Le aziende controllate dai fondi sovrani delle potenze del Golfo stanno acquistando aziende lungo tutta la filiera dell’agroalimentare, anche in Europa. Con la scusa di garantirsi la propria “sicurezza alimentare”
Quel che sarà dell’agricoltura italiana
#Grainkeepers
Paolo Riva
Per l’agricoltura europea, quello appena cominciato sarà un anno importante. Il 2023 segna l’avvio della nuova Politica agricola comune (Pac), che è la voce più importante del bilancio Ue nonché un sostegno fondamentale per gli agricoltori in tante parti del continente. L’Italia non fa eccezione, ma arriva a questo appuntamento affaticata. Per l’agricoltura italiana l’anno che si è appena concluso è stato difficile, per tante ragioni. E per questo, merita di essere rivissuto, a partire dall’estate 2022, che rischia di essere ricordata come una delle più aride degli ultimi cinquecento anni.
«Non cresce», dice Nicholas Fusar Poli accarezzando una piantina di erba medica che si alza appena una ventina di centimetri dal terreno secco. È la seconda metà di luglio e questo giovane agricoltore mostra i danni che la mancanza d’acqua ha causato alla sua azienda di Arluno, a ovest di Milano.
L’esperienza di Fusar Poli, che viene da una famiglia giunta alla quarta generazione di contadini, è esemplare delle difficoltà che stanno vivendo molti agricoltori italiani, stretti tra la crisi climatica, l’aumento dei prezzi e le ricadute della guerra in Ucraina.
«Abbiamo 91 ettari di terreno e 110 mucche da latte – spiega Fusar Poli, che ha 24 anni e ha fatto l’istituto agrario -. Avevo piantato più erba medica per comprare meno mangimi proteici, ma poi c’è stata la siccità: la medica non è cresciuta e il mais sarà molto meno del solito», dice tra lo sconsolato e l’arrabbiato. Come capita spesso in Pianura padana, anche nell’azienda di Fusar Poli, gli animali vengono nutriti da quel che viene coltivato, soprattutto mais ma anche orzo, sorgo ed erba medica. Se il raccolto va male, le mucche devono comunque essere nutrite e il necessario va acquistato. Quest’anno, a prezzi particolarmente cari.
«Il mercato agricolo sale e scende, è così. I prezzi erano già cresciuti prima [del conflitto], ma con la guerra in Ucraina sono saliti, saliti, saliti…», dice l’agricoltore.
La dipendenza italiana
Nel 2022, in tutto il mondo, i prezzi sul mercato dei beni alimentari hanno raggiunto livelli record. «L’aumento ha caratterizzato soprattutto i beni di cui Russia ed Ucraina sono principali esportatori e si è aggiunto all’aumento dei prezzi trainato dalla crescita post pandemica della domanda di beni rispetto ad una produzione che è cresciuta più lentamente», ha scritto il Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria – Crea in un rapporto dell’ottobre 2022.
Il fenomeno, spinto anche dalla speculazione di banche e fondi, ha toccato il nostro Paese soprattutto in alcuni settori. «La crisi internazionale – prosegue il Crea – ha posto maggiore attenzione sulla dipendenza dell’Italia dall’estero per alcune produzioni, importanti per la nostra industria agroalimentare, tra cui i cereali, gli oli vegetali e i mangimi per la zootecnia».
Lo scorso anno, stando alle elaborazioni di Coldiretti su dati Istat, l’Italia aveva importato dall’Ucraina il 15% del mais destinato all’alimentazione degli animali, per un totale di 785 milioni di chili. Una quota che, dopo lo scoppio del conflitto, è stata sostituita in larga parte da quella proveniente da altri Paesi come il Brasile o gli Usa. Questi ultimi, scrive l’Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare – Ismea, «non figurano tra i nostri principali fornitori ma nel semestre in esame hanno aumentato le spedizioni con tassi di crescita di tre cifre sia in valore che in volume per raggiungere nei primi sei mesi del 2022 circa 24 milioni di euro per 70 mila tonnellate».
Nutrire gli animali, quindi, è diventato più costoso. Ma non si è trattato dell’unico rincaro che gli agricoltori come Fusar Poli hanno dovuto affrontare.
A marzo, poco dopo l’invasione russa dell’Ucraina, sempre il Crea aveva stimato che, a fronte della situazione internazionale, le aziende italiane avrebbero potuto «subire incrementi dei costi correnti di oltre 15.700 euro» all’anno. A settembre ha rivisto i numeri, praticamente raddoppiandoli e spiegando come tra i settori più colpiti c’è la produzione di latte.
«L’impatto medio aziendale nazionale stimato è di 29.060 euro, mentre sugli allevamenti da latte sale addirittura a 90.129 euro. Tali aumenti sono legati all’eccezionale rincaro (a livello medio aziendale) delle spese per l’energia elettrica (+35.000 euro), per l’acquisto di mangimi (+34.000 euro) e dei carburanti (+6.000 euro)», dettaglia il report.
