La Grande Restaurazione dei conservatori d’Occidente

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La Grande Restaurazione dei conservatori d’Occidente

Lorenzo Bagnoli
Christian Elia

Ci sono voluti anni di conferenze, dibattiti, incontri pubblici per ricostruire l’identità politica dei nuovi conservatori italiani. Una “Grande Restaurazione”, un ritorno in auge delle destre nazionaliste “di governo”. In Italia, questa fase storica ha prodotto Giorgia Meloni presidente del Consiglio: un governo in cui il primo partito – Fratelli d’Italia – continua a tenere la fiamma mussoliniana nel simbolo, ricordano le opposizioni; un governo semplicemente conservatore, replica invece la vasta rete di alleati nella destra internazionale. Quella di Fratelli d’Italia è in ogni caso una mutazione politica da opposizione nata dalle ceneri del fascismo e diventata formazione di governo a guida di una coalizione percepita dagli altri partiti conservatori esteri come centro-destra.

Questa nuova identità è passata anche attraverso il consolidamento di due storiche alleanze molto lontane dall’universo del fascismo d’Europa: quella con il partito Repubblicano negli Stati Uniti e quella con il Likud in Israele.

Se per la Lega di Matteo Salvini e le altre forze della destra identitaria tra il 2015 e il 2019 il modello di partito era Russia Unita di Vladimir Putin (con i quali la Lega ha stretto un accordo programmatico), per Fratelli d’Italia a svolgere lo stesso ruolo sono stati il partito conservatore negli Stati Uniti e il Likud in Israele. Entrambe queste formazioni sono “global partner” dell’eurogruppo dei Conservatori e dei riformisti europei (Ecr nella sigla in inglese) a cui appartiene Fratelli d’Italia. Rappresentano i valori di Dio, patria e famiglia all’interno del contesto atlantista. Sono la versione del pensiero della destra identitaria nazionalista, diversa dalla destra identaria “delle piccole patrie” della Lega.

La fase emergente delle forze identitarie stile Lega si è eclissata dopo una serie di scandali nel 2019 (nel caso del Carroccio, l’affaire Metropol) e soprattutto con lo scoppio della guerra in Ucraina, che ha reso l’alleato Russia Unita impresentabile in Europa. La stessa Lega, nel corso degli ultimi due anni, aveva anche cercato di ravvivare i propri legami con Israele, che come abbiamo già raccontato sono datati 2011, ma senza la sponda Likud.

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#TerraPromessa è un progetto di IrpiMedia che ha l’obiettivo di ricostruire i legami tra Israele e forze di estrema destra nel mondo, fino a comprendere come l’accusa di antisemitismo sia stata utilizzata strumentalmente per criminalizzare il dissenso alle politiche israeliane in Palestina. Puntata per puntata, analizzeremo le relazioni e i riferimenti, i finanziamenti e le strutture di questo mondo opaco. Questa variegata compagine politica vede all’orizzonte una terra promessa con alcuni tratti in comune, primo fra tutti il controllo delle frontiere.

Il conservatorismo delle nazioni

Tra le prime uscite pubbliche di Giorgia Meloni dopo aver vinto le elezioni del 25 settembre, c’è stata la commemorazione del rastrellamento al Ghetto di Roma. «Il 16 ottobre 1943 è per Roma e per l’Italia una giornata tragica, buia e insanabile», ha detto. Quel giorno, all’alba, uomini, donne e bambini ebrei vennero strappati alle loro case dai nazifascisti e avviati alla deportazione, che per la maggior parte di loro volle dire sterminio fisico. «Un orrore che deve essere da monito perché certe tragedie non accadano più», ha concluso la leader di Fratelli d’Italia.

Francesco Giubilei – presidente della Fondazione Tatarella e di Nazione Futura, due delle organizzazioni più attive nella costruzione dell’internazionale dei conservatori occidentali – ritiene che l’uscita di Meloni non risponda a una convenienza politica ma a una reale vicinanza: «La destra istituzionale ha da sempre questo atteggiamento nei confronti del mondo ebraico e di Israele». «È chiaro che l’Occidente – prosegue Giubilei – è costituito da tre grandi anime: il mondo europeo, cioè noi, il mondo americano e il mondo israeliano».

«Destra istituzionale» è una definizione che abbraccia la compagine di governo, di contrasto con «posizioni margini» di coloro che, nell’estrema destra, sono contrari alla stessa esistenza di una nazione ebraica. “Nazione” è proprio uno dei concetti sui quali si è rinsaldato il nuovo spirito dei conservatori. La National Conservatorism Conference è la piattaforma internazionale dove, secondo Giubilei, avvengono alcuni degli scambi più proficui. È una piattaforma prettamente politica ma che ricorda per certi aspetti il World Congress of Families (Wcf) di cui abbiamo parlato in passato.

Matteo Salvini, allora ministro degli Interni, sul palco del World Congress of Families (Wcf) insieme al sindaco di Verona Federico Sboarina (secondo da sinistra) e Jacopo Coghe (terzo da sinistra), vice presidente del Wcf, a Verona il 30 marzo 2019 – Foto: Filippo Monteforte/Getty

Si parla degli stessi valori di sicurezza, di contrasto all’immigrazione, di religione, di difesa della famiglia tradizionale, di Stati-nazione contrapposti alle istituzioni europee. Queste idee prendono forma nel movimento National Conservatorism, il quale è promosso dalla Fondazione Edmund Burke, nata nel 2019 e guidata dall’intellettuale israelo-americano Yoram Hazony. Ha sede a Washington, dispone di poco meno di 500 mila dollari, messi a disposizione da fondazioni americane con una forte presenza in Israele. Nel dettaglio, dai dati del 2019 si legge che la Fondazione Edmund Burke ha ottenuto 174 mila dollari dal Jewish Philosophy Fund, fondo a sua volta sostenuto principalmente dalla Ner Tzion Foundation, di cui è sempre presidente Hazony. Altri 100 mila dollari provengono dal Thomas D. Klingenstein Fund il cui fondatore, Tom Kilngestein, è un filantropo pro Trump che ritiene che «siamo in una guerra civile fredda e che il nostro nemico – che lui chiama “il risveglio dei comunisti” – stia vincendo, in gran parte perché i leader repubblicani non si sono ancora impegnati», si legge sul suo sito. Yoram Hazony presiede anche l’Hertzl Institute, il cui scopo è «contribuire alla rivitalizzazione del popolo ebraico, dello Stato di Israele e della famiglia delle nazioni attraverso un rinnovato incontro con le idee fondamentali dell’ebraismo», si legge nel sito.

