Ex Ilva di Taranto, transizione impossibile

Ex Ilva di Taranto, transizione impossibile

Carlotta Indiano

Gli impianti industriali dell’ex Ilva sovrastano la città di Taranto, da nord ovest. Ilva è l’antico nome dell’isola d’Elba, dove gli Etruschi fabbricavano il ferro già 2.500 anni fa. Oggi la storia della più grande acciaieria d’Europa, nata a metà degli anni ‘60, è a una svolta obbligata: deve inquinare meno e, di conseguenza, ridurre l’impatto sulla salute dei tarantini. Obbligato, secondo gli esperti, sarebbe anche il modo di farlo: chiudere i vecchi altiforni, le torri di ferro che svettano all’orizzonte, seconde in altezza solo alle ciminiere con le punte striate di bianco e rosso, per cominciare davvero a produrre diversamente.

Si può raggiungere lo stabilimento solo in auto o con le navette che fanno da spola ai lavoratori che si alternano per mantenere accese le fornaci perenni degli altiforni. Si trovano in una zona detta area a caldo, il cuore pulsante dell’acciaieria, la cui produzione genera anche il maggiore impatto ambientale, provocato da diversi inquinanti, tra cui polveri, diossine e idrocarburi policiclici aromatici (alcuni dei quali potenzialmente cancerogeni), principalmente derivanti dalla lavorazione del carbone.

L’ex Ilva non si spegne mai: è l’unico impianto strategico di interesse nazionale in Italia e vanta questa eccezionalità per i suoi valori produttivi, la modalità di produzione a ciclo integrale – cioè completo, per cui partendo dalle materie prime come carbone e ferro, produce acciaio – e il numero di operai impiegati, circa 10 mila fino al 2017. Appena nato, era già il quarto polo siderurgico italiano, con cinque altiforni alti più di 40 metri.

Taranto fu scelta perché rispondeva a diversi requisiti, come la vicinanza con il porto, che avrebbe facilitato il trasporto e la spedizione di materiali. C’era inoltre la convinzione che avrebbe rappresentato la migliore forma di investimento per lo sviluppo economico del Sud Italia e avrebbe offerto la possibilità di sostituire le importazioni siderurgiche con la produzione interna. Così fu infranto il regio decreto del 1934 secondo cui gli stabilimenti industriali non potevano essere costruiti nei pressi di un centro abitato.

Secondo la Corte d’Assise di Taranto, la famiglia Riva – proprietaria dell’impianto tarantino tra il 1995 e il 2012 – ha prodotto danni irreparabili alla salute cittadina, tanto che ha condannato in primo grado 26 persone tra dirigenti, manager e politici per associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale, all’avvelenamento di sostanze alimentari e all’omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro (a gennaio 2023, riporta Ansa, diversi hanno presentato ricorso).

Il complesso dell’ex Ilva di Taranto visto dal cielo (in queste immagini di marzo 2020) appare come una macchia scura nell’area industriale della città
Distante meno di quattro chilometri da Piazza Garibaldi, all’inizio di quella che viene chiamata città vecchia, il complesso industriale si estende su una superficie complessiva di 15 chilometri quadrati ed è considerato il più grande d’Europa

All’inizio dell’indagine, nel 2012, la magistratura tarantina ha ordinato il sequestro dello stabilimento. In seguito, quello stesso anno, l’ex Ilva ha ottenuto lo status di impianto strategico e ha ricominciato a funzionare sotto la gestione di commissari straordinari. Questi devono eseguire una serie di rinnovamenti forzati che hanno lo scopo almeno di contenere i costi ambientali e mantenere l’occupazione. Nel 2017 è subentrata nella gestione la multinazionale dell’acciaio indiana ArcelorMittal, che tra 2020 e 2021 ha creato una nuova joint venture con Invitalia, agenzia del ministero dell’Economia. È la holding che controlla Acciaierie d’Italia Spa, la nuova Ilva, ed è al 62% privata e al 38% pubblica. Dal 2012 si attende il rilancio dell’ex Ilva, la sua rinascita come gigante dell’acciaio verde, ma la trasformazione industriale sembra ancora solo un miraggio, secondo esperti e lavoratori.

Il sogno dell’acciaio verde

Nel 2021, lo stabilimento di Taranto di Acciaierie d’Italia ha prodotto quattro milioni di tonnellate di acciaio, scese a 3,1 nel 2022, vale a dire circa il 16% dell’intera produzione italiana. L’acciaieria ha un’Autorizzazione integrata ambientale (Aia) che permette la produzione fino a sei milioni di tonnellate. Il documento autorizza l’esercizio di un impianto industriale a determinate condizioni che garantiscono la conformità a requisiti di prevenzione e riduzione dell’inquinamento. Significa che la dirigenza di allora, ArcelorMittal, ha ottenuto per l’area a caldo un tetto di emissioni di polveri, uno dei principali macroinquinanti, di 3.092 tonnellate annue. È un quantitativo molto elevato, rispetto alla capacità produttiva dimostrata da quando ArcelorMittal è entrata nella gestione.

Le valutazioni di impatto nel diritto ambientale

Nel diritto ambientale, esistono tre valutazioni di impatto: la Valutazione ambientale strategica (Vas), la Valutazione di impatto ambientale (Via) e l’Autorizzazione integrata ambientale (Aia). La Vas e la Via assicurano che piani, programmi e progetti siano realizzati nel rispetto dei principi di tutela dell’ambiente, della qualità della vita e dello sviluppo sostenibile, mentre l’Aia, essendo un’autorizzazione, valuta le condizioni in cui lavora un impianto. Vas e Via sono preventive, integrano cioè considerazioni nell’adozione di un piano e valutano le possibili conseguenze derivanti dalla realizzazione di un progetto. L’Aia è finalizzata alla prevenzione e riduzione dell’inquinamento generato dall’esercizio delle principali installazioni industriali.

Nonostante la produzione sia in calo da anni, è improbabile che Acciaierie d’Italia voglia ridimensionare la produzione e – di conseguenza – ridurre il tetto di emissioni climalteranti previste. La dirigenza sogna un rilancio in grande. Dopo aver completato tutte le modifiche per il risanamento ambientale, previste dal piano industriale del 2017 da completarsi entro il 2023, auspicano di poter produrre ancora di più, fino 9,5 milioni di tonnellate di acciaio nel 2025.

L’Aia in vigore oggi scadrà il 23 agosto 2023 e, secondo le procedure, almeno sei mesi prima il gestore deve richiedere il riesame per il rinnovo. Fonti vicine agli enti di controllo sostengono che Acciaierie d’Italia abbia inviato già la nuova richiesta al ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica (Mase, ex Mite) senza aprire la conferenza dei servizi, necessaria per accogliere le osservazioni degli enti di controllo ambientale e dei soggetti interessati. Nella nuova Aia ci saranno i nuovi livelli produttivi e la soglia emissiva consentita, ma è improbabile che ci sia una modifica concreta delle attuali autorizzazioni.

L’ex Ilva di Taranto nel 2021

Insieme a chimica, ceramica, carta, vetro, cemento e alle fonderie, le acciaierie appartengono ai settori industriali che emettono il 64% delle emissioni di CO2 dell’industria italiana. Sono i settori più energivori, che in inglese vengono definiti con la formula hard to abate, difficili da abbattere. La Federazione imprese siderurgiche italiane (Federacciai), di cui fa parte anche Acciaierie d’Italia, punta a una riconversione dell’intero settore per poter raggiungere gli obiettivi del Fit for 55, il pacchetto di riforme ambientali e sociali promosse dalla Commissione europea a luglio. Prevede che gli Stati membri riducano le loro emissioni del 55% entro il 2030 per poi raggiungere la neutralità climatica entro il 2050.

Per l’ex Ilva è una sfida difficile: aumento della produzione e trasformazione ecologica possono andare insieme? A sentire le posizioni ufficiali dell’azienda sì, con la produzione dell’acciaio verde a zero emissioni. Però tra il presidente Franco Bernabè, nominato a seguito dell’ingresso di Invitalia, e l’amministratrice delegata Lucia Morselli, manager nominata da ArcelorMittal, a leggere tra le righe non sembra sempre che le tappe intermedie per raggiungere l’obiettivo siano le stesse.

Forni elettrici Vs Afo5

Franco Bernabè è un manager di società di Stato con una lunghissima esperienza. L’11 febbraio, durante un incontro privato e informale a cui, insieme a Bernabè, hanno partecipato anche il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano e il sindaco di Taranto Rinaldo Melucci e altre istituzioni locali, si è parlato della possibilità di introdurre la tecnologia Direct reduced iron (Dri). Prevede l’uso di un materiale ferroso ridotto (preridotto) attraverso l’utilizzo di energie rinnovabili, da utilizzare poi nei forni elettrici, due in questo caso, per la produzione di circa 2,5 milioni di tonnellate ciascuno.

Il preridotto ha una serie di vantaggi dal punto di vista dell’impatto sulle emissioni climalteranti: può essere caricato negli altiforni per diminuire il consumo di carbone, oppure nei forni elettrici in sostituzione del rottame, con il vantaggio di non avere gli stessi elementi chimici inquinanti di quest’ultimo. Per abbattere ancora di più le emissioni, all’alimentazione a gas dovrebbe sostituirsi quella a idrogeno verde. Però entrambe le tecnologie sono costose e il preridotto della qualità adatta al forno elettrico è anche difficile da reperire.

Per decenni i cittadini del quartiere Tamburi di Taranto, il più vicino ai parchi minerari dell’ex Ilva, hanno convissuto con la polvere che, trasportata dal vento, finiva per ricoprire tutto con una patina rossastra. L’immagine del 1 agosto 2015 mostra la vicinanza delle gru e degli accumuli di materie prime ai complessi popolari: le prime case del quartiere sorgono a poco più di 200 metri, mentre a 500 metri si trova la Scuola Secondaria di I grado Ugo de Carolis. La situazione è cambiata tra il 2018 e il 2020 quando, a seguito delle inchieste della magistratura, i parchi minerari sono stati coperti con due immensi capannoni lunghi 450 metri e larghi 250 per una superficie complessiva di 250.000 metri quadrati

Inoltre, mentre uno dei forni verrebbe costruito per Acciaierie d’Italia, il secondo sarebbe previsto nei pressi del porto di Taranto o della Zes, la zona economica speciale, dunque all’esterno del perimetro dell’acciaieria. Le Zes sono sempre collegate a un’area portuale e ricevono importanti benefici fiscali e semplificazioni amministrative. Non è però chiaro quale sarà l’azienda che potrebbe gestire il secondo forno elettrico. Una parte del prodotto del processo produttivo fuori dagli stabilimenti ex Ilva dovrebbe rifornire le acciaierie del triangolo Brebemi (Brescia – Bergamo – Milano) che non consumano solo rottami e che hanno subito un calo nell’approvvigionamento in seguito al conflitto russo-ucraino e all’arresto dell’acciaieria di Mariupol (fino al 2021 l’Ucraina era il maggior Paese esportatore verso l’Italia).

Smantellati tutti gli altiforni, la disponibilità di acciaio da vendere sul mercato per Acciaierie d’Italia si limiterebbe a 2,5 milioni di tonnellate, cioè a quell’unico forno elettrico costruito per la decarbonizzazione del sito.

Se Bernabè spinge sui forni elettrici, l’amministratrice delegata Lucia Morselli mette sul tavolo anche un’altra priorità: aumentare la produzione dell’area a caldo. «Facciamoci una ragione del fatto che l’area a caldo di Taranto è la più pulita d’Europa», ha dichiarato l’ad il 19 gennaio, al Tavolo di lavoro al ministero dell’Industria e del made in Italy (Mimit), il vecchio ministero dello Sviluppo economico. «Uno degli investimenti che faremo e inizieremo quest’anno è il rifacimento di Altoforno 5», ha aggiunto.

Detto Afo5, è una delle chiavi per ottenere un aumento di produzione nel corso del 2023 del 10-15%, come promesso dall’azienda. «Perché rifarlo? – si è chiesta Morselli al Mimit – Perché per arrivare alla conclusione del piano illustrato dal presidente Bernabè serve continuare a produrre e se Afo4 è a posto, appena rifatto, Afo2 è in condizioni più delicate». In altri termini, quello che dice Morselli è che oggi funziona a pieno regime solo uno dei cinque altiforni dell’ex Ilva, Afo4, mentre Afo2, l’altro funzionante, è in condizioni precarie.

