Beni confiscati, i grandi incompiuti
Lorenzo Bodrero
Èl’alba del 25 maggio 2011. Diverse auto dei carabinieri si fermano di fronte a una villa in via Cupa dell’Arco, arteria principale del quartiere di Secondigliano nella periferia nord di Napoli. Sono lì per infliggere l’ultimo colpo a Paolo di Lauro, meglio noto come “Ciruzzo ‘o milionario”, uno dei più feroci boss della Camorra. Tra droga, armi e racket, per un quarto di secolo è stato al vertice di un sistema criminale che fruttava milioni di euro al mese e che aveva trasformato Scampia e Secondigliano nella piazza di spaccio più grande d’Europa. I militari sono accompagnati da un amministratore giudiziario. C’è infatti da notificare la confisca della villa, da sempre quartier generale di Ciruzzo. È la definitiva “vittoria dello Stato sulla mafia”, slogan che spesso accompagna, non a torto, l’acquisizione da parte delle istituzioni di proprietà simbolo dei boss mafiosi.
Il boss però non c’è, è in carcere a scontare tre ergastoli, isolato in regime di 41-bis. Ad andare incontro a Luca D’Amore, l’amministratore che da lì in poi dovrà trovare un futuro alla villa per conto dello Stato, è invece la moglie di Ciruzzo. Tiene il braccio a mezz’aria mentre gli si avvicina, il mazzo delle chiavi di casa sospeso tra indice e pollice di fronte a lei. Glielo consegna di fretta e senza fermarsi. «Tenga Dotto’…», sorride con un angolo della bocca, «che tanto abbiamo costruito la casa di fronte».
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Non è tutto oro quello che luccica nella gestione dei beni confiscati alle mafie. Le parole della moglie di Paolo di Lauro ben riassumono una delle criticità che l’istituto della confisca dei beni mafiosi ancora trascina con sé. Dal sequestro alla confisca possono infatti passare diversi anni, tempo più che sufficiente per il soggetto sottoposto alla misura per mitigare la perdita, avviando per esempio un’attività parallela nel caso del sequestro di un’azienda o costruendo un altro immobile. Questo e altri nodi ancora irrisolti rischiano di vanificare lo scopo principale della confisca: attaccare il potere economico dei clan, privandoli degli strumenti utili al compimento di reati e di quelli usati per inquinare l’economia legale. Secondo esperti del settore ascoltati da IrpiMedia, il «potenziale mostruoso» di cui la normativa dispone è ancora molto lontano dall’essere realizzato.
Due dati su tutti balzano agli occhi: di tutti i procedimenti di sequestro e confisca ne sono stati «annullati o revocati» più di un terzo (36,4%), secondo l’ultima relazione del Ministero della giustizia. Mentre solo il 4% risulta essere andato a buon fine, ossia destinato al riutilizzo.
Nonostante le importanti migliorie apportate dal Legislatore, la normativa introdotta nel 1982 con la legge Rognoni-La Torre è ancora ricca di criticità, che rallentano il sistema di confisca prima e destinazione poi.
Un inizio zoppicante
Immobili, terreni, aziende, beni mobili e finanziari. Contrariamente al processo penale, l’istituto delle misure di prevenzione «è essenzialmente un processo alla res, alla proprietà», spiega Luca D’Amore, avvocato e amministratore giudiziario per diversi tribunali italiani.
Come funziona la confisca dei beni?
La logica della confisca dei beni consiste nella volontà non tanto di colpire il soggetto bensì di sottrarre i beni di natura illecita dal circuito economico dell’organizzazione criminale. Sequestro e confisca sono cosiddette “misure di prevenzione” e vengono introdotte nel 1982 con la legge Rognoni-La Torre. Le successive modifiche sono oggi raccolte all’interno del “codice antimafia” (Dl n. 159 del 2011).
I provvedimenti di sequestro e confisca sono indirizzati a coloro indiziati di appartenere ad associazioni mafiose o che sono “dediti abitualmente a traffici delittuosi ovvero che vivono abitualmente con i proventi di attività delittuose”. Il codice prevede anche la “confisca per equivalente” che consiste nell’aggressione a beni di pari valore nel momento in cui il bene oggetto di confisca non sia reperibile, o sia stato svalutato. È prevista anche la “confisca allargata” verso quei beni che il soggetto possiede per interposta persona.
Le misure di prevenzione prescindono dal processo penale, ovvero il sequestro e la confisca possono essere avviati verso i beni riconducibili a un soggetto anche in mancanza di un procedimento penale nei suoi confronti.
Tutto comincia con le indagini patrimoniali ai soggetti proposti e condotte dalla polizia giudiziaria. Il fascicolo finisce poi nelle mani di un magistrato, del questore, oppure è preso in carico dalla Direzione investigativa antimafia (Dia) che lo sottopone all’attenzione del tribunale misure di prevenzione del distretto di competenza. Se il giudice ritiene che quei beni siano frutto di attività illecite o che siano incompatibili con lo stile di vita del soggetto allora autorizza a procedere. Qui vige un’altra unicità rispetto al processo penale. Quella patrimoniale è infatti una misura basata sul sospetto e non su elementi probatori. L’onere della prova è invertito: sta al titolare dei beni dimostrare la loro legittimità. Se fallisce, scatta il sequestro. E da qui in poi, come nel processo penale, i beni passeranno per tre gradi di giudizio. Solo con l’ultimo la confisca sarà considerata definitiva.
