno dei lavori più duri che si possano svolgere in un campo.
Senegal, Uganda, Burkina Faso e Nigeria: sono molti i Paesi d’origine dei braccianti che lavorano nelle aziende agricole dell’Italia sudorientale. Hanno percorso diverse strade per raggiungere i campi. Alcuni sono passati dal deserto e dai centri di accoglienza e di detenzione.
Rignano Garganico (Foggia), Prima Bio – Senegal, Uganda, Burkina Faso e Nigeria: sono molti i Paesi d’origine dei braccianti che lavorano nelle aziende agricole dell’Italia sudorientale. Hanno percorso diverse strade per raggiungere i campi. Alcuni sono passati dal deserto e dai centri di accoglienza e di detenzione.
Rignano Garganico (Foggia) - Un bracciante ritorna dalla città, dove è andato a comprare dell’acqua. Vive in una fattoria abbandonata, dove non c’è acqua corrente.
Rignano Garganico (Foggia) – Un bracciante ritorna dalla città, dove è andato a comprare dell’acqua. Vive in una fattoria abbandonata, dove non c’è acqua corrente.

Nel luglio 2020, l’imprenditore di Apricena, sempre in provincia di Foggia, è stato accusato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. All’epoca, le aziende riconducibili alla sua famiglia impiegavano centinaia di braccianti per un volume di affari di alcuni milioni di euro, in gran parte legato a prodotti biologici. Ora si attende il rinvio a giudizio, ma, secondo l’accusa, alcune delle aziende avrebbero pagato fino a 3,33 euro l’ora i lavoratori, in gran parte stranieri e residenti nei ghetti della zona. Il più noto è quello di Rignano Garganico, un insediamento irregolare in piena campagna, tra gli ulivi, composto da casali occupati, baracche, roulotte e altri ripari di fortuna. «Solitamente ci vivono circa 800 persone, ma durante l’estate può arrivare ad ospitarne anche il doppio. Sono lavoratori dell’Africa subsahariana», spiega Khady Sene, operatrice della Caritas di Foggia.

Voci dal ghetto di Rignano Garganico. Anche tra i lavoratori del bio

Joseph, nel ghetto, ci ha abitato per un anno. Poi, ha trovato lavoro in un’azienda agricola biologica del territorio, che gli garantiva anche un posto letto. «Eravamo in otto in stanza e pagavo 185 euro al mese. Mi sono dovuto pagare anche i guanti, le calze, l’acqua», racconta a IrpiMedia. «Prendevo tre euro all’ora. Facevo otto ore, nove, a volte undici, quando c’era bisogno, sia nei campi sia in magazzino», continua Joseph. Secondo le sue descrizioni, l’azienda per cui lavorava arrivava ad occupare oltre 200 persone e produce tuttora verdure e ortaggi biologici, in larga parte per l’esportazione. «Ho capito piano piano che qualcosa non andava. Ho chiesto spiegazioni al capo italiano, ma mi ha detto che queste erano le condizioni. Così, dopo un anno e mezzo, me ne sono andato», ricorda oggi Joseph. Il suo non era lavoro nero, ma grigio, una forma di sfruttamento tanto diffusa quanto difficile da scoprire. E, come mostrano i casi fin qui raccontati, che tocca anche l’agricoltura biologica.

«Vertenze e segnalazioni le abbiamo anche nel biologico. Non si può dire che il settore sia esente dalle tentazioni di sfruttamento e caporalato», ragiona Jean René Bilongo, sindacalista e responsabile osservatorio Placido Rizzotto della Flai-Cgil. Per Giulia Laganà, analista dell’Open Society European Policy Institute, «l’agricoltura biologica ha gli stessi problemi di quella convenzionale: la grande distribuzione e gli intermediari causano sfruttamento con i loro prezzi bassi».

