Appalti e corruzione: 30 anni seduti al “tavolino”?

Appalti e corruzione: 30 anni seduti al “tavolino”?

Simone Olivelli

Catania, marzo 2021. A dispetto di quello che ci si potrebbe aspettare da una città siciliana affacciata sul mare, le temperature sono ancora invernali. All’ultimo piano di un palazzo del centro, un attico con terrazza, tre uomini sono impegnati in una conversazione. Non si tratta di persone qualunque: a fare gli onori di casa è infatti un noto politico regionale. Il giovane onorevole – questo il titolo che in Sicilia spetta ai componenti dell’Assemblea regionale siciliana (Ars), uno dei parlamenti più antichi d’Europa – in pochi anni ha saputo affermarsi sulla scena isolana e in tanti sono pronti a scommettere su un futuro ancora più radioso.

Chi, invece, gli ha fatto visita sono un funzionario pubblico e un imprenditore. Il primo è un affermato dirigente della Regione, il secondo un costruttore che in quell’appartamento è stato già più volte, il politico infatti è un suo caro amico.

Il politico, l’imprenditore e il funzionario toccano diversi argomenti. Parlano, per esempio, della piscina che il primo vorrebbe realizzare sul terrazzo. Un’idea che garantirebbe la possibilità di immergersi nell’acqua godendo della vista su quella che, nonostante un declino che avanza anno dopo anno, un tempo era definita la Milano del Sud. Forse, però, capita anche dell’altro: in un momento in cui il padrone di casa si allontana, l’imprenditore prende una mazzetta di soldi e la passa al funzionario. Il denaro è una tangente per un appalto ricevuto dall’ufficio guidato dal funzionario, grazie alla mediazione del politico.

Quella appena descritta è però solo una delle tante ricostruzioni dell’incontro verbalizzate dalla procura di Catania dalla fine del 2021.

Si tratta della versione di Natale Zuccarello, il funzionario del trio. Oggi in pensione, ma all’epoca molto influente nei principali gangli della Regione Siciliana, dopo essere stato arrestato alla fine di un’indagine sulla rete corruttiva dentro al Genio civile di Catania, ha deciso di collaborare con i magistrati chiedendo di patteggiare la pena. Dai suoi racconti sono venuti fuori tanti nomi. Soggetti che in prima battuta erano rimasti fuori dall’indagine e che hanno arricchito un quadro d’insieme rimasto però per nulla chiaro.

Il lavoro di inquirenti e investigatori è stato infatti tutt’altro che semplice. Se in alcuni casi ha prodotto elementi di prova tali da spingere gli indagati a chiedere di patteggiare la pena, in altri l’impegno è sfumato in una serie di archiviazioni per l’impossibilità – come nel caso dell’incontro nell’attico – di discernere il vero dal falso.

L’inchiesta catanese fornisce spunti per riflettere sulle dinamiche che caratterizzano la corruzione oggi in Italia e sulle difficoltà nel perseguirla, specialmente ora che il Paese si appresta a gestire i miliardi di euro di fondi pubblici del Pnrr.

Il cilindro di Zuccarello

Considerato dagli inquirenti il dominus del sistema corruttivo che passava dal Genio civile di Catania, Zuccarello era finito sotto la lente della procura già dalla fine del 2020. Il pubblico ministero Fabio Regolo aveva messo gli occhi su di lui dopo che il funzionario aveva deciso di annullare, in seguito ad articoli di stampa, alcuni lavori per la pulizia di torrenti da lui assegnati con il sistema dell’affidamento diretto, cioè contrattando con le singole imprese senza indire gare d’appalto. Il sospetto del magistrato era che la scelta delle ditte fosse stata viziata da rapporti corruttivi. Ne erano seguite perquisizioni, che avevano portato prima al sequestro di importanti somme di denaro e infine alla retata della finanza e all’arresto di due imprenditori e tre funzionari, fra cui anche Zuccarello.

Poco dopo essere stato sottoposto alla custodia cautelare in carcere, Zuccarello ha ammesso di avere preso tangenti. Si è trattato del primo passo di una collaborazione che, oltre a favorire l’accordo con la procura in merito al patteggiamento su cui proprio nei prossimi giorni deciderà la gup Anna Maria Cristaldi, ha dato la possibilità agli inquirenti di esplorare nuove strade nel convincimento che la corruzione all’interno del Genio civile etneo fosse un fenomeno ancora più esteso.

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Tra le storie che escono fuori dal cilindro di Zuccarello c’è proprio quella dell’incontro nell’attico. Il funzionario racconta di essere andato lì invitato dal padrone di casa, Gaetano Galvagno. Pupillo e concittadino in quel di Paternò (Catania) del presidente del Senato Ignazio La Russa, Galvagno la carriera annunciata la sta facendo. Oggi è presidente dell’Ars, mentre all’epoca era uno dei settanta deputati con ruoli in diverse commissioni parlamentari, tra cui quella Antimafia che si occupa anche di corruzione nel pubblico. Tra le audizioni effettuate dalla commissione ce n’è una, svoltasi pochi mesi prima dei contatti tra Zuccarello e Galvagno, in cui alcuni imprenditori avanzarono sospetti sulle gare d’appalto gestite dagli uffici della Regione Siciliana.

Nell’abitazione del politico, Zuccarello dice di avere trovato anche Carmelo Gangi Climenti, imprenditore edile. Sarebbe stato lui a pagare la mazzetta, un “regalo” per un lavoro ottenuto grazie anche all’interessamento di Galvagno. I contatti con il politico sarebbero stati molteplici e il funzionario li descrive nel corso di un interrogatorio svoltosi ad aprile dello scorso anno.

«Voglio riferire anche un altro episodio che riguarda lavori di somma urgenza seguiti nel 2020 – si legge nel verbale – . Nel periodo di fine anno, ho ricevuto una telefonata dell’onorevole Gaetano Galvagno, che mi avvisa che voleva incontrarmi». Zuccarello dice agli inquirenti di essere rimasto sorpreso di quell’invito, avvenuto in un momento in cui il Genio aveva già affidato un appalto all’impresa di Gangi Climenti, l’amico di Galvagno. «Gli fisso l’appuntamento al bar – rivela il funzionario nell’interrogatorio -. Sono andato all’incontro convinto di ricevere apprezzamenti sia sull’attività svolta dal Genio sia per l’affidamento fatto nei confronti del Consorzio Innova, segnalatomi da lui per fare lavorare poi la consorziata Cie di Gangi Climenti. In realtà – continua l’ingegnere – mi redarguì per il fatto che avevo affidato un altro lavoro alla Nurovi diversamente dalle sue aspettative, in quanto lui si era impegnato per portare il finanziamento per coprire entrambi i lavori programmati con due verbali di somma urgenza».