L’avanguardia del pensiero conservatore, quindi, è di casa tra Israele e Stati Uniti.

Gli evangelici statunitensi a sostegno di Israele. Anche a Milano

«Attraverso il mio ministero, ho cercato di costruire ponti tra cristiani ed ebrei». Parola di Billy Graham, pastore a capo di una delle più importanti chiese evangeliche d’America, il primo a predicare nella fu Unione Sovietica nel 1982. Il figlio Franklin, erede dell’impero dopo il suo decesso nel 2018, è il predicatore a capo della Billy Graham Evangelic Association (Bgea).

Franklin Graham dal 2016 appartiene a un gruppo di predicatori evangelici vicinissimi a Donald Trump ed è uno degli artefici degli incontri tra Trump e Putin, come emerso da diverse inchieste del 2018. La citazione di suo padre Billy è ripresa dalla pagina Facebook di Christians United for Israel (Cufi), organizzazione che conta 10 milioni di soci e che si occupa di diverse iniziative a sostegno di Israele. Il direttore esecutivo di Cufi, è stato David Brog, fino a quando nel 2019 ha cofondato la Fondazione Edmund Burke e il movimento National Conservatorism. Cugino dell’ex presidente israeliano Ehud Barak, a maggio 2022 Brog si è candidato alle primarie repubblicane del Nevada tra gli esponenti del partito vicino a Trump, ma ha perso.

Cufi e Bgea sono state nominate dalla fondazione Israel Allies come due delle principali organizzazioni pro Israele d’America. I loro network arrivano fino all’Italia. Il 29 ottobre a Milano l’associazione di Franklin Graham ha infatti organizzato una serata di rock evangelico, Noi Festival, alla quale hanno partecipato 500 chiese evangeliche di tutto il mondo. Racconta MilanoToday, hanno partecipato anche il presidente leghista di Regione Lombardia Attilio Fontana e il senatore di Fratelli d’Italia Lucio Malan.

All’ultima edizione della conferenza europea del National Conservatorism, tenutasi a Bruxelles a marzo, hanno partecipato tra gli altri i primi ministri di Slovenia e Polonia, Janez Janša e Mateusz Morawiecki; parlamentari ed europarlamentari da Grecia, Ungheria, Croazia, Finlandia, Paesi Bassi, Spagna e Gran Bretagna, affiliati sia al Partito popolare europeo sia a Ecr. Per l’Italia erano presenti il leghista Lorenzo Fontana (oggi presidente della Camera) e Lucio Malan, senatore di Fratelli d’Italia con una lunga militanza in Forza Italia e presidente del Gruppo interparlamentare di amicizia tra Italia e Israele, che in un’intervista con Formiche ha spiegato che non avrebbe «mai aderito al partito» se non fosse stato certo «dell’amicizia profonda e del rispetto che Giorgia Meloni ha degli ebrei e dello Stato d’Israele».

I partiti di destra sono «più vicini alle istanze degli ebrei e di Israele», è il commento di Giubilei. Da un lato cita il discorso di Giorgia Meloni alla Camera, in cui dopo aver parlato dei «passi in avanti verso una piena e consapevole storicizzazione del Novecento», ha affermato: «Combatteremo qualsiasi forma di razzismo, antisemitismo, violenza politica, discriminazione». Dall’altro, ricorda un evento organizzato dalla Lega nel gennaio 2020 intitolato Le nuove forme dell’antisemitismo. Aveva fatto notizia perché la senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz, aveva rifiutato di prendervi parte perché, aveva dichiarato, «occorre anche la ripulsa del razzismo».

«Gli amici di Israele – dichiarava Salvini alla chiusura della conferenza – sono amici della libertà, dei diritti, del progresso e della pacifica convivenza tra i popoli» e parlava di imparare dal passato per evitare qualunque forma di antisemitismo. Riassume così lo svolgimento dell’incontro Lidia Baratta su Linkiesta: «La conclusione è che l’aumento dei flussi migratori in Europa genera un aumento della presenza di cittadini musulmani, da cui si spiega anche l’impennata degli episodi di antisemitismo nel vecchio continente, in un clima di odio verso lo Stato di Israele generato da una alleanza “rosso-verde” tra la sinistra favorevole alle frontiere aperte e l’Islam».

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Le affinità elettive di Fratelli d’Italia con Netanyahu

Il figlio di Benjamin “Bibi” Netanyahu, Yair, all’indomani del voto in Italia ha salutato con entusiasmo il successo elettorale di Giorgia Meloni e di Fratelli d’Italia. «Congratulazioni a Giorgia Meloni e al suo campo conservatore», ha scritto in un tweet. Uno dei garanti dei buoni rapporti con gli uomini del Likud è Giulio Terzi di Sant’Agata, responsabile dei rapporti diplomatici di Fratelli d’Italia, già ambasciatore d’Italia negli Stati Uniti e in Israele ed ex ministro degli Esteri con il Governo di Mario Monti.