Lo scorso ottobre Coldiretti ha confermato, segnalando aumenti dei costi che vanno dal +170% dei concimi al +129% per il gasolio fino al +300% delle bollette per pompare l’acqua per l’irrigazione dei campi. E, la scorsa estate, i raccolti hanno avuto bisogno di molta acqua.
Aziende agricole a rischio
L’estate del 2022 verrà ricordata in tutta Europa per la mancanza d’acqua. La siccità, soprattutto nel nord dell’Italia, si è sommata agli altri problemi che l’agricoltura stava già affrontando e ha inciso negativamente sulla resa di diverse colture.
Nel caso del grano duro, per esempio, a fine luglio Isema stimava che la produzione italiana 2022 «potrebbe essere inferiore di circa il 16% rispetto all’anno precedente, prevalentemente a causa del deficit idrico registrato durante la fase post semina e delle elevate temperature degli ultimi mesi». Il calo riguarda molte regioni, pur con intensità diverse, e anche altri paesi Ue come la Francia.
Per quanto riguarda il mais, il quadro è ancora più fosco. Cesare Soldi, imprenditore agricolo in provincia di Cremona, membro di Confagricoltura e presidente dell’Associazione maiscoltori italiani – Ami, prova a fare i conti. «Quest’anno, come associazione, stimiamo un calo del 35% della produzione di mais rispetto al 2021», dice. Si tratta di una media nazionale che nasconde una forte eterogeneità, ma il dato è comunque forte. «Da una parte – riprende Soldi -, c’è la siccità e, dall’altra, ci sono la situazione incerta pre Covid e la guerra che hanno portato all’aumento dei costi. È un mix esplosivo che ci porta, per l’ennesima volta negli ultimi anni, a produrre sotto costo».
In pratica, nonostante i prezzi elevati dei generi alimentari, i produttori di mais ricevono per il loro prodotto meno di quanto spendono per coltivarlo. È una situazione insostenibile che ha ragioni specifiche legate al tipo di coltura, ma che quest’anno rischia di riguardare anche le aziende di altri settori.
Nello stesso studio in cui il Crea stimava l’aumento dei costi per le imprese agricole, l’istituto concludeva che «l’attuale crisi internazionale congiunturale può determinare in un’azienda agricola su dieci l’incapacità di far fronte alle spese dirette necessarie a realizzare un processo produttivo» e che «il 30% delle aziende su base nazionale» potrebbe «avere reddito netto negativo». Prima dell’attuale crisi, i due dati erano rispettivamente l’1% e il 7%.
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«Il conflitto avrà conseguenze sulla gestione economica e finanziaria delle aziende agricole. Le imprese a bassa capitalizzazione rischiano di uscire dal mercato. Potrebbe esserci una riorganizzazione in termini di efficienza, con impatti sociali non da poco», sostiene Alessandra Pesce, direttrice del Centro politiche e bioeconomia del Crea. In pratica, secondo la ricercatrice, gli agricoltori senza sufficienti risorse economiche potrebbero non farcela ad affrontare un periodo così impegnativo. Le loro aziende agricole potrebbero essere acquisite da altre oppure fallire.
Per Pesce, l’impatto maggiore è sui «costi di gestione e approvvigionamento di materie prime energetiche, di fertilizzanti e di mangimi». Fusar Poli, per esempio, dato che l’erba medica non è cresciuta a sufficienza per la siccità, ha dovuto comprare più mangimi proteici, i cui prezzi nel frattempo erano fortemente aumentati. Lo ha fatto rivolgendosi a Cargill, uno dei principali attori mondiali del settore. «Vorrei essere sempre meno dipendente da queste aziende, ma quest’anno non è stato possibile», dice.
Lo stesso accade in provincia di Cremona, poco lontano dal Po e dalle sue acque che, a luglio, erano estremamente basse per la mancanza di piogge.
Stefania Soldi osserva la grande mietitrebbia che passa sul campo di mais appartenente alla sua azienda zootecnica. «Cerchiamo di essere autonomi, ma con questo clima mai visto prima abbiamo dovuto comprare una parte dei mangimi», spiega. E anche in questo caso, i prezzi sono saliti. La crescita era già iniziata prima del conflitto e ha accelerato dopo l’invasione russa dell’Ucraina, anche a causa della speculazione finanziaria. Come a Fusar Poli, anche a Soldi, per acquistare il mais da destinare alle sue mucche, è capitato di rivolgersi a Cargill, che ha un impianto proprio poco lontano dalla sua azienda, nel comune di Sospiro in provincia di Cremona.
