Quel che sarà dell’agricoltura italiana

#Grainkeepers

Quel che sarà dell’agricoltura italiana

Paolo Riva

Per l’agricoltura europea, quello appena cominciato sarà un anno importante. Il 2023 segna l’avvio della nuova Politica agricola comune (Pac), che è la voce più importante del bilancio Ue nonché un sostegno fondamentale per gli agricoltori in tante parti del continente. L’Italia non fa eccezione, ma arriva a questo appuntamento affaticata. Per l’agricoltura italiana l’anno che si è appena concluso è stato difficile, per tante ragioni. E per questo, merita di essere rivissuto, a partire dall’estate 2022, che rischia di essere ricordata come una delle più aride degli ultimi cinquecento anni.

«Non cresce», dice Nicholas Fusar Poli accarezzando una piantina di erba medica che si alza appena una ventina di centimetri dal terreno secco. È la seconda metà di luglio e questo giovane agricoltore mostra i danni che la mancanza d’acqua ha causato alla sua azienda di Arluno, a ovest di Milano.

L’esperienza di Fusar Poli, che viene da una famiglia giunta alla quarta generazione di contadini, è esemplare delle difficoltà che stanno vivendo molti agricoltori italiani, stretti tra la crisi climatica, l’aumento dei prezzi e le ricadute della guerra in Ucraina.

Nicholas Fusar Poli, agricoltore e allevatore e titolare dell’azienda Le Robinie, in uno dei canali irrigui in secca tra i suoi campi coltivati a mais- Foto: Luca Quagliato

«Abbiamo 91 ettari di terreno e 110 mucche da latte – spiega Fusar Poli, che ha 24 anni e ha fatto l’istituto agrario -. Avevo piantato più erba medica per comprare meno mangimi proteici, ma poi c’è stata la siccità: la medica non è cresciuta e il mais sarà molto meno del solito», dice tra lo sconsolato e l’arrabbiato. Come capita spesso in Pianura padana, anche nell’azienda di Fusar Poli, gli animali vengono nutriti da quel che viene coltivato, soprattutto mais ma anche orzo, sorgo ed erba medica. Se il raccolto va male, le mucche devono comunque essere nutrite e il necessario va acquistato. Quest’anno, a prezzi particolarmente cari.

«Il mercato agricolo sale e scende, è così. I prezzi erano già cresciuti prima [del conflitto], ma con la guerra in Ucraina sono saliti, saliti, saliti…», dice l’agricoltore.

La dipendenza italiana

Nel 2022, in tutto il mondo, i prezzi sul mercato dei beni alimentari hanno raggiunto livelli record. «L’aumento ha caratterizzato soprattutto i beni di cui Russia ed Ucraina sono principali esportatori e si è aggiunto all’aumento dei prezzi trainato dalla crescita post pandemica della domanda di beni rispetto ad una produzione che è cresciuta più lentamente», ha scritto il Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria – Crea in un rapporto dell’ottobre 2022.

Il fenomeno, spinto anche dalla speculazione di banche e fondi, ha toccato il nostro Paese soprattutto in alcuni settori. «La crisi internazionale – prosegue il Crea – ha posto maggiore attenzione sulla dipendenza dell’Italia dall’estero per alcune produzioni, importanti per la nostra industria agroalimentare, tra cui i cereali, gli oli vegetali e i mangimi per la zootecnia».

Lo scorso anno, stando alle elaborazioni di Coldiretti su dati Istat, l’Italia aveva importato dall’Ucraina il 15% del mais destinato all’alimentazione degli animali, per un totale di 785 milioni di chili. Una quota che, dopo lo scoppio del conflitto, è stata sostituita in larga parte da quella proveniente da altri Paesi come il Brasile o gli Usa. Questi ultimi, scrive l’Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare – Ismea, «non figurano tra i nostri principali fornitori ma nel semestre in esame hanno aumentato le spedizioni con tassi di crescita di tre cifre sia in valore che in volume per raggiungere nei primi sei mesi del 2022 circa 24 milioni di euro per 70 mila tonnellate».

Nutrire gli animali, quindi, è diventato più costoso. Ma non si è trattato dell’unico rincaro che gli agricoltori come Fusar Poli hanno dovuto affrontare.

«La pianta di erba medica solitamente in questa fase della maturazione arriva all’altezza di 40/50 cm», dichiara Fusar Poli mentre maneggia alcune piante che non hanno raggiunto la maturazione per via della siccità. A causa della mancata maturazione della pianta, gli allevatori sono costretti all’acquisto di mangimi dall’esterno – Foto: Luca Quagliato
Un ramo terziario del canale Villoresi durante una secca programmata. La distribuzione delle acque irrigue avviene attraverso una regimentazione per la quale gli agricoltori pagano una quota a un consorzio di gestione che si occupa di garantire la manutenzione dei canali e un afflusso di acqua sufficiente alla maturazione delle colture. Durante il 2022, annata di siccità grave, il consorzio ha dovuto modificare la regimentazione delle acque dilatando i tempi tra un’irrigazione e l’altra – Foto: Luca Quagliato

A marzo, poco dopo l’invasione russa dell’Ucraina, sempre il Crea aveva stimato che, a fronte della situazione internazionale, le aziende italiane avrebbero potuto «subire incrementi dei costi correnti di oltre 15.700 euro» all’anno. A settembre ha rivisto i numeri, praticamente raddoppiandoli e spiegando come tra i settori più colpiti c’è la produzione di latte.

«L’impatto medio aziendale nazionale stimato è di 29.060 euro, mentre sugli allevamenti da latte sale addirittura a 90.129 euro. Tali aumenti sono legati all’eccezionale rincaro (a livello medio aziendale) delle spese per l’energia elettrica (+35.000 euro), per l’acquisto di mangimi (+34.000 euro) e dei carburanti (+6.000 euro)», dettaglia il report.

Lo scorso ottobre Coldiretti ha confermato, segnalando aumenti dei costi che vanno dal +170% dei concimi al +129% per il gasolio fino al +300% delle bollette per pompare l’acqua per l’irrigazione dei campi. E, la scorsa estate, i raccolti hanno avuto bisogno di molta acqua.

Aziende agricole a rischio

L’estate del 2022 verrà ricordata in tutta Europa per la mancanza d’acqua. La siccità, soprattutto nel nord dell’Italia, si è sommata agli altri problemi che l’agricoltura stava già affrontando e ha inciso negativamente sulla resa di diverse colture.

Nel caso del grano duro, per esempio, a fine luglio Isema stimava che la produzione italiana 2022 «potrebbe essere inferiore di circa il 16% rispetto all’anno precedente, prevalentemente a causa del deficit idrico registrato durante la fase post semina e delle elevate temperature degli ultimi mesi». Il calo riguarda molte regioni, pur con intensità diverse, e anche altri paesi Ue come la Francia.

Per quanto riguarda il mais, il quadro è ancora più fosco. Cesare Soldi, imprenditore agricolo in provincia di Cremona, membro di Confagricoltura e presidente dell’Associazione maiscoltori italiani – Ami, prova a fare i conti. «Quest’anno, come associazione, stimiamo un calo del 35% della produzione di mais rispetto al 2021», dice. Si tratta di una media nazionale che nasconde una forte eterogeneità, ma il dato è comunque forte. «Da una parte – riprende Soldi -, c’è la siccità e, dall’altra, ci sono la situazione incerta pre Covid e la guerra che hanno portato all’aumento dei costi. È un mix esplosivo che ci porta, per l’ennesima volta negli ultimi anni, a produrre sotto costo».

In pratica, nonostante i prezzi elevati dei generi alimentari, i produttori di mais ricevono per il loro prodotto meno di quanto spendono per coltivarlo. È una situazione insostenibile che ha ragioni specifiche legate al tipo di coltura, ma che quest’anno rischia di riguardare anche le aziende di altri settori.

Nello stesso studio in cui il Crea stimava l’aumento dei costi per le imprese agricole, l’istituto concludeva che «l’attuale crisi internazionale congiunturale può determinare in un’azienda agricola su dieci l’incapacità di far fronte alle spese dirette necessarie a realizzare un processo produttivo» e che «il 30% delle aziende su base nazionale» potrebbe «avere reddito netto negativo». Prima dell’attuale crisi, i due dati erano rispettivamente l’1% e il 7%.

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«Il conflitto avrà conseguenze sulla gestione economica e finanziaria delle aziende agricole. Le imprese a bassa capitalizzazione rischiano di uscire dal mercato. Potrebbe esserci una riorganizzazione in termini di efficienza, con impatti sociali non da poco», sostiene Alessandra Pesce, direttrice del Centro politiche e bioeconomia del Crea. In pratica, secondo la ricercatrice, gli agricoltori senza sufficienti risorse economiche potrebbero non farcela ad affrontare un periodo così impegnativo. Le loro aziende agricole potrebbero essere acquisite da altre oppure fallire.

Per Pesce, l’impatto maggiore è sui «costi di gestione e approvvigionamento di materie prime energetiche, di fertilizzanti e di mangimi». Fusar Poli, per esempio, dato che l’erba medica non è cresciuta a sufficienza per la siccità, ha dovuto comprare più mangimi proteici, i cui prezzi nel frattempo erano fortemente aumentati. Lo ha fatto rivolgendosi a Cargill, uno dei principali attori mondiali del settore. «Vorrei essere sempre meno dipendente da queste aziende, ma quest’anno non è stato possibile», dice.

Lo stesso accade in provincia di Cremona, poco lontano dal Po e dalle sue acque che, a luglio, erano estremamente basse per la mancanza di piogge.

Stefania Soldi osserva la grande mietitrebbia che passa sul campo di mais appartenente alla sua azienda zootecnica. «Cerchiamo di essere autonomi, ma con questo clima mai visto prima abbiamo dovuto comprare una parte dei mangimi», spiega. E anche in questo caso, i prezzi sono saliti. La crescita era già iniziata prima del conflitto e ha accelerato dopo l’invasione russa dell’Ucraina, anche a causa della speculazione finanziaria. Come a Fusar Poli, anche a Soldi, per acquistare il mais da destinare alle sue mucche, è capitato di rivolgersi a Cargill, che ha un impianto proprio poco lontano dalla sua azienda, nel comune di Sospiro in provincia di Cremona.

Il ruolo dei grandi player

L’Italia è uno dei settanta Paesi in cui Cargill opera, per un totale di 155 mila dipendenti e un fatturato che, nel 2020, ha superato i 134 miliardi di dollari. L’azienda, che non è quotata in borsa, è un trader di materie prime agricole e quindi è coinvolta in tutte le fasi della produzione e del commercio di questi prodotti: dall’origine alla lavorazione, dalla commercializzazione agli strumenti finanziari, dalla gestione del rischio alla distribuzione. Secondo un recente rapporto dell’ong Etc Group, che da decenni si occupa di sistemi alimentari, Cargill è il leader di questo settore, seguita dalla cinese Cofco, dalle statunitensi Archer-Daniels-Midland (ADM) e Bunge (rispettivamente terza e quinta per fatturato) e da Wilmar, con sede a Singapore.

Uno stabilimento della multinazionale dei mangimi Cargill a Sospiro, provincia di Cremona – Foto: Luca Quagliato
Trebbiatura di un campo coltivato a Mais destinato all’alimentazione animale a Pieve d’Olmi, provincia di Cremona – Foto: Luca Quagliato

Aziende come Cargill o Cofco rappresentano molto chiaramente il processo di consolidamento dell’industria agroalimentare mondiale in corso, attraverso fusioni e acquisizioni sia orizzontali sia verticali. Questo, scrive sempre Etc in un altro rapporto, rafforza «il modello alimentare e agricolo industriale, esacerbando le sue ricadute sociali e», «aggravando gli squilibri di potere esistenti» e rendendo «gli agricoltori sempre più dipendenti da una manciata di fornitori e acquirenti». La pubblicazione era del 2017 ma, cinque anni dopo, il fondatore di Etc Pat Mooney, conferma che la situazione non è cambiata. Anzi.