Terzi ha sempre sottolineato la sua vicinanza al Likud di Benjamin Netanyahu, che alle elezioni del 1 novembre si è aggiudicato la maggioranza (30 seggi su 120) alla Knesset, il parlamento israeliano. Dietro il Likud, i centristi di Yair Lapid, premier uscente, con 24 seggi, e terzo il partito di Itamar Ben Gvir, vera sorpresa del voto, con 14 seggi. Il blocco di riferimento di Netanyahu avrebbe così un totale di 65 seggi, che gli garantisce una maggioranza più solida delle precedenti che, con le quinte elezioni in tre anni, avevano caratterizzato un periodo di grande instabilità dell’esecutivo in Israele.

Netanyahu torna quindi al potere dopo poco più di un anno e mezzo, quando a suo dire era stato vittima di un complotto. Netanyahu è stato il primo premier in carica della storia d’Israele a essere incriminato per corruzione ed è attualmente imputato in tre processi (l’ultima udienza si è tenuta il 22 ottobre scorso). Il primo è il Caso 4000 – considerato il più grave – dove Netanyahu è accusato di aver favorito gli interessi del potente proprietario del colosso delle comunicazioni Beseq Shaul Elovitch allo scopo di ottenere una copertura positiva da parte del sito di informazione Walla. Il secondo è il Caso 2000, nel quale Bibi è accusato di aver negoziato un accordo con Arnon Mozes, editore di Yediot Ahronot (il più venduto quotidiano israeliano) per indebolire la concorrenza del free press Yisrael Hayom, finanziato dal miliardario americano e sostenitore di Netanyahu Sheldon Adelson, scomparso un anno fa, sempre finalizzato ad articoli più positivi per il Likud. Il terzo è il Caso 1000, nel quale Netanyahu deve difendersi dall’accusa di aver ricevuto doni costosi e altri benefici da diversi miliardari in cambio di favori nei loro confronti.

Nei mesi scorsi si era parlato sui media israeliani di un possibile patteggiamento, in cambio del ritiro delle accuse più gravi – in particolare quella per corruzione – con Netanyahu che invece si dichiarerebbe colpevole di frode e abuso di potere. Ora, però, tornato primo ministro, non è facile intuire le mosse di Bibi, che dal 1996 a oggi è stato nove volte primo ministro d’Israele.

L’uso politico dell’antisemitismo

Il giorno dopo l’evento promosso dalla Lega, il governo ha adottato la definizione di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA), «un organismo intergovernativo il cui scopo è porre il sostegno dei leader politici e sociali dietro la necessità di educazione, memoria e ricerca sull’Olocausto sia a livello nazionale che internazionale», come recita la presentazione dell’iniziativa sul sito del Consiglio d’Europa, con una conseguente strategia di contrasto all’antisemitismo.

La definizione è un passo in avanti nel contrasto ai crimini di odio verso gli ebrei, a cui hanno partecipato anche importanti esponenti delle comunità ebraiche. Del percorso per raggiungere la definizione parleremo in un’altra puntata della serie, mentre qui ci concentriamo sui problemi posti dal modo attraverso cui alcuni partiti di destra stanno cercando di utilizzare la definizione.

La definizione: Il movimento BDS

Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni (BDS) è un movimento internazionale che si ispira alla lotta contro l’apartheid in Sudafrica. Obiettivo degli attivisti è colpire gli interessi economici d’Israele, denunciare le relazioni di aziende internazionali con i territori occupati illegalmente in Palestina, per sensibilizzare l’opinione pubblica e aumentare la pressione politica internazionale su Israele.

Già prima dell’approvazione in Italia della definizione, a livello di istituzioni locali ci sono stati diversi tentativi di usare l’antisemitismo per colpire alcune organizzazioni umanitarie, politiche e sindacali. Un esempio è la mozione presentata dal Gruppo consiliare della Lega alla Regione Lombardia il 19 dicembre 2019.

Si legge nel testo che «è emerso lo stretto legame tra antisemitismo e le violenze ad esso collegate con il crescente sentimento di delegittimazione e boicottaggio dello Stato ebraico, con particolare riferimento al Movimento Boycott, Divestment and Sanctions (BDS) che ha mostrato sin dalla sua nascita molteplici tendenze antisemite; in Italia, sono numerosi i gruppi che hanno firmato l’appello BDS, tra cui organizzazioni politiche come Rifondazione Comunista e Comunisti italiani, sindacali come FIOM-CGIL e ONG come “Un Ponte Per…” e Servizio Civile Internazionale; Alcune di queste realtà inoltre sarebbero beneficiarie di finanziamenti pubblici, essendo organizzazioni accreditate presso il Ministero Affari Esteri».

La mozione alla fine è stata approvata. Come in Lombardia, è accaduto anche altrove, con altre organizzazioni inserite sotto tiro.

Alcune delle organizzazioni bersaglio delle mozioni in Italia sono indicate come sostenitrici del movimento BDS e di conseguenza antisemite. “Un Ponte per…” insieme ad altre sei organizzazioni italiane già nel 2017 era stata bollata come organizzazione terroristica dal governo di Israele, grazie all’interpretazione della legge antiterrorismo varata l’anno precedente: «Si tratta del culmine di una lunga campagna diffamatoria, denigratoria, di delegittimazione e intimidazione che il governo israeliano da anni sta portando avanti, anche con il supporto di organizzazioni come NGO Monitor, contro le organizzazioni della società civile palestinese impegnate nella difesa e promozione dei diritti umani», scriveva “Un Ponte Per…” nel comunicato.