Il ruolo dei grandi player
L’Italia è uno dei settanta Paesi in cui Cargill opera, per un totale di 155 mila dipendenti e un fatturato che, nel 2020, ha superato i 134 miliardi di dollari. L’azienda, che non è quotata in borsa, è un trader di materie prime agricole e quindi è coinvolta in tutte le fasi della produzione e del commercio di questi prodotti: dall’origine alla lavorazione, dalla commercializzazione agli strumenti finanziari, dalla gestione del rischio alla distribuzione. Secondo un recente rapporto dell’ong Etc Group, che da decenni si occupa di sistemi alimentari, Cargill è il leader di questo settore, seguita dalla cinese Cofco, dalle statunitensi Archer-Daniels-Midland (ADM) e Bunge (rispettivamente terza e quinta per fatturato) e da Wilmar, con sede a Singapore.
Aziende come Cargill o Cofco rappresentano molto chiaramente il processo di consolidamento dell’industria agroalimentare mondiale in corso, attraverso fusioni e acquisizioni sia orizzontali sia verticali. Questo, scrive sempre Etc in un altro rapporto, rafforza «il modello alimentare e agricolo industriale, esacerbando le sue ricadute sociali e», «aggravando gli squilibri di potere esistenti» e rendendo «gli agricoltori sempre più dipendenti da una manciata di fornitori e acquirenti». La pubblicazione era del 2017 ma, cinque anni dopo, il fondatore di Etc Pat Mooney, conferma che la situazione non è cambiata. Anzi.
«Il livello di concentrazione è ulteriormente aumentato e il sistema industriale sta mostrando enormi problemi nelle catene di approvigionamento che non dipendono solo dalla situazione in Ucraina e che erano già stati riscontrati durante la pandemia», spiega Mooney.
Negli ultimi mesi, Cargill ha registrato un aumento del 23% dei ricavi, raggiungendo la cifra record di 165 miliardi di dollari (140 miliardi di sterline) per l’anno conclusosi il 31 maggio 2022; ADM ha realizzato i profitti più alti della sua storia nel secondo trimestre di quest’anno mentre le vendite di Bunge sono aumentate del 17% su base annua nel secondo trimestre, anche se i profitti sono stati influenzati da oneri precedentemente sostenuti.
Se da un lato un aumento dei ricavi è logico all’aumentare dei prezzi, dall’altro, secondo diverse organizzazioni non governative, questi colossi stanno approfittando della situazione e avrebbero potuto fare di più per evitare la crisi attuale.
Quel che è certo è che gli agricoltori come Fusar Poli si ritrovano inseriti in un sistema agroalimentare industriale che non li favorisce, esposti alle ripercussioni internazionali in materia di prezzi e schiacciati dagli effetti della crisi climatica, che in estati come quella appena trascorsa si è manifestata con particolare forza. «Devi continuamente adattarti. Sei sul filo del rasoio, non puoi sbagliare», dice Fusar Poli.
Più o meno consapevolmente, però, a stringere la morsa nella quale si ritrovano sono anche gli stessi agricoltori. Soprattutto quelli che producono cereali per la zootecnia. Come ha spiegato l’associazione Terra!, in Italia il 58% dei terreni sui quali si semina (i seminativi) è destinato ad alimentare animali, non persone. Nel caso specifico del mais, l’82 per cento del prodotto disponibile è destinato all’uso zootecnico.
Il punto è che gli allevamenti producono una grande quantità di emissioni di gas serra, che contribuiscono a peggiorare la crisi climatica. Nel 2020, il settore agricolo ha generato il 9% di tutte le emissioni italiane mentre, secondo l’ong Iatp, le prime venti aziende europee di carne e latticini producono l’equivalente di oltre la metà delle emissioni di Regno Unito, Francia e Italia. Anche per questo, la nuova Politica agricola comune Ue, in vigore dall’inizio del 2023, ha tra i suoi obiettivi quello di rendere il settore primario europeo più sostenibile dal punto di vista ambientale.
L’alba di una nuova PAC
Il primo gennaio 2023, dopo una serie di rinvii causati dalla pandemia, è iniziata la nuova programmazione della la Politica agricola comune dell’Unione europea (Pac), che proseguirà fino al 2027. Tra le principali novità di questa ultima versione della Pac, che è già stata oggetto di altre riforme in passato, vi sono maggiore attenzione all’ambiente e più autonomia per gli Stati.
Il primo aspetto si concretizza negli ecoschemi, che sono sostegni economici garantiti alle aziende agricole che hanno usato determinate pratiche ecosostenibili. Il secondo aspetto, invece, lo si ritrova nei Piani strategici nazionali, che i Paesi membri concordano con la Commissione Ue per spendere i fondi Pac nel modo per loro più adatto. Quello dell’Italia è stato approvato ad inizio dicembre.