Nella ricostruzione di Zuccarello, Galvagno avrebbe ambito a far sì che la ditta dell’amico imprenditore potesse agguantare non uno ma due lavori. Dal canto suo, il capo del Genio civile aveva deciso di affidare solo un lavoro a Gangi Climenti, mentre l’altro era andato alla Nurovi, ditta gelese i cui vertici sono stati anche’essi coinvolti nel blitz in cui è stato arrestato Zuccarello. Questa ripartizione sarebbe stata frutto di altre richieste, pervenute – a detta di Zuccarello – da Pippo Li Volti, uomo di fiducia dell’allora assessore regionale ai Lavori pubblici Marco Falcone. Li Volti e Falcone non sono mai stati indagati nell’inchiesta sul Genio civile, ma nei giorni scorsi è emerso il loro coinvolgimento in un’indagine su corruzione in una vicenda legata alla società Interporti Siciliani.

«Dopo qualche giorno sono stato richiamato da Galvagno per avere un incontro al bar. Sono andato e ho trovato insieme a lui Gangi Climenti – si legge nel verbale – Dopo aver ripreso il discorso sugli affidamenti, Gangi Climenti mi disse che era un peccato non aver affidato entrambi i lavori a lui perché erano pronti 20mila euro da spendere. All’inizio la discussione è stata animata, poi ci siamo lasciati al bar in serenità perché avevano capito che era stato Li Volti a non indicarmi Gangi Climenti».

La possibilità di beneficiare di una tangente da 20mila euro nel caso di un doppio affidamento all’impresa di Gangi Climenti avrebbe lasciato posto, secondo Zuccarello, a una concreta dazione di denaro, seppure di importo inferiore. Si tratta dell’incontro a casa di Galvagno, avvenuto nei primi mesi del 2021.

«Sono stato invitato ad andare a casa sua e anche in quell’occasione era presente Gangi Climenti, che durante una discussione fatta in assenza di Galvagno mi ha consegnato una busta con circa 6.500 euro».
Interrogato dai magistrati, Gangi Climenti, ha smentito ogni addebito. L’imprenditore ha negato di avere mai dato soldi a Zuccarello e di avere mai cercato sponsorizzazioni dall’amico politico. «La segnalazione me la sono fatta da solo», si legge nel verbale di interrogatorio di Gangi Climenti.

A rimandare al mittente ogni accusa è stato anche lo stesso Galvagno. Il politico ha spiegato la presenza in casa propria di Zuccarello con la volontà di chiedergli consigli tecnici sul progetto di realizzazione della piscina e sugli iter da seguire per ottenere le autorizzazioni. «Forse penserete che sia inopportuno avere interessato Zuccarello per una pratica che poi doveva assentire il Genio civile, magari è così e ho sbagliato, ma nulla a che vedere con il grave contenuto delle dichiarazioni di Zuccarello», ha detto Galvagno agli inquirenti durante il proprio interrogatorio. Al contempo ha ammesso di avere sollecitato a Zuccarello il nome di Gangi Climenti. Ma in buona fede. «Ho avuto modo di parlare del fatto che il mio amico non lavorava mai con il Genio e visto che dovevano utilizzare il principio di rotazione mi sembrava strano», si legge nel verbale. A precisa domanda del magistrato, Galvagno ha detto che le rimostranze sulle modalità di gestione degli appalti e sul mancato principio di rotazione delle imprese da parte di Zuccarello non sono mai confluite in segnalazioni ufficiali all’interno dell’Ars.

Il portone d’ingresso della sede del Genio civile di Catania – Foto: Simone Olivelli

Davanti a versioni così divergenti, il pubblico ministero ha deciso di mettere a confronto i protagonisti. Così, in estate, Zuccarello, Galvagno e Gangi Climenti si sono trovati uno di fronte all’altro. Il faccia a faccia però non è servito a dipanare la matassa. Davanti all’impossibilità di stabilire chi dicesse la verità, la procura ha chiesto e ottenuto l’archiviazione dell’indagine.

Leggendo la richiesta presentata dal pm Regolo al gip emerge come l’apporto fornito dal funzionario non sia stato sufficiente. «Alla richiesta di fornire maggiori dettagli sulle circostanze della dazione di 6.500 euro, Zuccarello rispondeva di non ricordare alcun particolare riguardante le modalità di consegna del denaro, se non il fatto che era avvenuta in casa di Galvagno seppure non alla sua presenza. Zuccarello – si legge nella richiesta di archiviazione – non forniva nemmeno altri elementi a supporto delle presunte pressioni ricevute da parte di Galvagno».
Una ricostruzione, quella di Zuccarello, che alla fine è risultata carente degli elementi necessari a sostenere il giudizio in un processo. O per usare l’espressione scelta dal pm si è rivelata «lacunosa».

Deroghe in nome di una finta velocità

«Il nostro codice dei contratti è di matrice europea ed è pensato per contesti nei quali l’incidenza di criminalità organizzata e corruzione sono molto inferiori alla situazione italiana». Parte da qui Luigi Oliveri per commentare il caso Genius. Una carriera da dirigente pubblico, Oliveri vanta una significativa conoscenza in tema di appalti, materia a cui ha dedicato diverse pubblicazioni. «Nel mondo anglosassone vige il concetto di accountability, ovvero la responsabilità in capo a chi gestisce risorse pubbliche di spiegarne l’uso e l’efficacia della gestione. In Italia invece – sottolinea – questo principio viene interpretato come mera libertà d’azione del funzionario».

Il riferimento va alla diffusa scelta di ricorrere a modalità di selezione dei contraenti che sfuggono a una reale consultazione del mercato. Optare per procedure diverse dalle gare aperte, quelle a cui chiunque è interessato può partecipare, non è un fenomeno nuovo ma è diventato ancora più frequente nel momento in cui i decreti Semplificazioni, varati tra 2020 e 2021 dal governo precedente, hanno innalzato le soglie al di sotto delle quali è possibile restringere il campo dei partecipanti. Ciò può avvenire tramite un numero limitato di inviti alla gara o, nei casi più estremi, contrattando direttamente con la singola impresa.

