Le storie proibite di Rappler
22 Febbraio 2021 | di Cecilia Anesi
«Quando i giornalisti sono sotto attacco, allora è la democrazia ad essere sotto attacco», sono le parole di Maria Ressa, direttrice del giornale online Rappler nelle Filippine e una delle giornaliste più esposte al mondo. Minuta, capelli neri corti, occhiali trasparenti e un sorriso smagliante, Maria ha 57 anni ma sembra ancora una ragazzina. Ha un’energia senza fine, nonostante il governo delle Filippine cerchi di fermarla ad ogni costo.
È per questo che da oggi per tutta la settimana, 30 organizzazioni di cui 22 media pubblicano “The Forbidden Stories of Rappler” (Le storie proibite di Rappler), una serie di cinque video che raccontano la storia di Maria Ressa e le inchieste di Rappler.com, il giornale che ha fondato nel 2012.
I video sono stati prodotti da Forbidden Stories, organizzazione francese che prosegue le inchieste di giornalisti minacciati o uccisi, di cui IrpiMedia è partner per l’Italia (vedi The Cartel Project e Daphne Project). A supportare la produzione dei cinque video è stato il Pulitzer Center. Con l’hashtag #AmplifyRappler, i video puntano a creare un’eco mondiale per le inchieste che le autorità filippine vogliono silenziare.
«Credo che i giornalisti debbano unire le forze: Il modo più efficace di rispondere agli attacchi è lottare assieme»
Da poco nominata per il premio Nobel, Maria Ressa è stata arrestata 10 volte in meno di due anni. Solo per avere fatto il suo lavoro di giornalista d’inchiesta. «Credo che i giornalisti debbano unire le forze. Il modo più efficace di rispondere agli attacchi sia online sia fisici e per rispondere alle misure draconiane delle autorità che cercano di impedire lo svolgimento del nostro lavoro, è lottare assieme», ha dichiarato Maria Ressa.
#AmplifyRappler vuole lanciare un forte messaggio al presidente Rodrigo Duterte: Maria Ressa e la sua redazione non sono soli. Il 14 gennaio di quest’anno, Ressa è stata arrestata per l’ennesima volta per una storia pubblicata su Rappler ed è libera solo grazie al pagamento della cauzione. L’accusa è “diffamazione informatica”, che prevede una pena da sei mesi a sei anni di carcere qualora Maria Rappler dovesse essere condannata. A giugno scorso era già stata condannata in primo grado per lo stesso reato, per un’altra pubblicazione che riguardava la corruzione di un giudice.
Valigia Blu ha riportato come l’avvocata per i diritti umani Amal Clooney, parte del team internazionale di legali che difende Ressa, abbia accusato il governo filippino di avere orchestrato una «farsa legale» parte di una vera e propria campagna per silenziare Rappler. Nel condannarla, secondo Peter Greste del Guardian, «il giudice ha dovuto accettare le deboli argomentazioni dell’accusa. In primo luogo, che il sito avesse violato la legge sulla diffamazione online, anche se la storia era stata pubblicata quattro mesi prima che la legge entrasse in vigore. Il giudice ha stabilito che Rappler avesse ‘ripubblicato’ la storia quando, nel 2014, ha corretto un errore di ortografia, rendendola così sottoposta alla nuova legge. Il giudice ha anche accettato la teoria dell’accusa della ‘pubblicazione continua’, aggirando così il fatto che nelle Filippine la prescrizione per il reato di diffamazione è di un anno».
Da quando Maria Ressa ha fondato Rappler con tre colleghe donne, la redazione è cresciuta molto contando oggi più di cinquanta tra caporedattori, reporter, esperti di multimedia e figure tecniche. Rappler si occupa di giornalismo di approfondimento e segue da vicino le questioni sociali del Paese, ma sicuramente il fiore all’occhiello sono le inchieste che hanno smascherato gli scandali e la corruzione dell’amministrazione Duterte, nonché raccontato la brutalità della campagna antidroga che ha causato decine di migliaia di morti, tutte esecuzioni extragiudiziali su cui Rappler ha cercato di fare luce. La “war on drug” è un tema talmente ampio e grave che Rappler ha dedicato un’intera sezione del sito per pubblicare continuamente sull’argomento.