«Il livello di concentrazione è ulteriormente aumentato e il sistema industriale sta mostrando enormi problemi nelle catene di approvigionamento che non dipendono solo dalla situazione in Ucraina e che erano già stati riscontrati durante la pandemia», spiega Mooney.

Negli ultimi mesi, Cargill ha registrato un aumento del 23% dei ricavi, raggiungendo la cifra record di 165 miliardi di dollari (140 miliardi di sterline) per l’anno conclusosi il 31 maggio 2022; ADM ha realizzato i profitti più alti della sua storia nel secondo trimestre di quest’anno mentre le vendite di Bunge sono aumentate del 17% su base annua nel secondo trimestre, anche se i profitti sono stati influenzati da oneri precedentemente sostenuti.

Se da un lato un aumento dei ricavi è logico all’aumentare dei prezzi, dall’altro, secondo diverse organizzazioni non governative, questi colossi stanno approfittando della situazione e avrebbero potuto fare di più per evitare la crisi attuale.

Quel che è certo è che gli agricoltori come Fusar Poli si ritrovano inseriti in un sistema agroalimentare industriale che non li favorisce, esposti alle ripercussioni internazionali in materia di prezzi e schiacciati dagli effetti della crisi climatica, che in estati come quella appena trascorsa si è manifestata con particolare forza. «Devi continuamente adattarti. Sei sul filo del rasoio, non puoi sbagliare», dice Fusar Poli.

Più o meno consapevolmente, però, a stringere la morsa nella quale si ritrovano sono anche gli stessi agricoltori. Soprattutto quelli che producono cereali per la zootecnia. Come ha spiegato l’associazione Terra!, in Italia il 58% dei terreni sui quali si semina (i seminativi) è destinato ad alimentare animali, non persone. Nel caso specifico del mais, l’82 per cento del prodotto disponibile è destinato all’uso zootecnico.

Il punto è che gli allevamenti producono una grande quantità di emissioni di gas serra, che contribuiscono a peggiorare la crisi climatica. Nel 2020, il settore agricolo ha generato il 9% di tutte le emissioni italiane mentre, secondo l’ong Iatp, le prime venti aziende europee di carne e latticini producono l’equivalente di oltre la metà delle emissioni di Regno Unito, Francia e Italia. Anche per questo, la nuova Politica agricola comune Ue, in vigore dall’inizio del 2023, ha tra i suoi obiettivi quello di rendere il settore primario europeo più sostenibile dal punto di vista ambientale.

L’alba di una nuova PAC

Il primo gennaio 2023, dopo una serie di rinvii causati dalla pandemia, è iniziata la nuova programmazione della la Politica agricola comune dell’Unione europea (Pac), che proseguirà fino al 2027. Tra le principali novità di questa ultima versione della Pac, che è già stata oggetto di altre riforme in passato, vi sono maggiore attenzione all’ambiente e più autonomia per gli Stati.

Il primo aspetto si concretizza negli ecoschemi, che sono sostegni economici garantiti alle aziende agricole che hanno usato determinate pratiche ecosostenibili. Il secondo aspetto, invece, lo si ritrova nei Piani strategici nazionali, che i Paesi membri concordano con la Commissione Ue per spendere i fondi Pac nel modo per loro più adatto. Quello dell’Italia è stato approvato ad inizio dicembre.

«La Commissione europea ha approvato il Piano strategico italiano per la Pac, con circa 37 miliardi per i prossimi cinque anni a sostegno della competitività e della sostenibilità del settore produttivo agricolo e agroalimentare. È un’ottima notizia, per un provvedimento molto atteso da tutto il comparto», ha commentato il ministro dell’Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste, Francesco Lollobrigida.

Il piano, in realtà, è opera di Stefano Patuanelli, ministro con il precedente governo. La caduta dell’esecutivo Draghi e le conseguenti elezioni hanno ritardato l’approvazione del documento, creando diversi problemi agli agricoltori. I fondi Pac, infatti, sono vitali per i bilanci di molte aziende agricole e capire come vengono assegnati può orientare le loro scelte in termini di colture o pratiche da seguire.

«Fino ad oggi, i pagamenti diretti della Pac hanno garantito a chi produce mais 360 euro all’ettaro, che danno la possibilità di essere in attivo», spiega Cesare Soldi di Ami. In pratica, a suo parere, produrre mais in Italia senza i soldi Ue non è economicamente sostenibile.

Con la nuova Pac, però, il quadro è destinato a cambiare. Il Piano strategico nazionale è stato sostanzialmente ben accolto dalle organizzazioni degli agricoltori. Il presidente di Coldiretti Ettore Prandini, pur affermando che «non è certo la riforma agricola dei sogni per gli agricoltori», lo ha definito «un compromesso utile a tenere insieme la sostenibilità economica, ambientale e sociale delle nostre aziende agricole».

Il giudizio, però, varia molto da settore a settore. E quello di Soldi non è così positivo.

«I seminativi come mais, frumento tenero e orzo, risultano penalizzati [dal Piano strategico nazionale]», dice. I sostegni a questo tipo di colture sono stati modulati in modo diverso rispetto alla Pac precedente e sono complessivamente diminuiti. Il mais passa da 360 euro all’ettaro a circa 230, compreso il pagamento dell’ecoschema 4. Anche Giuseppe Romano, agronomo e presidente dell’Associazione italiana agricoltura biologica – Aiab, riconosce che «in tutta la Pac, i seminativi escono affaticati».

In primo piano, un campo coltivato a grano e sorgo, sullo sfondo un campo coltivato a mais. Il sorgo è un cereale con un’alta resistenza a condizioni di siccità: «Quando il sorgo è troppo bello non è un buon segno», dichiara Nicholas Fusar Poli, agricoltore e allevatore dell’azienda Le Robinie di cui è titolare – Foto: Luca Quagliato
Lo stoccaggio di trinciato di mais destinato all'alimentazione bovina. Il trinciato è prodotto dalla raccolta meccanizzata della pianta di mais nel suo intero e stoccato per garantire l'alimentazione dei bovini durante la stagione tra un raccolto e l'altro - Foto: Luca Quagliato
Lo stoccaggio di trinciato di mais destinato all’alimentazione bovina. Il trinciato è prodotto dalla raccolta meccanizzata della pianta di mais nel suo intero e stoccato per garantire l’alimentazione dei bovini durante la stagione tra un raccolto e l’altro – Foto: Luca Quagliato

É l’unico punto su cui Soldi e Romano concordano. Per il resto, per il presidente di Aiab, «la Pac ha risposto fin troppo alle richieste nate dopo l’invasione dell’Ucraina».

L’agronomo si riferisce alla condizionalità rafforzata, il cui avvio è stato rimandato al 2024 per le conseguenze del conflitto scatenato dalla Russia. Il meccanismo incrementa le pratiche ambientali che gli agricoltori devono eseguire per ricevere i pagamenti di base, tra cui le rotazioni delle colture.

Secondo Romano, si tratta «di pratiche agroecologiche positive che andrebbero fatte a prescindere dalla Pac». Per Soldi, invece, sono una difficoltà ulteriore, che renderà ancora meno sostenibile la coltivazione del mais. «Vengono meno le aziende, diminuiscono le superfici di mais coltivate e aumentano le importazioni», dice, spiegando quel che è successo negli ultimi anni in Italia e, a suo parere, potrebbe succedere anche in futuro. Qualche segnale positivo, però, potrebbe arrivare dai mercati.

«Mai visto nulla del genere»

A novembre, Ismea ha annunciato che i prezzi di cereali, frutta, semi oleosi e vino hanno registrato un calo nel terzo trimestre 2022 rispetto al trimestre precedente e che, per la prima volta da inizio 2022, si è registrato «un calo congiunturale dei prezzi degli energetici (-4,6% rispetto al secondo trimestre)».

Segnali positivi, ma di portata limitata. Il calo ha riguardato solo i prezzi di un numero limitato di prodotti, mentre quelli di altri hanno continuato a salire. «L’aumento dei prezzi, tuttavia, non compensa completamente i maggiori costi dei produttori e l’Ismea prevede una lieve diminuzione su base congiunturale del valore aggiunto agricolo, così come indicano le stime preliminari Istat sul Pil del terzo trimestre», ha aggiunto l’istituto.

Le difficoltà per gli agricoltori, quindi, non sembrano destinate a ridursi. Anche a causa della crisi ambientale. «Il cambiamento climatico non è mai stato un problema così forte – ragiona Fusar Poli -. Magari pioveva meno, ma pioveva. Quest’anno, invece… Anche mio padre e mia nonna non hanno mai visto qualcosa del genere. Ogni tanto ci penso e mi chiedo se sono sicuro di andare avanti con questa roba qua che non sai come va a finire». L’impatto della crisi climatica sembra destinato ad aumentare, d’ora in avanti. Nessuno può ancora prevedere le conseguenze che avrà sul mestiere dell’agricoltore.

CREDITI

Autori

Paolo Riva

Editing

Giulio Rubino

Foto di copertina

Bovini che si alimentano all’interno di una delle stalle dell’azienda Le Robinie
(Luca Quagliato)

Con il sostegno di

Gli ultraricchi dell’agricoltura europea

Gli ultraricchi dell’agricoltura europea

Edoardo Anziano
Paolo Riva

Negli ultimi otto anni, l’1% delle aziende agricole europee ha incassato 150 miliardi di euro in fondi messi a disposizione dalla Politica agricola comune (PAC). Si tratta di un terzo dell’intera torta dei finanziamenti. È il risultato dell’ultimo aggiornamento di FarmSubsidy.org, sito che raccoglie tutti i dati sui beneficiari dei fondi PAC nei 27 Stati membri dell’Unione europea (più il Regno Unito). Quest’elaborazione, realizzata da FragDenStaat in collaborazione con Arena for Journalism, si basa sui dati relativi al periodo che va dal 2014 al 2021.

La piattaforma FarmSubsidy.org è stata lanciata nel 2005 e mette a disposizione informazioni provenienti da registri pubblici e richieste di accesso agli atti con l’intento di rendere tracciabile la distribuzione dei fondi europei per l’agricoltura: i dati che esistono sono infatti parziali e spesso non sono nemmeno ricercabili. Prima dell’avvento di FarmSubsidy, non erano nemmeno pubblici. Dopo le prime uscite, si scoprì che tra i maggiori beneficiari comparivano rampolli della famiglia reale inglese ed ereditieri di famiglie nobili europee, il cui nome fino a quel momento era rimasto nascosto. Oggi si leggono anche nomi di grandi gruppi agroindustriali, aziende chimiche ed energetiche, enti pubblici e religiosi.

La Politica agricola comune, finanziata con le tasse dei contribuenti dell’Unione europea, è stata varata per la prima volta sessant’anni fa, nel 1962. Anche se il suo peso è andato diminuendo nel corso dei decenni, è ancora la voce del bilancio comunitario più rilevante. Nel periodo 2014-2020, la dotazione era di 408 miliardi di euro, mentre in quello attuale, 2021-2027, l’ammontare è sceso a 378 miliardi di euro, che valgono comunque più del 30% del budget complessivo dell’Unione.

Per i suoi sostenitori, come le principali associazioni di agricoltori e alcuni accademici, nel lungo periodo, la politica agricola comune ha migliorato la produttività, ha assicurato un’integrazione al reddito fondamentale per i contadini e ha garantito ai cittadini approvvigionamenti di cibo sicuri e a prezzi complessivamente ragionevoli. Per i suoi critici, tra cui molte organizzazioni ambientaliste, invece, questa politica ha generato un sistema insostenibile dal punto di vista ambientale e sociale, favorendo l’agroindustria a discapito dei piccoli produttori. Accuse che trovano conferma in diversi elementi contenuti nel database FarmSubsidy, che viene pubblicato alla vigilia di un importante momento di passaggio: il primo gennaio 2023, infatti, con due anni di ritardo, entrerà in vigore la più recente riforma settennale della PAC.