La baraccopoli di Rignano Garganico conta tra gli 800 e i 1500 braccianti durante la stagione del raccolto. Questo luogo ospita braccianti da oltre 20 anni.
Rignano Garganico (Foggia), il Gran Ghetto
Un cane dorme tra le baracche sovraffollate. Le condizioni di vita nel ghetto sono molto difficili.
Rignano Garganico (Foggia), il Gran Ghetto
Mor è un bracciante che è arrivato dal Senegal a Rignano Garganico nel 2020. Per cinque mesi ha dormito in una fattoria abbandonata. Nel frattempo lavorava come raccoglitore di tutto, dagli asparagi ai pomodori.
Rignano Garganico (Foggia)
Rignano Garganico (Foggia), il Gran Ghetto - La baraccopoli di Rignano Garganico conta tra gli 800 e i 1500 braccianti durante la stagione del raccolto. Questo luogo ospita braccianti da oltre 20 anni.
Rignano Garganico (Foggia), il Gran Ghetto – La baraccopoli di Rignano Garganico conta tra gli 800 e i 1500 braccianti durante la stagione del raccolto. Questo luogo ospita braccianti da oltre 20 anni.
Rignano Garganico (Foggia), il Gran Ghetto - Un cane dorme tra le baracche sovraffollate. Le condizioni di vita nel ghetto sono molto difficili.
Rignano Garganico (Foggia), il Gran Ghetto – Un cane dorme tra le baracche sovraffollate. Le condizioni di vita nel ghetto sono molto difficili.
Rignano Garganico (Foggia) - Mor è un bracciante che è arrivato dal Senegal a Rignano Garganico nel 2020. Per cinque mesi ha dormito in una fattoria abbandonata. Nel frattempo lavorava come raccoglitore di tutto, dagli asparagi ai pomodori.
Rignano Garganico (Foggia) – Mor è un bracciante che è arrivato dal Senegal a Rignano Garganico nel 2020. Per cinque mesi ha dormito in una fattoria abbandonata. Nel frattempo lavorava come raccoglitore di tutto, dagli asparagi ai pomodori.

Un mercato in crescita con le sovvenzioni Ue

Dal 2010 al 2020, il numero degli operatori è aumentato del 71% e le superfici coltivate dell’88%. Anche i consumi sono cresciuti: il valore del mercato interno è salito del 104% negli ultimi cinque anni arrivando a 3,6 miliardi, pari al 4% del comparto agroalimentare. Con la strategia Farm to fork, poi, la Commissione europea ha proposto di raggiungere il 25% di terreni Ue coltivati a biologico entro il 2030, un obiettivo che non è vincolante, ma potrebbe stimolare ulteriormente la crescita del comparto. Per Ifoam, l’Italia ha le potenzialità per arrivare al 41% di superfici bio. «Il settore biologico – riprende Bilongo – è in grande ascesa: le vertenze sindacali sono la spia di un malessere che si annida anche lì. Il caso StraBerry è eloquente».

L’Italia bio

Distribuzione regionale delle superfici biologiche per i principali orientamenti produttivi nel 2019

StraBerry è una start up agricola lombarda che produce frutti di bosco biologici alle porte di Milano sui terreni della Società Agricola Cascina Pirola Srl, biologica dal 2017. Ad agosto 2021, il fondatore di StraBerry Guglielmo Stagno d’Alcontres è stato rinviato a giudizio. Stando all’imputazione, l’imprenditore, sua madre e altri due imputati avrebbero sottoposto dal 2018 in poi 73 lavoratori stranieri a «condizioni di sfruttamento, approfittando del loro stato di bisogno», minacciandoli, insultandoli e pagandoli 4 euro all’ora. I braccianti della start up, che puntava molto sulla sostenibilità del suo marchio e vendeva i suoi prodotti bio con degli Apecar in centro a Milano, erano prevalentemente richiedenti asilo, provenienti dall’Africa subsahariana e ospiti dei centri di accoglienza del territorio. Abdulai Mohamed Kargbo è uno di loro. Agli inquirenti ha spiegato che «Capo grasso [Guglielmo Stagno d’Alcontres, ndr] urlava sempre, tu non hai finito tuo lavoro domani non c’è lavoro per te, tu non hai fatto 25 cassette domani non c’è lavoro per te, lui urlava sempre, era sempre arrabbiato e diceva sempre parolacce».