In Israele c’è un’organizzazione che si occupa del monitoraggio delle ong “politicizzate”: si tratta dell’Institute for Ngo Research – Ngo monitor, un portale fondato nel 2002 da Gerald M. Steinberg, professore emerito dell’Università Bar Ilan e forte critico del ruolo di ong come Amnesty International o Human Rights Watch nella politicizzazione del conflitto in Palestina ai danni di Israele. Nella pagina sull’Italia, si trovano nominate come ong “politicizzate” COSPE, l’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, ActionAid, Islamic Relief Palestine (IRPAL), Save the Children, Oxfam, Norwegian Refugee Council e WeWorld – Gruppo Volontariato Civile Onlus, tutte organizzazioni con un’ottima reputazione nel contesto italiano.

Ngo Monitor è ritenuto una fonte affidabile da Barbara Pontecorvo, che la nomina in una conversazione con IrpiMedia a inizio novembre. L’avvocatessa – a capo del più importante osservatorio sull’antisemitismo in Italia, l’Osservatorio Solomon – ha precisato che «non esiste un uso politico dell’antisemitismo» e che l’odio verso gli ebrei è un fenomeno reale sia nell’estrema destra, sia nell’estrema sinistra. Ha specificato che la sua organizzazione è apolitica e non prende fondi da alcun Paese e si fonda sul lavoro di volontari, tutti professionisti che dedicano il loro tempo libero. Il Jerusalem Post nel 2018 ha indicato Solomon come una delle organizzazioni impegnate nel contrasto al movimento BDS invitate in Israele dal ministero per gli Affari Strategici, dal 2006 al 2021 dicastero predisposto ad attività di intelligence e contrasto delle minacce verso lo Stato ebraico.

Per approfondire

In qualità di Ministro degli interni, Matteo Salvini saluta un gruppo di carabinieri, di stanza a Gerusalemme, durante una visita al museo dell'Ente nazionale per la Memoria della Shoah a Gerusalemme, a dicembre 2018 - Foto: Menahem Kahana/Getty

La galassia che sostiene l’ultradestra israeliana

L’internazionale costruita sull’uso politico delle accuse di antisemitismo. La radiografia delle alleanze, in vista del voto

Il tema dell’antisemitismo e dell’amicizia delle destre con Israele sta impattando sulle stesse comunità ebraiche, che al loro interno presentano posizioni molto sfaccetate.

La lista Milano Ebraica, componente della Comunità ebraica milanese, a maggio ha chiesto le dimissioni del presidente della Comunità ebraica, Walker Meghnagi, dopo che quest’ultimo aveva espresso vicinanza a Fratelli d’Italia e a Ignazio La Russa, che l’aveva invitato a un evento programmatico del partito. Meghnagi, in un articolo pubblicato dalla testata della comunità ebraica Mosaico, aveva spiegato: «Sto seguendo con attenzione l’evoluzione della destra che, seppur dimostri vicinanza allo Stato di Israele e abbia fatto passi avanti nella consapevolezza della storia della Shoah, ha ancora una forte necessità di fare i conti con le sue pericolose frange estremiste, condannando senza ambiguità gli orrori del fascismo».

Nel 2020, sempre su Mosaico, un gruppo di giovani ebrei tra Italia e Israele aveva scritto un appello per esprimere «la forte opposizione all’occupazione israeliana dei territori palestinesi e, oggi, al piano di annessione previsto dal nuovo governo israeliano», in vista dell’inizio del piano previsto per la Cisgiordania dal luglio 2020. All’appello aveva risposto proprio l’Osservatorio Solomon, replicando sulla stessa testata: «Il “gruppo di giovani ebrei” autori della lettera ha di fatto lanciato un suo manifesto politico, avendo dichiarato: “Ci accomuna la forte opposizione all’occupazione israeliana dei territori palestinesi”. Così facendo, costoro hanno avallato un ricorrente argomento di propaganda antiebraica, dissimulato in “opposizione all’occupazione”, utilizzato da numerose entità ostili all’esistenza stessa d’Israele, ma contrario alla realtà storica ed al diritto internazionale, per il quale Israele sarebbe uno Stato insediato su terre palestinesi».

Il giornalista e scrittore ebreo David Bidussa, tra il 2015 e il 2018 direttore della Fondazione Feltrinelli, in un editoriale dell’ottobre 2022 su DoppioZero dà una sua interpretazione del modo in cui Fratelli d’Italia sta facendo i conti con il proprio passato:

«Fratelli d’Italia nasce dalla convinzione che il Pdl e soprattutto la linea politica di Gianfranco Fini aveva portato all’annullamento dell’identità del post-fascismo italiano – scrive Bidussa-. Dunque la scelta politica di fondare un nuovo soggetto significava invertire il percorso inaugurato nel 1993-1994 – al netto del carattere problematico di quel processo –, tornare al bivio di quella scelta per riprendere la strada della continuità che quel percorso aveva messo in questione». Perché «le radici profonde non gelano mai», come diceva J.R.R. Tolkien, scrittore di cui la destra si è appropriata per la fascinazione che ne subiva Benito Mussolini. Anche quando si diventa “conservatori”.

Questo articolo è stato modificato il 26 novembre. In una prima versione indicava in maniera imprecisa Likud e Repubblicani come appartenenti all’Ecr.

CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli
Christian Elia

Editing

Giulio Rubino

Foto di copertina

La leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, durante l’ultimo comizio prima delle elezioni politiche, a Piazza del Popolo a Roma il 22 settembre 2022
(NurPhoto/Getty)

La galassia che sostiene l’ultradestra israeliana

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«Se la coalizione di destra vincerà le prossime elezioni, onorerà la sua promessa di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele e trasferire l’ambasciata italiana a Gerusalemme?». La domanda che Eldad Beck, giornalista di Israel Hayom, testata vicina all’ultradestra israeliana, pone a Matteo Salvini in un’intervista del 30 agosto 2022, è semplice e diretta. Come la risposta del leader della Lega: «Assolutamente sì, anche se riaffermo che la coalizione è di centrodestra. Ho dato la mia parola, sono pienamente impegnato con il popolo di Israele e intendo mantenere la mia parola». La dichiarazione di Salvini non ha avuto l’eco che ci si poteva aspettare. Ha praticamente impegnato la coalizione della quale fa parte, ha parlato a nome dello Stato italiano, senza alcuna considerazione del diritto internazionale e di equilibri globali dei quali non si è preso alcuna cura.