Scarsa trasparenza sui beneficiari

Il database FarmSubsidy.org contiene informazioni su circa 131 milioni di pagamenti a 17,3 milioni di beneficiari della Politica agricola comune. A partire dal 2014, almeno 453 miliardi di euro sono stati erogati in 27 Paesi dell’Unione (più la Gran Bretagna). La maggior parte dei fondi è andata a Francia (79,5 miliardi), Spagna (57,6), Germania, (53,2), Polonia (51,8). Lo stato membro più piccolo, Malta, è anche il Paese che ha ricevuto meno fondi (solo 149 milioni). I dati contenuti in FarmSubsidy sono stati raccolti direttamente dai governi degli Stati membri che li hanno pubblicati, oppure richiesti attraverso FOIA. I dati disponibili, tuttavia, contengono solo informazioni sui beneficiari diretti, ovvero le aziende che ricevono i fondi dall’agenzia di pagamento nazionale, che nel caso dell’Italia è l’AGEA, l’Agenzia per le erogazioni in agricoltura. I beneficiari ultimi sono invece coloro che – società o persone – controllano più del 25% del beneficiario diretto.

Come riporta uno studio del Parlamento europeo non esiste un database, né comunitario né nazionale, per identificare i beneficiari ultimi. Questo pone un problema di trasparenza e di controllo, anche perché la pubblicazione dei dati sui beneficiari ultimi non è obbligatoria. Lo studio dell’Europarlamento si è concentrato sui 50 maggiori beneficiari della PAC tra 2018 e 2019. Si tratta di una fotografia estremamente limitata, considerando che negli stessi due anni oltre 10 milioni di beneficiari hanno ricevuto fondi per l’agricoltura. I risultati della ricerca mostrano che i principali beneficiari – ultimi e diretti – sono stati persone o famiglie. Un quarto dei beneficiari diretti è risultato anonimizzato, mentre nel 13% dei casi non è stato possibile identificare i beneficiari diretti a causa della cattiva qualità dei dati. Proprio per questi motivi, un altro studio sempre commissionato dal Parlamento europeo ha chiesto che fosse introdotto un database unico dei beneficiari di tutti i fondi europei.

Negli ultimi anni, anche grazie a inchieste come #OpenLux, è emersa l’importanza di avere registri dei beneficiari ultimi delle società che siano pubblicamente consultabili. La giurisprudenza europea, tuttavia, sembra andare in direzione opposta. A fine novembre, infatti, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha invalidato una disposizione contenuta nella Quinta direttiva Ue anti-riciclaggio, che prevedeva proprio la possibilità di «qualsiasi membro del pubblico» di accedere alle informazioni sui titolari effettivi.

In un’ottica di trasparenza, FragDenStaat in collaborazione con Arena for Journalism in Europe ha raccolto e reso cercabili i dati sui beneficiari della Politica agricola comune dell’ultimo decennio. I dati per questa inchiesta sono stati analizzati in collaborazione con NDR, WDR, Süddeutsche Zeitung, Correctiv, Der Standard, IrpiMedia, Reporter.lu, Reporters United Greece, Expresso, Follow the Money and Gazeta Wyborcza.

Distribuzione dei fondi PAC: in Europa vincono le grandi aziende

L’analisi dei dati mostra che nei Paesi presi in esame dalle testate che partecipano al progetto insieme a IrpiMedia sono soprattutto le grandi aziende agricole e grandi imprese ad aver ottenuto la quota maggiore dei fondi PAC. Le ricerche svolte, in diversi casi, confermano che la situazione potrebbe non migliorare con l’entrata in vigore della riforma, l’anno prossimo. Gli esempi sono diversi. Le multinazionali alimentari Südzucker AG e FrieslandCampina, per esempio, ricevono decine di milioni di euro in sussidi PAC in tutta l’Ue mentre, in Germania, tra i beneficiari dei fondi ci sono anche grandi aziende chimiche come BASF e Bayer, il gigante dell’energia RWE o le holding di alcuni dei tedeschi più ricchi, come la fondazione degli eredi della catena di discount ALDI.

In Austria, una buona parte dei sussidi va alla Chiesa cattolica e agli aristocratici che hanno ereditato grandi possedimenti terrieri. Inoltre, nonostante la percentuale di agricoltori biologici del Paese sia la più alta d’Europa, l’associazione di categoria che li rappresenta sostiene che, con la nuova PAC, i sussidi che riceveranno dal 2023 saranno inferiori a quelli dei periodi precedenti. In Polonia, a ricevere la maggior parte dei sussidi sono istituzioni statali e locali. E, anche in questo caso, la Chiesa cattolica: 2.600 parrocchie hanno ricevuto un totale di oltre 160 milioni di euro nel corso degli ultimi anni. Tra i beneficiari, anche monasteri, fattorie appartenenti alle arcidiocesi e uno dei più importanti vescovi del Paese.

Anche nei Paesi Bassi la PAC sostiene soprattutto gli agricoltori e i proprietari terrieri più ricchi, in particolare gli allevatori di bestiame. Con i fondi che finiscono per favorire un’ulteriore intensificazione degli allevamenti non una loro riduzione, rendendo limitato l’effetto dei sussidi per un’agricoltura rispettosa dell’ambiente. In Lussemburgo, sebbene la concentrazione dei fondi sia meno pronunciata rispetto alla maggior parte degli Stati Ue, le imprese ricevono in media molti più sussidi di quelli che spettano alle aziende agricole a conduzione famigliare.

In Grecia, infine, nell’ultimo decennio sono emersi gravi problemi sistemici relativi ai criteri di distribuzione dei sussidi agricoli. Infatti, i principali beneficiari nella stragrande maggioranza dei casi sono stati istituzioni pubbliche, enti di diritto privato e talvolta aziende, ma raramente agricoltori. Anche il primo ministro greco, Kyriakos Mitsotakis, ha ricevuto sovvenzioni per terreni che, a Creta, sono storicamente proprietà della sua famiglia. I rapporti della Commissione europea pubblicati dopo le verifiche di conformità in Grecia parlano di mancanza di trasparenza nella selezione dei progetti, inadeguatezza del monitoraggio degli agricoltori che violano le norme sui sussidi e altre criticità. E con l’avvio della nuova PAC nel 2023, che garantirà agli Stati membri una maggiore autonomia nell’erogazione dei sussidi, si teme che la situazione possa peggiorare ulteriormente.

Soldi alle imprese

Media dei fondi PAC ricevuti per soggetto beneficiario nei Paesi europei (più il Regno Unito) fra 2014 e 2021 in euro

AOP e OP: chi sono i principali beneficiari della PAC in Italia

Nel 2021, su un bilancio totale di 168,5 miliardi di euro, l’Unione europea ne ha stanziato oltre un terzo per la PAC (55,71 miliardi di euro, pari al 33,1%). Gli stanziamenti sono in netto calo rispetto agli anni Ottanta, quando all’agricoltura era destinato il 66% del bilancio comunitario, ma rappresentano comunque la voce di spesa più rilevante. La necessità di supportare in modo estensivo il settore primario deriva dalla maggiore dipendenza dell’agricoltura dai cambiamenti del clima e dalla difficoltà di adeguare rapidamente l’offerta a una domanda crescente di cibo. A questo si aggiunge il fatto che un agricoltore guadagna approssimativamente il 40% in meno rispetto alle altre categorie professionali.

Di fronte a queste difficoltà, la PAC interviene con integrazioni al reddito degli agricoltori (i cosiddetti “pagamenti diretti”), con misure di tutela del mercato e stanziamenti per lo sviluppo rurale. Il 94% delle risorse stanziate nel 2019 sono andate ad aiutare direttamente gli agricoltori. Inoltre, la maggior parte dei pagamenti sono stati di piccola entità (inferiori a cinquemila euro), mentre solo l’1,93% dei beneficiari ha ricevuto più di 50 mila euro.

Per l’Italia, tra i primi cinque beneficiari degli ultimi otto anni troviamo tre Associazioni di organizzazioni di produttori (AOP) e due Organizzazioni di produttori (OP). In pratica, non stiamo parlando di singole grandi imprese, che pure figurano nelle posizioni successive e hanno un loro peso, ma di enti di secondo o terzo livello che raggruppano numeri elevati di aziende agricole e agricoltori. Chi ha ottenuto più fondi in assoluto, superando i 238 milioni di euro, è l’AOP italo-francese Finaf, che si occupa di ortofrutta. Poi, sempre nello stesso settore, viene l’Associazione di Organizzazioni di Produttori Gruppo Viva con 174 milioni, quindi il consorzio olivicolo Unaprol (anch’esso AOP, con 73 milioni) e i giganti delle mele Vip in Val Venosta e Melinda in Val di Non (entrambe OP, con rispettivamente 72 e 60 milioni di euro). Le AOP Viva e Finaf sono anche tra i primi dieci beneficiari di tutta l’Unione europea.

Le OP e le AOP aiutano gli agricoltori a ridurre i costi di operazione e a collaborare alla trasformazione e alla commercializzazione dei loro prodotti. Servono a rafforzare il potere contrattuale collettivo degli agricoltori, per esempio concentrando l’offerta, migliorando la commercializzazione o fornendo assistenza tecnica e logistica. Per questo, l’Ue riconosce il ruolo di queste organizzazioni sia garantendo loro alcune deroghe in materia di concorrenza sia dando loro accesso ad alcuni fondi della Politica agricola comune.

«La PAC è fatta di tre strumenti: pagamenti diretti, sostegni settoriali e sviluppo rurale. I pagamenti diretti vanno principalmente a chi ha più ettari. Questo ha favorito le grandi aziende. Poi ci sono i fondi per lo sviluppo rurale e l’8% che va ai sostegni settoriali, i cui beneficiari sono le Organizzazioni dei produttori (OP) e i consorzi. Gli stanziamenti per vino, olio e ortofrutta vanno a pochi soggetti aggregati, ma i benefici vanno ai soci, quindi a tanti agricoltori. La concentrazione di soldi della PAC alle OP c’è in tutta Europa, ma non va letta come concentrazione in poche mani, ma in tante mani. Significa favorire gli agricoltori che si aggregano», commenta Angelo Frascarelli, professore associato del Dipartimento di scienze agrarie alimentari e ambientali presso l’Università di Perugia e presidente dell’Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare (ISMEA).

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«Una volta che le organizzazioni di produttori o i gruppi di produttori sono riconosciuti dagli Stati membri in determinati settori (ortofrutticolo, apicoltura, vitivinicolo, luppolo, olio d’oliva e olive da tavola…) le entità che operano in uno di questi settori possono beneficiare dell’assistenza finanziaria dell’Unione per i sostegni settoriali (ad esempio, investimenti, promozione, formazione, ecc.). La possibilità di beneficiare dei sostegni settoriali può favorire la creazione di tali entità», aggiunge un funzionario Ue sentito per email da IrpiMedia.

L’Italia è, con Francia e Germania, uno dei Paesi in cui le Organizzazioni di produttori sono più presenti, anche se con un numero medio di membri molto più elevato del dato comunitario: un quarto delle OP riconosciute ha più di duemila membri, mentre nella maggior parte dei casi in Europa le organizzazioni ne hanno meno di 100. Diversa, invece, è la situazione per le Associazioni di organizzazioni di produttori.

«In base alle informazioni della Commissione – riprende il funzionario Ue – le AOP sono comuni in Italia, ma le singole organizzazioni di produttori membri di tali AOP potrebbero non essere così grandi. Queste organizzazioni sono molto meno diffuse in altri Stati membri importanti come la Spagna o la Germania, mentre alcuni esempi di AOP si trovano anche in Belgio e in Francia». Finaf, ad esempio, è nata nel 2001 sfruttando la possibilità di associarsi a livello transnazionale tra AOP, grazie alla fusione tra la AOP italiana Conerpo e l’organizzazione di produttori francese Conserve Gard. E oggi è la più grande associazione di produttori agricoli in Europa, con oltre novemila membri.