Esempi come questo sono la conferma che i casi di sfruttamento in agricoltura biologica si contano in molte parti d’Italia. Anche in Piemonte. Al tribunale di Cuneo, a febbraio, dovrebbe arrivare a sentenza il primo processo per caporalato nel distretto della frutta di Saluzzo. Tra gli imputati, Diego Gastaldi e sua madre Marilena Bongiasca. La famiglia rappresenta una realtà imprenditoriale storica e solida del territorio. Anche le loro aziende si sono convertite al biologico negli ultimi anni e, durante il procedimento, Diego Gastaldi ha sostenuto che la transizione al biologico è stata una delle difficoltà per le quali i braccianti venivano pagati in parte fuori busta, in contanti, in nero. Secondo l’accusa, infatti, lui e la madre avrebbero corrisposto ad alcuni lavoratori africani «retribuzioni in modo palesemente difforme dalla legge e dai contratti collettivi […] ed in modo comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato», con «una paga minima di 5 euro all’ora» (contro i 7,47 decisi dalla contrattazione collettiva) e senza «il versamento di almeno due terzi dei contributi previdenziali».

L’azienda agricola è entrata nel settore del biologico 20 anni fa. Impiega tra i 12 e i 13 braccianti stagionali ogni anno.
Cerignola (Foggia), Aquamela Bio
Lavorano tre generazioni di agricoltori e braccianti ad Aquamela. Ci sono persone con un passato molto differente a raccogliere l’uva: altri agricoltori locali, lavoratori stranieri, detenuti ed ex detenuti come parte di un progetto di reinserimento sociale.
Cerignola (Foggia), Aquamela Bio
Un bracciante al lavoro nei campi di Aquamele Bio nell’agro di Cerignola.
Cerignola (Foggia), Aquamela Bio
Cerignola (Foggia), Aquamela Bio - L’azienda agricola è entrata nel settore del biologico 20 anni fa. Impiega tra i 12 e i 13 braccianti stagionali ogni anno.

Cerignola (Foggia), Aquamela Bio – L’azienda agricola è entrata nel settore del biologico 20 anni fa. Impiega tra i 12 e i 13 braccianti stagionali ogni anno.

Cerignola (Foggia), Aquamela Bio - Lavorano tre generazioni di agricoltori e braccianti ad Aquamela. Ci sono persone con un passato molto differente a raccogliere l’uva: altri agricoltori locali, lavoratori stranieri, detenuti ed ex detenuti come parte di un progetto di reinserimento sociale.
Cerignola (Foggia), Aquamela Bio – Lavorano tre generazioni di agricoltori e braccianti ad Aquamela. Ci sono persone con un passato molto differente a raccogliere l’uva: altri agricoltori locali, lavoratori stranieri, detenuti ed ex detenuti come parte di un progetto di reinserimento sociale.
Cerignola (Foggia), Aquamela Bio - Un bracciante al lavoro nei campi di Aquamele Bio nell’agro di Cerignola.
Cerignola (Foggia), Aquamela Bio – Un bracciante al lavoro nei campi di Aquamele Bio nell’agro di Cerignola.

Bio conviene, a prescindere dall’etica

Il punto è cercare di capire se questi casi sono episodi isolati o, invece, spie di una più ampia e preoccupante tendenza. Secondo Riccardo Bocci bisogna «vedere se la crescita di questo settore tiene il passo delle sue ambizioni etiche, sociali e politiche». Bocci è direttore tecnico di Rete semi rurali e ha una lunga esperienza nel campo. «Oggi – prosegue – l’aumento delle vendite dei prodotti bio legato alla grande distribuzione organizzata e, soprattutto, ai discount pone dei dubbi sull’eticità, per i diritti dei lavoratori ma anche per tutto il sistema di consumo e produzione». Anche Lucio Cavazzoni è un esperto di biologico ed è stato presidente di Alce Nero, uno dei maggiori marchi italiani del settore. A suo parere, «casi di grandi e medie aziende agricole che passano al biologico perché hanno dei vantaggi» esistono e «lo sfruttamento è sfruttamento, anche nel biologico». «Credo però – continua – che la grande massa dei produttori biologici sia lontana da queste pratiche».