Non è questo, però, il dato più interessante di questa dichiarazione. Dietro una risposta di poche righe, c’è un mondo intero, quello delle relazioni strette e complesse tra Israele e l’estrema destra in Europa e in Nord America.

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#TerraPromessa è un progetto di IrpiMedia che ha l’obiettivo di ricostruire i legami tra Israele e forze di estrema destra nel mondo, fino a comprendere come l’accusa di antisemitismo sia stata utilizzata strumentalmente per criminalizzare il dissenso alle politiche israeliane in Palestina. Puntata per puntata, analizzeremo le relazioni e i riferimenti, i finanziamenti e le strutture di questo mondo opaco. Questa variegata compagine politica vede all’orizzonte una terra promessa con alcuni tratti in comune, primo fra tutti il controllo delle frontiere.

Israele, laboratorio delle nuove destre

Dagli anni Novanta in poi le destre internazionali hanno iniziato un processo teso a ricostruire e ripulire la loro immagine, all’epoca ancora strettamente legata, nell’immaginario collettivo, ai fascismi della prima metà del Novecento. Questo processo si è dovuto inevitabilmente confrontare con lo stato delle relazioni geopolitiche mondiali (confuso e rimescolato dalla caduta dell’Unione sovietica) e ha trovato un nodo fondamentale da affrontare nell’antisemitismo, componente fondamentale della sua identità politica.

Lo abbiamo raccontato in Operazione Matrioska rispetto al successo di Russia Unita, il partito di Vladimir Putin e – insieme a Fondazione Feltrinelli – nella serie Di-Segno Nero sulla crescita dei movimenti di matrice nazionalista tra Italia, Francia, Germania e Polonia; lo ha raccontanto il podcast Democracy Undone: The Authoritarian’s Playbook di The Groundtruth Project riuscendo a ricostruire una serie di mosse politiche e parole d’ordine comuni ai leader di questo schieramento in tutto il mondo.

La chiave più efficace che queste nuove destre hanno trovato appare essere il ritorno dei valori della conservazione, delle origini «giudaico-cristiane», della famiglia tradizionale, sono così diventati di nuovo “presentabili” ai moderati di tutta Europa. I nemici da combattere alle diverse latitudini sono sostanzialmente gli stessi: i burocrati degli organismi sovranazionali (che siano le Nazioni unite o l’Unione europea), i migranti economici (specie se di fede musulmana), il multiculturalismo. Per le due principali formazioni di destra italiana – Lega e Fratelli d’Italia – Israele non è stato solo un nodo politico da sciogliere, ma un laboratorio dal quale apprendere. La centralità del Paese nello scacchiere – anche ideologico – italiano è testimoniato dal fatto che l’accusa di antisemitismo, in campagna elettorale, è stata usata da entrambi gli schieramenti: la destra accusa chi solidarizza con la Palestina, la sinistra segnala nostalgici fascisti e nazisti nel campo avverso.

In qualità di Ministro degli interni, Matteo Salvini saluta un gruppo di carabinieri, di stanza a Gerusalemme, durante una visita al museo dell'Ente nazionale per la Memoria della Shoah a Gerusalemme, a dicembre 2018 - Foto: Menahem Kahana/Getty
In qualità di Ministro degli interni, Matteo Salvini saluta un gruppo di carabinieri, di stanza a Gerusalemme, durante una visita al museo dell’Ente nazionale per la Memoria della Shoah a Gerusalemme, a dicembre 2018 – Foto: Menahem Kahana/Getty

Il partito di Matteo Salvini ha una relazione con la destra più radicale israeliana almeno da dieci anni. L’allora Lega Nord nel 2011 ha infatti firmato un documento di intesa con il partito ultranazionalista Yisrael Beitenu (Israele Casa Nostra) in cui si legge che i due partiti «rafforzano vincoli di cooperazione nella lotta a ogni forma di antisemitismo e di anti-sionismo (…) e affermano le comuni radici ebraico-cristiane». Vista oggi, quella partnership non appare casuale: il partito ultranazionalista israeliano Yisrael Beitenu aveva da poco raggiunto il suo picco nei consensi e, come la Lega negli anni successivi, ha avuto posizioni particolarmente vicine alla Russia, in particolare in merito alle sanzioni successive all’invasione della Crimea nel 2014.

Fondato nel 1999 da Avigdor Lieberman, più volte ministro di Esteri e Difesa (oggi alle Finanze) degli esecutivi di Benjamin Nethanyahu, Yisrael Beitenu è stato concepito per rivolgersi soprattutto alla comunità ebraica di origini russe: lo stesso Lieberman infatti è nato in Unione sovietica, nell’attuale Moldavia.

Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, a capo della coalizione della quale fa parte anche la Lega di Salvini, ha un riferimento diverso all’interno del mondo della destra israeliana. Anche per questo è stata molto più cauta quando è stata intervistata dallo stesso Beck che aveva chiesto a Salvini di Gerusalemme capitale: «Questo è un tema molto delicato, sul quale penso che il prossimo governo italiano, come tutti quelli che lo hanno preceduto, dovrà agire in sinergia con i nostri partner nell’Unione europea», risponde. Meloni ha comunque sottolineato più volte nel corso dell’intervista la sua vicinanza a Israele in un campo che lei ritiene chiave per il futuro dell’Europa e d’Israele: lottare contro l’islamizzazione. Usa proprio questo termine, senza distinzione tra un radicalismo armato e un mondo spirituale, senza distinzione tra decine di Islam possibili, con progetti politici e non.