Tra i top beneficiari, c’è l’AOP Vi.Va, al primo posto nel 2020 (con 34 milioni) e al terzo posto l’anno successivo (con 17 milioni). Presidente del gruppo è Marco Casalini, a sua volta presidente della Cooperativa Terremerse, beneficiaria di oltre 230 mila euro negli ultimi sei anni. Direttore di Vi.Va è Mario Tamanti, responsabile finanziamenti della cooperativa ortofrutticola Apofruit, che fra 2015 e 2020 ha incassato quasi 20 milioni in contributi PAC. Sia Apofruit sia Terremerse sono membri di CSO Italy – Centro Servizi Ortofrutticoli, un’organizzazione che aggrega oltre 70 fra Organizzazioni di Produttori, Associazioni di Organizzazioni di Produttori e aziende della logistica. La stessa CSO ha preso quasi sette milioni di fondi europei. Sempre fra i primi 25 c’è la già citata Unaprol (29 milioni totali in due anni), consorzio olivicolo con a capo David Granieri, Vicepresidente di Coldiretti e Presidente di Coldiretti Lazio. Tutti casi esemplificativi di come i soggetti organizzati e con una presenza consolidata nel settore riescano ad accaparrarsi la fetta più grossa dei sussidi.

Un’azione dimostrativa di Greenpeace per sollevare il tema del “greenwashing” in seno alla Politica agricola comune, il 26 maggio 2021 – Foto: Thierry Monasse/Getty

Le principali S.p.a. d’Italia in agricoltura

Un altro ambito di analisi importante dei dati italiani della PAC è quello legato alle società per azioni che, stando all’ultimo censimento Istat sullo stato dell’agricoltura, tra 2010 e 2020, sono cresciute del 42%. «Le società di capitali sono talmente poche che è bastato qualche cambiamento per far registrare un loro significativo aumento», commenta Frascarelli. Rispetto ad AOP e OP, la presenza delle S.p.a. su FarmSubsidy.org è molto meno evidente. Il database contiene i nomi di 435 società per azioni italiane cui, tra 2015 e 2021, sono stati erogati dei sussidi PAC, per un totale di 293 milioni di euro. Si va dai 60 milioni del 2015, ai 27 toccati l’anno dopo e ai 47 del 2021. In media, si tratta solo dello 0,96% dei fondi italiani, l’1,08% se prendiamo solo il 2021.

Secondo Frascarelli, «non c’è una diffusione enorme di queste realtà. Ci sono alcuni grandi attori». Che, consultando FarmSubsidy.org, spiccano in maniera evidente. Due in particolar modo.

Il primo è Genagricola S.p.a. che, tra 2015 e 2021, ha ottenuto 15.283.563,56 euro di fondi PAC. La società, che si definisce «la più grande azienda agricola italiana», è controllata dal Gruppo Generali e ha ventidue tenute in tutto il Paese, dal Veneto alla Calabria, dal Friuli al Lazio e all’Emilia Romagna. Genagricola ha chiuso il 2021 con un fatturato che si assesta sui 60 milioni di euro e, come ha spiegato il Ceo Igor Boccardo al Sole 24 Ore, ora punta «sull’integrazione verticale»: «Le produzioni agricole sono pagate poco. […] Nella filiera agricola il valore aggiunto è soprattutto nella trasformazione e noi dobbiamo riappropriarcene. […] Vogliamo trasformare quello che produciamo», ha dichiarato.

Soldi alle aziende agricole “S.p.a.” in Italia

Fondi PAC ricevuti da Società per Azioni (SpA) in Italia fra il 2015 e il 2021 in milioni di euro.

Il secondo grande attore è Bonifiche Ferraresi S.p.a. Nel database FarmSubsidy compaiono tre nominativi diversi per indicare la società per azioni che, in totale, ha beneficiato di 19.824.529,73 di euro di fondi PAC tra 2015 e 2021. Bonifiche Ferraresi S.p.a. fa parte del Gruppo BF S.p.a., una holding quotata alla Borsa di Milano che, si legge sul suo sito, è in grado di presidiare «tutta la filiera agricola, industriale e distributiva». L’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm) definisce BF S.p.a. un «primario operatore nazionale attivo, a livello integrato, nel settore agroindustriale».

Secondo Altreconomia, che al gruppo ha dedicato un’inchiesta, BF S.p.a. «con le sue controllate ha inglobato ormai i segmenti chiave del comparto. Dalla selezione, lavorazione e vendita delle sementi alla proprietà dei terreni, dalla progettazione di contratti di filiera alla realizzazione di impianti per la macinazione di cereali, dalla trasformazione dei prodotti alla loro commercializzazione nei canali della Grande distribuzione organizzata anche tramite un marchio di proprietà».

Come per Genagricola, anche in questo caso e, anzi, in proporzioni ancora maggiori, torna il tema dell’integrazione verticale, che può influenzare l’intero settore. Sia per le dimensioni di BF Spa sia per i suoi consolidati rapporti. Uno è quello con Coldiretti, con la quale ha diverse collaborazioni, a cominciare da quella societaria in Filiera Italia. Un altro è con Eni, con cui ha appena firmato un accordo per lo sviluppo di colture per uso energetico.

Le società di capitali operanti nel settore, quindi, sono poche ma importanti perché grazie alle loro risorse possono indicare possibili evoluzioni del settore, ma anche contribuire a determinarle.

Per Riccardo Bocci, «la loro crescita consente di riflettere sulla crisi dell’agricoltura». Il ragionamento di Bocci, agronomo e direttore tecnico di Rete Semi Rurali, parte da lontano. «Sul finire degli anni Duemila, il sociologo rurale olandese Jan van Der Ploeg indicava come strategia di sopravvivenza possibile per gli agricoltori quella di scollegarsi dai mercati mondiali sia in relazione alla fornitura dei mezzi di produzione sia al mercato dei prodotti, per rinforzare la loro autonomia e costruire nuove relazioni con gli attori delle filiere locali a partire dai consumatori». Quest’idea è definita “ricontadinizzazione”, ma non è l’unica strategia di sopravvivenza possibile. «L’altra – riprende Bocci – è la finanza. La finanza consente di far fronte ai costi di produzione più alti, coprendo le differenze e spalmando i costi su più anni, come invece non possono fare le aziende agricole senza particolari capitali a disposizione. È un elemento nuovo, ma sta crescendo».

La fotografia dell’agricoltura in Italia

Nel 2022 l’Istat ha pubblicato il settimo censimento generale sullo stato dell’agricoltura in Italia. Le statistiche confermano una tendenza alla concentrazione delle aziende agricole che, seppur in atto da tempo, ha subito un’accelerazione significativa negli ultimi vent’anni. L’Istat certifica la presenza in Italia di 1.133.023 aziende agricole nel 2020. Nel 2000 erano più del doppio, quasi 2,4 milioni, mentre rispetto al terzo censimento (1982) il settore agricolo ha perso più di due terzi delle sue aziende (-63,8%). Alla diminuzione delle aziende agricole non corrisponde una altrettanto marcata riduzione dell’estensione della superficie agricola utilizzata (SAU, -20,8%) e totale (SAT, -26,4%) rispetto al 1982. Questo significa che il numero di aziende sta diminuendo molto più velocemente rispetto alla superficie agricola, mentre le loro dimensioni medie raddoppiano se confrontate con quelle di circa quarant’anni fa. Solo negli ultimi 10 anni, riporta l’Istat, a un calo del 30% nel numero di aziende (-487 mila), la Superficie agricola utilizzata è diminuita appena del 2,5%, la Superficie agricola totale del 3,6%.

Meno aziende possiedono, mediamente, appezzamenti di terreno più grandi. Anche i dati sulla proprietà confermano questo trend. Fra 2020 e 2010, l’unica forma societaria in diminuzione è quella dell’azienda individuale o a conduzione familiare (-2,6%) – che rimane pur sempre la quasi totalità delle aziende agricole italiane (93,5%). Quasi raddoppiano, però, società di persone (dal 2,9 al 4,8%) e società di capitali (dallo 0,5 all’1%). Queste due forme societarie hanno dimensione media molto più grande, e pesano in proporzione di più delle aziende familiari o individuali in termini di superficie agricola che utilizzano.

Complessivamente, conclude il censimento Istat, l’agricoltura italiana è caratterizzata «dall’inevitabile e progressivo processo di uscita dal mercato delle aziende non più in grado di sostenere la propria attività – prevalentemente di piccole dimensioni e a gestione familiare».

A fare da contraltare alla diminuzione delle aziende individuali e famigliari, in Italia, c’è l’aumento delle società di capitali di cui, tra 2010 e 2020, l’Istat ha certificato una crescita del 42 per cento. È la tipologia di azienda che è cresciuta maggiormente. Il dato impressiona, ma non deve trarre in inganno. Come detto, le SpA sono solo l’un per cento di tutte le aziende agricole italiane.

Pro e contro la PAC

AOP, OP e S.p.a. però sono solo alcuni degli elementi su cui ragionare per cercare di capire quali sono gli effetti dei miliardi con cui la Politica agricola comune sostiene l’agricoltura italiana. «Per il sostegno al reddito degli agricoltori, la PAC ha avuto un ruolo importante perché i redditi dei settori extra agricoli sono molto più alti di quelli agricoli, lo dicono i dati Ue: extra agricoli 29 mila euro per lavoratore, agricoli 18 mila euro. Sarebbero stati 14 mila senza la PAC. L’integrazione al reddito ha favorito la permanenza degli imprenditori e dei lavoratori in agricoltura», spiega Frascarelli. Il professore fa riferimento ad altri dati del censimento Istat sullo stato dell’agricoltura, quelli secondo cui, negli ultimi dieci anni, le aziende familiari e individuali in Italia sono le uniche ad essere drasticamente diminuite. Da un lato, per Frascarelli, si tratta di un processo di concentrazione «inevitabile, che in altri settori avviene da cinquant’anni». Dall’altro, «se non ci fosse stata la PAC, probabilmente avrebbero chiuso più aziende».

Di segno opposto, invece, sono le valutazioni di molte organizzazioni non governative, soprattutto ambientaliste, le cui critiche partono spesso da un dato: il 20% dei beneficiari PAC ottiene l’80% del sostegno. La cifra, spiega un altro funzionario Ue, «riguarda i pagamenti diretti» che, come abbiamo visto, sono una delle componenti dei fondi. «Questo valore varia ampiamente tra gli Stati membri, dal 48% al 91%. Infatti, essendo i pagamenti diretti pagati per lo più in ettari, il cosiddetto “rapporto 80/20” riflette principalmente la concentrazione della proprietà terriera, che varia a seconda degli Stati», prosegue il funzionario. Per quanto riguarda l’Italia, nel 2021, il 20% dei beneficiari ha ricevuto il 77% dei pagamenti diretti.

Secondo il WWF quella operata dalla PAC è «una distribuzione non equa delle risorse pubbliche basata essenzialmente sul possesso della terra e dei titoli storici e non sul riconoscimento economico delle esternalità positive per l’ambiente e la società dei diversi processi produttivi». «La distribuzione dei fondi pubblici della PAC con l’80% delle risorse assegnate al 20% dei beneficiari, con le piccole aziende che resistono nei territori più svantaggiati, come le aree montane, inevitabilmente penalizzate se non hanno la capacità o possibilità di aggregarsi, rimane del tutto inefficiente e inefficace per sostenere il tessuto agricolo di qualità e dall’alto valore sociale e ambientale», aggiunge WWF insieme ai partner di #CambiamoAgricoltura, una coalizione nata per chiedere una nuova PAC, più sostenibile.