«È facile capire come questo possa favorire la convergenza di interessi tra un imprenditore disposto a pagare pur di avere il lavoro e un funzionario disponibile a elargire favori – commenta Oliveri –. Stabilito questo contatto, anche una gara a inviti può essere truccata. Basta invitare ditte disposte a fare da comparsa per favorire colui che dovrà vincere». Scenari che l’indagine Genius ha portato a scovare, rilasciando una fotografia del sistema degli appalti caratterizzato spesso da poca trasparenza.

«Spesso si ricorre ai sorteggi per affermare l’assenza di discrezionalità nelle scelte, ma va detto che anche questi metodi hanno dato prova di non garantire la correttezza delle procedure. I sorteggi – ricorda Oliveri – un tempo venivano taroccati usando i bussolotti riscaldati, oggi vengono fatti tramite strumenti informatici ma sarebbe ingenuo pensare che non possano esistere metodi per condizionarne gli esiti. A maggior ragione quando tutto si svolge in un ufficio, lontano da occhi indiscreti».

Anche in questo caso è possibile trovare un riscontro nelle carte dell’inchiesta catanese. Zuccarello ai magistrati ha ammesso di avere più volte soltanto simulato la selezione casuale delle imprese a cui inoltrare l’invito.

A fronte di tali criticità, l’azione del legislatore negli ultimi anni sembra essere andata in direzione opposta: «Il decreto Semplificazioni del 2020 – spiega l’esperto – ha addirittura abolito l’esigenza di esplicitare la motivazione per cui si ricorre a un affidamento diretto quando si parla di appalti legati al Pnrr. Tuttavia, bisognerebbe tenere a mente che per quanto la disciplina dei contratti pubblici possa avere ampliato le maglie, in Italia esistono leggi – come la 241 del ’90 sul procedimento amministrativo e la 190 del 2012 sull’anticorruzione – che vincolano i pubblici ufficiali a specifiche prudenze, lontane dalla discrezionalità delle scelte su base fiduciaria».

Il ricorso alle procedure negoziate (gare a inviti e affidamenti diretti) viene spesso giustificato dalle stazioni appaltanti con l’esigenza di celerità. Il messaggio sottinteso è: se volete che le opere vengano fatte in tempi consoni, bisogna snellire gli iter. Oliveri, però, la pensa diversamente: «Una gara aperta con qualche centinaio di partecipanti può essere espletata in una quarantina di giorni – commenta – Uno studio della Banca d’Italia ha chiarito che, nel percorso che va dalla programmazione dell’opera alla sua concreta ultimazione, la gara incide sul tempo di realizzazione soltanto per il 12 per cento».

Le bottiglie di vino dimenticate

Quelli di Galvagno e Gangi Climenti non sono gli unici nomi fatti da Zuccarello all’indomani della sua collaborazione. Le diverse storie però hanno copioni molto simili. Anche negli altri casi le nuove indagini sono finite archiviate, dopo che gli inquirenti si sono accorti della mancanza di prove sufficienti. Fossero state partite di calcio, quelle tra Zuccarello e le persone da lui accusate, la maggior parte di esse si potrebbe dire sia finita zero a zero. Tante schermaglie, ma alla fine ognuno è apparso più concentrato sul non prenderle.

Una rete paramassi sul costone pericolante della Timpa di Acireale – Foto: Simone Olivelli
Una barriera massi in costruzione nel borgo di Santa Maria la Scala – Foto: Simone Olivelli

Un esempio è la storia che vede protagonista Nunzio Adesini, uno degli imprenditori della Nurovi arrestati nel blitz per avere pagato Zuccarello. Anche Adesini ha chiesto – e ottenuto già in fase di indagine – di patteggiare, dichiarando di essere disponibile a rivelare fatti inediti. L’imprenditore ha detto ai magistrati di avere vinto un lavoro al porto di Catania, grazie alla presenza nella commissione giudicatrice di Zuccarello.
Il trattamento di favore sarebbe stato ricompensato da Adesini con diecimila euro. L’imprenditore ha raccontato di avere nascosto il denaro in alcune bottiglie di vino. Per recapitarle avrebbe chiesto una mano a Carmelo Paratore, imprenditore impegnato in più settori, dalla ricettività balneare alla gestione dei rifiuti, e volto noto alle cronache giudiziarie per essere stato arrestato nel 2016 nell’inchiesta Piramidi, con l’accusa di essere vicino a Maurizio Zuccaro, boss ergastolano e sanguinario killer della famiglia Santapaola-Ercolano.

Secondo Adesini, Paratore – il cui nome è comparso più di recente in alcuni sms inviati da Piero Amara a Denis Verdini in merito a donazioni al movimento politico Ala – avrebbe acconsentito alla richiesta di fare da intermediario.

«Mi disse subito di sì. Ero sicuro della bontà del contatto – ha spiegato Adesini ai magistrati – perché lo stesso Paratore mi aveva più volte parlato dei buoni rapporti con Zuccarello».

A non smentire la cordialità sono stati gli stessi Zuccarello e Paratore, nel corso dei relativi interrogatori. Paratore ha raccontato di avere conosciuto il funzionario oltre un decennio prima, dalle parti dell’assessorato ai Rifiuti. «Mi fermò per complimentarsi per la mia auto sportiva. Da quel giorno siamo rimasti in contatto e ci siamo visti più volte al mio stabilimento balneare a Catania» si legge nel verbale. L’uomo, però, ha negato qualsiasi coinvolgimento nella corruzione. «Ero stato liberato da qualche mese in quanto prima ero stato sottoposto a misura cautelare e quindi avevo altri pensieri», ha detto Paratore.

Così come nel caso di Galvagno e Gangi Climenti, anche in questa vicenda esiste un incontro a tre. Adesini, Zuccarello e Paratore si vedono nel bar di una stazione di rifornimento. Anche stavolta, secondo Zuccarello, ci sarebbe stato un passaggio di denaro. «Uscendo dal bar, improvvisamente nella tasca dei miei pantaloni mi venne messa una mazzetta che poi a casa ho avuto modo di appurare fossero diecimila euro», ha dichiarato Zuccarello in un interrogatorio. La chiarezza dei ricordi però si interrompe qui: l’ingegnere non ha memoria delle bottiglie di vino citate da Adesini e non si sente neanche di mettere la mano sul fuoco su chi sia stato a pagare. «A distanza di tre anni, non ricordo se a darmi le somme sia stato Paratore o Adesini», ha spiegato.