«La Commissione europea ha approvato il Piano strategico italiano per la Pac, con circa 37 miliardi per i prossimi cinque anni a sostegno della competitività e della sostenibilità del settore produttivo agricolo e agroalimentare. È un’ottima notizia, per un provvedimento molto atteso da tutto il comparto», ha commentato il ministro dell’Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste, Francesco Lollobrigida.
Il piano, in realtà, è opera di Stefano Patuanelli, ministro con il precedente governo. La caduta dell’esecutivo Draghi e le conseguenti elezioni hanno ritardato l’approvazione del documento, creando diversi problemi agli agricoltori. I fondi Pac, infatti, sono vitali per i bilanci di molte aziende agricole e capire come vengono assegnati può orientare le loro scelte in termini di colture o pratiche da seguire.
«Fino ad oggi, i pagamenti diretti della Pac hanno garantito a chi produce mais 360 euro all’ettaro, che danno la possibilità di essere in attivo», spiega Cesare Soldi di Ami. In pratica, a suo parere, produrre mais in Italia senza i soldi Ue non è economicamente sostenibile.
Con la nuova Pac, però, il quadro è destinato a cambiare. Il Piano strategico nazionale è stato sostanzialmente ben accolto dalle organizzazioni degli agricoltori. Il presidente di Coldiretti Ettore Prandini, pur affermando che «non è certo la riforma agricola dei sogni per gli agricoltori», lo ha definito «un compromesso utile a tenere insieme la sostenibilità economica, ambientale e sociale delle nostre aziende agricole».
Il giudizio, però, varia molto da settore a settore. E quello di Soldi non è così positivo.
«I seminativi come mais, frumento tenero e orzo, risultano penalizzati [dal Piano strategico nazionale]», dice. I sostegni a questo tipo di colture sono stati modulati in modo diverso rispetto alla Pac precedente e sono complessivamente diminuiti. Il mais passa da 360 euro all’ettaro a circa 230, compreso il pagamento dell’ecoschema 4. Anche Giuseppe Romano, agronomo e presidente dell’Associazione italiana agricoltura biologica – Aiab, riconosce che «in tutta la Pac, i seminativi escono affaticati».
É l’unico punto su cui Soldi e Romano concordano. Per il resto, per il presidente di Aiab, «la Pac ha risposto fin troppo alle richieste nate dopo l’invasione dell’Ucraina».
L’agronomo si riferisce alla condizionalità rafforzata, il cui avvio è stato rimandato al 2024 per le conseguenze del conflitto scatenato dalla Russia. Il meccanismo incrementa le pratiche ambientali che gli agricoltori devono eseguire per ricevere i pagamenti di base, tra cui le rotazioni delle colture.
Secondo Romano, si tratta «di pratiche agroecologiche positive che andrebbero fatte a prescindere dalla Pac». Per Soldi, invece, sono una difficoltà ulteriore, che renderà ancora meno sostenibile la coltivazione del mais. «Vengono meno le aziende, diminuiscono le superfici di mais coltivate e aumentano le importazioni», dice, spiegando quel che è successo negli ultimi anni in Italia e, a suo parere, potrebbe succedere anche in futuro. Qualche segnale positivo, però, potrebbe arrivare dai mercati.
«Mai visto nulla del genere»
A novembre, Ismea ha annunciato che i prezzi di cereali, frutta, semi oleosi e vino hanno registrato un calo nel terzo trimestre 2022 rispetto al trimestre precedente e che, per la prima volta da inizio 2022, si è registrato «un calo congiunturale dei prezzi degli energetici (-4,6% rispetto al secondo trimestre)».
Segnali positivi, ma di portata limitata. Il calo ha riguardato solo i prezzi di un numero limitato di prodotti, mentre quelli di altri hanno continuato a salire. «L’aumento dei prezzi, tuttavia, non compensa completamente i maggiori costi dei produttori e l’Ismea prevede una lieve diminuzione su base congiunturale del valore aggiunto agricolo, così come indicano le stime preliminari Istat sul Pil del terzo trimestre», ha aggiunto l’istituto.
Le difficoltà per gli agricoltori, quindi, non sembrano destinate a ridursi. Anche a causa della crisi ambientale. «Il cambiamento climatico non è mai stato un problema così forte – ragiona Fusar Poli -. Magari pioveva meno, ma pioveva. Quest’anno, invece… Anche mio padre e mia nonna non hanno mai visto qualcosa del genere. Ogni tanto ci penso e mi chiedo se sono sicuro di andare avanti con questa roba qua che non sai come va a finire». L’impatto della crisi climatica sembra destinato ad aumentare, d’ora in avanti. Nessuno può ancora prevedere le conseguenze che avrà sul mestiere dell’agricoltore.
CREDITI
Autori
Paolo Riva
Editing
Giulio Rubino
Foto di copertina
Bovini che si alimentano all’interno di una delle stalle dell’azienda Le Robinie
(Luca Quagliato)