I fondi della PAC in Italia

Distribuzione dei beneficiari diretti dei fondi PAC 2019 in Italia divisi per tipologia di azienda

L’alba di una nuova, vecchia PAC

Il primo gennaio 2023 entrerà in vigore la riforma della Politica agricola comune approvata dal Consiglio dell’Unione europea a dicembre 2021. Fra gli obiettivi della nuova PAC, in ritardo a causa della pandemia, ci sono il sostegno agli agricoltori e all’economia rurale, la gestione sostenibile delle risorse, la salvaguardia del paesaggio. Una delle questioni centrali del nuovo corso è «aumentare il contributo dell’agricoltura nel raggiungimento degli obiettivi ambientali e climatici dell’Ue», allineando i fondi per l’agricoltura agli obiettivi del Green Deal.

L’idea è che anche l’agricoltura europea debba fare la sua parte nella lotta al cambiamento climatico. Perché la crisi ambientale è sempre più evidente. Ma anche perché, finora, quel che ha provato a fare sembra essere stato poco efficace. Uno studio della Corte dei Conti europea pubblicato nel 2021 sostiene che la PAC, nel periodo 2014-2020, quello in larga parte al centro dell’aggiornamento di FarmSubsidy.org, non abbia contribuito a ridurre le emissioni del settore zootecnico, né ad aumentare il «contenuto di carbonio stoccato nel suolo e nelle piante». Le misure ambientali della precedente programmazione, insomma, non hanno funzionato. E il rischio è che non lo facciano nemmeno in questa.

La riforma, infatti, pone maggiori responsabilità in capo ai singoli Stati, chiedendo a ciascuno di loro di elaborare un Piano strategico nazionale, con obiettivi specifici, diversi da Paese a Paese. I documenti di ventuno Stati sono già approvati, gli altri dovranno esserlo entro la fine dell’anno. Secondo le associazioni ambientaliste European Environmental Bureau e Bird Life la maggior parte dei piani non presenta obiettivi concreti in termini di riduzione della perdita di biodiversità e riduzione di gas serra. Del resto, come spiega un funzionario Ue, «il Parlamento europeo e il Consiglio non hanno integrato obiettivi specifici per il Green Deal nella legislazione sulla PAC. Ciò significa che, sebbene la Commissione abbia invitato gli Stati membri a essere ambiziosi per quanto riguarda il Green Deal, questo non è un requisito legale per i piani strategici».

Vecchie e nuove questioni, quindi, si intrecciano, nelle critiche alla PAC. L’accusa di sostenere troppo i grandi attori che ora diventa ancora più pesante perché si lega a quella di causare troppe emissioni dannose per il clima. Vale anche per l’Italia, il cui piano strategico è stato approvato agli inizi di dicembre 2022. Nel dialogo tra la Commissione e il precedente ministro dell’Agricoltura Stefano Patuanelli, i funzionari Ue avevano rilevato che la prima bozza inviata da Roma a Bruxelles nei mesi scorsi conteneva obiettivi di contrasto al cambiamento climatico insufficienti. Allo stesso modo, quattordici organizzazioni ambientaliste e dei consumatori che avevano partecipato al Tavolo di partenariato creato dal Ministero dell’agricoltura per redigere il piano si erano dissociate dal documento finale «ritenuto deludente e inefficace».

«Il Piano è stato redatto secondo il principio prevalente, se non esclusivo, della tutela del reddito delle aziende agricole di grandi dimensioni […], mantenendo un sistema iniquo che premia le aziende in funzione della loro dimensione, senza contrastare la drammatica emorragia di piccole aziende agricole sempre più in difficoltà nelle aree interne e senza affrontare in modo efficace i pesanti impatti del settore zootecnico su ambiente e salute», scrivono Slow Food, Terra! e WWF, tra gli altri. «L’Italia – concludono le associazioni – conferma così l’interpretazione della Politica comune dell’Unione europea per l’agricoltura essenzialmente come una politica economica basata su sussidi a pioggia, ignorando l’enorme spazio di manovra con cui il settore primario potrebbe agire, se opportunamente incentivato, per ridurre il proprio impatto sul clima e sulla perdita della biodiversità».

 

 

L’articolo è stato aggiornato in data 5/12/2022 riportando la notizia dell’approvazione del Piano Nazionale Strategico sulla PAC per l’Italia. 

CREDITI

Autori

Edoardo Anziano
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FragDenStaat (Germania)
Arena for Journalism (Paesi Bassi)
NDR (Germania)
WDR (Germania)
Süddeutsche Zeitung (Germania)
Correctiv (Germania)
Der Standard (Austria)
Reporter.lu (Lussemburgo)
Reporters United (Grecia)
Expresso (Portogallo)
Follow the Money (Paesi Bassi)
Gazeta Wyborcza (Polonia)

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Edoardo Anziano

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Una collina di vigneti a Greve in Chianti, Toscana
(DEA/S.AMANTINI/Getty)

I Signori del grano

I Signori del grano

#Grainkeepers

Icereali sono il nuovo petrolio, i terreni agricoli le nuove cisterne e le navi cariche di grano i nuovi oleodotti. Con l’aumento del valore dei raccolti, ogni Paese in possesso di questa risorsa si trova in una posizione di potere e ogni trasporto diventa un’operazione politicamente sensibile.

Nel XX secolo le nazioni che sfruttavano le loro riserve di petrolio hanno approfittato del boom della domanda di idrocarburi, aprendo un divario tra Stati ricchi e poveri in Medio Oriente, Europa e Africa. Il presente rischia un nuovo squilibrio, tra i Paesi e le multinazionali che controllano le terre fertili, il raccolto e la vendita dei prodotti, e quelli che non hanno alcun potere in questa catena di approvvigionamento.

L’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022 ha esacerbato questo “divario del grano”, provocando un’impennata dei prezzi di molti cereali, interrompendo molte rotte e mettendo a rischio la vita di milioni di persone in quei Paesi che non possono più permettersi di importare del cibo.

Questa crisi ha messo in evidenza i vincitori e i vinti nella lotta per l’accesso ai cereali, che analizziamo nel progetto giornalistico transfrontaliero The Grainkeepers, con il sostegno del Journalism Fund.

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Quel che sarà dell’agricoltura italiana

Quel che sarà dell’agricoltura italiana

Il 2022 dell’agricoltura italiana è stato duro. Con il 2023 prende il via la nuova Politica Agricola Comune Ue. Ma il rischio è che a farne le spese sarà l’ambiente

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Guerre rurali, lo scontro per la “sovranità alimentare”

09 Novembre 2022 | di Paolo Riva

Negli anni Novanta, al momento della sua nascita, il termine “sovranità alimentare” significava costruire un sistema di sviluppo agricolo ed economico diverso da quello fondato sul mercato libero e l’assenza di dazi doganali. Secondo la definizione del 1996 de La Via Campesina, movimento internazionale di lavoratori della terra e contadini piccoli e medi, “sovranità alimentare” è «il diritto dei popoli, delle comunità e dei Paesi di definire le proprie politiche agricole, del lavoro, della pesca, del cibo e della terra che siano appropriate sul piano ecologico, sociale, economico e culturale alla loro realtà unica». A portarlo alla ribalta, molti anni dopo, sono stati però i partiti politici di destra insieme all’invasione russa in Ucraina. Con un significato molto diverso da quello originale.

Il nuovo governo di Giorgia Meloni ha cambiato il nome del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali in Ministero dell’agricoltura e della sovranità alimentare. «La sovranità alimentare non è un concetto di destra», ha spiegato in un’intervista il neoministro Francesco Lollobrigida, che già aveva precisato come anche nella Francia di Emmanuel Macron, molto lontana dalle posizioni politiche di Fratelli d’Italia, si utilizzasse lo stesso concetto. Secondo l’esperto di sistemi alimentari Nicolas Bricas, in realtà, «il termine sovranità alimentare è molto caro all’estrema destra francese». «Il Rassemblement national è molto radicato negli ambienti rurali – prosegue Bricas che fa parte di IPES Food, un panel di esperti indipendenti in sistemi alimentari sostenibili -. Macron aveva bisogno di sedurre quell’elettorato e quindi ha cercato di accontentarlo».

Pochi giorni dopo l’invasione dell’Ucraina di fine febbraio, “sovranità alimentare” ha fatto la sua comparsa anche in un documento del Consiglio dell’Unione europea (in quel momento guidata dalla presidenza a rotazione della Francia): i ministri dell’agricoltura dei 27 hanno detto di voler «migliorare la resilienza e la sovranità alimentare dell’Ue» e di «incorporare la sovranità alimentare nella politica agricola Ue». Ne ha parlato poi Copa-Cogeca, la più importante organizzazione di agricoltori del continente: per fare fronte alla «questione essenziale di sovranità alimentare e di stabilità democratica» posta dal conflitto, ha chiesto alle istituzioni europee «di poter coltivare tutte le terre disponibili nel 2022 per compensare il blocco della produzione russa e ucraina», «per evitare interruzioni nelle catene di approvvigionamento, che inevitabilmente porteranno a carenze in alcune parti del mondo».

La pressione ha sortito gli effetti desiderati: nel giro di un mese, a fine marzo, la Commissione ha approvato «una gamma di interventi a breve e a medio termine» in ambito agroalimentare, tra i quali «una deroga eccezionale e temporanea» per consentire agli agricoltori, proprio come chiesto da Copa-Cogeca, di coltivare anche quei terreni che, solitamente, vengono lasciati a riposo o a prato permanente per ragioni ambientali. Il provvedimento riguardava solo il 2022, ma a luglio è stata decisa un’ulteriore deroga per tutto il 2023.

È così che la sovranità alimentare è entrata nel novero degli argomenti a sostegno dell’imperativo di produrre di più, molto lontano dall’obiettivo originale de La Via Campesina.

Il progetto I Signori del grano

I Signori del grano è una serie sul divario crescente tra Stati ricchi e poveri nella disponibilità di risorse agricole scatenato dalla guerra in Ucraina. La serie è realizzata in collaborazione con Scena9 e NOW, grazie al sostegno di JournalismFund.

Ambiente Vs produzione

La pandemia, prima, e il conflitto in Ucraina, poi, sono arrivati in un momento cruciale per l’agricoltura europea. Il settore è responsabile di circa il 12% delle emissioni di gas serra Ue e, di queste, quasi il 70% arriva dagli allevamenti. Per combattere il cambiamento climatico, quindi, l’agricoltura va resa più sostenibile. Per questo, nel maggio 2020, la Commissione Ue, nell’ambito del Green Deal europeo, ha presentato la strategia Farm to Fork – dal produttore al consumatore (F2F).

Agricoltura insostenibile

Il settore agricolo, nel 2020, è stato responsabile di circa il 12% delle emissioni di gas serra Ue. Di queste, quasi il 70% arriva dagli allevamenti

Il documento ha al suo interno diversi obiettivi, come per esempio la riduzione dell’uso dei pesticidi chimici e la crescita delle superfici coltivate a biologico. Alcuni principi sono stati parzialmente incorporati nella nuova programmazione della Politica Agricola Comune (PAC), in partenza a gennaio 2023, ma la maggior parte dovranno essere concretizzati in nuovi testi legislativi. Il mondo agricolo europeo è spaccato in merito all’attuazione della strategia F2F.

Secondo diverse organizzazioni di categoria degli agricoltori, le norme proposte potrebbero portare a un calo della produzione agricola europea, facendo aumentare i prezzi e rendendo l’Europa dipendente dalle importazioni. «C’è il rischio che le nuove normative siano un boomerang – sostiene Vincenzo Lenucci, direttore Politiche europee e internazionali di Confagricoltura, organizzazione italiana che fa parte di Copa-Cogeca -. Potrebbero rendere difficile avere una disponibilità di cibo sufficiente, salubre e accessibile», aggiunge riferendosi ad alcuni studi sull’impatto della Farm to Fork e del Green deal europeo pubblicati negli ultimi anni, come quelli di JRC e Wageningen University & Research. A causa del minor uso di pesticidi e fertilizzanti e del maggiore ricorso all’agricoltura biologica, il primo studio stima un calo medio della produzione agricola tra il 5 e il 15% mentre il secondo tra 10 e il 20%.