L’ong Terra! ha lavorato con chi non è solo lontano da queste pratiche, ma le contrasta attivamente. Il progetto IN CAMPO! senza caporale ha garantito a una quindicina di braccianti provenienti dall’Africa subsahariana formazione, sostegno nel lasciare i ghetti e inserimento regolare in alcune aziende del foggiano. Tra queste vi è Aquamela bio, di Cerignola, comune di 60 mila abitanti con una delle superfici agricole più estese d’Italia.

«Il bio è ossigeno», dice Vito Merra, mentre raccoglie l’uva insieme a una squadra di braccianti, in parte italiani in parte stranieri. Aquamela bio è sua e di suo fratello Roberto: sono 23 ettari, sui quali coltivano anche cereali e olive, usate per produrre olio in proprio. I lavoratori sono tutti in regola: Aquamela bio paga loro tutte le giornate che effettivamente lavorano e consente loro di raggiungere così il numero minimo di giorni necessari per la disoccupazione. «I prodotti biologici hanno più valore e ci garantiscono margini più alti. E poi anche gli incentivi aiutano», spiega Merra.

L’esperienza di Terra! è positiva, ma piccola. Riguarda alcune decine di lavoratori e poche imprese, a fronte di oltre 70 mila aziende agricole biologiche attive in Italia e circa 180 mila braccianti vulnerabili stimati dalla Flai-Cgil in tutto il Paese. È significativa, però, perché mette in evidenza quale potrebbe essere il contributo di questo tipo di agricoltura nella lotta allo sfruttamento.

Il biologico in vendita

Ripartizione delle vendite di prodotti biologici per canale distributivo nel 2020

Il biologico, poiché è considerato positivo per l’ambiente e la salute, è sostenuto da incentivi pubblici. L’Italia, secondo gli ultimi dati disponibili, è lo stato europeo che ha ottenuto più fondi per il biologico dalla Politica agricola comune dell’Ue. I prodotti bio, inoltre, vengono venduti a prezzi più alti rispetto a quelli convenzionali. Secondo i dati Ismea, le arance biologiche vengono pagate ai produttori, in media, il 24% in più di quelle convenzionali, i pomodori il 53%, le mele il 103%. Per contro, non utilizzando la chimica, il biologico può avere una produzione meno ricca del convenzionale e ha dei costi aggiuntivi come quelli di certificazione, pesanti soprattutto per le piccole aziende. Nel complesso, però, il gioco può valere la candela. «Il biologico – riprende Merra – dà ad Aquamela bio la capacità economica di rispettare i diritti dei lavoratori».

Il biologico, quindi, può aiutare, ma da solo non è sufficiente a cambiare la situazione. Secondo operatori ed esperti del settore, servono più controlli da parte dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, il cui organico va potenziato, e criteri più rigidi per le certificazioni biologiche. Inoltre, sarebbe importante ragionare su quanto le leggi italiane in materia di immigrazione creino un serbatoio di lavoratori stranieri senza alternative: i cittadini extracomunitari la cui presenza in Italia è spesso legata al contratto di lavoro. «Ho sempre accettato di essere sfruttato per il semplice motivo che altrimenti non avrei ottenuto il rinnovo del permesso di soggiorno», ha spiegato con disarmante semplicità un bracciante africano nel corso di un’udienza.