In realtà, il mantenimento dei vecchi altiforni sembra in contraddizione con gli obiettivi green che si pone Bernabè. Afo5, chiuso dal 2015, come tutti gli altiforni non è al passo con gli ultimi accorgimenti possibili per ridurre le emissioni: in termini di materie prime, la polvere utilizzata nell’agglomerato costa di meno, ma produce diossina nella lavorazione. Per l’alimentazione di un altoforno delle dimensioni del gigante Afo5, inoltre, sono necessarie almeno due cokerie – gli impianti da cui si produce il coke, residuo del carbon fossile che si usa come combustibile nella fusione di metalli – che sprigionano il benzene, i cui scarichi in aria sono causa di inquinamento.

Non solo: Afo5 è stato cannibalizzato nel tempo per far funzionare altri impianti. Ci vorrebbero almeno tre o quattro anni per rimetterlo in piedi e far ripartire una macchina che da sola produrrebbe a pieno regime il 40% dell’intero stabilimento, circa cinque milioni di tonnellate di acciaio. Il rischio è che questa scelta ritardi ulteriormente la transizione ecologica di un settore già considerato difficile da decarbonizzare.

Un rigassificatore nel porto di Taranto

Afo5 non è l’unica struttura su cui vuole puntare Morselli. Tra gli investimenti illustrati dall’amministratrice delegata al tavolo con il Mimit c’è anche la realizzazione di un rigassificatore galleggiante, una nave in grado di convertire il gas naturale liquefatto (gnl) che arriva da altre navi metaniere. Il passaggio fino agli stabilimenti dovrebbe avvenire attraverso impianti Snam, in collaborazione con il porto di Taranto. La proposta di un rigassificatore a Taranto era già stata rigettata nel 2006 dal ministero dell’Ambiente la cui Valutazione di impatto ambientale (Via) aveva sottolineato più di quaranta criticità ambientali sul progetto.

In verità, secondo fonti interne, a Taranto non c’è più un problema di approvvigionamento di gas naturale, che viene rifornito storicamente da Eni e il cui prezzo sta anche lentamente scendendo. C’è semmai un problema di fatture non pagate: a ottobre 2022, a seguito dei debiti contratti da Acciaierie d’Italia nei confronti del Cane a sei zampe, circa 300 milioni, il fornitore ha lasciato l’azienda senza metano. Con il rigassificatore, si aumentano e diversificano le fonti di approvvigionamento. In questo modo, Acciaierie d’Italia sarebbe in grado di scegliere di volta in volta il fornitore più conveniente.

Già in passato, ultimo caso con il piano industriale del 2017, le promesse di rinascita si sono sono infrante, sia per crisi congiunturali (come quella dell’acciaio in Europa nel 2019 dovuta alla debolezza del comparto automobilistico in Germania, e la seconda nel 2022 in seguito all’invasione russa dell’Ucraina), sia per mancanza di investimenti verso una concreta trasformazione dell’ex Ilva, a dispetto dei piani industriali.

I veri costi del rilancio

«Lo stabilimento – racconta il delegato dell’Unione sindacale di base (Usb) Alessandro D’Amone – è in una condizione irreversibile. Siccome da tempo non vengono fatti gli investimenti e le manutenzioni, l’impianto è arrivato in una condizione dove si possono mettere tutti i soldi che vuoi ma non saranno mai sufficienti a ottenere una risoluzione seria e netta dell’intero contesto impiantistico e del ciclo produttivo». «Facciamo denunce tutti i giorni – prosegue – anche stamattina (19 ottobre 2022, ndr) abbiamo denunciato il crollo di un soffitto in una palazzina dove sono ubicati degli uffici. A testimonianza che non solo sulla parte impiantistica ma anche sulle strutture non c’è manutenzione, né ordinaria, né straordinaria».

Nell’immagine del luglio 2018 un dettaglio degli altiforni dell’acciaieria. Sono cinque quelli presenti, ma solo due sono attualmente in funzione: l’altoforno 1 e l’altoforno 4
Nell’immagine di gennaio 2022 un dettaglio degli altiforni dell’ex Ilva su cui, da anni, si parla di investimenti e progetti di riconversione

Vista dai lavoratori, l’ex Ilva di Taranto non sembra uno stabilimento pronto a cambiare pelle. Giulia Novati, collaboratrice di Ecco, il think tank italiano che si occupa di ambiente, sul programma di decarbonizzazione dell’industria ritiene che «con la sola manutenzione ordinaria, gli impianti non vanno oltre il 2028 (2032 riferisce invece Acciaierie d’italia, ndr), quindi quello che proponiamo come riconversione sarebbe proprio la chiusura, lo smantellamento completo degli altiforni e la ricostruzione di nuovi impianti».

Sui costi della riconversione, la previsione del think tank Ecco nel report di agosto 2022 indica numeri elevati: la tecnologia Dri è molto cara, così come quella per ottenere idrogeno verde, che per mantenere un’acciaieria come l’ex Ilva avrebbe bisogno di investimenti tra gli 8,2 e 8,9 miliardi di euro. A questi «andrebbero aggiunti i costi relativi ovviamente alla dismissione degli altiforni e degli impianti esistenti. E poi ci sono anche i costi relativi all’adattamento impiantistico, modifiche di layout e a una eventuale bonifica del sito che noi nella nostra stima non abbiamo. Noi abbiamo fatto una previsione con il terreno già pronto per costruire», conclude Novati.

Nonostante lo scenario da missione impossibile, il presidente di Acciaierie d’Italia Bernabè sostiene che il 2023 potrebbe essere l’anno della svolta. «Do atto all’amministratore delegato Lucia Morselli di aver condotto l’azienda in una situazione di grande drammaticità. La situazione di Acciaierie d’Italia è assolutamente più complessa di tutte quelle che io ho vissuto in precedenza», ha ammesso in Commissione industria al Senato, a fine gennaio. Però l’impianto di Taranto «oggi è probabilmente tra i più ambientalmente compatibili dell’industria Siderurgica internazionale» tanto da far sognare un Piano di decarbonizzazione fondato su quattro pilastri: il rispetto dell’ambiente, l’occupazione, la sostenibilità economica e la crescita.

Salute e lavoro all’ombra dell’ex Ilva

«Le emissioni nell’aria dell’impianto ex Ilva, se tradotte in concentrazioni di polveri sottili (PM), sono causa di eccessi di mortalità e altri impatti negativi sulla salute, con relativi costi economici». Lo scrive l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) in un report del 2021 commissionato dalla Regione Puglia per monitorare le condizioni di salute della città. «Data l’importanza dello stabilimento ex Ilva per l’economia locale – prosegue il rapporto -, è necessario affrontare il problema in un quadro più ampio, andando oltre i confini geografici della città di Taranto e del Sito di interesse nazionale (Sin) e adottando un modello sanitario più completo». Nonostante i limiti delle emissioni siano a norma di legge, c’è sempre grande apprensione sulle conseguenze dell’ex Ilva sulla salute dei tarantini.

Al problema ambientale si lega anche quello occupazionale. I lavoratori sono molto critici verso la gestione di ArcelorMittal: sostengono che dopo una lunghissima trattativa per sottoscrivere un patto con i sindacati, l’azienda non ha mai davvero voluto mantenere il livello occupazionale promesso.

«Appena firmato il contratto, ArcelorMittal mostra subito il suo volto – racconta il delegato dell’Unione italiana lavoratori metalmeccanici (Uilm) Davide Sperti -. A ottobre 2017, il colosso dell’acciaio invia una procedura ex articolo 47, cioè la cessione di ramo d’azienda, dove dichiara 3.300 esuberi solo a Taranto, assumendo 7.600 lavoratori».

In pratica, ha dimostrato di non essere interessata a mantenere davvero i 10 mila dipendenti previsti. Dall’ingresso della proprietà indiana ci sono stati diversi altri esuberi congiunturali, come li chiama la proprietà, legati cioè a condizioni che vanno al fuori della fabbrica, ma i reintegri promessi non ci sono mai stati. E la minaccia di andarsene lasciando a casa migliaia di persone è una delle armi per negoziare condizioni favorevoli.

L’ennesimo piano di rilancio dell’ex Ilva, immaginato su un arco temporale di dieci anni, «prevede la completa eliminazione delle emissioni climalteranti dello stabilimento di Taranto», chiosa Bernabè. Costa cinque miliardi di euro, cifra «insostenibile», per usare le stesse parole di Bernabè, per una società che lo scorso anno ha fatturato 3,5 miliardi di euro.

Quanto incassa Acciaierie d’Italia per salvare l’ex Ilva

Se non ci arriva la proprietà, ci pensa lo Stato. In Francia, come raccontano i partner di Disclose, senza l’intervento pubblico, il gruppo ArcelorMittal minaccia di uscire dagli stabilimenti, lasciando potenzialmente un enorme problema occupazionale. In Italia, dove ArcelorMittal rappresenta il 62% di Acciaierie d’Italia, la strategia è la stessa, almeno dal 2017. E i soldi pubblici sono arrivati eccome in questi anni e non solo per la riconversione green.

Alcuni dati si possono ricavare dal Registro nazionale degli aiuti di Stato, uno strumento a cura del Mimit e l’Agenzia territoriale per la coesione, attivo dal 2017. Riporta che dal 2021, Acciaierie ha ottenuto in totale 709 milioni sotto forma di garanzie bancarie, sconti in bolletta e ammortizzatori sociali. Ci sono poi 150 milioni previsti per le bonifiche dell’area contaminata del polo industriale per i quali si è discusso, lo scorso anno, di modificare la destinazione d’uso e allocarli per progetti di investimenti sugli impianti. Il decreto Aiuti bis approvato dal governo uscente di Mario Draghi ad agosto 2022 permette a Invitalia di «sottoscrivere aumenti di capitale o diversi strumenti comunque idonei al rafforzamento patrimoniale sino all’importo complessivamente non superiore a un miliardo di euro per il 2022 per assicurare la continuità del funzionamento produttivo dell’impianto siderurgico di Taranto della società Ilva Spa».

Un mese dopo, a settembre 2022, il Consiglio dei ministri ha approvato anche il decreto Aiuti ter che introduce altre misure per l’applicazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) e prevede, per l’ex Ilva di Taranto, un altro miliardo per la decarbonizzazione.

L’ultimo contributo, firmato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, è del marzo 2023 ed è stato soprannominato Salva-Ilva. È il quattordicesimo di questo genere. Nel decreto ci sono 680 milioni di euro con i quali Acciaierie dovrà prima di tutto pagare i fornitori con i quali continua a indebitarsi, come ad esempio Eni per il gas. Ma non c’è solo il lato economico. Ripropone infatti anche lo scudo penale per chi è coinvolto nella gestione dell’azienda, una misura introdotta la prima volta nel 2015 che, pur di garantire la continuità produttiva, impedisce che si prendano misure per contrastare presunti illeciti amministrativi e penali eventualmente commessi nella gestione dell’impianto durante l’attuazione delle prescrizioni ambientali.

C’è di più: in caso di sequestro, alcune decisioni saranno prese non dal tribunale di Taranto ma da quello di Roma. La proroga dello scudo era stata stralciata nel 2019, ma da allora era stato al centro di uno scontro con i legali di ArcelorMittal, in quanto la sua decadenza avrebbe potuto spingere l’investitore privato a rescindere il contratto. Il Gip di Taranto aveva già sollevato dubbi sulla costituzionalità della misura, poi in seguito leggermente modificata e ora tornata di attualità. Dallo scorso anno, in Costituzione ci sono anche due articoli che si occupano della tutela ambientale e che potrebbero essere utilizzati per ribadire i dubbi sull’incostituzionalità della norma.

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Autori

Carlotta Indiano

Editing

Lorenzo Bagnoli

Ha collaborato

Michele Luppi, Federico Monica (PlaceMarks)

Infografiche

Lorenzo Bodrero

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Legname insanguinato: la rotta del teak dal Myanmar all’Italia

#DeforestazioneSpa

Legname insanguinato: la rotta del teak dal Myanmar all’Italia

Edoardo Anziano
Fabio Papetti
Giulio Rubino

La nautica di lusso viene spesso raccontata come un “orgoglio italiano”. Nel concetto si incontrano il design, le nostre coste baciate dal sole, il turismo e quell’italianità che con tanta cura abbiamo imparato a vendere all’estero. Con un incremento del 31% rispetto al 2020 la nautica in generale è arrivata nel 2021 a fatturare oltre sei miliardi di euro, contribuendo per il 2,89‰ al Pil italiano.