L’industria agricola e quella chimica europee, per l’ong che si occupa di lobbying e trasparenza Corporate European Observatory, stanno cercando di «far deragliare la Farm to Fork, utilizzando la crisi ucraina per rinvigorire le argomentazioni contro le pratiche agricole più ecologiche», già espresse anche prima del conflitto, ma senza esiti. «Copa-Cogeca – scrive ancora Corporate European Observatory – ha collaborato con il gruppo del Partito popolare puropeo (PPE) per indebolire e bloccare le regole vitali per l’attuazione degli obiettivi climatici». L’ong, inoltre, sostiene che il rapporto del JRC sia incompleto e tenda a privilegiare i fattori economici rispetto a quelli sociali e ambientali mentre ricorda che quello di Wageningen University & Research è stato commissionato dall’associazione di categoria delle imprese agrochimiche Croplife Europe e si basa su 25 casi studio relativi a «solo dieci colture in sette Stati membri».

Rilievi simili sono stati fatti da associazioni e parlamentari ambientalisti, convinti che l’attuale sistema agroindustriale vada superato, producendo in maniera più sostenibile e cambiando la destinazione dei prodotti.

Oggi il 52% dei cereali prodotti e importati in Ue viene usato per nutrire gli animali e solo il 19% per uomini e donne. «Ci troviamo di fronte a un problema di solidarietà e di organizzazione del mercato, non a un problema di volume», sostiene Benoît Biteau, agricoltore biologico francese, eurodeputato verde e vicepresidente della commissione agricoltura del Parlamento europeo. A suo giudizio, la scelta della Commissione di derogare temporaneamente ad alcune norme ambientali è una decisione politica «molto discutibile». In questa situazione, anziché produrre di più, secondo Biteau, bisognerebbe «controllare la speculazione», «tassare i superprofitti» dei grandi attori internazionali e «riorientare parte delle scorte destinate all’allevamento verso l’alimentazione umana», compensando economicamente gli allevatori penalizzati.

Per Bricas, le deroghe decise a marzo rivelano «uno scontro interno alla Commissione Ue»: «Da un lato – spiega l’esperto di IPES Food – c’è chi vuole aumentare la produzione di cereali per recuperare quote di mercato ed evitare una crisi globale. Dall’altro, chi vuole difendere la strategia Farm to Fork», proponendo di sprecare meno cibo e cambiare alcune abitudini alimentari. Ad impersonificare le due posizioni all’interno dell’esecutivo comunitario ci sono Frans Timmermans, il socialista olandese vicepresidente della Commissione e responsabile del Green Deal, e Janusz Wojciechowski, il commissario polacco all’agricoltura, del partito di governo PiS. Il primo sostiene con forza la F2F, mentre il secondo vuole incrementare la produzione.

Ma lo scontro non si esaurisce nelle stanze dei palazzi di Bruxelles e nei prossimi mesi è destinato a intensificarsi per diversi motivi. Uno di questi è l’estate appena trascorsa. La siccità che ha investito l’Europa quest’anno è stata talmente acuta che, secondo i ricercatori del Joint Research Centre, potrebbe rivelarsi la peggiore degli ultimi cinquecento anni. Ovvio che ne abbia risentito fortemente anche l’agricoltura.

Siccità e deroghe

Stando alle ultime previsioni della Commissione europea, principalmente a causa della siccità la produzione cerealicola Ue 2022 dovrebbe essere inferiore sia a quella dello scorso anno sia alla media degli ultimi cinque, rispettivamente del 7,8 e del 5,1%. Tra i Paesi con le prestazioni peggiori, se comparate con il quinquennio precedente, ci sono Ungheria, Romania, Spagna, Francia e anche l’Italia, con un calo superiore alla media europea. Oltre alla mancanza d’acqua, hanno influito sicuramente anche il caro energia, il conseguente aumento dei costi di produzione e il fatto che le deroghe stesse siano state decise a marzo e inizialmente durassero solo fino a dicembre.

Sta di fatto che, per ora, le deroghe alle norme ambientali non hanno ottenuto i risultati sperati. «La disponibilità di cibo – continua la Commissione – non è a rischio nell’Ue» che, anzi, grazie alle scorte degli anni precedenti, dovrebbe esportare cereali per «51 milioni di tonnellate, con un aumento del 6,5% rispetto alla scorsa stagione e del 20,9% rispetto alla media quinquennale».

La crisi Ucraina, che ha spinto alcuni stati sull’orlo della carestia perché non potevano permettersi di importare cibo, in Europa non ha causato un problema di disponibilità degli alimenti, quanto piuttosto di accessibilità, soprattutto per i cittadini meno abbienti. «Le importazioni totali dell’Ue hanno subito un impatto minimo» dal conflitto, ha spiegato Rico Ihle, professore della Wageningen University nel corso di un’audizione al parlamento europeo a fine ottobre. «Le importazioni dall’Ucraina – ha aggiunto – non sono crollate, alcune sono addirittura aumentate. Il crollo delle importazioni dalla Russia è stato sostituito. Nessun problema di scarsità nell’Ue, in quanto il modello commerciale è cambiato a malapena». Per contro, solo per fare un esempio, in agosto, il prezzo del pane in Unione europea è stato più alto del 18% rispetto all’anno precedente, con punte del 33% in Lituania e del 66% in Ungheria.

Caro pane

Variazione percentuale del prezzo del pane ad agosto 2022 rispetto all’anno precedente. La media in Unione europea segna un +18%, con punte del +33% in Lituania e del +66% in Ungheria

La sicurezza alimentare non è mai venuta meno. I dati oggi lo dicono, ma alcune scelte politiche, come l’estensione al 2023 delle deroghe ambientali, nel frattempo sono state prese. E altre dovranno esserlo presto. Da un lato, molti agricoltori sostengono che le oggettive difficoltà create dalla siccità e il perdurare della guerra siano ulteriori motivi per non approvare ora misure ambientali che potrebbero rendere la loro vita ancora più complessa, limitare la produzione e far alzare ulteriormente i prezzi. Dall’altro, i sostenitori della Farm to Fork rispondono che un’agricoltura più sostenibile serve proprio a essere meno dipendenti dai fattori di produzione chimici e a non esacerbare la crisi climatica, che causa eventi estremi inediti come quello di quest’estate. Come Timmermans aveva dichiarato a fine aprile, ancora prima che la siccità si manifestasse in tutta la sua gravità, questa strategia «è un tentativo di salvare l’agricoltura, non di punirla, alla luce degli effetti devastanti della perdita di biodiversità e dei cambiamenti climatici sulla produzione alimentare a livello globale».

Nonostante gli appelli del vicepresidente, però, il percorso della Farm to Fork procede difficoltoso, tra ritardi e spinte in direzione contraria.

Uno degli esempi più significativi riguarda la proposta di riforma del regolamento per i pesticidi. Il testo legislativo per dimezzare l’uso dei pesticidi chimici entro il 2030 era programmato per il primo trimestre 2022, era stato annunciato per marzo e poi è stato rimandato fino a fine giugno. Presentandolo, Timmermans ha dichiarato che «utilizzare la guerra in Ucraina per annacquare le proposte e spaventare gli europei facendogli credere che la sostenibilità significhi meno cibo è francamente irresponsabile». Tuttavia, quando a settembre la proposta è arrivata al Parlamento europeo, è stata duramente criticata da popolari e liberali proprio per il suo effetto sulla sicurezza alimentare europea e per la mancanza di una valutazione di impatto su questo tema specifico. L’iter di approvazione si annuncia lungo e complesso. E il tempo a disposizione è ormai limitato.

«La proposta sull’uso sostenibile dei prodotti fitosanitari è arrivata in ritardo. Non sappiamo se riuscirà ad essere approvata prima della fine della legislatura», ragiona Ellen Hof, direttrice operativa ed esperta di agroalimentare per la società di consulenza con sede a Bruxelles #SustainablePublicAffairs. La scadenza può sembrare ancora lontana, ma i negoziati per le norme europee richiedono tempo, perché vanno trovati dei compromessi sia tra le diverse forze politiche sia tra le diverse istituzioni Ue, con Parlamento e Consiglio cui spetta il voto finale. Per fare un paragone, la discussa normativa che prevede la fine delle vendite delle auto a combustione è stata presentata nel luglio 2021 e solo nelle prossime settimane la plenaria del Parlamento Ue dovrebbe votare per l’ultima e definitiva volta la sua entrata in vigore. In tutto, fa quasi un anno e mezzo. Che è all’incirca quanto manca al prossimo voto continentale.

Transizione a rischio

«Ci stiamo ormai dirigendo verso le elezioni europee della primavera 2024. È improbabile – riprende Hof – che sulle iniziative legislative in arrivo nei prossimi mesi Consiglio e Parlamento europeo trovino un compromesso, portando quindi alla loro approvazione». Chi è contrario alla strategia Farm to Fork o, più in generale, al Green deal europeo, quindi, può anche non battersi nelle trattative per cambiare i testi legislativi, ma può semplicemente cercare di allungare i tempi il più possibile per non arrivare ad alcuna decisione.

«Onestamente, la situazione non è buona», commenta Thomas Waitz, europarlamentare austriaco copresidente del Partito verde europeo. «I prossimi anni saranno fondamentali per raggiungere gli obiettivi climatici. Ciò significa che molte industrie e conservatori dovranno cambiare il loro modello di business, potrebbero non guadagnare più come prima e faranno di tutto per impedirlo», attacca.

In una delle prime interviste da quando è stato nominato, il ministro dell’agricoltura e della sovranità alimentare Lollobrigida ha dichiarato che serve «una riforma della PAC che si liberi dall’ ideologia intrinseca del Farm to Fork» e che bisogne togliere il limite ai terreni incolti perché «non basta quello che ci mette a disposizione l’Europa». Per quanto ancora un po’ vaga, quest’ultima proposta rimanda alle richieste fatte anche da altri attori europei di estendere ulteriormente le deroghe alle norme ambientali già prese per questo e il prossimo anno fino alla fine dell’attuale programmazione PAC, nel 2027.

Un’eventuale decisione di questo tipo sarebbe un’ulteriore battuta d’arresto per la transizione verde dell’agricoltura europea. Al tempo stesso, potrebbe essere un’astuta mossa elettorale dei Conservatori e riformisti europei, il partito ECR di cui fanno parte Lollobrigida e Fratelli d’Italia, il Commissario polacco all’agricoltura Janusz Wojciechowski e anche la presidenza di turno del Consiglio dell’Unione europea, fino a fine anno nelle mani del governo conservatore ceco. Il gruppo ECR, oggi, non fa parte della maggioranza popolari-liberali-socialisti che al Parlamento europeo sostiene la Commissione Von der Leyen, ma le cose potrebbero cambiare dopo le elezioni del 2024. Alcuni osservatori pensano che si potrebbero creare nuove alleanze nella parte destra dell’emiciclo continentale. Dei segnali, in tal senso, sembrano esserci stati, come la nomina di un membro ECR, il lettone Roberts Zīle, tra i vicepresidenti dell’eurocamera lo scorso gennaio.

Per ora si tratta solo di ipotesi, ma a Bruxelles, riprende Hof, ci si inizia a chiedere «cosa ne sarà del Green Deal europeo e di tutte le misure ad esso collegate, anche in campo agricolo». «Cosa succederà dopo il voto?», si domanda con una certa preoccupazione la direttrice operativa di #SustainablePublicAffairs.

In attesa del 2024, quello agricolo potrebbe diventare un terreno fertile per coltivare intese politiche inedite. E la sovranità alimentare potrebbe diventare un concetto intorno al quale testarle, trasformandosi da critica del sistema a tattica per mantenere lo status quo: produrre di più, come si è sempre fatto.