Il partito politico che in Israele incarna maggiormente questa posizione è il Likud di Benjamin Netanyahu, il partito conservatore per eccellenza in Israele. «Per anni – ha spiegato la leader di FdI in un video per la stampa estera in cui cerca di minimizzare i timori di deriva autoritaria con una sua elezione – ho anche avuto l’onore di guidare il partito conservatore europeo, che condivide valori ed esperienze con i Tory britannici, i Repubblicani statunitensi e il Likud israeliano». Nel solco di questi modelli, Meloni ha dichiarato che «la destra italiana ha consegnato il fascismo alla storia da decenni ormai, condannando senza ambiguità la soppressione della democrazia e le vergognose leggi contro gli ebrei».

Mentre la posizione pro Israele della Lega sembra essere funzionale a mantenere la dichiarata vicinanza sia a Mosca, sia a Washington, quella di Fratelli d’Italia sembra rispondere all’esigenza di trovare una famiglia politica di riferimento presentabile, passare quindi dalla definizione di “post-fascisti” a “conservatori”.

Il precedente di Donald Trump

Sul tema di Gerusalemme capitale unica d’Israele, città simbolo delle tre principali religioni monoteiste del pianeta, si discute da anni, tra le pressioni delle classi dirigenti dello Stato ebraico e il diritto internazionale che tutela (o tenta di farlo) i diritti del futuro Stato di Palestina.

Un cambio di scenario mai visto in precedenza si è avuto nel 2017, quando l’amministrazione Usa guidata da Donald Trump, in netta rottura con i suoi predecessori, che per quanto vicini a Israele non si erano mai spinti a tanto, annuncia il 6 dicembre che gli Stati Uniti d’America avrebbero spostato l’ambasciata in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme. La decisione viola gli accordi internazionali, che vedono la città come territorio conteso (dopo l’occupazione della parte orientale nel 1967 da parte dell’esercito israeliano), diviso in due parti: Gerusalemme Est sotto il controllo arabo, Gerusalemme Ovest sotto il controllo israeliano, con accesso garantito ai luoghi sacri a tutti. «Oggi – dichiarò Trump alla stampa – finalmente riconosciamo l’ovvio: che Gerusalemme è la capitale di Israele. Questo non è niente di più o di meno che un riconoscimento della realtà. È anche la cosa giusta da fare. È qualcosa che deve essere fatto».

Se da un lato il supporto a Israele di Trump è sempre stato fortissimo, dall’altro in patria le sue dichiarazioni sono sempre state molto sul limite dell’antisemitismo. Questo controverso rapporto con l’ebraismo di Trump è ricostruito in modo brillante e chiaro da Gabby Orr, giornalista della CNN, che in un articolo del 17 dicembre 2021 ripercorre le dichiarazioni di Trump dalla sua prima campagna elettorale a oggi verso la comunità ebraica statunitense. Secondo Orr e altri analisti Usa, questo schema di Trump è molto meno controverso di quanto possa apparire. L’ex presidente Usa si rivolge chiaramente alla destra evangelica Usa, da sempre ispirata da una visione messianica di Israele come un’entità biblica, ma allo stesso tempo profondamente antisemita in patria.

Il processo iniziato da Trump non si è arrestato dopo l’elezione di Joe Biden. La visita ufficiale dell’attuale presidente Usa in Israele, in luglio, non ha toccato neanche per sbaglio la questione di Gerusalemme capitale, anzi. Ha fatto le foto di rito – come racconta bene un articolo di Alexander Ward, Nahal Toosi e Jonathan Lemire per Politico – nel cortile della sede diplomatica a stelle e strisce a Gerusalemme, nel cortile intitolato a Jared Kushner, genero di Trump e suo consigliere politico, ritenuto l’architetto della rottura di anni di equilibri della politica Usa in Medio Oriente. Biden non ha neanche lontanamente accennato a un cambio di strategia rispetto a quanto emerso dal rapporto tra l’estrema destra Usa e Israele. Quella strategia, che si è concretizzata negli Accordi di Abramo e che, ancora una volta, pone in questione le relazioni israeliane con governi come quello dell’Arabia Saudita, che non ha mai preso le distanze da un potenziale antisemitismo.

Gli Accordi di Abramo

Con il nome di Accordi di Abramo si indica il documento sottoscritto il 13 agosto 2020 dai governi di Israele, Stati Uniti d’America e Bahrain. In generale però, il termine ha finito per indicare tutto il sistema di accordi bilaterali siglati tra Israele ed Emirati Arabi Uniti e Bahrain. Il documento rappresenta un momento storico, dato che per la prima volta dal 1979 (quando l’allora presidente egiziano Sadat siglò la pace con Israele, che gli costò la vita) Paesi arabi riconoscono ufficialmente l’esistenza d’Israele. I singoli accordi bilaterali ruotano attorno a punti condivisi: accordo di pace, stabilire piene relazioni diplomatiche e normalizzazione dei rapporti commerciali e culturali tra i firmatari, sotto l’egida e la garanzia degli Usa che, al momento della firma, divenuta un evento pubblico simbolico l’11 settembre 2020, nell’anniversario degli attentati del 2001, erano rappresentati dall’amministrazione Trump.