Una lacuna non da poco, considerato che ha portato la procura di Catania in un vicolo cieco per quanto riguarda la possibilità di appurare il reale coinvolgimento di Paratore nella vicenda e di conseguenza all’archiviazione dell’indagine. Quest’ultimo, dal canto suo, quando gli è stato chiesto se gli sia mai stato chiesto di portare qualcosa di cui magari non conosceva il reale contenuto, ha chiosato: «So sempre quello che porto, sono un uomo di mondo».

La mazzetta pagata dal consigliere di Ance per comprare il tempo

La collaborazione di Zuccarello con la procura di Catania ha portato anche al coinvolgimento di un imprenditore in vista sulla scena siciliana: Antonio Pinzone. In questo caso, le rivelazioni del funzionario hanno portato a una precisa incriminazione e alla successiva richiesta di Pinzone di patteggiare. Tuttavia, pure in questo caso, non sono mancate le sorprese.

L’imprenditore, che dopo il coinvolgimento nell’inchiesta ha presentato le dimissioni dal consiglio generale di Ance Catania, è stato tirato in ballo da Zuccarello per il pagamento di una mazzetta da 25 mila euro. Vicenda che lo stesso Pinzone ha confermato davanti agli inquirenti, ma fornendo una ricostruzione diversa di come sarebbero andate le cose. Secondo il funzionario, la tangente sarebbe servita a turbare due gare d’appalto. «Pinzone mi ha indicato le ditte da invitare – ha dichiarato Zuccarello –. Abbiamo redatto un verbale scrivendo che abbiamo selezionato a sorteggio dall’urna, mentre in realtà abbiamo scritto le cinque ditte per ciascun lavoro, senza alcun sorteggio». Dagli accertamenti eseguiti dagli inquirenti, è emerso che dei due appalti soltanto uno è andato al consorzio di cui fa parte la ditta di Pinzone, poi incaricata di effettuare i lavori. L’ipotesi coltivata dai magistrati è stata quella secondo cui Pinzone si sarebbe mosso non solo nel proprio interesse, ma anche per conto di terzi.

L’impianto accusatorio però non ha retto di fronte alla versione dei fatti fornita da Pinzone. L’imprenditore ha escluso di avere mai concordato gli elenchi delle imprese da invitare, ipotizzando tutt’al più di avere dato «pareri sulla capacità tecnica e affidabilità di ditte che non sono a me legate e per lavori a cui non sapevo se sarei stato interessato». Ma soprattutto Pinzone ha detto di avere pagato per un altro motivo: «Lego la dazione di denaro alla consegna del cantiere, visti gli ostacoli e l’inerzia che avevo percepito», ha detto l’imprenditore, specificando che, una volta pagata la mazzetta, il cantiere «è stato consegnato nel giro di quindici giorni» dando così la possibilità all’azienda di Pinzone di avviare i lavori.

Anche in questo caso le divergenze nelle ricostruzioni e il successivo confronto tra gli indagati non hanno portato chiarezza: ciò ha determinato la caduta del capo d’imputazione sulla turbativa d’asta, confinando le accuse al reato di corruzione per l’esercizio della funzione. Pinzone ha proposto di patteggiare, trovando concorde la procura. La decisione, così come per gli altri, sarà presa nei prossimi giorni dalla gup Cristaldi.

Il “tavolino” degli appalti regge ancora?

Sfogliando gli atti dell’indagine sul Genio civile di Catania, come si è visto, ci si imbatte in personaggi appartenenti a mondi diversi ma comunque tra loro collegati: la politica, l’imprenditoria, la burocrazia. E così, al netto degli esiti giudiziari dei singoli filoni, è inevitabile chiedersi se al livello sistemico possa ancora oggi esistere quel “tavolino” di cui, negli anni ’90, parlò Angelo Siino, l’uomo che da San Giuseppe Jato (Palermo) è passato alla storia come il ministro degli appalti di Cosa nostra. Nel modello tracciato da Siino ai magistrati, quando decise di diventare un collaboratore di giustizia, la mafia siciliana rappresentava la livella che riusciva a mettere d’accordo tutti gli attori interessati a lucrare sulle opere pubbliche.

«Quello del “tavolino” era un meccanismo perfettamente regolato. Se imprenditoria, politica e burocrazia erano le gambe, Cosa nostra potremmo immaginarla come una lampada che illuminava il tavolo e gli affari che venivano spartiti in maniera scientifica».

A parlare è Alberto Vannucci, professore di Scienza politica all’Università di Pisa ed esperto di criminalità e corruzione. «L’efficienza del “tavolino” era talmente alta da riuscire a determinare l’assegnazione degli appalti non quando la gara veniva bandita, ma quando il finanziamento per la determinata opera veniva stanziato – prosegue Vannucci –. Ancora oggi, specialmente in alcune aree del Paese, il ruolo della criminalità organizzata negli appalti è centrale, ma ritengo meno di un tempo. Oggi il fenomeno corruttivo prescinde anche dalle mafie, parliamo di settori talmente lucrosi dove a farla da padrone è un altro fattore: l’interesse degli imprenditori a non farsi concorrenza, a trovare accordi e costituire cartelli».

Per il docente, fissato il patto tra le imprese, il ruolo di politici e funzionari si trasforma in quello di complici interessati: «Si conta sul fatto che chiudano un occhio sapendo che le imprese sono capaci di autoregolarsi e soprattutto – sottolinea – che chiunque vincerà restituirà parte dell’importo. In un quadro del genere, il compito del funzionario infedele è spesso quello di far finta di non vedere nulla». Vannucci sottolinea come oggi la tangente non sia l’unico strumento in cui si concretizza la corruzione.

«L’imprenditore, per esempio, può finanziare la campagna elettorale del politico che ha fatto da sponsor, magari mettendo anche a bilancio il contributo – prosegue – oppure esistono le consulenze e non è detto che a beneficiare di queste ultime debba essere per forza il parente del funzionario corrotto. Può capitare che A faccia un favore a B e che da quest’ultimo non riceva nulla in cambio, mentre B farà un favore a C che, un giorno, magari non immediatamente, restituirà qualcosa ad A. In uno schema di questo tipo, il lavoro per i magistrati si fa sempre più complicato, specialmente quando pensiamo alla fattispecie del codice penale che parla di atto contrario ai doveri di ufficio».

Nelle ultime settimane, il ministro della Giustizia Carlo Nordio, parlando di corruzione, si è detto favorevole a uno sfoltimento della normativa come misura utile a sottrarre ai funzionari parte degli strumenti che possono essere utilizzati per vincolare gli imprenditori al pagamento delle tangenti, pena vedere bloccato l’andamento dei lavori.