Foto: Una mietitrebbia al lavoro in un campo di grano in Germania – Picture Alliance/Getty
Editing: Lorenzo Bagnoli
Infografiche: Lorenzo Bodrero
In partnership con: Scena9, NOW
Con il supporto di: JournalismFund

La zona grigia dell’agricoltura dei pesticidi

#PesticidiAlLavoro

La zona grigia dell’agricoltura dei pesticidi

Edoardo Anziano
Lorenzo Bagnoli
Francesco Paolo Savatteri

Èun mistero il numero di lavoratori agricoli che si sono ammalati o sono morti in Europa di malattie come Parkinson e tumore alla prostata negli ultimi cinquant’anni. Nonostante la pletora di studi che riconoscono il nesso tra alcune patologie e le sostanze attive dei fitofarmaci, i dati sanitari sui lavoratori scarseggiano, anche per la poca volontà di conoscere fino in fondo la situazione, come raccontato nella scorsa puntata di #PesticidiAlLavoro.

A mantenere l’alone di mistero intorno ai dati italiani sulle malattie correlate all’uso dei pesticidi, ci sono prassi consolidate, regolamenti sorpassati e disinteresse nella gestione dei rischi di infortunio sul lavoro. Di fondo, c’è un’opacità del mondo agricolo che è dovuta in parte alla mancanza di personale che dovrebbe svolgere i controlli: ispettori del lavoro, forze dell’ordine (Guardia di finanza e Nas), ispettori Inps e Inail, ispettori regionali dei fitofarmaci. Sei categorie sotto organico – hanno spiegato a IrpiMedia fonti del settore – che non riescono a controllare quanto dovrebbero, soprattutto le aziende più piccole, le più numerose e le più esposte.

L'inchiesta in breve
  • In Italia i pochi dati sulle morti e i casi di malattia riconducibili all’uso dei pesticidi sono dovuti a una serie di fattori strutturali.
  • Il mercato agricolo italiano è composto da aziende a conduzione familiare spesso piccole e con poca capacità ad adeguarsi alle regole per la sicurezza. Le organizzazioni che dovrebbero svolgere controlli periodici sulle condizioni di lavoro sono sotto organico e questo incentiva delle condizioni di irregolarità nella gestione dei prodotti più pericolosi.
  • Momo e Job Tax sono due inchieste delle procure di Cuneo e Latina per sfruttamento lavorativo. Entrambe, però, hanno raccolto prove dell’uso di fitofarmaci senza mascherine e senza la minima formazione da parte degli stessi lavoratori stagionali stranieri sfruttati.
  • Tra i fitofarmaci usati senza precauzioni ci sono anche prodotti che sono stati recentemente vietati dalla Commissione europea perché ritenuti pericolosi.
  • Tra questi ce n’è anche uno di quelli inseriti dall’Inail tra le lavorazioni previste per il riconoscimento del morbo di Parkinson. Lavorazione, malattia e tempo utile della denuncia sono le tre condizioni richieste per l’ottenimento della malattia occupazionale.
  • C’è la possibilità anche di ottenere il riconoscimento di un indennizzo attraverso una causa legale, ma non sempre medici del lavoro e patronati sono preparati a sufficienza per dare un vero contributo ai ricorsi.

L’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) spiega che solo 260 ispettori (dati 2020) si occupano della categoria Salute e sicurezza, in cui rientrano anche il mancato uso dei dispositivi di protezione individuale (Dpi) e la mancata formazione dei lavoratori. Per il settore agricolo, le violazioni in materia di Salute e sicurezza accertate dall’Inl nel 2020 sono state 660. «Si sta cercando solo adesso di incentivare la conoscenza e di migliorare le condizioni di prevenzione alla sicurezza nell’uso dei fitofarmaci», spiega l’agronomo Carlo Antellini, formatore di corsi Inail per l’uso dei fitofarmaci che opera nella regione della Sabina, nel Lazio.

Malgrado le regole da seguire, «il mercato è talmente viziato che i prodotti si vendono online», aggiunge. In teoria, infatti, il mercato dei pesticidi dovrebbe essere altamente regolato. I punti vendita dovrebbero consegnare il prodotto solo a chi può esibire un patentino. Invece sulle piattaforme e-commerce generaliste chiunque può comprare, anche prodotti che ormai sono vietati sul mercato europeo, ma che continuano a circolare altrove (vedi articolo precedente). Significa che il patentino obbligatorio per l’acquisto di un fitosanitario non verrà richiesto. «Servirebbero più controlli», è l’auspicio di Antellini. I consorzi di agricoltori autorizzati a vendere i pesticidi non hanno risposto alle richieste di chiarimenti di Scomodo e IrpiMedia in merito al funzionamento del mercato dei prodotti fitosanitari e ai connessi problemi di controlli..

Da alcuni casi giudiziari è possibile comunque ricostruire il modo in cui alcune aziende hanno gestito i fitofarmaci negli ultimi anni. Sono una fonte collaterale, perché i procedimenti sono scaturiti dopo segnalazioni di sfruttamento lavorativo, quindi nulla a che vedere con l’uso dei fitofarmaci.

Le malattie tabellate

Perché un lavoratore, una volta che si presentano i sintomi di una patologia, possa ottenerne da parte dell’Inail il riconoscimento “automatico” del suo carattere professionale, devono verificarsi tre condizioni: la malattia deve essere inserita nelle tabelle Inail delle malattie riconosciute come professionali; la malattia deve essere provocata da una lavorazione prevista dall’Inail; deve essere denunciata entro un periodo stabilito («periodo massimo di indennizzabilità»). Altrimenti può sempre percorrere la via giudiziaria e presentarsi di fronte a un giudice del lavoro. Strada che però è più difficile e costosa.

Per il morbo di Parkinson, le lavorazioni previste sono quelle «che espongono
all’azione del etilenbisditiocarbammato di manganese» entro dieci anni. L’etilenbisditiocarbammato di manganese è una molecola che si trova all’interno di certi fungicidi come il Mancozeb, revocato nel febbraio 2021.

Le operazioni Momo e Job Tax

I dati del Laboratorio sullo sfruttamento lavorativo dell’associazione AdiR – L’altro diritto aggiornati al 2020 riportano un solo caso, a Saluzzo, in cui i braccianti agricoli entravano a contatto con i fitofarmaci – sia nei campi che nei magazzini – senza alcun tipo di dispositivo di protezione personale. L’inchiesta, denominata operazione Momo, è iniziata nel maggio del 2019 sotto la guida della Procura di Cuneo. Un presunto caporale era stato arrestato, mentre due imprenditori erano finiti ai domiciliari con l’accusa di sfruttamento lavorativo. Durante il processo, iniziato a settembre 2020 e ancora in corso, gli imprenditori hanno rigettato l’accusa di sfruttamento, sottolineando di non aver mai effettuato trattamenti fitosanitari mentre i lavoratori si trovavano nei campi.

Ad aprile 2021, in provincia di Latina, sette persone – fra imprenditori agricoli e presunti caporali – sono state arrestate con l’accusa di associazione a delinquere dedita allo sfruttamento e all’estorsione. L’operazione, denominata Job Tax, è stata condotta dai Nas, con il coordinamento della Procura di Latina. Agli indagati è stato contestato l’impiego illegale di pesticidi, anche vietati.

L’operazione Momo a Cuneo e l’operazione Job Tax a Latina hanno in comune un contesto di presunto sfruttamento lavorativo, un minimo comune denominatore che fa da sfondo all’impiego di pesticidi senza protezioni per i lavoratori. Il fenomeno, come indicano le inchieste giudiziarie, appare diffuso in tutta Italia. Secondo Marco Omizzolo, sociologo esperto di sfruttamento in agricoltura di lavoratori migranti, «a livello nazionale ci sono stati interventi soprattutto delle forze dell’ordine e delle diverse procure. Hanno certificato l’esistenza del fenomeno sul piano investigativo ed è un dato interessante che riguarda sia il sud che il nord Italia, ovvero forme di economia, di sviluppo e produzione agricola diverse, ma spesso caratterizzate dall’utilizzo di fitofarmaci in quantità eccedente quella legale o l’utilizzo di fitofarmaci illegali».

Agricoltura a conduzione familiare

L’ultimo rapporto Istat sull’agricoltura (dati 2017, il prossimo censimento verrà aggiornato a giugno 2022) conta 413 mila imprese agricole, cioè imprese che hanno come attività primaria la gestione di campi, boschi o allevamenti. Sono inserite nel più ampio insieme delle aziende agricole (1,6 milioni), cioè tutte le imprese che svolgono attività relative all’agricoltura.

Le imprese agricole rappresentano due terzi della dimensione economica italiana e circa il 65% dei 12,8 milioni di ettari coltivabili. Poco più di un terzo del totale di tutte le aziende agricole hanno un titolare che è «unità economica non attiva». Significa che il settore agricolo non è il suo unico lavoro.

Un altro 30% delle aziende agricole è a conduzione familiare con dimensioni molto piccole, sotto i due ettari. In altri termini, l’agricoltura italiana è composta da piccole imprese. Dal censimento Istat 2010 emergeva anche che «la formazione dei capi azienda è decisamente ancora molto legata all’esperienza di campo e meno al grado di istruzione conseguito. Il 71,5% dei capi azienda ha un livello d’istruzione pari o inferiore alla terza media (70,8% per gli uomini e 73% per le donne). Solo il 6,2% dei capi azienda è laureato e inoltre solo lo 0,8% risulta aver acquisito una laurea ad indirizzo agrario».

Il livello di istruzione dei titolari di aziende agricole


«Riteniamo certo che in dieci anni la quota dei conduttori fino alla terza media sia molto diminuita», precisa Roberto Gismondi, dirigente di ricerca dell’Istat che si che si occupa del Servizio statistiche e rilevazioni sull'agricoltura, ma resta molto significativo. Conduzione familiare e scarso livello di istruzione sono due fattori che possono spiegare la scarsa attenzione alla dimensione della sicurezza sul lavoro che da un lato si può tradurre in poca attenzione all’uso dei Dpi e alla conservazione dei fitofarmaci, che a sua volta è un impedimento per ottenere il riconoscimento della malattia professionale.

Nessuna protezione

Durante il processo di Cuneo, il presunto caporale, Tassembedo Moumouni – dal cui soprannome, Momo, prende il nome l’inchiesta – interrogato dal Pubblico Ministero Carla Longo, spiega che i lavoratori non avevano alcun tipo di dispositivo di protezione personale. Moumouni racconta di non aver «mai» ricevuto guanti o occhiali protettivi, e spiega come, mentre i braccianti lavoravano nei campi, venivano sparsi fitofarmaci tutto intorno. «Quindi, voi lavoravate nella raccolta e… in altre zone o nella stessa zona dove eravate voi si buttava il diserbante?» domanda il magistrato. «Nella stessa zona – spiega Moumouni –. Stiamo lavorando in questa fila, lui passa qua, nella fila si butta. Qualche volta ci spostiamo solo due metri e poi ritorniamo».

Questo viene confermato da uno dei lavoratori costituitisi parte civile nel processo. Il bracciante, originario del Burkina Faso, spiega che sostanze antiparassitarie venivano irrorate nei campi mentre, in contemporanea, veniva effettuata la potatura. «Ogni tanto – racconta – il prodotto toccava anche loro». I lavoratori dormivano nello stesso magazzino in cui i pesticidi venivano stoccati, «davanti a quella porta c’era pure un segno, con scritto pericoloso», e gli stessi pesticidi venivano poi sparsi «mentre loro lavorano». Tuttavia, due lavoratori interrogati come testimoni, affermano che i trattamenti fitosanitari venivano effettuati, ma non quando i lavoratori erano presenti sul campo.

Nelle carte dell’operazione Job Tax, invece, i proprietari di un’azienda agricola di San Felice Circeo, in provincia di Latina, vengono accusati di aver sfruttato manodopera straniera – di nazionalità bengalese, indiana e pakistana –, facendogli eseguire anche trattamenti con fitofarmaci, nonostante i lavoratori stessi non fossero in possesso dell’autorizzazione all’utilizzo di prodotti fitosanitari. Si tratta del cosiddetto “patentino”, che viene rilasciato dopo la frequenza di un corso di formazione e il superamento di un esame. Per i lavoratori agricoli è obbligatorio.