Il nome, come è già accaduto in passato per operazioni militari israeliane, è d’ispirazione biblica, essendo Abramo ritenuto il patriarca delle tre grandi religioni monoteiste. Gli Accordi, negoziati da Jared Kushner e Avi Berkowitz, si sono poi estesi a Marocco e Oman. In generale, rispetto alla Iniziativa di pace araba del 2002, quando i Paesi arabi guidati dall’Arabia Saudita si impegnarono a normalizzare le relazioni con Israele in cambio di uno Stato palestinese indipendente, del ritiro israeliano dal territorio conquistato nel 1967 e di una risoluzione per i rifugiati palestinesi, gli Accordi di Abramo rovesciano il paradigma, offrendo a Israele il riconoscimento degli stati firmatari in cambio di una futura e mai precisata soluzione della questione palestinese. Intanto hanno preso il volo le relazioni commerciali tra i Paesi, che però almeno dal 1994 – quando fu la Giordania a firmare la pace con Israele – avvenivano lo stesso nelle “zone di libero scambio” giordane, dove senza bisogno di riconoscimento diplomatico ufficiale, Israele poteva commerciare con gli Stati arabi che non ne riconoscevano l’esistenza.

Quello che, nel disegno di Trump e Natanyahu, all’epoca rispettivamente presidente Usa e primo ministro israeliano, si sarebbe dovuto ottenere dagli accordi era il riconoscimento della sovranità israeliana sui territori palestinesi occupati dai coloni israeliani, ma nessuno dei firmatari ha voluto andare fino in fondo e l’attuale amministrazione Usa e l’attuale governo israeliano non hanno fatto più alcun passo in questo senso.

Lavorare alla normalizzazione delle relazioni con l’Arabia Saudita, sperando che la monarchia saudita arrivi a firmare gli Accordi di Abramo, è un grande risultato politico per Israele, ma sceglie di ignorare anche il fatto che per decenni il discorso pubblico saudita e quello della formazione dei giovani fosse ferocemente antisemita. L’Istituto per il monitoraggio della pace e della tolleranza culturale nell’istruzione scolastica (Impact), un gruppo con sede in Israele che monitora i programmi scolastici nel mondo, ha accolto con favore i cambiamenti delle istituzioni scolastiche in Arabia Saudita per voce dell’amministratore delegato del gruppo, Marcus Sheff, che li ha definiti «abbastanza sorprendenti».

Da sinistra a destra, il Ministro degli esteri del Bahrain Abdullatif bin Rashid, il Primo ministro di Israele Benjamin Netanyahu, il Presidente Usa Donald Trump e il Ministro degli esteri saudita Abdullah bin Zayed Al Nahyan, durante la firma degli Accordi di Abramo, a settembre 2020 - Foto: Anadolu Agency/Getty
Da sinistra a destra, il Ministro degli esteri del Bahrain Abdullatif bin Rashid, il Primo ministro di Israele Benjamin Netanyahu, il Presidente Usa Donald Trump e il Ministro degli esteri saudita Abdullah bin Zayed Al Nahyan, durante la firma degli Accordi di Abramo, a settembre 2020 – Foto: Anadolu Agency/Getty

In realtà, fonti meno legate al governo d’Israele, riportano una verità opposta e cioè che il governo di Riad ha ripulito l’immagine di facciata dovendo far accettare gli Accordi di Abramo ai suoi cittadini, ma che in realtà non ha mosso un dito contro decenni di formazione (e informazione) antisemita. A fine giugno 2022 Deborah Lipstadt, nuova inviata speciale del Dipartimento di Stato Usa per combattere l’antisemitismo, ha scelto proprio l’Arabia Saudita per la sua prima visita ufficiale all’estero con l’obiettivo di verificare i progressi degli Accordi.

Orban, i discorsi antisemiti e l’amicizia con Israele

Un discorso molto simile si può fare in Europa. In primis, il caso più eclatante, è quello di Viktor Orban, primo ministro ungherese, che come Trump è un politico di riferimento sia per Fratelli d’Italia, sia per la Lega. Non più tardi di luglio 2022, in un discorso all’università della Transilvania, in Romania ma con una forte minoranza ungherese, si lasciava andare a idealizzare l’idea della «razza ungherese non mescolata». Ha aggiunto, riporta Euronews, che «l’Occidente è diviso in due», sostenendo che i Paesi dove gli europei si sono mescolati con i non-europei «non sono più nazioni».

Lo stesso Orban non ha mai nascosto le sue idee antisemite, fino ad additare pubblicamente gli ebrei ungheresi come una quinta colonna che distrugge il paese. Eppure le sue relazioni con Israele sono ottime. Nel 2018, nel corso di una visita ufficiale in Israele, il giornale filo-governativo Israel Hayom sottolineò come Orban fosse sempre sulle stesse posizioni israeliane in politica estera e come avesse cura della memoria ebraica in Ungheria. Al contrario, il quotidiano di riferimento dell’opposizione del tempo, Haaretz, attaccò ferocemente l’allora premier Benyamin Netanyahu, perché sdoganava un politico che elogiava chi aveva collaborato con i nazisti, che perseguita le organizzazioni per i diritti civili e l’opposizione nel proprio Paese. Eppure quella visita fu un successo, al punto che caduto Netanyahu il nuovo governo israeliano è rimasto in ottimi rapporti con Orban e anche Haaretz ha smesso di parlarne.

