Agricoltura biologica, i limiti delle certificazioni

21 Aprile 2023 | di Paolo Riva

L’agricoltura biologica vive un momento importante. «Sul settore c’è un’attenzione come mai prima», dice Francesco Giardina, direttore di Coldiretti Bio. A livello europeo, nel 2020 la Commissione Ue, all’interno della strategia Farm to Fork, ha proposto di raggiungere il 25% di terreni Ue coltivati a biologico entro il 2030. Nel nostro Paese, nel marzo 2022, dopo quindici anni di attesa, è stata approvata una legge per far crescere ulteriormente il settore.

Per il consumatore, ma anche per i distributori che comprano dalle aziende produttrici, “biologico” è ciò che è certificato come tale, e i prezzi più alti di questi prodotti sono giustificati dal bollino verde, concesso all’azienda da un ente terzo. L’Italia è storicamente uno dei produttori europei maggiori, con una forte vocazione all’esportazione. Ma il sistema di certificazione, come sostengono alcuni attori del settore e confermano operazioni recenti e processi in corso, non dà sufficienti garanzie.

A fine febbraio, la Procura di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) ha messo sotto indagine sette persone per associazione a delinquere finalizzata al falso ideologico e alla frode aggravata in commercio. Per gli inquirenti, riporta l’Ansa, gli indagati avrebbero commercializzato per anni, tra il 2016 e il 2022, ingenti quantità di prodotti falsamente dichiarati come biologici, come mandorle e pomodori.

«Quello che abbiamo visto scoperto dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere per noi non è una sorpresa», commenta Paolo Carnemolla, agronomo, da decenni attivo nel settore e oggi segretario generale di Federbio. A suo giudizio, sono anni che si ripete «lo stesso schema di frode, che è già stato oggetto di altre indagini e inchieste». Una di queste è quella che ha portato a un processo che si sta tenendo al Tribunale di Ragusa e per il quale, ad inizio aprile, c’è stato il rinvio a giudizio.

Truffe certificate

Gli imputati sono i titolari e i rappresentanti legali di nove aziende agricole della provincia di Ragusa che, secondo il pubblico ministero, sarebbero responsabili di «delitti di frode in commercio, falsi e truffe aggravate per il conseguimento di contributi, finanziamenti ed erogazioni pubbliche elargiti dall’Agea (Agenzia per le erogazioni in agricoltura, ndr)», «in danno di acquirenti e di consumatori di prodotti biologici, avvalendosi di documentazione, fatture, etichettatura e rapporti di prova di analisi chimiche in cui venivano rappresentati fatti non rispondenti al vero».

I fatti risalgono al periodo 2015-2017 quando, secondo l’accusa, gli imputati «attraverso un collaudato sistema di compravendite» da aziende terze «consegnavano agli acquirenti di società italiane ed estere» prodotti agricoli «per origine, provenienza e qualità diverse da quelle dichiarate o pattuite, perché in origine provenienti da terreni coltivati con “metodo convenzionale”». Carote, patate, pomodori, zucchine convenzionali sarebbero stati venduti come biologici a distributori e catene di supermercati specializzati in Italia, Francia e Germania. E le aziende che facevano questa operazione avrebbero preso ingiustamente anche i contributi della Politica agricola comune Ue per il bio, per un profitto totale che gli inquirenti hanno calcolato essere vicino al milione di euro.

Tutto ciò di cui le aziende agricole siciliane sono accusate sarebbe avvenuto nonostante fossero «in possesso di certificazione biologica ed accreditati dagli organismi di controllo Bioagricert srl, QCertificazioni srl e Suolo e Salute srl, così come previsto dalla normativa nazionale ed europea vigente», scrive ancora il pubblico ministero.

Va precisato che, nel processo, gli organismi di controllo sono persone offese.