«È indubbio che la cornice di regole che caratterizza il settore degli appalti sia complessa ed estremamente mutevole – commenta Vannucci – Spesso ci si trova davanti a leggi scritte male, soggette a interpretazioni e ciò favorisce inevitabilmente i malintenzionati». La Corte dei conti ha quantificato nel 40 per cento il sovrapprezzo di un appalto caratterizzato dal pagamento delle tangenti, senza contare il costo indiretto dei cattivi risultati. «La corruzione garantisce coperture dalla sorgente alla foce, dall’aggiudicazione fino all’esecuzione dei lavori – spiega Vannucci – Per fare un esempio: per recuperare i soldi per pagare la tangente in una gara riguardante il rifacimento di una strada, si può risparmiare sulla quantità di asfalto, potendo godere della complicità di chi dovrà controllare che, al momento di fare i carotaggi, punterà sulla porzione di lavori fatti a regola d’arte».

«E poi – va avanti Vannucci – secondo me bisogna partire da due direttrici: l’uso dei big data per la segnalazione di anomalie nelle fasi di aggiudicazione e poi puntare su un maggiore coinvolgimento delle comunità nei processi che portano alla definizione delle opere da realizzare. Nel momento in cui i cittadini sentono propria l’esigenza di controllare che le cose vengano fatte correttamente – conclude – per corrotti e corruttori la strada si farà un po’ più in salita».

CREDITI

Autori

Simone Olivelli

Editing

Lorenzo Bagnoli
Giulio Rubino

Foto di copertina

Il tribunale di Catania
(Simone Olivelli)

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Ex parlamentari e fondi alle Cayman: gli appalti Covid della Protezione Civile

#Covid-19

Ex parlamentari e fondi alle Cayman: gli appalti Covid della Protezione Civile

Matteo Civillini

La promessa delle mascherine chirurgiche a 50 centesimi l’una nei negozi fatta dal governo appare difficile da mantenere. Almeno a giudicare da quanto ha pagato finora le forniture la Protezione Civile. Contratti stipulati in fretta e furia, sotto la pressione della più grave emergenza sanitaria degli ultimi settanta anni e con soldi finiti un po’ ovunque. Anche in paradisi fiscali, che poco c’entrano con la produzione e vendita di mascherine anti-Covid.

IrpiMedia e La Stampa hanno potuto visionare i contratti stipulati finora dall’organismo che sta gestendo la crisi. Si tratta di 91 contratti per l’approvvigionamento di dispositivi di protezione individuale (Dpi), per un totale di 356,5 milioni di euro. Al 10 aprile scorso, risultano pagati oltre 97 milioni di euro. Tra queste, di forniture pagate a una cifra compatibile con un prezzo finale di 50 centesimi di euro ce ne sono davvero poche.

La Pluritex srl ad esempio ne ha vendute 100 mila, con un contratto del 3 marzo al prezzo di 70 centesimi ciascuna. Alla Imagro spa invece le stesse mascherine chirurgiche sono state pagate 0,60 euro l’una. L’ente guidato da Angelo Borrelli ne ha ordinate 4 milioni di pezzi per un totale di 2,38 milioni. Il prezzo record lo strappa però la giapponese Tokyo Medical Consulting, che si fa pagare 1,67 euro l’una 260 mila mascherine chirurgiche, per un totale di 435 mila euro già liquidati. Si tratta in questo caso di un contratto stipulato tramite il ministero degli Esteri e l’Ambasciata d’Italia.

IrpiMedia e La Stampa hanno potuto visionare i contratti stipulati finora dall’organismo che sta gestendo la crisi. Si tratta di 91 contratti per l’approvvigionamento di dispositivi di protezione individuale (Dpi), per un totale di 356,5 milioni di euro.

Certo, erano i giorni più cupi dell’emergenza, quando mezzo mondo cercava mascherine e sul mercato era davvero complicato trovarne. Colpisce comunque, nei documenti visionati, la grande diversità di prezzi pagati dalla Protezione Civile. Certamente compatibili con il tetto di 50 centesimi al negozio sono i quasi 4 milioni di pezzi comprati dalla Mediberg, azienda italiana specializzata proprio nella produzione di dispositivi medici, che ha fissato un prezzo di 0,24 euro nei giorni caldi dell’emergenza (due contratti del 5 e 8 marzo).

Difficile rientrare nel limite invece con gli 0,44 euro pagati alla Only Italia Logistics di Irene Pivetti. Il contratto, firmato dalla stessa ex parlamentare – adesso indagata dalla procura di Siracusa -, prevedeva la fornitura di mascherine Ffp2 e chirurgiche, per un valore complessivo 25,2 milioni di euro. L’accordo è del 17 marzo scorso ed è uno dei pochi interamente pagati dalla Protezione Civile secondo i documenti consultati da IrpiMedia e La Stampa.

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Quei fornitori esclusi dalle gare Consip

Colpisce inoltre come la Protezione Civile abbia accettato alcuni fornitori respinti invece da Consip. Oltre alla Winner Italia, azienda produttrice di medaglie e trofei, c’è la veronese Agmin Italy. Azienda veneta controllata dai costruttori romani Cucchiella, aveva vinto una serie di lotti nelle gare Consip per mascherine e altri dispositivi per essere poi esclusa dopo le verifiche. La Agmin Italy era già stata esclusa nel 2018 dalle gare europee per tre anni in seguito a una mancata fornitura di materiali in Bielorussia.

La Agmin Italy era già stata esclusa nel 2018 dalle gare europee per tre anni in seguito a una mancata fornitura di materiali in Bielorussia.

La particolarità del contratto con la Protezione Civile (mascherine e tute isolanti) è però un’altra. La società di Verona indica come estremi di pagamento un conto presso la British Arab Commercial Bank di Londra, intestato ad un fondo delle Isole Cayman, Scipion Active Trading Fund. Quindi Agmin vende allo Stato, ma lo Stato paga un fondo offshore di un paese sulla lista nera dei paradisi fiscali, anche se l’indicazione di un soggetto terzo per il pagamento in un appalto pubblico non è ammesso dalla normativa vigente.