“Lusso”, in questo caso, è davvero la parola chiave, ché a guardare ai dettagli del resoconto economico del settore, presentati a settembre scorso al 62° Salone nautico internazionale di Genova, l’Italia esporta yacht di lusso soprattutto verso paradisi fiscali: Isole Cayman, Isole Marshall e Malta compaiono infatti nei primi cinque Paesi di destinazione. E per quanto siamo secondi all’Olanda nelle esportazioni, in termini di saldo commerciale torniamo primi, con 3,1 miliardi di dollari.

L'inchiesta

#DeferestazioneSpa è un progetto coordinato da International Consortium of Investigative Journalists (ICIJ) a cui partecipano 40 testate. IrpiMedia e l’Espresso sono i partner italiani dell’inchiesta. Questa puntata della serie indaga sulle società italiane che continuano a importare legname burmese, nonostante non rispetti le regole europee sulla salvaguardia delle foreste e i due attori che hanno il monopolio dell’export in Myanmar siano sotto sanzione.

Un natante di lusso che si rispetti non può fare a meno di un bel ponte di teak. Lo riconosce Alessandro Calcaterra, presidente di Federcomlegno (associazione italiana degli importatori di legname che appartiene a Confindustria), che dice: «Il teak migliore, con l’effetto rigato, si ricava solo dagli alberi secolari della Birmania. Quindi il mercato della nautica ha continuato ad acquistarlo». E questo accade nonostante le alternative esistano e le importazioni di teak dal Myanmar, arrivino a un costo molto alto, specialmente negli ultimi anni. Il monopolio della gestione delle foreste nel Paese è infatti in mano ad entità di Stato, oggi gestite dal governo militare del generale Min Aung Hlaing, salito al potere con un colpo di Stato e colpevole di innumerevoli violenze e repressioni.

La giunta al potere in Myanmar

Il primo febbraio scorso è stato il secondo anniversario del colpo di stato che ha spodestato il partito NLD (National League for Democracy) con a capo la leader Aung San Suu Kyi, di recente condannata dalla giunta militare a 33 anni di prigione per corruzione, tra le proteste di gruppi di attivisti per i diritti umani.

Subito dopo il putsch nel Paese si sono diffusi movimenti di protesta e di resistenza al regime appena instaurato, con conflitti armati che continuano ancora oggi, specialmente laddove la presenza delle minoranze etniche è maggiore. La giunta militare ha represso nel sangue le prime manifestazioni e diverse Ong attive nel Paese hanno documentato torture, esecuzioni e arresti arbitrari. Secondo la Assistance Association for Political Prisoners (AAPP) sono quasi 20 mila i prigionieri politici in Myanmar e oltre tremila i manifestanti uccisi dalla violenza dell’esercito.

A livello internazionale, la reazione al colpo di Stato non è stata omogenea: Europa e Stati Uniti hanno condannato le violenze e persecuzioni perpetrate sotto Min Aung Hlaing, mentre nazioni come Cina e Russia si sono mantenute più neutrali, per ragioni principalmente commerciali. Sul versante occidentale, nel 2021 Stati Uniti e Unione europea hanno attuato una serie di sanzioni volte a indebolire la giunta e le entità, statali e non, che riforniscono economicamente l’esercito burmese.

Già nel 2007 il Paese asiatico era stato attraversato da proteste non violente contro la giunta militare. Dal colore delle vesti dei monaci buddisti – che si opponevano alle violazioni dei diritti umani con le armi della non violenza – le proteste anti-governative avevano fatto il giro del mondo col nome di “rivoluzione zafferano”. E già allora era emerso che l’export del legname era uno dei modi attraverso cui il governo si riusciva a sostenersi.

Porzione di foresta tagliata tra il 2018 e il 2019 nella Regione di Bago a nord di Yangon. Siamo nel sud del Paese a circa 100 km dalla capitale. Una volta abbattuti gli alberi vengono trasportati per la lavorazione nelle città più vicine e da qui proseguono il loro viaggio verso Yangon

I limiti del regolamento EUTR e delle sanzioni al Myanmar

Il 9 dicembre 2020 un documento redatto dalla Commissione di esperti sulla conservazione e il recupero delle foreste del mondo – organismo dell’Unione europea a cui appartengono diversi portatori di interessi che ha tra i suoi compiti l’implementazione del regolamento europeo che si occupa di proteggere le foreste di tutto il mondo – ha concluso che le due compagnie di Stato Myanma Timber Enterprise (MTE) e Forest Product Joint Venture Corporation Ltd (FPJVC) detengono di fatto il monopolio dell’esportazione del legname dal Myanmar. Nel rapporto il Paese è stato definito a rischio, perché lungo la filiera non esiste la possibilità di accertare se i tronchi siano stati tagliati in maniera legale o meno.

L’export del legname è una delle fonti di reddito più importanti per la giunta al potere in Myanmar. Un anno dopo il colpo di Stato con il quale ha preso il potere, nel febbraio 2021, il Consiglio europeo ha messo in piedi un sistema di sanzioni per contrastarla. Le misure prevedono il congelamento degli asset finanziari, restrizioni di movimento per le persone colpite dalle sanzioni e, la conferma di una misura che esiste fin dal 1996, un embargo su armamenti, apparecchi dual-use, equipaggiamento militare e per le comunicazioni. Tra i sanzionati, 93 individui e 18 entità burmesi in totale, ci sono anche gli esportatori di legname MTE e FPJVC.

“We want democracy”. Un grido per la democrazia scritto a caratteri cubitali per le strade di Yangon. Siamo nel febbraio 2021 e da pochi giorni il Paese è tornato nelle mani della giunta militare che, con un colpo di stato, ha deposto il governo guidato da Aung San Suu Kyi. La gente scende in piazza e riempie le strade di scritte pro-democrazia. Un movimento di opposizione che verrà represso con la violenza

Tuttavia le sanzioni non hanno messo fine agli scambi commerciali fra il Myanmar e l’Europa, soprattutto perché, diversamente da quanto non si sia fatto con la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina, non c’è un vero e proprio bando alle importazioni. A relazionarsi con i clienti esteri, più che MTE e FPJVC, sono infatti gli esportatori privati, che nonostante siano obbligati a rifornirsi dalle entità sanzionate, riescono a esportare lo stesso.

A questo si aggiunge il fatto che le zone più coinvolte nel conflitto, con una forte presenza di minoranze etniche, sono le stesse maggiormente colpite dalla deforestazione, facendo sorgere ulteriori dubbi sull’origine pulita del legname. Il documento conclude che gli operatori dovrebbero astenersi dal piazzare sul mercato europeo il legname burmese e i prodotti che ne derivano, salvo prova dell’origine controllata dei lotti: di per sé una contraddizione logica.

Per proteggere almeno dal punto di vista ambientale l’integrità delle foreste di Tectona Grandis, nome scientifico dell’albero di teak, l’Unione europea ha anche istituito il European Union Timber Regulation (EUTR), regolamento per contrastare l’importazione illegale di legname e a creare una filiera sostenibile che vige dal 2013.

L’articolo 4 dell’EUTR richiede alle aziende comunitarie che importano legname proveniente da fuori l’Ue di accertarsi della provenienza e della proprietà del prodotto importato tramite un sistema di due diligence (dovuta vigilanza). L’ambiguità della norma, unita alle recenti sanzioni, ha prodotto diverse interpretazioni del complesso di restrizioni agli import dal Myanmar. In Germania ad esempio ci sono stati casi di multe milionarie e reclusione per le persone coinvolte, come nel caso della WOB Timber di Amburgo, nell’aprile 2022. Nel verdetto della corte tedesca, la compagnia è stata costretta a pagare 3,3 milioni di euro per traffico di legname, e il direttore condannato a scontare 21 mesi di libertà vigilata e a pagare 200 mila euro di penale. In Italia, l’applicazione della norma non ha avuto finora effetti simili.

Destinazione Italia, nonostante tutto

I tronchi abbattuti nelle foreste del Myanmar passano per molte mani, lungo un viaggio che può durare anni. Dalla foresta arrivano alle segherie, viaggiano poi lungo il fiume Yangon fino all’omonima città portuale. Una volta venduti all’asta agli esportatori aspettano stoccati in depositi lungo il fiume, prima di prendere il mare diretti in genere verso Singapore, dove vengono poi caricati su navi dirette in Italia. All’arrivo in porto, i carichi non vengono immediatamente sdoganati del tutto, ma stoccati in depositi doganali e “importati” un pezzetto alla volta. Ognuno di questi “pezzetti” corrisponde a un controllo, e un singolo carico può essere “importato”, e quindi controllato, nel corso di diversi mesi, secondo le necessità commerciali.

Legno insanguinato

Valori in euro delle importazioni in Italia di legname (tronchi e segati) dal Myanmar (i dati 2022 si fermano a novembre)

Documenti confidenziali dell’agenzia fiscale del Myanmar, condivisi con ICIJ dagli attivisti di Justice for Myanmar e Distributed Denial of Secrets, rivelano che Comilegno Srl – azienda a conduzione familiare con sede a Rivignano Teor, in provincia di Udine – negli ultimi due anni, ha comprato più di 80 tonnellate di doghe e tavole in teak attraverso una società intermediaria del Myanmar: la Win Enterprise Ltd. Fino almeno all’inizio di febbraio 2023, quando il riferimento è scomparso dal loro sito, Win appariva sul sito di MTE come una controllata della Forest Products Joint Venture Corp Ltd (FPJV), cioè una delle due aziende di Stato sotto sanzioni. Win enterprise nega ogni connessione, derubricando l’informazione sul sito di MTE a «un errore».

Min Thaw Kaung, azionista di Win Enterprise, è diventato direttore di FPJV a luglio 2021, sei mesi dopo il colpo di stato. In risposta alle domande di ICIJ ha dichiarato che avrebbe dato le dimissioni due mesi dopo, a settembre 2021, e che da allora «non è più coinvolto né con MTE ne con FPJV».

Le bolle d’accompagnamento ottenute da ICIJ, spedizioni fra Win Enterprise e Comilegno, contengono documenti in carta intestata di MTE datati fino a aprile 2022. NRC, partner olandese di questo progetto, ha ottenuto prove che la spedizione di aprile era diretta a una una società dei Paesi Bassi che rifornisce l’industria degli yacht: si trattava di un container di doghe e tavole in teak.

Comilegno era già stata accusata dall’ong britannica Environmental Investigation Agency (EIA), tra le più autorevoli in questo campo, di aver importato da Win Enterprise dopo il colpo di Stato. Nel 2022 ne aveva parlato anche il quotidiano Domani, a cui Comilegno aveva risposto: «Non abbiamo mai violato le sanzioni e il nostro fornitore non ha mai avuto contatti con il regime». Il teak inviato dopo il colpo di Stato sarebbe inoltre già stato pagato dal fornitore a MTE, e quindi si sarebbe trattato «di materiale non sanzionato». Anche in questo caso, l’esistenza di almeno cinque passaggi nella filiera di approvvigionamento, con intermediari in Croazia, India, Singapore e Myanmar, rendeva la catena di custodia del legname difficile da accertare.

Interpellato da ICIJ, un rappresentante di Win Enterprise ha dichiarato che hanno «venduto solo teak tagliato prima di febbraio 2021» e sempre «in conformità con l’EUTR», il regolamento europeo sul commercio del legname delle foreste. Non ci sarebbe «alcuna influenza governativa» sugli affari della società e il suo essere indicata come controllata dello Stato è semplicemente «un equivoco nella comunicazione pubblica».

Fabrizia Comisso, azionista di maggioranza di Comilegno Srl, ha chiarito a ICIJ che Win Enterprise, «il loro fornitore, è una società privata non controllata da nessun altra società né pubblica, né privata» e che, ad ogni modo, Comilegno non importa «più teak birmano».