Una delle inchieste più significative di Rappler è senza dubbio “Propaganda War” (2016) in cui Ressa ha esposto la rete di propaganda che ha facilitato l’ascesa al potere di Duterte e la sua sempre maggiore popolarità, il tutto grazie a milioni di bot che hanno mandato messaggi sui social network riuscendo a manipolare l’opinione pubblica.
Secondo Rappler, tutt’oggi nelle Filippine uno dei problemi principali è l’enorme amplificazione delle fake news che Duterte riesce a ottenere sui social media. Un’inchiesta di luglio 2020 di Rappler ha dimostrato come questo sia avvenuto anche durante la pandemia da Covid19, per cercare di fermare le voci dissidenti. La maggior parte dei filippini sono su Facebook, e passano più di 10 ore al giorno di media sui social. Per tutti gli ultimi quattro anni sono stati i più grandi utilizzatori di social al mondo, e secondo Ressa questo li rende un popolo “cavia” dove l’industria dei dati, come Cambridge Analytica, può fare esperimenti che se di successo danno vita a strategie da applicare poi anche in Occidente. Le Filippine infatti sono il più grande collettore di dati personali dopo gli Usa.
Maria Ressa, direttrice di Rappler.com
Ma Rappler ha anche pubblicato scoperte fatte “sul campo”, come quella che ha dimostrato uno scandalo legato alla fornitura di due navi da guerra (poi ammesso da Duterte anni dopo) o come la più recente serie di inchieste sulla pandemia da Covid19 che hanno portato alla luce la mancanza di aiuti nei quartieri più poveri di Manila o l’insufficiente intervento in molti ospedali, nonostante la narrativa di Stato fosse ben diversa.
Duterte non è rimasto a guardare: accusa apertamente i giornalisti di pubblicare “fake news”, di essere “spie” e si è spinto a dire che i giornalisti che vengono uccisi se lo sono in qualche modo meritato. Dal 1992 ad oggi sono 86 i reporter uccisi nel Paese, secondo il comitato per la protezione dei giornalisti CPJ. Dal giugno 2016 data in cui Duterte è salito al potere, nelle Filippine ci sono stati 128 giornalisti minacciati di cui 9 sono stati uccisi.
Nel 2018, la rivista americana Time ha inserito Maria ressa tra le “persone dell’anno” assieme ad Amal Kashoggi, giornalista saudita del Washington Post ucciso dai killer del regime di Riad nel consolato di Istanbul, i reporter di Reuters Wa Lone e Kyaw Soe Oo, arrestati in Myanmar dopo le denunce sul genocidio dei Rohingya, e i giornalisti uccisi alla Capital Gazette di Annapolis, Usa.
Lo stesso anno alla conferenza mondiale di giornalismo d’inchiesta, Global Investigative Journalism Conference, Maria Ressa è stata invitata a parlare sul palco per tutta la comunità mondiale di giornalisti d’inchiesta lì riunita. C’era anche la redazione di IrpiMedia a sentirla.
Maria ha raccontato come l’essere nominata da Time l’abbia molto colpita: «è stato il momento in cui ho realizzato, vedendo il mio nome assieme ai giornalisti del Capital Gazzette e Jamal Khashoggi tutti uccisi, e ai giornalisti Reuters imprigionati in Myanmar, che ero l’unica ancora sia libera che viva. Questo mi ha fatto pensare che mai come ora la nostra professione – e la protezione delle nostre democrazie – ha richiesto tanti sacrifici».
La battaglia per la verità è quella che definisce la nostra generazione, ha detto Maria. Perché con la tecnologia a fare da acceleratore, una bugia può essere ripetuta milioni di volte finché diventa un “fatto”. Ecco perché a Duterte non piace chi si mette in mezzo come Rappler. E spesso non piace neanche alla rete che gli va dietro. Spesso i giornalisti di Rappler ricevono minacce e messaggi d’odio sui social dopo le loro pubblicazioni, soprattutto le giornaliste donne.
«Dobbiamo combattere adesso, finché siamo forti – ha concluso Maria nel suo discorso ad Amburgo – perché, come abbiamo imparato, man mano che il tempo passa ci indeboliamo nella lotta contro le falsità. Il virus delle falsità affossa la partecipazione civica. Ma se non abbiamo più la verità, la società diventa apatica, e chi fa la voce più grande, chi ha il megafono più forte, vince».