Aquamela Bio è un’azienda biologica che possiede 23 ettari di terreno per cereali, uva e ulivi. Produce olio. L’azienda crede nell’agricoltura biologica, anche perché garantisce margini di profitto maggiori dell’agricoltura tradizionale.
Cerignola (Foggia)
Un trattore passa tra le piante di Aquamela Bio.
Cerignola (Foggia)
Cerignola (Foggia) - Aquamela Bio è un’azienda biologica che possiede 23 ettari di terreno per cereali, uva e ulivi. Produce olio. L’azienda crede nell’agricoltura biologica, anche perché garantisce margini di profitto maggiori dell’agricoltura tradizionale.
Cerignola (Foggia) – Aquamela Bio è un’azienda biologica che possiede 23 ettari di terreno per cereali, uva e ulivi. Produce olio. L’azienda crede nell’agricoltura biologica, anche perché garantisce margini di profitto maggiori dell’agricoltura tradizionale.
Cerignola (Foggia) - Un trattore passa tra le piante di Aquamela Bio.
Cerignola (Foggia) – Un trattore passa tra le piante di Aquamela Bio.

La “condizionalità sociale” dei fondi europei

Anche i fondi europei giocano un ruolo importante: per molte aziende agricole, biologiche e non, sono vitali e quindi la loro erogazione andrebbe collegata al rispetto dei diritti dei lavoratori, come previsto dalla nuova Politica agricola comune (Pac) Ue. «Francamente non vedo differenza tra agricoltura convenzionale e biologica: lo sfruttamento dei lavoratori rappresenta una piaga che non a caso abbiamo deciso di contrastare con l’inserimento della condizionalità sociale nella riforma della Pac. Questo strumento dovrà garantire che i fondi pubblici non vadano più nelle tasche di chi non rispetta i diritti», commenta Paolo De Castro, ex ministro dell’Agricoltura, oggi eurodeputato del Partito Democratico – Gruppo S&D.

La nuova Politica agricola comune, che il gruppo S&D ha votato, prevede una condizionalità sociale volontaria dall’anno prossimo e obbligatoria dal 2025. Per Daniel Freund, eurodeputato tedesco per i Verdi, che invece si sono opposti alla riforma della Pac, non è sufficiente. «Perché ci vuole così tanto tempo solo per rispettare le norme sociali e sanitarie di base in aziende agricole che a volte sono davvero spaventose? Le norme [per tutelare i lavoratori, ndr] esistono già. Perché non vengono applicate subito?», si chiede Freund.

La Politica agricola comune (Pac)

La Pac (o Cap, dall’acronimo inglese) è la Politica Agricola Comune, la voce alla quale storicamente viene destinata la fetta più ampia del bilancio dell’Unione europea. Per il periodo 2021-2027, si tratta di 387 miliardi di euro, pari a un terzo delle finanze Ue. Secondo molte organizzazioni ambientaliste, la nuova Cap non consentirà all’Ue di raggiungere gli obiettivi del Green Deal e, quindi, anche della strategia Farm to fork.

Secondo i legislatori, il periodo di transizione è necessario per consentire agli stati Ue di organizzarsi, dal momento che le modalità con cui i fondi verranno erogati (o negati) saranno decise a livello nazionale. Per Enrico Somaglia, vice segretario generale di Effat, la Federazione europea dei sindacati dei settori alimentari, agricoltura e turismo, «la condizionalità sociale va applicata il prima possibile e in modo corretto. Il meccanismo si basa su controlli ed ispezioni, che oggi sono troppo deboli e troppo poco frequenti». «Come sindacati – ragiona – sosteniamo la strategia Farm to fork e la crescita del bio per ragioni ambientali, ma la transizione ecologica deve essere un’occasione per migliorare le condizioni di lavoro e non una minaccia».