La città di Mandalay lungo il corso del fiume Irrawaddy è uno snodo nevralgico nel commercio del teak e del legno pregiato. Nell’immagine del 2022 una grande quantità di legname attende di essere sistemata sulle chiatte per proseguire il viaggio verso sud

Il trasporto del legname dalle zone di taglio alla capitale Yangon avviene quasi esclusivamente per via fluviale utilizzando chiatte di grandi dimensioni. Nell’immagine due chiatte viaggiano in direzione sud lungo il corso del fiume Irrawaddy con i suoi 2.170 km di lunghezza, il principale canale commerciale del Myanmar. Entrambe misurano oltre 170 metri di lunghezza per un superficie complessiva di cinquemila mq
Il teak ha una proprietà che lo rende perfetto per la nautica: il suo contenuto di resina oleosa lo rende resistente all’acqua. Per questo a Yangon nessuno si preoccupa di stiparlo in magazzini. Il legame in arrivo da tutto il Paese attende all’aperto di essere caricato sulle navi che lo porteranno a Singapore e da qui in tutto il mondo

Come Comilegno, parecchi dichiarano di aver rinunciato al teak burmese. Non la Arredoteak Srl di Viareggio, che risulta essere a oggi una delle poche aziende italiane che ancora importa direttamente dal Myanmar. Impegnata nella costruzione di coperte per navi e yacht, sul sito della compagnia toscana si legge ancora: «Importazione di teak proveniente dalla Birmania per arredi navali di qualità». L’azienda specifica che i loro prodotti sono in regola con le normative europee e che effettua la dovuta due diligence per garantire la provenienza legale del teak, senza tuttavia citare il «partner storico» con sede in Myanmar a cui Arredoteak si affida per l’ordine dei lotti.

Interpellata da IrpiMedia e L’Espresso sulla provenienza e sui fornitori di teak, l’azienda non ha rilasciato dichiarazioni.

Dai dati doganali ottenuti da IrpiMedia e L’Espresso, è evidente che le importazioni di legname dal Paese del sud est asiatico continuano, raggiungendo quota 14 milioni di euro nel 2022 per il solo teak. Una volta arrivata in Italia, la merce viene poi rimessa in vendita e finisce il suo ciclo nei depositi delle compagnie nostrane ed europee. Una di queste ri-esportazioni è stata oggetto nel 2019 di un’indagine da parte del governo tedesco contro la Alfred Neumann GmbH, società basata sull’import-export di legname.

In generale però, assicurano le autorità italiane, tutte le importazioni di teak che il consorzio #DeforestazioneSpa ha potuto verificare, riguarderebbero acquisti effettuati prima di giugno 2021 e delle sanzioni. Se può sorprendere che a fine 2022 ancora arrivino carichi pagati un anno e mezzo prima, questo dipenderebbe dal sistema della logistica del legno e dai suoi tempi.

Il porto di Trieste, insieme a quello di Livorno, sono i due terminal più importanti d’Italia per l’importazione e il commercio di legname. Passando il mouse sopra l’immagine si può scorgere nel dettaglio una nave carica di legname (l’immagine è stata scattata l’8 agosto 2018 al Molo II del porto di Trieste) intenta nelle operazioni di scarico. Da qui passano parte delle importazioni di teak destinate non solo all’Italia ma a diversi Paesi europei

Trent’anni di denunce

I legami fra Italia e importazione di legname dal Myanmar risalgono a oltre trent’anni fa. I report dell’Ong EIA documentano come, già all’epoca, il taglio e il traffico illegale di legno pregiato fosse fuori controllo. A metà degli anni ‘90, l’export di legname illegale verso Cina e Thailandia generava profitti per 86 milioni di dollari l’anno. È in questo periodo che alcune aziende italiane aprono i loro uffici in Myanmar, per approvvigionarsi direttamente del teak locale, mentre l’Unione europea già imponeva le prime sanzioni ad aziende legate al regime militare.

Bisogna aspettare il 2007, anno in cui la giunta al potere reprime le proteste della “Rivoluzione zafferano”, perché l’opinione pubblica italiana si accorga del problema. La momentanea indignazione fa calare drasticamente le importazioni dal Myanmar dai 60 milioni del 2007 a soli tre milioni di euro fra 2008 e 2009. Ma negli anni successivi riprendono. Un’analisi condotta da EIA nel 2014 sui dati pubblicati dal governo del Myanmar stima che il 72% di tutte le spedizioni di legname fra il 2000 e il 2013 non sono state «ufficialmente autorizzate», secondo quanto emerge dalle statistiche ufficiali.

Nel 2016 arrivano anche le prime accuse formali nei confronti di aziende italiane. È di nuovo EIA a denunciare come, nella costruzione di A – all’epoca lo yacht più grande al mondo, lungo 150 metri e alto 100 – per il miliardario russo Andrey Melnichenko (sequestrato nel 2022 a seguito delle sanzioni UE che hanno colpito diversi oligarchi russi), tre aziende italiane, fra le altre, non fossero riuscite a «garantire che legname tagliato illegalmente non fosse entrato nei loro flussi di approvvigionamento». 

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In sostanza, queste aziende non avrebbero condotto la più basilare delle due diligence: informazioni sulla fonte del teak e sul diritto al taglio legale sarebbero state del tutto «irreperibili e non verificabili». Secondo le ricostruzioni dell’EIA, diverse aziende legate all’imprenditore triestino Luca Rossi, tra cui Timberlux Srl, avrebbero importato, negli anni precedenti al colpo di Stato, teak dal Myanmar all’Europa «per molti anni, acquistandolo da operatori legati a» Cheng Pui Chee, definito «il secondo Ministro delle Foreste del Myanmar» per la sua capacità di corrompere ufficiali del regime per bypassare le aste della Myanma Timber Enterprise e ottenere, a prezzi stracciati, teak della più alta qualità.

Le importazioni di Timberlux, accusa l’EIA, avrebbero violato gli obblighi di controllo della catena di approvvigionamento stabiliti dall’EUTR. L’Espresso ha contattato Timblerlux per una richiesta di commento. Matteo Rossi, fratello di Luca e amministratore unico della società, ha dichiarato che la sua società «ha interrotto gli acquisti dal colpo di Stato, fin dal febbraio 2021», e ha poi rivenduto solo «importazioni effettuate in precedenza». In merito al report dell’EIA, spiega che «mi sono già trovato a rispondere nelle dovute sedi di competenza e non entro quindi nel merito».

I casi di possibili violazioni del regolamento europeo mostrano come il teak del Myanmar molto difficilmente sia conforme all’EUTR. A marzo 2020, EIA ha fatto richiesta al ministero dell’Agricoltura croato dei documenti relativi a dieci spedizioni di teak dal Myanmar. Fra il 2017 e il 2019 al porto di Rijeka, in Croazia, arrivano 144 tonnellate di teak Burma, valore totale: un milione di euro. Sono destinati a un intermediario croato, che poi rivende il legname in tutta Europa. Inclusa l’Italia, dove ad acquistarlo è un’azienda di Udine. I documenti allegati alle spedizioni, secondo l’EIA, non contengono alcuna informazione sulla legalità del teak. Inoltre, le variazioni nel peso, nel valore del legname spedito e nei codici che individuano la tipologia di prodotto fra Yangon, il porto di partenza, e Rijeka, quello di arrivo, potrebbero far pensare a una possibile evasione fiscale. Il Myanmar, infatti, applica tasse più alte per prodotti in legno più grezzo, così prodotti partiti da Yangon come «altamente lavorati» sono arrivati in Croazia come «tavole di teak, non piallate o levigate».

Il porto di Livorno
Il porto di Trieste

Primo: proteggere l’industria degli yacht di lusso

Diverse ong internazionali accusano l’Italia per essere tra i principali Paesi importatori di teak del mondo: 1.783 tonnellate solo nel 2022. Dal giugno 2021, «in teoria, non si potrebbe più importare nulla dal Myanmar, neppure un truciolo – riconosce Alessandro Calcaterra, il presidente di Fedecomlegno -. In realtà tra gennaio e novembre 2022 l’Italia ha continuato ad acquistare l’83% del teak birmano arrivato in Europa».

La giunta militare ha dichiarato di aver incassato 106 milioni di dollari, nel 2022, con le esportazioni di questo legno. «Secondo i nostri dati – aggiunge Calcaterra -, le imprese italiane hanno versato almeno 18,2 milioni di euro su un totale europeo di 22,5». «Noi di Fedecomlegno abbiamo fatto una grande azione di convincimento sui nostri iscritti: molte aziende hanno scelto di non acquistare più teak da foresta. Solo nel corso del 2022, grazie alla nostra moral suasion, molte società italiane hanno optato per legni sostitutivi. Ma un gruppo di aziende è uscito dalla nostra associazione», conclude.

Myanmar & Italia

Al contrario di diversi Paesi europei che hanno immediatamente recepito le sanzioni e le regolamentazioni, bloccando del tutto le importazioni (almeno quelle dirette) dal Myanmar, l’Italia ha infatti valutato la non retroattività della legge. Un principio più che legittimo, ma che ha permesso che «gli eventuali approvvigionamenti di legname prelevato nelle foreste del Myanmar commissionati e pagati in data antecedente alla pubblicazione della norma sulla Gazzetta ufficiale dell’Ue (21 giugno 2021)» entrassero liberamente, come ci spiega il Dipartimento del ministero dell’Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste (MASAF). È proprio a questo principio che si sono appellate tutte le aziende interrogate nel corso di questa inchiesta.

Certo, c’è da tenere presente che l’Europa ha prodotto sanzioni deboli, non ha voluto fare un bando vero e proprio e ha integrato i regolamenti con elementi di soft legislation che non sono legalmente vincolanti per gli Stati membri. Come spiega il MASAF, «mentre i Regolamenti sono direttamente applicabili, […] le raccomandazioni soggiacciono alle regole degli ordinamenti giuridici nazionali. È altrettanto noto, e non solo nel caso dell’EUTR, che proprio questo aspetto rende di fatto difficile l’uniforme applicazione delle normative comunitarie».

Sempre il MASAF non nasconde però gli aspetti pragmatici sottesi all’applicazione di queste regole e aggiunge: «Un altro aspetto da considerare per inquadrare il fenomeno è che le importazioni che avvengono prevalentemente attraverso uno Stato membro sono legate all’attività imprenditoriale di quello Stato» e cioè, in questo caso, alla nostra preziosa nautica. Il Ministero punta poi il dito contro il modo con cui altri Paesi Ue applicano le sanzioni, non solo contro la giunta del Myanmar: «Nel caso delle più recenti Sanzioni Ue nei confronti di Russia e Bielorussia, sono altri gli Stati membri che nonostante le sanzioni registrano elevati numeri di importazione di altri prodotti EUTR diversi dal teak birmano».

L’analisi multispettrale realizzata da PlaceMarks mette a confronto due immagini – relative al 2019 e al 2023 – di una stessa area, nei pressi di Myitkyina, nella regione di Kachin: le aree verdi indicano la presenza di vegetazione, mentre quelle bianche la presenza del suolo nudo o di strade. Come si può notare anche solo a colpo d’occhio nel periodo preso in esame c’è stato un consistente deterioramento delle aree verdi

Le multe? 50 mila euro

Per capire come si lavora sul fronte del porto, la soglia d’ingresso del teak del Myanmar in Italia, abbiamo incontrato il Comandante del Reparto pperativo del raggruppamento Carabinieri CITES (Convention on International Trade in Endangered Species) , il Ten. Col. Claudio Marrucci. Spiega che i carichi di legname arrivano assieme a migliaia di pagine di documentazione, di cui buona parte scritte in burmese, che vanno ogni volta analizzate nel dettaglio. «Siamo riusciti quest’anno – dice il colonnello Marrucci – a far pagare almeno 50 mila euro di multe» emesse in seguito ai controlli. «Facciamo controlli tutti i giorni – prosegue -, abbiamo 35 nuclei e 300 unità completamente dedicate a questo».

Non mancano però le difficoltà: «Noi siamo degli esecutori del legislatore nazionale e lavoriamo con gli strumenti che abbiamo», spiega il comandante del CITES, che descrive anche la complessa suddivisione delle responsabilità del sistema italiano. In breve, le sanzioni vengono valutate dal Comitato di sicurezza finanziaria, che dipende dal MEF, poi applicate, in questo caso, dal MASAF che coordina le dogane (che si occupano delle verifiche sulle sanzioni vere e proprie), e dai Carabinieri Forestali (che controllano l’EUTR). Comitato di Sicurezza Finanziaria e Dogane non hanno risposto alle domande del consorzio.