Il Primo ministro ungherese Viktor Orban rende omaggio al Muro del pianto a Gerusalemme nell'ambito di una visita in Israele a luglio 2018 in cui ha ribadito "tolleranza zero" verso l'antisemitismo, nonostante le controverse politiche interne imbevute di retorica nazionalista - Foto: Menahem Kahana/Getty
Il Primo ministro ungherese Viktor Orban rende omaggio al Muro del pianto a Gerusalemme nell’ambito di una visita in Israele a luglio 2018 in cui ha ribadito “tolleranza zero” verso l’antisemitismo, nonostante le controverse politiche interne imbevute di retorica nazionalista – Foto: Menahem Kahana/Getty

Il conclamato antisemitismo di Orban è infatti principalmente un’arma di propaganda interna. Il primo ministro ungherese considera infatti un suo acerrimo nemico il filantropo americano di origini ungheresi (di famiglia ebraica) George Soros. Nel 2017 il suo governo aveva promulgato una legge per impedire alle ong di occuparsi di accoglienza di migranti e richiedenti asilo. La legge è passata alla storia come legge Stop Soros ed è stata accompagnata dall’attacchinaggio di manifesti in cui compare Soros sorridente con la scritta: «Non lasciamo che Soros si faccia l’ultima risata». Nel 2021 la Corte di giustizia europea ha stabilito che la legge ungherese contro chi assiste richiedenti asilo e rifugiati è contraria alle norme dell’Unione. È stato uno dei tanti incidenti diplomatici delle istituzioni europee con Budapest, l’ultimo dei quali ha visto l’Europarlamento votare il 15 settembre un rapporto che definisce l’Ungheria una «autocrazia elettorale» e consegna nelle mani della Commissione il mandato per avanzare con la procedura d’infrazione che può portare all’espulsione di Budapest dall’Unione. Tra i 123 voti che si sono espressi contro il rapporto, ci sono stati quelli degli europarlamentari di Lega e Fratelli d’Italia.

L’articolo 7, un’arma spuntata

L’articolo 7 del trattato sull’Unione europea prevede, testualmente, «la possibilità di sospendere i diritti di adesione all’Unione europea (ad esempio il diritto di voto in sede di Consiglio) in caso di violazione grave e persistente da parte di un paese membro dei principi sui quali poggia l’Unione (libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo, delle libertà fondamentali e dello Stato di diritto). Restano per contro impregiudicati gli obblighi che incombono al paese stesso».

È il principale strumento per contrastare regimi illiberali all’interno dell’Ue e potrebbe costare l’espulsione a uno Stato membro o una serie di sanzioni. Per essere applicato ha bisogno del voto unanime degli Stati membri (che siedono al Consiglio dell’Unione europea). Nel caso dell’Ungheria (e della Polonia), il Parlamento europeo già nel 2018 ha votato per punirli e la Commissione ha cominciato a chiedere misure per ripristinare lo stato di diritto. Con Budapest il dialogo non sta facendo progressi e il 15 settembre la Commissione ha votato per procedere con la sospensione dei fondi per la Coesione (7,5 miliardi di euro) e la sospensione dei fondi del Next GenerationEU. Secondo il governo ungherese la vertenza con Bruxelles verrà risolta entro novembre.

Le relazioni pericolose d’Israele con movimenti, leader e partiti di estrema destra sono difficili da comprendere, almeno nel quadro del costante riferimento alla shoah e ai pogrom tra i due grandi conflitti del Novecento come elementi fondativi dell’identità nazionale e dello stesso diritto d’Israele a darsi uno stato dopo l’eccidio della Seconda Guerra mondiale, ma possono essere interpretati in chiave di realpolitik e sul terreno comune dell’islamofobia.

Quel che colpisce di più, però, è il ribaltamento narrativo che allo stesso tempo le istituzioni israeliane fanno dell’antisemitismo. Da un lato, come abbiamo ricostruito, trattano e sdoganano forze che spesso non prendono le distanze dal loro passato (o presente) antisemita, da un altro lato invece criminalizzano con l’accusa di antisemitismo organizzazioni non governative, giornalisti, movimenti politici che si battono contro l’occupazione israeliana dei territori palestinesi o ne denunciano i comportamenti.

Una delle realtà più note – e più colpite – in questo senso è il movimento internazionale BDS (Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni), che si ispira alla lotta contro l’apartheid in Sudafrica. Obiettivo degli attivisti è colpire gli interessi economici d’Israele, denunciare le relazioni di aziende internazionali con i territori occupati illegalmente in Palestina, per sensibilizzare l’opinione pubblica e mettere pressione su Israele. Un movimento con le sue pratiche di lotta, che di sicuro nulla hanno a che fare con l’antisemitismo. Eppure è proprio questo il “metodo” con il quale Israele li combatte. In patria, equiparando le azioni del movimento a vere e proprie azioni terroristiche, e all’estero, con una pressione immane su istituzioni locali per impedire eventi e iniziative del movimento BDS. Con che accusa? Antisemitismo.

All’inizio dell’anno, in Germania, gli attivisti hanno riportato una vittoria importante: il 22 gennaio 2022 la Corte federale bavarese ha affermato che la legge tedesca «garantisce a tutti il diritto di esprimere e diffondere liberamente la propria opinione», respingendo così la tesi del Consiglio comunale di Monaco di Baviera che, nel 2017, aveva infatti adottato una risoluzione anti-BDS che vietava il finanziamento pubblico e la concessione di spazi per dibattiti sulla campagna. Provvedimenti simili a quello di Monaco di Baviera sono in corso in Italia, in Gran Bretagna e in altri Paesi Ue, ma quello che colpisce è lo schema: l’antisemitismo degli antisemiti di destra non conta, al contrario, “antisemitismo” diventa una parola chiave da utilizzare come argomento contro le opposizioni o le voci critiche contro l’occupazione dei territori palestinesi.

La stessa campagna estiva che ha portato il governo israeliano a definire “terroriste” e a chiudere sei ong palestinesi si nutriva di questa accusa. Diverse interrogazioni parlamentari, una mozione dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa e diversi report promossi dal governo di Israele spingono dal 2015 affinché anche le istituzioni europee impediscano ogni forma di appoggio al BDS.

CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli
Christian Elia

Editing

Giulio Rubino

Foto di copertina

Menahem Kahana/Getty