C’è poi la questione generazionale. Al tribunale di Cuneo, durante il dibattimento, è emerso che Diego Gastaldi era in disaccordo con il padre Graziano in merito al tipo di agricoltura che le aziende famigliari avrebbero dovuto praticare. Il genitore avrebbe voluto continuare col metodo convenzionale che aveva sempre usato. Il figlio, nato nel 1993, spingeva invece per passare al biologico, come effettivamente poi avvenuto. Questa differenza di vedute è paradigmatica in un momento di passaggio per l’agricoltura italiana. Oltre il 60% dei capi delle aziende agricole italiane ha più di 55 anni, il 38% addirittura più di sessantacinque. In un settore composto in gran parte da aziende famigliari, la generazione dei figli è spesso più istruita di quella dei genitori e si ritrova a valutare con maggiore interesse il biologico. Per convinzione o per opportunità.

Un sindacalista che preferisce rimanere anonimo spiega di aver parlato con imprenditori interessati a regolarizzare la posizione dei loro braccianti, anche in seguito alle azioni anti-caporalato di forze di polizia e magistratura. «Si interessano al bio perché pensano che possa essere un modo per mettere in regola i lavoratori mantenendo l’azienda sostenibile dal punto di vista economico», dice il sindacalista. Per il momento, si tratta di casi isolati. Ma in futuro, con l’avanzare del ricambio generazionale, l’entrata in vigore della condizionalità sociale, una maggiore repressione e una crescente domanda di prodotti biologici, potrebbero aumentare.

Intanto, anche ad Aquamela bio, a Cerignola, le generazioni si alternano. Vito Merra, oggi, coltiva insieme al fratello Roberto sulla terra che il nonno ottenne con la seconda riforma agraria nel dopoguerra. «La sua generazione era battagliera, era la generazione di Di Vittorio», dice, riferendosi allo storico segretario della Cgil nato proprio a Cerignola. Anche il padre dei fratelli Merra, che ora è in pensione, ha lavorato come agricoltore e presto, tra ulivi e viti, arriverà un’altra generazione, quella del figlio di Roberto. «Sta facendo agronomia all’università», dice il padre, con orgoglio.

AGGIORNAMENTO 11 APRILE 2022: Il giudice Alice Di Maio del Tribunale di Cuneo ha condannato in primo grado a 5 anni di reclusione Diego Gastaldi e la madre Marilena Bongiasca nell’ambito del primo procedimento per caporalato in provincia di Cuneo. Il padre di Diego Gastaldi, Graziano Gastaldi, è stato invece assolto. 

 

Operai al lavoro per la raccolta dei pomodori nei campi della Puglia occidentale, a sud est di Foggia, tra il capoluogo e i monti Dauni.
Castelluccio dei Sauri (Foggia)
Uno degli iconici cassoni di plastica usati per la raccolta dei pomodori. I cassoni vengono riempiti e i camion arrivano direttamente sui campi per trasportare i prodotti nel più breve tempo possibile.
Castelluccio dei Sauri (Foggia)
Castelluccio dei Sauri (Foggia) - Operai al lavoro per la raccolta dei pomodori nei campi della Puglia occidentale, a sud est di Foggia, tra il capoluogo e i monti Dauni.
Castelluccio dei Sauri (Foggia) – Operai al lavoro per la raccolta dei pomodori nei campi della Puglia occidentale, a sud est di Foggia, tra il capoluogo e i monti Dauni.
Castelluccio dei Sauri (Foggia) - Uno degli iconici cassoni di plastica usati per la raccolta dei pomodori. I cassoni vengono riempiti e i camion arrivano direttamente sui campi per trasportare i prodotti nel più breve tempo possibile.
Castelluccio dei Sauri (Foggia) – Uno degli iconici cassoni di plastica usati per la raccolta dei pomodori. I cassoni vengono riempiti e i camion arrivano direttamente sui campi per trasportare i prodotti nel più breve tempo possibile.

CREDITI

Autori

Paolo Riva

Ha collaborato

Michael Bird
Vlad Odobescu

Foto di copertina

Un bracciante al lavoro nei campi di Aquamela Bio nell’agro di Cerignola
(Diego Ravier)

Editing

Lorenzo Bagnoli

Infografiche

Lorenzo Bodrero

Con il sostegno di