L’immagine, risalente al febbraio 2022, mostra un’area di circa 150 ettari di foresta che è stata abbattuta nella regione di Sagaing, non distante dalla città di Pyaungbok. Con tutta probabilità il legname è stato portato verso sud sfruttando il fiume Chindwin, il maggior affluente del fiume Irrawaddy

I tronchi degli alberi abbattutti sono ancora a terra, in un’area di 129 ettari di foresta tagliata tra il 2016 e il 2017 nella regione di Bago. La zona si trova nel cuore del Myanmar a circa 215 km in linea d’aria dalla capitale Yangon

Nonostante tutto, la pressione dei controlli sembrerebbe aver comunque indotto diverse aziende a rinunciare al teak burmese, almeno come importatrici. Infatti, una volta che il teak è arrivato in un qualsiasi Paese Ue, i controlli finiscono e il legname si sposta liberamente all’interno dell’Unione. «Ho visto come operatori italiani aggrediti, diciamo così, dai continui controlli finiscano per cambiare metodo – spiega Marrucci -. “Spostiamo l’operatore dall’altra parte”, dicono (cioè spostano l’importazione in un altro Stato membro, ndr). Quindi triangolazioni all’interno dell’Europa sicuramente ce ne sono».

Il Ministero precisa che gli importatori rischiano «multe fino a mezzo milione e la confisca del legname», cifre teoriche molto lontane dai 50 mila effettivamente comminati quest’anno, mentre l’armonizzazione del sistema italiano a quello europeo ancora non è arrivata. «C’è sul tavolo l’elaborazione di un nuovo regolamento – aggiunge il colonnello Marrucci-. Mi sembra però che per il momento il discorso sia fermo a un annetto fa», conclude.

Al momento è difficile approfondire le indagini, sempre per ragioni legislative: il colonnello Marrucci in merito spiega che «tutte le sanzioni basate sul regolamento EUTR, anche quando sono penali, sono comunque contravvenzionali. Non è un delitto, non è qualificato come un crimine serio. È soggetto a termini di prescrizione più bassi, ha limitazioni per quello che riguarda le indagini, alla non possibilità di svolgere delle intercettazioni o di fare tutta una serie di cose che invece posso fare con delitti». Il reato, quindi c’è, ma è qualificato come l’uccisione di uccelli, e punito in modo relativamente blando.

Morale: non c’è alcun effetto deterrente, nonostante gli sforzi di chi controlla. Così la rotta del legname insanguinato del Myanmar continua senza sosta.

Il 7 marzo l’articolo è stato aggiornato per precisare i legami tra le società Win Enterprise Ltd e Forest Products Joint Venture Corp Ltd.

CREDITI

Autori

Edoardo Anziano
Fabio Papetti
Giulio Rubino

Fotografie ed elaborazioni satellitari

Map data

Google/Maxar

Editing

Lorenzo Bagnoli

Ha collaborato

Scilla Alecci
Paolo Biondani
Michele Luppi, Federico Monica (PlaceMarks)
Gloria Riva
Leo Sisti

Infografiche

Edoardo Anziano
Lorenzo Bodrero

In partnership con

Le certificazioni di sostenibilità non fermano la deforestazione

2 Marzo 2023 | di Edoardo Anziano, Fabio Papetti, Giulio Rubino

Dal 1990 a oggi, un’area di foreste grande come l’Europa intera è scomparsa. Prima nell’indifferenza generale, poi, quando finalmente gli allarmi degli scienziati sulla crisi climatica e la perdita di biodiversità hanno cominciato ad essere trattati con più serietà, nel generale sconcerto. Senza che però si facesse nulla di concreto per mettere un freno a questa distruzione.

Lo sfruttamento industriale delle foreste è una delle cause principali dei cambiamenti climatici. Tagliare gli alberi, però, ha sempre delle conseguenze negative: gli scienziati stimano che il 10% delle emissioni climalteranti di tutto il mondo derivino da queste attività. La distruzione delle foreste inoltre aumenta il rischio di frane, allagamenti, e contribuisce in modo sostanziale all’estinzione di massa in corso della fauna silvestre. In aggiunta al danno ambientale, secondo alcuni, è anche una delle cause dell’aumento del rischio di epidemie. Con meno habitat forestale a disposizione, infatti, è più facile che patogeni sconosciuti vengano in contatto con umani o con animali da fattoria, entrando in questo modo nella catena alimentare umana.

Quindi, nonostante l’incapacità di intervenire degli Stati e delle organizzazioni internazionali, oggi resta impossibile per l’industria della deforestazione continuare a negare l’esistenza del problema. Come spesso accade in questioni che riguardano l’ambiente, i gruppi privati hanno ribaltato la narrazione presentandosi come “parte della soluzione”: per ottenere il risultato basta cambiare nome alla propria attività allo scopo di presentarla al pubblico come “verde”. Per questo è nata l’industria delle certificazioni di sostenibilità.

Le certificazioni di sostenibilità sui prodotti forestali (legno, carta, mobili e quant’altro) sono nate negli anni ‘90, in risposta all’impossibilità di creare accordi internazionali efficaci per arginare la deforestazione. Le più importanti sono Forest Stewardship Council (FSC), e Programme for the Endorsement of Forest Certification (PEFC), ma l’opportunità di business è stata prontamente colta dal più grande settore delle certificazioni industriali. Infatti da un lato giganti come KPMG e PwC (PricewaterhouseCoopers) hanno aperto divisioni specifiche per questo tipo di certificazioni, dall’altro sono sorte decine di aziende più piccole che fanno lo stesso, per un giro d’affari complessivo da 10 miliardi di dollari all’anno.

I certificati, è importante ricordarlo, sono del tutto volontari. Avere un certificato verde non semplifica le procedure di controllo, né protegge dalle verifiche delle forze dell’ordine. Il loro effetto è però molto importante, in primis per il consumatore finale, abituato oggi a trovare confortanti bollini verdi anche in fondo ai taccuini che compra, o sulla sovracopertina dei propri libri preferiti. Anche JK Rowling, dando alla stampa il settimo libro della saga di Harry Potter (oltre 500 milioni di copie vendute nel mondo) ha concordato con l’editore che la carta fosse certificata FSC.

Dato il prestigio di alcune delle grandi aziende che le emettono (KPMG, PwC), il ruolo e l’impatto di queste certificazioni si espande rapidamente anche a tutta la catena produttiva. La speranza velata delle aziende certificatrici è che, prima o poi, i loro bollini vengano sempre di più richiesti anche a livello ufficiale, come accade per altri settori.

L’inchiesta

#DeferestazioneSpa è un progetto coordinato da International Consortium of Investigative Journalists (Icij). L’inchiesta si interroga su come la deforestazione a livello globale continui, favorita anche dal greenwashing di cui, grazie a certificazioni carenti o inefficaci, molte aziende si rivestono per ingannare i propri clienti. Al progetto partecipano 40 testate da 27 Paesi. Per l’Italia, fanno parte di #DeforestazioneSpa IrpiMedia e l’Espresso.

Le certificazioni sfoggiate dalle aziende che lavorano il legname delle foreste dovrebbero accertare il rispetto degli standard ambientali, sociali e lavorativi, nonché il rispetto dei diritti umani di lavoratori e popolazioni indigene impattate dall’industria. Quando sono inaffidabili o falsificate, possono quindi causare enormi danni.

Stando ai risultati delle nostre ricerche, è difficile sentirsi rassicurati dagli effetti delle certificazioni di sostenibilità. I giornalisti di #DeforestazioneSpa hanno verificato che molte aziende apparentemente sostenibili hanno ripetutamente violato gli stessi standard che si erano date.

Ad esempio, un’azienda brasiliana che lavora nella foresta amazzonica è stata certificata «a pieno titolo», come dice il suo stesso sito, nonostante sia stata multata 37 volte dal 1998 a oggi per aver stoccato e trasportato legname senza autorizzazione. Un’azienda giapponese che opera in Cile ha ricevuto la certificazione nonostante si sia rifornita da aziende che hanno usato documenti falsi per l’origine del legname. Un altro gruppo di aziende canadesi condannate da un tribunale per aver danneggiato territori indigeni erano comunque certificate per utilizzare un «piano sostenibile di gestione delle foreste».

Dal 1998, oltre 340 aziende del legno certificate sono state accusate di crimini ambientali e altre violazioni da comunità locali, gruppi ambientalisti e agenzie governative, fra gli altri. Circa 50 di queste aziende possedevano certificati di sostenibilità quando sono state multate o condannate.

Greenwashing con il bollino

Gli enti certificatori, in tutto ciò, sono raramente chiamati in causa quando si verificano casi di questo tipo. Mancando ancora regole precise per l’assegnazione delle certificazioni, anche quando le ditte certificate vengono multate, spesso chi ha dato il “bollino verde” se la cava senza conseguenze, a prescindere dalla qualità delle verifiche effettuate.

Le sole certificazioni più importanti e riconosciute, Forest Stewardship Council (FSC), e Programme for the Endorsement of Forest Certification (PEFC) a oggi hanno certificato come “sostenibili” circa 320 milioni di ettari di foresta e migliaia di prodotti in tutto il mondo. Il loro ruolo è pervasivo in buona parte del mondo, ma in mercati specifici, anche molto importanti, sono sorte piccole aziende specializzate, come PT Inti Multima Sertifikasi in Indonesia, che certifica buona parte del legname tropicale esportato da quel Paese, molto richiesto in occidente.

Secondo la Forest Monitoring Network, un’organizzazione ambientalista di base a Bogor, nella provincia occidentale di Giava, in Indonesia, gli ispettori delle aziende di certificazione indonesiane hanno mancato di segnalare violazioni delle leggi ambientali per almeno 160 aziende. Si parla di permessi di taglio falsi, deforestazione illegale e distruzione di habitat protetti per animali come tigri ed elefanti. In alcuni di questi casi, inoltre, gli ispettori non hanno fatto nulla per impedire che queste pratiche continuassero.

Le organizzazioni internazionali si affidano a enti terzi per verificare che i loro clienti – produttori di legname, di olio di palma e altri prodotti derivanti dalla gestione delle foreste – raccolgano la materia prima in modo sostenibile e non usino materiali provenienti da deforestazione illegale. Gli ispettori degli enti terzi, che lavorano sul campo per documentare il lavoro di chi opera nelle foreste, controllano le segherie, intervistano gli impiegati dell’azienda e verificano tutte le condizioni che fanno parte delle dichiarazioni volontarie di sostenibilità.

Gli esperti, per quante criticità ci siano, concordano che in assenza di leggi nazionali in molti Paesi fornitori di legname, le certificazioni possono contribuire a mitigare i rischi di deforestazione. Ovviamente non possono dare il via ad azioni repressive contro le pratiche illegali, ma dovrebbero favorire sul mercato, grazie alla pressione dell’opinione pubblica, i soggetti che le hanno, i quali in teoria dimostrerebbero una maggiore trasparenza e attenzione all’ambiente.

In Brasile ad esempio, dove larga parte dell’industria in Amazzonia opera nell’illegalità più totale, poche sono le aziende che permettono a ispettori di enti terzi di controllarle. Anche quelle che si aprono possono però restare, almeno parzialmente, opache. Marcos Planello, ispettore forestale di base a Sao Paulo confessa ad ICIJ i limiti del suo lavoro: «Noi ispettori controlliamo solo quello che le aziende ci permettono di controllare, se un’azienda vuole fare qualcosa di illecito di nascosto, lo farà».

L’illusione di poter fare la differenza

Negli ultimi anni le certificazioni FSC e PEFC sono finite sotto accusa a causa di una sostanziale mancanza di trasparenza rispetto ai criteri e i risultati delle ispezioni, di scandali che hanno coinvolto aziende da loro certificate e di presunti conflitti di interessi.

Tre ex-ispettori intervistati da ICIJ hanno detto che avevano inizialmente scelto questo lavoro per l’impatto positivo che speravano di poter avere, ma che gradualmente hanno perso le speranze rispetto al sistema. Le testimonianze sono concordi: mano a mano che le certificazioni si sono diffuse e sono aumentate le aziende pronte a pagare per la certificazione volontaria, gli standard si sono abbassati e il metodo ha perso di efficacia. Nel 2021, alcune associazioni di consumatori in Olanda e in Gran Bretagna hanno esaminato centinaia di siti di aziende che vendono prodotti che definiscono “ecosostenibili”. Nel 40% dei casi esaminati, sostengono, l’affermazione «potrebbe indurre in errore i consumatori».