Al momento del sequestro viene nominato un amministratore giudiziario che ha il compito di custodire, conservare, amministrare e, quando possibile, incrementare la redditività del bene. Dopo la confisca di secondo grado il bene passa sotto la gestione della “Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (Anbsc)” la quale, a seguito della confisca di terzo grado, lo girerà al patrimonio dello Stato. È l’agenzia stessa a deliberare in merito alla destinazione del bene, il quale può rimanere nella disponibilità dello Stato, essere trasferito agli enti locali per utilizzo proprio o per essere assegnato in concessione a organizzazioni del terzo settore.
Spesso, però, l’intero procedimento parte con il piede sbagliato. Per evitare fughe di notizie «il provvedimento iniziale di sequestro ci viene notificato il giorno stesso della sua esecuzione senza alcuna preventiva condivisione o addirittura a distanza di molti giorni o anche di un mese», spiega D’Amore. Se la misura riguarda un numero non significativo di immobili o aziende non sussistono particolari problemi. «Ma spesso abbiamo a che fare con sequestri che riguardano centinaia di beni. Significa dover spalmare gli interventi dello staff dell’amministrazione giudiziaria su diversi giorni, se non settimane e peraltro sovente in diverse regioni d’Italia. E intanto le persone interessate hanno tutto il tempo per svuotare le aziende dei propri capitali», spiega D’Amore. Gli attivi delle società vengono incassati, le quote vendute, i patrimoni ceduti a prestanome, gli immobili svuotati o vandalizzati. E così l’effetto sorpresa evapora, pregiudicando il buon esito del sequestro. «Non abbiamo il dono dell’ubiquità ed immettersi contemporaneamente nel possesso di centinaia di beni non ci è possibile», continua D’Amore.
Così per taluni beni il già tortuoso percorso di confisca comincia con una pesante zavorra che si trascina per tutto l’iter gestionale. Si spiega così il dato secondo cui più della metà dei beni confiscati non sono ancora stati destinati al riutilizzo. «L’ottimale esecuzione del provvedimento è cruciale, soprattutto all’inizio, ma per farlo bisogna avere il tempo necessario per preparare l’immissione in possesso ed eseguirli contestualmente», continua D’Amore. La sua amministrazione giudiziaria più recente comprende numerose aziende e beni immobili, oltre a significative risorse finanziare sequestrate. «Bisogna consentire all’amministratore giudiziario una discovery anticipata del provvedimento di sequestro», conclude.
E così l’intoppo iniziale innesta una reazione a catena. Secondo la Corte dei conti, passano in media quasi 7 anni dal sequestro alla confisca definitiva. Un tempo che non solo «determina l’inevitabile aumento dei costi amministrativi» che gravano sullo Stato ma pregiudica anche la destinazione finale dei beni in quanto «hanno ormai subito una sensibile, se non completa, riduzione del valore originario», scrive l’organo di controllo. Una volta sancita la definitiva confisca, i beni passano in mano all’Anbsc, l’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. Ma anche qui i tempi si fanno biblici: trascorrono in media 470 giorni tra la confisca di terzo grado e la comunicazione all’Agenzia, con picchi di 5.400 giorni, vale a dire 15 anni.
A contribuire a questo cronico problema è la diversa natura dei sistemi informatici utilizzati dall’Anbsc, il Ministero della giustizia e la Banca dati centrale. Anagrafe dei beni, censimento degli stessi, procedure, atti giudiziari. Il 90-95% di questo flusso informativo tra i tre organismi avviene in formato cartaceo, gestito manualmente, con migliaia di documenti da scansire. Doveva porvi rimedio un sistema informatico univoco deliberato nel 2011 ma di cui, dieci anni più tardi, ancora non c’è traccia.
Un ritardo inspiegabile, che di fatto sancisce il fallimento di una delle ragioni stesse che hanno portato alla creazione nel 2010 dell’Agenzia nazionale: accelerare la destinazione dei beni. In quell’anno, una relazione parlamentare scriveva: «Se non compressi drasticamente i tempi intercorrenti tra l’iniziale sequestro e la definitiva destinazione dei beni, si rischia di provocare una crisi irreversibile nel sistema di contrasto alle mafie».
Società-zavorra
Spulciando i dati disponibili su OpenRegio appare evidente il destino assai diverso che attende immobili e aziende confiscate. Dei primi, quasi la metà è già stato destinato al riutilizzo. Delle seconde, ben più della metà è invece ancora in gestione all’Agenzia nazionale.
Di queste, secondo i dati di un anno fa, ne risultavano attive soltanto 481. Una tale disparità è figlia della natura stessa dei due beni. «Di gran parte delle società che ancora ha in gestione, l’Agenzia detiene solo quote minoritarie», precisa Ilaria Ramoni, avvocato e coadiutore dell’Anbsc. Di fatto significa un immobilismo obbligato, dove in qualità di socio di minoranza lo Stato non ha potere decisionale sull’azienda e questa resta latente per anni.