Jean-Baptiste Lefoulon, agricoltore, partecipa allo studio “Pestexpo”. È dotato di patch che consentono agli scienziati di misurare la sua esposizione ai pesticidi (Lingèvres, Francia, 28 maggio 2021) - Foto: Ed Alcock/MYOP, Le Monde

Jean-Baptiste Lefoulon, agricoltore, partecipa allo studio “Pestexpo”. È dotato di patch che consentono agli scienziati di misurare la sua esposizione ai pesticidi (Lingèvres, Francia, 28 maggio 2021) - Foto: Ed Alcock/MYOP, Le Monde

Dalle carte emerge come gli stessi proprietari avessero impiegato un cittadino indiano senza permesso di soggiorno, Kumar Ravi, per «compiti strategici nello svolgimento dell'attività agricola», fra cui l’«impiego di fitofarmaci nelle colture», senza che questi fosse abilitato all’utilizzo dei pesticidi, né tanto meno «formalmente istruito».

Ancora i proprietari, insieme all’agronomo dell’azienda agricola, sono accusati di aver “adulterato” gli ortaggi coltivati, nello specifico ravanelli, con pesticidi non autorizzati, rendendo le colture «pericolose per la salute pubblica». L’agronomo avrebbe fornito indicazioni sulle tempistiche in modo che dalle analisi non risultasse l’uso di prodotti che, secondo le valutazioni della polizia giudiziaria, erano «estremamente pericolosi per la salute pubblica». «All'interno di un locale pozzo artesiano – si legge nei verbali di perquisizione – sono stati rinvenuti e sequestrati prodotti fitosanitari risultati non consentiti sulle colture in atto».

Durante le ricerche dei Nas, «i responsabili aziendali […] freneticamente si adoperavano per occultare altre confezioni di fitofarmaci non autorizzati per l'impiego sui ravanelli». Nei certificati di analisi che l’azienda effettuava sui propri prodotti, gli investigatori troveranno concentrazioni di pesticidi più alte del consentito. Questo fatto, scrive il Giudice per le indagini preliminari, è particolarmente significativo considerando «che lavoratori dipendenti privi della prescritta autorizzazione risulteranno essere adibiti all'impiego di fitofarmaci vietati nell'utilizzo sulle colture».

Prodotti vietati eppure in circolazione

Dalle intercettazioni emerge che lavoratori senza abilitazione né formazione – e quindi verosimilmente senza dispositivi di protezione personale – venivano impiegati in trattamenti fitosanitari. Al telefono con Kumar Ravi, uno dei soci dell’azienda agricola domanda «Tu capace sicuro?». Alla risposta affermativa del bracciante indiano, l’imprenditore detta le istruzioni con i quantitativi di fitofarmaci da irrorare: «1,5 litri di Reldan» e «85 di Butisan». «[…] tu mi raccomando non ti sbaglià mai a misurà la medicina eh il Reldan e Butisan eh» si preoccupa al telefono l’imprenditore, che dopo le rassicurazioni del bracciante aggiunge: «Eh non fare cazzate, perchè dopo esci quando fai analisi sopra i ravanelli esce fuori io ammazzo te eh!».

Il Reldan è un insetticida a base di Chlorpyrifos-Methyl. La Commissione Europea ha confermato, il 10 gennaio 2020, la decisione degli stati membri di non rinnovare l’autorizzazione di prodotti contenenti Chlorpyrifos-Methyl, per la sua possibile genotossicità e neurotossicità. All’epoca delle intercettazioni dell’operazione Job Tax (2019) il prodotto non era ancora stato vietato. Uno studio pubblicato nel 2018 sulla rivista Environmental Health ha revisionato test di tossicità forniti dai produttori di pesticidi a base di Chlorpyrifos e Chlorpyrifos-Methyl: «Uno studio di tossicità finanziato dall'industria conclude che non si verificano effetti selettivi sul neurosviluppo nemmeno in caso di esposizioni elevate». Tuttavia, secondo i ricercatori, gli studi contengono «problemi che riducono impropriamente la capacità degli studi di rivelare effetti reali, tra cui un regime di dosaggio che ha portato a un'esposizione troppo bassa». Ciò ha conseguenze sulla «capacità delle autorità di regolamentazione di effettuare una valutazione valida e sicura di tali antiparassitari». Fra la pubblicazione dello studio e la revoca di fitofarmaci a base di Chlorpyrifos-Methyl sono passati due anni.

In Italia la maggior parte dei prodotti commercializzati come “Reldan” sono stati revocati fra gli anni ‘90 e i primi anni 2000. Soltanto per il Reldan 22 – lo stesso trovato nell’azienda agricola di Latina durante una perquisizione dei Nas a Dicembre 2019 e revocato a Gennaio 2020 – è stato concesso lo smaltimento fino all’Aprile dello stesso anno. Come dichiarato dal Ministero della Salute in una richiesta di accesso civico generalizzato presentata da Scomodo, «lo smaltimento si applica ai lotti di prodotti fitosanitari che riportano una data di produzione antecedente a quella del provvedimento di revoca del prodotto stesso o di modifica delle condizioni di autorizzazione del prodotto oggetto dello smaltimento». Tuttavia, «il dato riferito al quantitativo dei prodotti fitosanitari da smaltire non è oggetto di specifica valutazione o comunque non a conoscenza dell’Ufficio, in quanto afferisce alla gestione interna dell’azienda che detiene la proprietà del prodotto».

Il Ministero, quindi, non è a conoscenza delle quantità di pesticidi (proibiti in quanto pericolosi) le cui scorte possono comunque essere utilizzate per molti mesi dopo la revoca. La conferma arriva da Agrofarma - Federchimica: l'associazione di categoria non è in grado di sapere quanti lotti erano nei magazzini al momento della revoca, né quanti siano stati effettivamente smaltiti. Lungo la filiera, infatti, ci sono altri attori, fra cui le imprese produttrici e i rivenditori. I consorzi agrari e le aziende produttrici contattate non hanno fornito chiarimenti.

Dalle intercettazioni di Job Tax emergono ulteriori dettagli rispetto all’utilizzo di pesticidi ormai vietati da tempo. Intercettato, l’agronomo dell’azienda spiega preoccupato a uno dei soci: «L'altra volta quando abbiamo fatto pulire il magazzino degli attrezzi io non so chi l'ha pulito hanno lasciato un cartone di SCLEROSAN dentro». Come risulta dalla banca dati dei prodotti fitosanitari del Ministero della Salute, l’ultimo prodotto in commercio col nome di Sclerosan è stato revocato nel 2009. L’esposizione al Dicloram, il principio attivo contenuto in questo fungicida, «può danneggiare la riproduzione e/o lo sviluppo».

Come sintetizza il Gip, «le sostanze rinvenute sono risultate non utilizzabili nelle colture di ravanelli oltre che caratterizzati da un profilo di “conclamata pericolosità”, tanto da aver determinato per talune una revoca dell'autorizzazione all'uso (è il caso del Clorpirifos Metil)». Nonostante ciò, l’utilizzo di questi pesticidi «in maniera sistematica e diffusa», è pienamente consapevole: secondo il Gip, infatti, tutti gli indagati «sono a piena conoscenza del fatto che se tali sostanze attive vengono rilevate dalle analisi verrebbe bloccata la commercializzazione del prodotto».

Quello che emerge dai casi giudiziari di Latina e Cuneo è un quadro in cui si intrecciano lavoro nero, sfruttamento e mancato rispetto delle norme di sicurezza. Il sociologo Marco Omizzolo ne ha avuto esperienza diretta: «Io ho lavorato nelle campagne pontine (nella stessa provincia di Latina in cui è stata condotta l’operazione Job Tax, ndr) per diversi mesi come infiltrato – racconta a Scomodo – accanto ai braccianti immigrati, soprattutto indiani. Una delle cose per me più inquietante è l’assenza di qualunque misura di sicurezza, e quando dovevamo distribuire i veleni lo facevamo senza alcun genere di protezione, già dieci anni fa. Noi braccianti andavamo nelle campagne anche d’inverno indossando una sciarpa per proteggerci dal freddo, la sciarpa diventava la nostra mascherina anche quando diffondiamo quei veleni. Quella sciarpa si trasformava in una sorta di aerosol di veleno per i lavoratori, perché si impregna di quelle sostanze. Non c’era quindi l’effetto protettivo, al contrario, diventava un bagno tossico di quei prodotti».

Quando i vani della seminatrice sono pieni, il coltivatore semina il mais - Foto: Ed Alcock/MYOP, Le Monde
Quando i vani della seminatrice sono pieni, il coltivatore semina il mais - Foto: Ed Alcock/MYOP, Le Monde

Omizzolo ha anche raccolto centinaia di testimonianze dei cosiddetti “bagni di veleno”: quando i braccianti lavorano alla raccolta, «il caporale o il datore di lavoro passa con il vaporizzatore, ovvero una botte piena di veleni e acqua, il cui contenuto viene poi spruzzato in aria e loro si fanno il bagno. Alcuni mi hanno raccontato che hanno delle irritazioni cutanee, altri iniziano a perdere liquidi dal naso, a lacrimare, a tossire. Fare tutto questo per 14 ore al giorno quasi tutti i giorni del mese significa vivere sotto una pressione costante, prima o poi ti rompi».

Patronati e medici del lavoro

I primi a riconoscere le caratteristiche della malattia professionale dovrebbero essere i medici del lavoro. Nell’esperienza di Alberto Vedrani, avvocato di Lucca che ha difeso durante la sua carriera decine di lavoratori, da due anni è in pensione: «I medici dei patronati - racconta Vedrani - sono i primi ad istruire la pratica per il lavoratore e non sempre sono inattaccabili. A volte c'è manchevolezze sul piano professionale e a volte non riescono a dare una svolta alle pratiche in termini di evidenze mediche».

Vedrani che si è trovato a difendere lavoratori quando le malattie “tabellate”, quindi riconosciute dall’Inail, erano di molto inferiori, spiega: «Quando una malattia non è tabellata non è che la porta è chiusa - spiega -. Rimane aperta, solo che comporta un lavorìo notevole per il ricorrente, il quale deve dimostrare in modo certo che quella malattia è in connessione con l'attività lavorativa svolta: è il rapporto cosiddetto di causa-effetto. Si riesce abbastanza spesso, non tutte le volte ma spesso».

Nel 2005 è riuscito a ottenere il riconoscimento del morbo di Parkinson per un floricoltore della piana di Lucca che aveva fatto per anni uso di pesticidi a base di manganese, quelli che sono tabellati oggi. Come ha scritto in un contributo pubblicato nel 2019 da Olympus - centro di ricerche nato dalla collaborazione tra la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, della Regione Marche e dell'Inail - Direzione regionale per le Marche - «a seguito di consulenza medico-legale disposta dalla stessa Corte, veniva dichiarata sufficiente la probabilità indicata nel 70 % circa il rapporto di causa-effetto fra uso di pesticidi a base di manganese e morbo di Parkinson».

La causa è durata dieci anni e si è conclusa solo con la compensazione delle spese. Nonostante l’esito positivo, non c’è stato nessun altro lavoratore che ha chiesto all’avvocato di dedicarsi a una causa analoga.

CREDITI

Autori

Edoardo Anziano
Lorenzo Bagnoli
Francesco Paolo Savatteri

Hanno collaborato

Gaia Buono, Nicolò Benassi (Scomodo)

In partnership con

Scomodo (Italia)
Le Monde (Francia)
Ippen Investigativ (Germania)
BR (Germania)
Investigative reporting Denmark (Danimarca)
Oštro (Slovenia/Croazia)
Tygodnik Powszechny (Polonia)
TV2 (Danimarca)
De Groene Amsterdammer (Olanda)

Infografiche

Lorenzo Bodrero

Editing

Luca Rinaldi

Foto di copertina

Ed Alcock/MYOP (Le Monde)

Con il sostegno di