«In molti hanno pensato che questi standard sarebbero stati una buona idea, a fronte degli scempi fatti nell’industria – spiega Bob Bancroft, biologo ed ex-ispettore forestale canadese -. Ora la vista dei bollini verdi sui prodotti di supermercato tranquillizza le coscienze dei consumatori, e questo è il problema».

Kim Carstensen, direttore generale di FSC, risponde alle critiche in un’intervista con i colleghi della televisione tedesca WDR. «Crediamo di essere un buon marchio per molti motivi. Abbiamo un sistema di governance che include diversi portatori di interesse e abbiamo rigidi regolamenti ambientali e sociali». In un mondo ideale, spiega Carstensen, i governi dovrebbero avere un ruolo più attivo nella protezione delle foreste. «Ma la situazione non è ideale – ragiona – quindi quando ci sono dubbi sulla sostenibilità o meno della gestione delle foreste, le certificazioni sono ancora importanti». FSC, quindi, continua a sopperire ad un vuoto di leggi internazionali in certe occasioni.

In quanto “strumento volontario”, aggiunge un portavoce di FSC in risposta alle nostre domande, «FSC non pretende di poter essere una soluzione ad un problema complesso come la deforestazione». «La credibilità di PEFC – ha dichiarato invece il suo portavoce Thorsten Arndt – e di altre certificazioni è stata riconosciuta molte volte», aggiungendo che le Nazioni Unite considerano PEFC come un «indicatore di progresso rispetto ai Sustainable Development Goals (SDGs)», ha spiegato riferendosi all’agenda 2030 delle Nazioni Unite per la sostenibilità ambientale in cui, dal 2015, sono definiti degli obiettivi intermedi che dovrebbero contribuire allo sviluppo globale, promuovere il benessere umano e proteggere l’ambiente.

Arndt ha anche risposto alle critiche, mosse da diverse associazioni ambientaliste, che gli standard di PEFC siano sbilanciati a favore dell’industria. Le aziende, replica il portavoce, sono solo uno dei nove stakeholder che stabiliscono gli standard di PEFC, assieme alle comunità indigene, i sindacati e altri attori.

Alcune aziende certificatrici contattate da ICIJ hanno ammesso che possono esserci stati casi di sviste o leggerezze da parte dei loro ispettori, ma che questi casi rimangono isolati rispetto alla maggioranza del loro lavoro. «Alle accuse di greenwashing – ribatte Linda Brown, co-fondatrice dell’azienda di certificazioni americana SCS Global Services – rispondo che [quelli che ci attaccano] stanno cercando di usare l’eccezione per smontare la regola».

Nei fatti, tuttavia, la deforestazione non accenna a fermarsi, nonostante le ambiziose dichiarazioni delle aziende certificatrici di voler «proteggere le foreste» o di volerne «favorire lo sfruttamento sostenibile». L’approccio lassista sui controlli ha permesso ad aziende del legname di ottenere permessi di esportazione in Paesi dove è più difficile che i compratori siano a conoscenza dei reati commessi all’inizio della catena di approvvigionamento.

Ma anche in quei pochi casi in cui le violazioni vengono sanzionate, spiega Danial Dian Prawardani dell’ONG ambientalista indonesiana Forest Monitoring Network, le multe e le condanne raramente possono compensare la perdita di habitat per la fauna, la distruzione delle terre indigene e quella delle foreste primarie. «Le vere perdite [per la collettività] sono molto più alte delle multe emesse, perché il danno sociale ed ecologico è impossibile da calcolare», conclude.

Non solo, il danno causato dalla deforestazione è impossibile da riparare, almeno nel corso di una generazione, e ha conseguenze tuttora difficili da prevedere.

Foto: Veduta aerea di una segheria sulle rive del fiume Madeira nello stato dell’Amazzonia, in Brasile – Foto: Mauro Pimentel/Getty
Editing: Lorenzo Bagnoli
Hanno collaborato: Scilla Alecci, Paolo Biondani, Gloria Riva, Leo Sisti
In partnership con: ICIJ

Qatar, il miraggio ecosostenibile di un Mondiale nel deserto

#FuoriGioco

Qatar, il miraggio ecosostenibile di un Mondiale nel deserto

Lorenzo Bodrero
Michele Luppi

Èil primo in Medio oriente. Il primo, nella secolare storia della Coppa del mondo, a disputarsi nel deserto e non in estate. Ma c’è un altro primato che rende il Mondiale in Qatar speciale, a detta della Fifa, le Nazioni Unite del calcio, e del Paese ospitante: sarà il primo «a impatto zero». Con questa espressione gli organizzatori sostengono che le emissioni inquinanti di gas serra – ovvero principalmente biossido di carbonio (CO2), metano e protossido di azoto – prodotte durante la fase di costruzione degli impianti, di svolgimento del torneo e di smaltimento di alcune strutture a fine manifestazione saranno compensate finanziando progetti eco-sostenibili in giro per il mondo.

L’inchiesta di IrpiMedia e PlaceMarks, svolta attraverso una serie di rilievi satellitari, mostra l’impatto che il maxi-evento ha già avuto sul territorio: negli ultimi dieci anni sono stati asfaltati e cementificati almeno otto milioni di metri quadrati – l’equivalente di 1.140 campi di calcio – per realizzare stadi, strade, parcheggi e linee metropolitane funzionali allo svolgimento del torneo. Nemmeno la previsione sulle emissioni inquinanti torna: secondo il centro di ricerca Carbon Market Watch «affermare che un evento del genere sia a impatto zero non è credibile» a causa delle stime «fuorvianti» di Fifa e Qatar circa la quantità di anidride carbonica emessa e del modo in cui gli organizzatori prevedono di compensarla.

PlaceMarks è un progetto di ricerca specializzato nell’analisi e nell’elaborazione di immagini aeree e satellitari per indagare temi e dinamiche ambientali, sociali e umanitarie.

Trentadue squadre in gara, otto stadi distribuiti su cinque città, 64 incontri da disputarsi in 28 giorni: sono i numeri di un torneo che gli organizzatori stimano accoglierà 1,2 milioni di spettatori. Un numero importante considerata l’area geografica ma che, se confermato, rappresenterebbe il record negativo della competizione degli ultimi 60 anni, su cui ha influito il boicottaggio a livello globale in corso da mesi per le sistematiche violazioni dei diritti umani all’interno del Paese nonché per le morti sospette e le condizioni di vita degli operai stranieri che hanno costruito le infrastrutture.

Gli stadi del mondiale in Qatar, dall’alto a sinistra: Al Bayt, 60.000 posti; Lusail, 86.000; Ahmad bin Ali, 44.000; Al Janoub, 45.000; Thumama, 40.000; Education city, 45.000; Khalifa, 40.000 e 974 stadium, 45.000

La promessa del primo Mondiale green si ripete a intervalli regolari dal dicembre 2010 quando il Qatar, a sorpresa di molti, si è aggiudicato il diritto di organizzare l’evento sportivo più seguito al mondo. Un articolo pubblicato sul sito ufficiale dei Mondiali nel settembre 2021 (in una pagina ora non più disponibile ma reperibile qui) delineava tre macro strategie per raggiungere l’obiettivo: primo, il basso impatto ambientale generato dalla costruzione degli stadi utilizzando tecniche all’avanguardia per la protezione dell’ambiente; secondo, compensare l’anidride carbonica emessa con progetti energetici sostenibili finanziati da Fifa e Qatar; infine, la natura “compatta” del torneo, con tifosi e squadre che avrebbero evitato lunghi trasferimenti aerei interni a causa della prossimità degli stadi, tutti raggiungibili nel raggio di 18 chilometri (ad eccezione di uno distante circa 35 chilometri), riducendo così i consumi.

Stadi e consumo di suolo

Le partite del Mondiale in Qatar si disputeranno in otto stadi, uno solo dei quali era pre esistente. Gli altri sette sono quindi stati costruiti da zero, di cui uno – il 974 – è il primo impianto smontabile della storia, realizzato completamente con moduli prefabbricati che potranno essere spostati e montati altrove.

Nel rapporto della Fifa sulle emissioni di gas serra previste, Fifa e Qatar hanno quantificato un totale di 3,6 milioni di tonnellate di gas serra rilasciate nell’atmosfera dalla prima fase di realizzazione fino al disallestimento dell’intera competizione. Di queste emissioni, 893 mila sarebbero generate per la costruzione degli stadi permanenti, di quello decomponibile e della rimozione di parte delle gradinate di quasi tutte le strutture a torneo concluso. Nel complesso, dunque, questa voce impatterebbe per il 25% sul totale delle emissioni.

Lo stadio 974 durante la costruzione. L’impianto è stato progettato per essere smantellato alla fine del torneo ed è realizzato utilizzando containers da nave come elementi principali

La spiegazione sta nell’approccio utilizzato dalla Fifa per il calcolo della produzione di CO2. Immaginando che la durata degli impianti sia di circa 60 anni gli organizzatori hanno spalmato le emissioni prodotte durante la fase costruttiva sull’intero periodo attribuendo successivamente alla Coppa del mondo solo l’equivalente di un mese di emissioni; praticamente quasi nulla.

Una scelta metodologica che Gilles Dufresne, capo ricercatore di Carbon Market Watch, associazione non profit che si occupa di mercato dell’energia, definisce «illogica». Lo stadio 974 e le gradinate di alcuni stadi verranno, sostengono gli organizzatori, smontate a fine torneo per essere assemblate altrove. È plausibile che questa caratteristica abbia influito sul calcolo, molto al ribasso, sulla stima delle emissioni attribuite agli stadi ma i documenti ufficiali non offrono spiegazioni a riguardo.


In diversi documenti si sostiene che il nuovo stadio Ahmad bin Ali sia stato realizzato ristrutturandone uno precedente. Le immagini satellitari dimostrano invece che il vecchio impianto è stato completamente demolito e che il consumo di suolo è stato considerevole

La quantità di CO2 emessa per la costruzione dei soli stadi permanenti è almeno otto volte superiore rispetto a quanto previsto da Fifa e Qatar, secondo Carbon Market Watch: in tutto, 1,6 milioni di tonnellate, portando la stima di impatto ambientale dell’intero torneo a circa 5,4 milioni di tonnellate gas serra: l’equivalente di quanto emettono annualmente nell’atmosfera Paesi come Cipro, Panama o la Liberia. «E quasi sicuramente sono stime al ribasso», aggiunge Dufresne.

La cementificazione seguita alla costruzione di mastodontiche infrastrutture si è resa ancora più evidente da parcheggi immensi adiacenti agli stadi, insieme a centrali elettriche che renderanno possibile il condizionamento dell’aria, sia per gli spettatori sia per i giocatori.

L’analisi di IrpiMedia e PlaceMarks rivela che per i nuovi stadi e gli edifici o piazze di pertinenza sono stati cementificati circa 1,4 milioni di metri quadrati. Il più impattante da questo punto di vista è lo stadio di Al Bayt che occupa una superficie di 440 mila metri quadrati ed è circondato da ben 1,2 milioni di metri quadrati di nuove aree dedicate ai parcheggi.


Lo stadio di Al Bayt, l’unico esterno all’area metropolitana di Doha, è quello che ha generato maggior consumo di suolo. Per realizzarlo è stata cementificata una superficie pari a 235 campi da calcio


Uno dei nuovi parcheggi che circondano lo stadio di Lusail; la superficie asfaltata è di oltre 200.000 metri quadrati, l’equivalente di 30 campi da calcio e può ospitare circa 6.500 veicoli

Tutto ciò senza contare la già considerevole impronta ecologica pre-Mondiale: il Qatar è infatti il Paese al mondo con la più alta emissione di anidride carbonica pro-capite (vedi grafico) e registra tra i più alti consumi di acqua per abitante, mentre il 99% dell’elettricità utilizzata è generata da combustibili fossili.

Emissioni fuori controllo

Confronto di emissioni pro capite, in tonnellate di CO2, tra Qatar, Italia e media mondiale

La questione delle strutture decomponibili coinvolge anche i fan village, strutture realizzate per accogliere una parte degli spettatori in arrivo (uno dei quali, vicino all’aeroporto, con una capacità massima di 12 mila posti). La dimensione e le strutture ricettive del piccolo Paese del Golfo non consentono di accomodare 1,2 milioni di persone senza predisporre impianti alternativi. Sette fan village sono quindi dislocati sull’intero territorio, fatti di campi tendati (dai 400 ai 200 dollari a notte a seconda delle caratteristiche), villaggi di container e case mobili. Per risolvere la questione ospitalità è stata anche stretta una partnership con MSC Crociere la quale metterà a disposizione le motonavi “Poesia” e “World Europa” per un totale di 3.898 cabine disponibili.