Il contratto tra Agmin e la Protezione Civile con le coordinate per il pagamento

#Covid-19

Il mercato parallelo dei vaccini

Vero o presunto che sia, è oggetto di indagini in Italia ed Ue. Lo popolano truffatori ed esiste perché il sistema di distribuzione globale, soprattutto verso i Paesi poveri, arranca

Per le commesse della Agmin non risultano pagamenti effettuati dalla protezione civile alla data del 10 aprile scorso. Interpellato da La Stampa, Giuseppe Gola, direttore commerciale di Agmin, sostiene che l’indicazione di Scipion Active Trading Fund sul contratto deve essere stato un errore. «Questo è un fondo che finanzia i nostri contratti con le Nazioni Unite», dice Gola. «In questo caso – conclude Gola -, una volta completate le forniture, il conto di pagamento sarà quello dell’Agmin Italy». Curioso visto che la firma in calce al contratto visionato da IrpiMedia e La Stampa è proprio quella dell’ingegner Gola.

Negli elenchi consultati – 91 contratti in totale – figura anche la Silk Road Global Information limited, che fa capo alla Silk Road Cities Alliance, iniziativa del governo cinese legata al mega progetto infrastrutturale Silk Road. Il presidente è Francesco Rutelli e come presidente onorario Massimo D’Alema.

Ed è proprio D’Alema che si dà da fare per far arrivare in Italia dalla Cina una fornitura di ventilatori polmonari. Il suo nome compare nelle email che una funzionaria di Palazzo Chigi si scambia con la Cina per concludere l’accordo. Una fornitura da 2,6 milioni di euro per 140 pezzi, pari a 19 mila euro ciascuno. Il sito del produttore indica per quel modello di ventilatore un prezzo tra 9.900 e 14.500 euro. Prezzi dunque allineati alle valutazioni di mercato che nel periodo di espansione della pandemia sono lievitati addirittura a quota 40 mila euro. Al 10 aprile scorso per quella partita risultavano pagati 1,9 milioni di euro.

CREDITI

Autori

Matteo Civillini

In partnership con

Ha collaborato

Gianluca Paolucci

Editing

Luca Rinaldi

Appalto Consip mascherine: 60 milioni attese, poco più di 3 milioni quelle consegnate

27 Aprile 2020 | di Lorenzo Bodrero, Matteo Civillini

Ci si aspettava 60 milioni di mascherine grazie alle gare Consip. Ma ad oggi alle strutture sanitarie e alle pubbliche amministrazioni ne sono arrivate poco più di 3 milioni. Prima l’assegnazione dei contratti, poi la verifica delle aziende. Questa è la filosofia che sta caratterizzando buona parte dell’approvvigionamento pubblico di materiali per far fronte all’emergenza Covid-19.

Procedure straordinarie, in deroga al Codice degli Appalti, che, in teoria, dovrebbero accorciare i tempi nelle corsa globale ai dispositivi di protezione individuale. Ma in realtà qualcosa sembra non funzionare. I vincitori delle gare saltano, spesso in seguito a inchieste giornalistiche, e le forniture arrivano col contagocce.

Alcune tra le gare più ricche le ha battute proprio Consip, la centrale acquisti della pubblica amministrazione.

La prima, pubblicata agli inizi di marzo, dovrebbe garantire a ospedali e pubblica amministrazione 35 milioni di mascherine e oltre 145 milioni di articoli vari tra cui guanti, camici, occhiali protettivi. Finora ne sono stati consegnati poco meno di 20 milioni in totale (di cui 3,2 milioni di mascherine).

L’ultima gara, aggiudicata il 27 marzo scorso in via provvisoria, base d’asta di 132 milioni di euro, avrebbe dovuto portare altre 25 milioni di mascherine. Dispositivi di protezione individuale consegnati finora: zero.

Il motivo è semplice: tra le maglie larghe degli appalti si infilano soggetti per cui la pandemia è solo un’occasione in più per fare business. Per questo all’avvio dei controlli dopo l’assegnazione delle gare scatta la revoca e l’annullamento di numerose aggiudicazioni, allungando così i tempi di consegna dei materiali.

Il caso Pivetti e la stretta sull'export dalla Cina

Frode nell’esercizio del commercio. È l’ipotesi di reato contestata all’ex presidente della Camera dei deputati, Irene Pivetti, per aver importato e poi distribuito migliaia di mascherine Ffp2 con il marchio CE – secondo la procura di Savona – contraffatto. Gli inquirenti sono partiti dai prezzi gonfiati del 2-300% delle mascherine in vendita nel savonese nei primi giorni di aprile, in piena ascesa del contagio.

Ripercorrendo a ritroso la filiera, la guardia di finanza ha quindi sequestrato il carico in giacenza all’aeroporto di Malpensa e intestato alla Only logistics Italia srl, di cui è amministratrice unica l’ex militante della Lega Nord. L’appalto, gestito dalla Protezione civile e assegnato con procedura d’urgenza, prevedeva la fornitura di 15 milioni di mascherine per 30 milioni di euro. Pivetti ha annunciato ricorso, spiegando sulle pagine del Corriere della Sera che le regole sulla verifica delle certificazioni siano cambiate in corsa.

Intanto, il 25 aprile il ministero del commercio della Cina ha annunciato controlli più severi circa l’export di dispositivi di protezione prodotti nella Repubblica popolare. Da oggi, chi esporta dovrà presentare una dichiarazione di idoneità del prodotto in merito alle misure di sicurezza del Paese destinatario. Il giro di vite arriva due giorni dopo gli esiti di un’operazione che ha portato al sequestro di 89 milioni di mascherine e 418 mila dispositivi di protezione in tutto il Paese e alle reiterate proteste di Olanda, Repubblica Ceca, Spagna, Turchia e Canada che hanno dovuto restituire milioni di pezzi giudicati non conformi.

La Cina è al momento di gran lunga il principale fornitore di materiali di protezione, con una produzione di 116 milioni di mascherine al giorno.

Per Davide Del Monte, direttore di Transparency International Italia, si tratta della riprova che molte gare sono state sì velocissime, ma disastrose. «Lo abbiamo detto fin da subito che scartare del tutto trasparenza e controlli per gli acquisti Covid banditi in urgenza non fosse una buona idea,» dice Del Monte a IrpiMedia. «Paradossalmente, fare le cose in velocità ha rallentato, e spesso reso vano, tutto il processo. Speriamo sia di lezione per le fasi successive, dove già aleggia la volontà di allargare ancor di più le maglie dei controlli, con grande piacere di mafie e truffatori.»

Il caso più clamoroso è quello della Biocrea dell’imprenditore Antonello Ieffi – arrestato proprio in seguito alle verifiche sulla gara Consip e su denuncia dell’Ente appaltante. Turbativa d’asta e inadempimento di contratti per pubbliche forniture sono le accuse mosse dalla Procura di Roma nei suoi confronti.