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«Il testo antimafia prevede la possibilità di vendere tali quote, ma chi si compra il 20-30% di una Srl che formalmente non fa più nulla? Tanto meno posso metterla in liquidazione autonomamente in quanto socio minoritario», aggiunge Ramoni. Secondo l’avvocato l’intralcio è un effetto del Codice antimafia, il quale non specifica che il sequestro né soprattutto la confisca debbano avvenire solo per i beni con un saldo attivo o per le società con quote di maggioranza.
Un destino simile attende anche quelle aziende di cui vengono sequestrate le quote di maggioranza ma che non hanno attivo patrimoniale.
Una soluzione, secondo Ramoni, arriva da Milano. «Il tribunale qui è un faro. Se vengono sequestrate quote di minoranza o se la società è di fatto vuota o in passivo, i magistrati ne richiedono il dissequestro dopo aver confiscato il patrimonio, qualora presente», precisa. Via, questa, percorribile solo se la società non è stata il mezzo per la commissione di reati. Per farlo è necessario motivare le ragioni dietro la richiesta, che consente così agli amministratori giudiziari di tenere in gestioni i soli beni di proprietà (conti correnti, macchinari, veicoli ecc.) e di liberarsi di quelli che intralciano il percorso verso la confisca e che non producono ricchezza. Si evita così un cortocircuito che interessa perlopiù le aziende ma che coinvolge anche gli immobili.
È il caso per esempio della villa di Rocco Papalia, tornato in libertà nel 2017 dopo 26 anni di carcere per omicidio, traffico di droga e sequestro di persona. L’immobile a lui intestato era stato confiscato al 50% e destinato a un progetto per l’accoglienza di minori stranieri. Uscito dal carcere, Papalia, tra i più importanti boss della ‘ndrangheta in Lombardia, ha fatto causa al comune di Buccinasco per rientrare in possesso della metà confiscata. Glielo consente l’articolo 46 del Codice antimafia che prevede la “restituzione per equivalente”. Per il piccolo comune alle porte di Milano, soprannominato “la Platì del Nord” per il forte radicamento di clan calabresi nel proprio territorio, si prospetta nella peggiore delle ipotesi la restituzione di una somma pari al valore confiscato oppure la restituzione. Questa norma «è una bomba a orologeria», commenta l’avvocato D’Amore, «perché rappresenta un forte disincentivo per gli enti locali a farsi carico di un bene confiscato».
Due pesi, due misure
Agente immobiliare, commercialista, consulente, giurista. Sono tante le professionalità che un amministratore giudiziario deve possedere per dare vita a quello che, ancora oggi, è considerato un approccio rivoluzionario nella lotta alla mafia: sottrarre i loro capitali e i lori beni per restituirli alla collettività. «In un certo senso, dobbiamo indorare la pillola», per rendere un bene confiscato quanto più appetibile a enti e istituzioni, spiega Ilaria Ramoni. A volte, però, le stesse istituzioni da risorsa diventano intralcio.
Di tutti i procedimenti di sequestro e confisca ne sono stati «annullati o revocati» più di un terzo (36,4%), secondo l’ultima relazione del Ministero della giustizia. Mentre solo il 4% risulta essere andato a buon fine, ossia destinato al riutilizzo
Guglielmo Muntoni è tra i massimi esperti di beni confiscati in Italia. Se ne occupa dal 1992 e oggi è presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Roma. In una puntata di Report dello scorso novembre denunciava una eccessiva scrupolosità da parte del corpo di Polizia municipale della Capitale verso gli esercizi seguiti dal tribunale. «Subiscono controlli continui, perfettamente legittimi ma talmente pignoli da sfiorare l’illegittimità», spiega a IrpiMedia. «Sicurezza sul lavoro, licenze, autorizzazioni, telecamere, occupazione di suolo pubblico, una volta persino la Siae dentro un centro di accoglienza per la presenza di un televisore, eseguono controlli talvolta senza neanche compilare i verbali». Una scrupolosità, dice, quasi sconosciuta alle attività concorrenti, che «non impedisce la prosecuzione delle nostre imprese ma rappresenta un grosso fastidio» e che riguarda tutti i tipi di attività ma in particolare quelle della ristorazione e degli stabilimenti balneari ad Ostia.
«A Roma gestiamo diverse società attive nel settore del gioco d’azzardo», racconta l’avvocato D’Amore a IrpiMedia, «e quando nel 2018 un’ordinanza della sindaca Virginia Raggi riduceva l’attività dalle 24 alle 8 ore giornaliere, noi l’abbiamo accolta nei nostri esercizi». Così non è stato, però, per i competitor nelle immediate vicinanze «che hanno continuato a fare i comodi loro senza alcun controllo», aggiunge l’avvocato, dando vita a un sistema anticoncorrenziale in cui «quelle da noi gestite non solo hanno sostenuto dei costi per legalizzare l’attività ma sono anche state bersagliate dai controlli, le altre no». Un cortocircuito che porta lo Stato a intralciare e penalizzare sé stesso.
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