Diversi fan village, villaggi temporanei per garantire l’ospitalità ai tifosi, sono composti da decine di file di containers distanziati fra loro da passaggi larghi 4 metri. Nelle immagini, il village di Rawdat (in basso) e il Cabin free zone (in alto, il più esteso, con 40 ettari di superficie)

Il gran bazar dei crediti di carbonio

Per raggiungere l’impatto zero, gli organizzatori dichiarano di voler compensare le 3,6 milioni di tonnellate di emissioni di gas serra con altrettanti crediti di carbonio. Questo meccanismo finanziario funziona affidandosi ad appositi enti certificatori che registrano lo sviluppo di progetti eco-sostenibili nel mondo attraverso cui si prevede di “inquinare meno”.

Per tentare di dimostrare un impatto ambientale zero serve prima di tutto una stima quanto più dettagliata e precisa possibile delle emissioni inquinanti. «Nessuna dichiarazione di impatto zero è credibile senza che si faccia il massimo per ridurre tutte quelle emissioni che possono essere ridotte», spiega Dufresne. Infine, di fondamentale importanza è finanziare progetti ecosostenibili attraverso l’emissione di crediti di carbonio nonché dimostrare che questi progetti non sarebbero stati realizzati altrimenti. Gran parte della tesi di Fifa e Qatar per un Mondiale green ruota attorno all’acquisto di milioni di crediti.

Enti certificatori e “addizionalità”: cosa sono i crediti di carbonio

Inclusi per la prima volta all’interno del Protocollo di Kyoto nel 1997 e successivamente rilanciati dagli Accordi di Parigi del 2015, i crediti di carbonio sono prodotti finanziari attraverso cui le aziende investono nella produzione di energia pulita per compensare il loro impatto ambientale. Con il loro acquisto le aziende possono comprare la carbon neutrality, l’impatto zero. Il meccanismo, già analizzato da IrpiMedia, appare teoricamente semplice: un’azienda inquinante, una volta calcolata la quantità di CO2 o altri gas serra che emette nell’atmosfera, può decidere di compensarla in modo parziale o totale, acquistando sul mercato dei crediti di carbonio.

I principali enti certificatori del mercato volontario dei crediti di carbonio, che verificano l’impatto dei progetti eco-sostenibili e gestiscono gli acquisti di carbon credit, sono quattro: Verified Carbon Standards – Verra (VCS), Gold Standard (GS), American Carbon Registry (ACR) e Climate Action Reserve (CAR).

Il concetto di “addizionalità” è il requisito più critico per progetti di questo tipo: per poter generare un credito, la riduzione di emissioni deve essere infatti “aggiuntiva”. L’esistenza del progetto deve cioè produrre un effetto positivo in termini di emissioni, tale da meritarsi dei crediti attraverso cui renderlo sostenibile anche sul piano economico. Infatti, solo se le riduzioni sono effettivamente addizionali non si ha un aumento delle emissioni complessive. L’obiettivo da perseguire è sostanzialmente quello della maggiore efficienza energetica e da fonti rinnovabili.

Per “rastrellarne” il numero necessario, gli organizzatori hanno stretto un accordo con il centro di ricerca qatarino Gulf Organisation for Research and Development (Gord) e creato uno standard ad hoc per il mercato dei crediti: il Global Carbon Council (Gcc), il primo ente certificatore nel mercato del Golfo. Al momento della pubblicazione di questo articolo, sul sito web della Gcc risultano 587 progetti in attesa dei quali solo cinque sono stati già “approvati”, per un totale provvisorio di 540 mila crediti, ben lontani dai 3,6 milioni necessari. Ma non è una mera questione di quantità.

«La maggior parte dei progetti in lista di attesa non soddisfa il criterio di “addizionalità”- spiega Dufresne – sono cioè già avviati a prescindere dal fatto che siano in grado di emettere crediti di carbonio».

La stragrande maggioranza di progetti simili non è più accolta da due dei più noti standard per il mercato dei crediti – Verra e Gold Standard – poiché sono giudicati irrilevanti nel compensare le emissioni di gas serra. Fifa e Qatar hanno aggirato il problema creando un proprio sistema di crediti, «il che va contro ogni logica dell’avere una parte terza a garanzia della qualità dei crediti stessi», aggiunge Dufresne. La Fifa ha annunciato che attraverso la Gcc emetterà 1,8 milioni di crediti, dell’altra metà non vi è però nemmeno traccia.

Cosa sono le strategie di mitigazione

Con il concetto di mitigazione dei cambiamenti climatici si indicano tutte quelle attività volte a limitare la presenza di gas serra nell’atmosfera attraverso una diminuzione delle emissioni (ad esempio attraverso il potenziamento di fonti di energia rinnovabile o la riduzione dei consumi) o il potenziamento delle fonti di assorbimento come oceani, foreste e suoli. L’obiettivo è stabilizzare le concentrazioni di gas serra per mantenere il riscaldamento globale al di sotto della soglia di 1,5° C rispetto ai livelli preindustriali.

L’IPCC (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite) ha evidenziato la necessità di ridurre, entro il 2030, le emissioni di gas serra del 45% rispetto ai livelli del 2010, per arrivare all’obiettivo di zero emissioni entro il 2050. Accanto alle misure di mitigazione sarà però necessario lavorare anche su quelle di adattamento ovvero su tutte quelle azioni necessarie a prevenire e contenere le conseguenze provocate dai cambiamenti climatici.

La centrale di raffreddamento dell’aria, in alto a destra, che dovrà garantire il condizionamento dello stadio di Lusail avrà una potenza paragonabile a quella di oltre diecimila condizionatori domestici

La centrale di condizionamento, in alto a sinistra, dello stadio Education city e degli spazi commerciali che lo circondano occupa una superficie analoga a quella di un campo da calcio regolamentare


Oltre alla costruzione degli impianti sportivi il mondiale è stato l’occasione per realizzare imponenti infrastrutture stradali: svincoli e parcheggi occupano interamente le aree intorno allo stadio di Thumama

Stadi vicini, tifosi lontani

Ulteriore punto di forza a favore di una competizione a impatto zero, a detta degli organizzatori, è la natura compatta dell’evento. La distribuzione degli stadi in soli 18 chilometri di raggio dovrebbe favorire un minore utilizzo del mezzo aereo a beneficio di un minore impatto dei trasporti sull’ambiente. «L’idea di un torneo “compatto” è in linea teorica interessante dal punto di vista delle emissioni – spiega Gilles Dufresne – ma il rischio è che si ritorca contro dal punto di vista logistico e delle strutture ricettive».

Degli spettatori attesi, la Fifa stima che 750 mila arriveranno via aerea. Secondo gli organizzatori, con il 52% del totale la voce “viaggi” sarà quella più rilevante in fatto di emissioni. «In questo contesto, comunicare che il torneo sarà a impatto zero significa ingannare il pubblico e generare in loro l’impressione che viaggiare in aereo non avrà effetti sul clima, il che è falso».

La collocazione degli otto stadi nella città di Doha messa a confronto con le aree metropolitane di Milano e Roma

Compensare il settore aviazione è particolarmente complicato. Il sistema attivo al momento nella maggior parte delle compagnie aeree prevede l’acquisto facoltativo di crediti di carbonio da parte dell’utente nel momento dell’acquisto del biglietto.

«In teoria potrebbe anche funzionare ma in realtà la compensazione di questi crediti è di bassa qualità, inoltre è poco praticabile», spiega Dufresne. «Il rischio di un sistema simile è che rompe l’incentivo a volare meno, che di fatto è l’unico vero modo per diminuire significativamente l’impatto ambientale dell’industria aerea».


L’areoporto di Doha, inaugurato nel 2013 su una penisola artificiale, è stato ampliato in maniera considerevole per poter gestire l’enorme afflusso di passeggeri attesi in occasione del Mondiale

Il vivaio dei miracoli

IrpiMedia e PlaceMarks hanno individuato l’immenso vivaio a pochi chilometri a nord di Doha che secondo Fifa e Qatar «contribuirà ad assorbire migliaia di tonnellate di anidride carbonica all’anno». Dai nostri calcoli, copre un’area di circa 74 ettari (740 mila metri quadrati, l’equivalente di 124 campi di calcio) e sorge a ridosso di un impianto di depurazione che, secondo gli organizzatori, servirà anche per irrigare erba e piante lì coltivate. Il manto erboso sarà utilizzato per rizollare i terreni di gioco e di allenamento, mentre le piante andranno a decorare le aree adiacenti agli stadi. Fifa e Qatar sostengono che la struttura sia parte integrante nella mitigazione dell’impatto ambientale del torneo.

Il Tree and Turf nursery: l’area realizzata a partire dal 2017 a nord ovest di Doha per produrre l’erba necessaria a ricoprire i campi del torneo.

I ricercatori di Carbon Market Watch non sono dello stesso avviso. Nel loro report dello scorso maggio, scrivono: «L’anidride carbonica deve essere immagazzinata per almeno 200-300 anni prima di poter dichiarare che la sua rimozione dall’atmosfera contribuisca alla mitigazione ambientale. È evidente che nel caso del vivaio le piante e l’erba che ne fanno parte, non vivranno tanto a lungo, considerato l’uso che ne sarà fatto e l’acqua necessaria per il loro mantenimento».

Acqua dolce a caro prezzo

L’organizzazione del mondiale impatterà anche sul già fragile equilibrio idrico del Paese. L’acqua è un problema cronico per l’intera regione al quale si sopperisce attraverso la rimozione della componente salina dall’acqua di mare. Secondo una ricerca dell’Università del Qatar, il 99% dell’acqua dolce utilizzata nel Golfo Persico è “prodotta” da centrali di dissalazione. Il processo è uno tra i più inquinanti per i mari, dove vengono riversati salamoia, metalli pesanti e cloruri vari che nuocciono alle barriere coralline e agli organismi marini. Il Qatar al momento conta 12 dissalatori, la maggior parte dei quali è alimentata a combustibili fossili.

Ventidue ciminiere sovrastano l’impianto di Ras Abu Fintas, alla periferia di Doha. Si tratta della centrale a gas necessaria a produrre l’energia per alimentare i processi di dissalazione

L’impianto di desalinizzazione di Ras Laffan, a 80 chilometri da Doha, è il più grande del Qatar e permette di ottenere oltre 286.000 metri cubi di acqua dolce al giorno

Per avere un’idea della capacità energivora di questi impianti, una ricerca datata 2012 stima siano necessari 300.000 barili di petrolio giornalieri per alimentare le 30 centrali dell’Arabia Saudita.

Inoltre la Coppa del mondo non farà che aumentare il bisogno di acqua. La Reuters ha stimato che ne serviranno 10 mila litri al giorno per il mantenimento del manto erboso di ciascuno stadio, senza contare gli ulteriori 130 campi di calcio dislocati nei centri di allenamento che accoglieranno le 32 compagini nazionali in gara e dell’acqua necessaria per mantenere in maniera impeccabile gli innumerevoli giardini, le aree verdi e le fontane dislocate lungo tutte le principali aree urbane.

Nonostante i recenti sforzi per aumentare il riciclo, la maggior parte dei rifiuti domestici del Qatar è ancora stoccato in discariche indifferenziate come quella di Umm al Afai che occupa una superficie di oltre 300 ettari

Il governo qatarino negli ultimi trent’anni ha approvato una serie di misure per cercare di migliorare la gestione idrica eppure il Paese continua ad avere uno dei consumi pro-capite di acqua più alti al mondo: 557 litri al giorno per ogni residente dove, a puro titolo comparativo, la Francia ne consuma 164, l’Australia 290. Ad oggi il fabbisogno idrico del Qatar è assicurato da falde (24%), dissalatori (61%) e riuso (15%).

Sole poco sfruttato

Pensando al peso che i combustibili fossili – gas in primis – hanno avuto nel vorticoso sviluppo economico del Qatar dal 1970 ad oggi (con un reddito pro-capite passato da 2.756 dollari a oltre 61 mila) appare evidente come – nonostante le grandi potenzialità – il settore dell’energia solare sia rimasto pressoché fermo in questi anni. Ci sono voluti i Mondiali di calcio e, forse, anche la necessità di mostrare un volto più verde, perché le autorità qatarine lanciassero la costruzione del primo impianto di produzione di energia solare del Paese che è stato inaugurato lo scorso 18 ottobre alla presenza dell’emiro.