Un altro contratto ad essere annullato è stato quello con Indaco Service, cooperativa sociale di Taranto con un burrascoso trascorso giudiziario, come già raccontato da IrpiMedia. Nel 2017 aveva perso la concessione per il centro di accoglienza straordinario Indaco-S.Maria del Galeso a causa di gravi carenze di carattere gestionale, strutturale e igienico-sanitario. Il manager di Indaco Service, Salvatore Micelli, è stato inoltre arrestato nel dicembre 2018 con l’accusa di aver partecipato a una maxi-truffa da oltre tre milioni di euro ai danni dello Stato. Micelli sostiene la sua innocenza, dicendo di «non aver preso neanche un euro illecitamente».

Una settimana fa vengono revocate le aggiudicazioni a un’altra azienda del terzo settore. Si tratta di Agmin di Verona, che si occupa di forniture beni e servizi nell’ambito della Cooperazione Internazionale. Dal 1983 realizza progetti finanziati da Onu, Unione europea e Banca mondiale. È controllata dai costruttori romani Cucchiella, già clienti dello studio Mossack Fonseca al centro del caso Panama Papers.

Inizialmente la Agmin si era aggiudicata 6 lotti per la fornitura di mascherine e tute protettive. Una sua controllata, la Agmin Italy spa, era stata esclusa nel 2018 dalle gare europee per tre anni. Al centro del contenzioso un bando Ue da 900 mila euro per la fornitura di strumenti in grado di misurare l’efficienza energetica in Bielorussia. Stando a quanto affermato dalla Commissione Europea, la Agmin Italy non avrebbe consegnato la merce richiesta e non avrebbe sostituito la garanzia finanziaria necessaria dopo che quella precedentemente emessa era risultata non valida.

L’azienda veronese ha presentato una causa alla Corte europea. La decisione sarebbe stata lesiva dei propri diritti – sostiene Agmin Italy – in quanto a causare la mancata fornitura sarebbe stato il rifiuto della Commissione Europea di accettare la sostituzione di Agmin con un altro produttore. Ad oggi la Corte non si è ancora espressa.

La prima e l’ultima gara Consip (al 27 aprile 2020) per i Dpi con il materiale consegnato rispetto alla richiesta

L’ultimo aggiudicatario ad aver visto sfumare il contratto con Consip è la Italian Properties. Holding bresciana guidata da Marco Melega, 47enne cremonese, arrestato lo scorso luglio per una presunta maxi-truffa online. Secondo le accuse della procura di Cremona, il gruppo di Melega avrebbe creato siti per l’acquisto all’ingrosso di vini, buoni carburante e prodotti elettronici a prezzi stracciati. Secondo l’accusa, la società non sarebbe stata in possesso di alcun prodotto e quindi i compratori sarebbero rimasti a mani vuote.

Melega è accusato di associazione a delinquere finalizzata alle truffe online, frode fiscale, bancarotta fraudolenta e riciclaggio. Dice di essere «stato profondamente turbato» dall’arresto e di «star affrontando la situazione con determinazione precisando agli inquirenti la mia estraneità ai fatti».

In seguito all’annullamento dei contratti sono pochi i vincitori del maxi-appalto Consip che rimangono ancora in corsa.

Tra di essi spicca la Holding Aleda Group, aggiudicataria di tutti i lotti dell’ultima gara Consip. Fa capo a due sorelle che producono e commercializzano vino nei Colli Romani. Nata a febbraio, il 23 marzo scorso l’azienda ha ampliato lo scopo sociale per comprendere appunto la fornitura di materiale sanitario e Dpi. Appena in tempo per consegnare l’offerta per la gara Consip chiusa il giorno successivo.

Interpellata da IrpiMedia nelle settimane scorse, Alessia Consoli (socia al 50%) non ha fornito risposte. Qualche giorno fa, al Fatto Quotidiano, ha spiegato che avendo in Cina il mercato principale avevano contatti tali da poter garantire le forniture, di essere pronte ad onorare il contratto anche se ancora non avevano ricevuto da Consip l’ordine di acquisto.

Foto: IrpiMedia su immagini Shutterstock | Infografica: Lorenzo Bodrero/IrpiMedia

Covid-19, due vincitori della gara per le mascherine sono sotto inchiesta

2 aprile 2020 | di Matteo Civillini

Procedure straordinarie, deroghe e commissari. Lo stato di emergenza sta caratterizzando l’aggiudicazione degli appalti della Consip, la centrale acquisti della pubblica amministrazione italiana. E come spesso accade nella gestione emergenziale tra le maglie più larghe dei controlli passano società con conti più o meno aperti con la giustizia o che poco hanno a che fare col mercato di riferimento. È il caso della gara indetta per la fornitura dei dispositivi di protezione sanitaria, in particolare mascherine, e aggiudicata lo scorso 27 marzo. Base d’asta 123 milioni di euro per nove lotti e aggiudicata per poco meno di 64, con un ribasso dunque che sfiora il 50%.

Le procedure straordinarie

Tra gli aggiudicatari delle gare indette da Consip per far fronte all’emergenza Covid-19 ci sono anche una cooperativa di Taranto a cui la Prefettura ha revocato la gestione di un centro d’accoglienza e una società immobiliare guidata da un imprenditore indagato per frode.

I bandi della centrale degli appalti italiana sono assegnati con una procedura straordinaria dopo che il decreto Cura Italia del 17 marzo ha previsto la deroga al Codice Appalti: per accorciare i tempi delle aggiudicazioni, i controlli sulle aziende che partecipano si fanno ex post, cioè ad appalto aggiudicato. In pratica, spiega un funzionario Consip a IrpiMedia, «prima avviene la scelta delle aziende e poi si effettuano i controlli sulla loro integrità e gli eventuali ordini di materiale». E come spesso accade durante le gestioni commissariali e in regime d’emergenza, come è stato per il terremoto de L’Aquila, per il G8 a La Maddalena, o più recentemente con Expo2015, il curriculum degli aggiudicatari pone qualche interrogativo.

La Procedura negoziata d’urgenza per mascherine chirurgiche e dispositivi di protezione individuale per l’emergenza sanitaria “Covid-19”, è stata indetta da Consip lo scorso 19 marzo. La base d’asta della gara, suddivisa in 9 lotti era fissata a 123 milioni di euro. La procedura è stata aggiudicata per 63,8 milioni di euro col criterio del minor prezzo.