Il nuovo campo fotovoltaico di Al Kharsaah, 80 chilometri a ovest di Doha, attivo a partire da ottobre 2022 è il primo grande impianto di energie rinnovabili del Paese

A realizzarlo un consorzio pubblico-privato che vede la francese Total e la giapponese Marubeni al fianco di due agenzie governative. L’impianto di Al Kharsaah con i suoi 1,8 milioni di pannelli si estende su una superficie di dieci chilometri quadrati in pieno deserto a circa 80 chilometri a ovest di Doha ed ha una capacità di 800 MWp. Una volta a pieno regime l’impianto – affermano i costruttori – potrà coprire nelle fasi di picco produttivo fino al 10% della domanda interna di energia.

Seguendo quest’onda nello scorso mese di agosto il governo del Qatar ha annunciato la costruzione di due nuovi impianti. Bisogna però notare come, prima dell’entrata in funzione dell’impianto di Al Kharsaah, dunque per tutta la fase di preparazione dei mondiali, le energie rinnovabili coprivano meno dell’1% del fabbisogno e la potenza di energia solare installata era di soli 5 MW.


Per realizzare il nuovo stadio di Lusail, in cui si disputerà la finale del torneo, sono stati cementificati 1.385.000 metri quadrati di suolo prima inedificato, principalmente destinati a parcheggi

Per realizzare i parcheggi adiacenti agli stadi del mondiale è stata asfaltata una superficie complessiva di oltre 6,5 milioni di metri quadrati, pari a oltre 900 campi da calcio

Gli enormi parcheggi realizzati nei pressi degli stadi prevedono anche una quota di stalli per disabili. In alcuni casi però questi sono stati concentrati in una stessa area, peraltro lontana dagli accessi

Il Qatar intende utilizzare l’energia solare per alimentare i sistemi di condizionamento all’interno di sette stadi (lo stadio 974 prevede un sistema di ventilazione naturale).

Gilles Dufresne rimane scettico sul tema, affermando che l’energia prodotta dalla solar farm è indirizzata verso una rete elettrica la quale a sua volta alimenta gli stadi: «Non è un elemento rivoluzionario – conclude Dufresne – e dichiarare che un evento simile sia a impatto zero equivale essenzialmente a fare greenwashing». Che la giovane industria delle rinnovabili qatarina possa produrre energia a sufficienza per tutti i partecipanti è un miraggio tanto quanto l’idea di un maxi evento senza emissioni.

CREDITI

Autori

Lorenzo Bodrero
Michele Luppi

Analisi satellitare

Federico Monica

Map data

Google/Maxar

Editing

Lorenzo Bagnoli

In partnership con

Mappe & Infografiche

Lorenzo Bodrero
Federico Monica

Foto di copertina

Lo stadio Al Bayt (capienza 60.000), costruito da un consorzio guidato dall’italiana WeBuild

Crimini ambientali: così il riciclaggio di denaro distrugge ambiente e comunità

20 Agosto 2021 | di Matias Gadaleta

I crimini ambientali sono riconosciuti come una delle forme più redditizie di attività criminale transnazionale, tanto che l’Interpol stima il loro valore tra i 110 e i 281 miliardi di dollari di proventi criminali all’anno. Sebbene ancora non esista una definizione universale di crimine ambientale, generalmente ci si riferisce a reati che danneggiano l’ambiente. Questa indeterminatezza giuridica ha origine da una parte in una legislazione internazionale giovane e in continua evoluzione su questi illeciti e dall’altra da un ampio margine di discrezionalità dei singoli Stati nel giudizio di un atto quale crimine ambientale. In breve, ciò che può costituire un reato in un Paese non lo costituisce necessariamente in un altro e le grandi organizzazioni criminali prediligono Paesi con alti tassi di corruzione e legislazioni penali molto deboli per compiere reati di questo genere. Secondo il rapporto 2018 dell’UNEP (UN Environment Programme) l’aumento esponenziale di tali attività illecite implica una perdita di risorse per i governi e le comunità, da 9 a 26 miliardi di dollari all’anno a seconda del Paese di riferimento.

I proventi della criminalità ambientale però non sono destinati a rimanere fermi, come non lo sono del resto quasi tutti i ricavi da attività illecite, e l’approdo naturale è quello del riciclaggio di denaro. A fotografare questa situazione ci ha pensato nel suo ultimo rapporto il Gruppo d’azione finanziaria (GAFI), un’organizzazione intergovernativa fondata nel 1989 su iniziativa del G7 per sviluppare le politiche in materia di lotta al riciclaggio e di lotta al finanziamento del terrorismo. Il report si concentra sulle attività che riguardano il 66% del valore totale dei crimini ambientali, individuati nel disboscamento illegale, nell’espropriazione illegale delle terre, il cosiddette “land grabbing”, l’estrazione illegale e il traffico illecito di rifiuti.

Commercio legale e illegale di rifiuti, disboscamento ed estrazione mineraria
Esistono importanti mercati legali per la gestione dei rifiuti, il disboscamento e l’estrazione mineraria, compresi i metalli preziosi e le pietre.
Queste attività spesso diventano illegali quando:

(i) vengono intraprese senza autorizzazione statale,

(ii) quando i contratti e le concessioni sono assicurati attraverso la corruzione o l’intimidazione,

(iii) quando i servizi comportano frodi (ad es., falso trattamento di rifiuti pericolosi),

(iv) per la registrazione/estrazione, quando l’estrazione contravviene ai termini concordati, come quote o altri requisiti. Tali attività illegali possono avere impatti significativi sulla salute e sulla sostenibilità delle popolazioni e degli ecosistemi locali.

Spesso i criminali si affidano al mercato legale dei beni ambientali per riciclare prodotti e profitti acquisiti illegalmente. Ciò può accadere anche nella misura in cui i prodotti illegali superano quelli del settore legale, come l’oro e il legname.

Dal disboscamento illegale al traffico dei rifiuti, tra danni ambientali e profitti illeciti

Con il termine “crimine forestale” si descrive l’attività criminale che copre l’intera catena di approvvigionamento dalla raccolta e trasporto alla lavorazione e vendita di legname, compreso il disboscamento illegale e l’espropriazione dei terreni. L’Atlante mondiale dei flussi finanziari illeciti 2018 dell’INTERPOL rileva che la criminalità forestale genera per le organizzazioni criminali profitti tra i 51 e i 152 miliardi di dollari all’anno. I crimini forestali hanno un impatto negativo sull’uso e la proprietà del suolo, l’abitazione umana, i mezzi di sussistenza sostenibili e causano il degrado del clima e delle risorse.

La Banca Mondiale stima che i governi perdono tra i 6 e i 9 miliardi di dollari all’anno di entrate fiscali dal solo disboscamento illegale. Ad esempio, in Papua Nuova Guinea, recenti studi stimano come i proventi illeciti generati dai crimini forestali superino quelli generati nel mercato legale del legname. Stando all’indagine del GAFI i crimini forestali si concentrano nelle foreste pluviali dell’America centrale e meridionale (Perù, Colombia, Ecuador e Brasile); Africa centrale e meridionale (Repubblica Democratica del Congo, il Gambia e la regione dei Grandi Laghi); Sud-Est asiatico (Indonesia, Papua Nuova Guinea, Myanmar); e parti dell’Europa orientale (compresa la Russia). La legna tagliata illegalmente viene trasportata attraverso queste regioni verso destinazioni in Asia orientale, Nord America ed Europa occidentale.

I profitti della criminalità ambientale – Fonte: rielaborazione IrpiMedia su dati FATF/GAFI

A fare da sfondo alle attività illegali c’è sempre la disponibilità di materia prima. Così come il crimine forestale si concentra nelle aree con maggiore disponibilità di foreste, le attività minerarie illegali generano i loro profitti e concentrano le attività laddove il suolo è generoso. Colpiti infatti sono soprattutto l’Africa e l’America Latina, soprattutto la Colombia, dove l’87% degli sfollati provenienti dal Paese è stato costretto a fuggire da aree con forte presenza di attività estrattive illegali che hanno comportato un grave inquinamento da mercurio di acqua e suolo. Così le attività minerarie illegali, cioè intraprese senza l’autorizzazione dello Stato o con licenze ottenute attraverso la corruzione, secondo le stime del GAFI, è in grado di generare profitti tra i 12 e i 48 miliardi di dollari l’anno grazie soprattutto a oro, coltan e diamanti.

Infine il traffico dei rifiuti (elettronici, plastica e sostanze pericolose) rimane una delle piaghe più visibili e significative della nostra epoca. Il viaggio dei rifiuti che verranno smaltiti illecitamente parte solitamente da Europa, Nord America e Australia, per terminare poi soprattutto nel continente africano (principalmente Costa d’Avorio, Ghana, Nigeria, Sierra Leone, Tanzania) e asiatico (Cina, Indonesia, India, Malesia, Pakistan e Vietnam) e alcuni paesi di Centro e Sudamerica. Un giro del mondo che secondo il GAFI genera profitti illeciti per circa 10-12 miliardi di dollari l’anno mostrando una filiera criminale particolarmente organizzata, soprattutto nel settore del commercio dei rifiuti pericolosi come quelli elettronici contenenti cadmio o piombo, composti di arsenico o amianto o residui di processi dell’industria chimica.

In Italia: l’indagine “via della seta”

Un esempio eclatante di intricato sistema criminale transnazionale sull’asse Italia-Cina è stato scoperto dalla Guardia di Finanza di Pordenone grazie all’inchiesta coordinata dalla DDA di Trieste su traffico illecito di rifiuti, riciclaggio e frode fiscale. L’operazione riguarda il Friuli Venezia Giulia e il Veneto negli anni che vanno dal 2013 ad oggi e ha portato a 58 persone e sei aziende indagate.

Lo schema si compone di due contesti: nel primo, un gruppo di italiani del Nordest ha dato vita a un traffico di scarti metallici (rame, ottone, alluminio) per circa 150.000 tonnellate aggirando gli obblighi ambientali e di tracciatura vigenti. L’acquisto di questi scarti avveniva in nero, ma per venderlo alle acciaierie c’era bisogno di emettere fatture. Mentre in una seconda fase i cittadini cinesi residenti in Italia avevano il compito di far arrivare le somme accumulate in Cina e metterle al riparo dal fisco italiano.

Lo schema fraudolento ricostruito nell’inchiesta “via della seta” della Guardia di finanza di Pordenone

Il meccanismo era ben rodato ed è andato avanti per otto anni: in Italia si avviavano società ad hoc che avevano la funzione di fare da intermediario nel commercio di rottami metallici, così da interporsi tra le aziende che avevano prodotto lo scarto e le acciaierie pronte a ricevere quello stesso scarto. Tali “intermediari” operavano finte operazioni di acquisto di materiale ferroso all’estero con l’emissione di fatture false da parte di società compiacenti tra Repubblica Ceca e Slovenia. In questo modo gli acquisti, veri solo sulla carta, avevano una copertura documentale e contabile tramite le fatture false, sembrando così acquisti di materiale ferroso avvenuto all’estero. Al contrario il materiale era quello raccolto in Italia, ma in questo modo, terze aziende manifatturiere – appuntavano gli uomini della Guardia di finanza – potevano operare la vendita di scarti di lavorazione metalliche «a nero» altrimenti impossibile visto che le acciaierie sono del tutto refrattarie a gestire acquisti di tonnellate di materiale «a nero» privo di documentazione ambientale.

A questo punto entrano in gioco i cinesi residenti in Italia e in affari col gruppo di italiano che avviano l’ultima fase del sistema di riciclaggio facendo arrivare il denaro in Cina. Lo facevano tramite una serie di bonifici verso istituti bancari cechi e sloveni, rigirati poi sui conti di banche cinesi: una volta che i cinesi in Italia ricevevano dalla Cina la conferma dell’avvenuto accreditamento delle somme di denaro, compensavano le stesse cifre in contanti agli italiani, in buste di plastica all’interno di centri commerciali a Milano e a Padova.

Editing: Luca Rinaldi | Foto: Aleksey Kurguzov/Shutterstock

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