La coop dell’accoglienza finita nel mirino della Prefettura di Taranto

Il primo caso riguarda la tarantina Indaco Service Cooperativa Sociale che ad oggi risulta tra i vincitori di due lotti per la fornitura di oltre 16,5 milioni di mascherine chirurgiche e 5,4 milioni di FFP3. La società è abilitata dal Ministero delle finanze alle gare d’appalto per i servizi socio-assistenziali come la fornitura di mascherine e per questo motivo si è presentata come capofila di un consorzio insieme ad altre due società. Se l’aggiudicazione sarà confermata, Indaco Service si spartirà con le altre società vincitrici una torta da oltre 34 milioni di euro.

A Taranto Indaco Service è nota tra le altre cose per aver perso nel giugno 2017 la concessione per il centro d’accoglienza straordinaria Indaco-S. Maria del Galeso a causa di «gravi carenze di carattere gestionale, strutturale e igienico-sanitarie», si legge nel decreto di revoca firmato dalla Prefettura. Nel centro, poco prima del provvedimento, era scoppiata una rivolta: «Per la disperazione i richiedenti asilo si sono barricati dentro al centro insieme al personale, costringendo la polizia ad intervenire – ricorda Enzo Pilò dell’Associazione Babele, gruppo che tutela i diritti dei richiedenti asilo -. C’erano inadempienze di ogni genere, questa cooperativa non ha mai svolto alcun servizio». L’amministratore della cooperativa Salvatore Micelli sostiene però che la causa del disservizio fosse il sovraffollamento del centro in seguito all’invio dei migranti stabilito dalla stessa Prefettura.

A seguito dell’estromissione dal nuovo bando per il centro d’accoglienza è partita una guerra di ricorsi tra Indaco Service e amministrazione pubblica che doveva chiudersi a marzo con il giudizio del Consiglio di Stato, che invece ha rinviato la seduta. Micelli, molto attivo nella politica tarantina, nel dicembre 2018 è stato accusato di aver partecipato a una maxi-truffa da oltre tre milioni di euro ai danni dello Stato. La vicenda risale al 2012, quando la Regione Puglia doveva gestire la partita dei fondi europei a sostegno dell’occupazione femminile. Micelli e soci avrebbero costituito una decina di imprese fittizie per mettersi in tasca i sussidi senza svolgere alcuna attività lavorativa concreta.

Micelli è stato accusato anche di aver presentato false fideiussioni a garanzia dei finanziamenti statali, falsificando le firme dei procuratori di agenzie di assicurazione. Per farsi liquidare i fondi il gruppo avrebbe poi inviato agli enti regionali finte lettere di assunzione e buste paga in realtà mai versate. L’imprenditore è ora fuori dal carcere perché, dice la Cassazione, gli elementi indiziari non sono sufficienti a definire il suo ruolo nella presunta truffa. La procura ha chiesto il rinvio a giudizio e l’udienza preliminare è stata fissata per maggio. È accusato di associazione a delinquere finalizzata alla truffa aggravata.

Sentito da IrpiMedia, Salvatore Micelli sostiene di essere vittima di un attacco da parte del mondo politico e giudiziario tarantino allo scopo di gettare fango su di lui. «Il sottoscritto – spiega – non ha preso neanche un euro illecitamente. Io non conosco neanche chi sono la maggior parte delle persone coinvolte nell’indagine. Avevo solo svolto attività di consulenza per alcune di queste imprese». Anzi, sostiene di essere stato il primo a denunciare un sistema di corruzione in città.

L’imprenditore sotto indagine per truffa

Insieme a Indaco Service, tra gli aggiudicatari del lotto per la fornitura di mascherine chirurgiche c’è anche la Italian Properties Srl: una holding bresciana che dichiara di avere partecipazioni per oltre 20 milioni di euro in società industriali, commerciali, agricole e immobiliari. Il suo proprietario Marco Melega, 47 anni, è stato arrestato lo scorso luglio per una presunta maxi-truffa online in cui sono caduti migliaia di consumatori. Secondo le accuse della procura di Cremona, il gruppo di Melega avrebbe creato diversi siti per l’acquisto di vini, buoni carburante e prodotti elettronici a prezzi stracciati. Le vendite erano riservate ai titolari di partita Iva e prevedevano un acquisto minimo di mille euro di merce.

Secondo l’accusa, la società non sarebbe stata in possesso di alcun prodotto e quindi i compratori sarebbero rimasti a mani vuote. Quando le lamentele e le denunce montavano le società venivano liquidate, i siti internet chiusi per poi ripartire nuovamente sotto altre spoglie. Le somme di denaro venivano poi trasferite ad altre società, simulando il pagamento di operazioni fittizie, e infine monetizzate sotto forma di stipendi. Definito come dominus e principale beneficiario della frode, Marco Melega è accusato di associazione a delinquere finalizzata alle truffe online, frode fiscale, bancarotta fraudolenta e riciclaggio. L’11 marzo ha lanciato Barter For Good, una piattaforma online dove le aziende possono donare «merci difettose, beni invenduti e cespiti in disuso» da distribuire tra gli enti no-profit impegnati nella lotta al Covid-19. Il sito dichiara di aver raccolto al 26 marzo oltre 1,298 milioni di euro.

Marco Melega spiega a IrpiMedia che Italian Properties realizzerà la fornitura di dispositivi medici tramite la propria piattaforma online di scambi multilaterali tra imprese. «Abbiamo centinaia di contatti che ci stanno favorendo nelle interlocuzioni con i vari fornitori italiani ed esteri».

In merito alle vicende personali, Melega dice di esserne «stato profondamente turbato». «Sto affrontando la situazione con determinazione precisando agli inquirenti la mia estraneità ai fatti», aggiunge.

Consip contattata da IrpiMedia spiega che le società risultano effettivamente aggiudicatarie dei lotti, ma che si procederà agli ordini solo dopo le verifiche. «In caso di esito positivo dei controlli, per ogni lotto – aggiunge Consip – sarà stipulato un accordo quadro con tutti i fornitori aggiudicatari. Gli ordini di fornitura verranno emessi a partire dal fornitore primo classificato, fino all’esaurimento della disponibilità dei prodotti di quest’ultimo, proseguendo poi con un meccanismo “a cascata” verso quelli successivi in graduatoria». Così lo schema dell’emergenza, ancora una volta, rischia di premiare i più furbi.

Come è andata a finire

Dopo l’inchiesta che avete appena finito di leggere l’8 aprile Consip ha risolto il contratto con la Indaco Service emettendo gli ordini di fornitura agli altri aggiudicatari dello stesso lotto.

In partnership con: La Stampa | Editing: Lorenzo Bagnoli, Luca Rinaldi | Foto: Mika Baumeister/Unsplash

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