Il quadro descritto dai magistrati, però, porta a domandarsi come sarebbe stato possibile per gli accusati eludere, per anni, l’attività di questi enti. IrpiMedia lo ha chiesto ai tre organismi di controllo coinvolti, ricevendo un riscontro solo da Bioagricert. L’azienda ha spiegato che «tutti gli organismi di controllo e certificazione, qualora riscontrino delle non conformità (anche quelle minori) sono tenuti a segnalarle all’autorità pubblica, tramite un sistema denominato Banca dati vigilanza del ministero dell’Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste, utilizzato anche per supportare le attività di indagine». Se questo sia avvenuto anche per le aziende del ragusano non ci è stato precisato, perché Bioagricert preferisce «non entrare nel merito specifico perché il processo è ancora in corso»

Un sistema complesso, che non dà fiducia

Procedimenti giudiziari come quello di Ragusa alimentano il dibattito sull’efficacia del sistema di certificazione. Secondo il presidente dell’Associazione italiana agricoltura biologica (Aiab), Giuseppe Romano, «il sistema è stracontrollato a più livelli e funziona». «Le frodi sono limitate, ma molto rumorose», aggiunge facendo riferimento al processo Vertical bio, un altro importante processo per frodi biologiche che si è concluso lo scorso dicembre con tutti gli imputati assolti.

La posizione di Romano sembra molto distante da quella di Carnemolla. Lo conferma anche un comunicato dell’associazione, che nel procedimento di Ragusa si è costituita parte civile e che ha denunciato il rischio della prescrizione. «Il fatto che una truffa di tali proporzioni sia stata scoperta – vi si legge – significa che il sistema di controllo ha funzionato e funziona e che i cittadini possono fidarsi». Un’affermazione di questo tipo sembrerebbe indicare che l’indagine sia partita grazie agli enti certificatori, mentre, come in altre circostanze, sarebbe nata da una segnalazione proveniente dall’estero.

Eppure, in questo come in altri casi, la truffa è stata scoperta quando i prodotti erano già stati messi sul mercato, danneggiando i consumatori, ma anche gli operatori biologici onesti in termini di reputazione.

«Le frodi sono un problema enorme, perché rischiano di minare molto profondamente la fiducia delle persone», ragiona Simona Limentani, fondatrice di Zolle, un’impresa che a Roma consegna alimenti bio o a filiera corta. «Il biologico non ha trovato un sistema in cui la certificazione potesse ricreare questo rapporto di fiducia su basi solide», afferma.

Ma come funziona esattamente questo sistema? La cornice è data dall’Unione Europea.

La produzione biologica, l’etichettatura e i controlli sono regolamentati a livello europeo dal 1991 e, in particolare, dal nuovo regolamento biologico (Ue) 2018/848, entrato in vigore lo scorso anno. Per farlo rispettare, ogni stato membro nomina un’autorità competente, che per l’Italia è il ministero dell’Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste. Quest’ultimo autorizza gli organismi di controllo, che possono effettuare i controlli e rilasciare la certificazione delle produzioni biologiche. La loro competenza, indipendenza e imparzialità è attestata da Accredia, che è l’ente nazionale di accreditamento.

Infine, vi sono gli operatori del settore biologico – produttori, trasformatori e distributori – che pagano gli organismi di controllo per ottenere la certificazione e poter così operare nel settore.

«Si parte da un costo minimo di qualche centinaio di euro, per le aziende agricole piccole e marginali, fino ad alcune migliaia di euro per le aziende molto ampie con colture complesse (come ad esempio, frutta e ortaggi) o che svolgono anche attività di preparazione» ha spiegato Bioagricert, rispondendo a una delle nostre domande. Il costo annuale della certificazione e del relativo controllo per averla varia in relazione alla tipologia di operatore, alle dimensioni aziendali e al livello di rischio dell’operatore.

Seguendo le indicazioni stilate da Accredia, infatti, gli organismi di controllo svolgono per ciascun operatore da accreditare una valutazione del rischio che determina il numero di controlli annuali da effettuare:

  • attività a basso rischio: un controllo ufficiale ordinario;
  • attività a medio rischio: un controllo ufficiale ordinario ed un controllo ufficiale aggiuntivo preferibilmente senza preavviso all’anno;
  • attività ad alto rischio: un controllo ufficiale ordinario e due controlli ufficiali aggiuntivi (di cui uno senza preavviso).

Registri ufficiali e registri di campagna

Nel caso di Ragusa è verosimile pensare che le imprese coinvolte fossero considerate a medio o alto rischio, soprattutto perché producevano e commerciavano prodotti ortofrutticoli, che portano punteggi più alti in questo tipo di valutazioni. Qualora le accuse fossero confermate, però, nemmeno un maggior numero di controlli sarebbe riuscito a impedire la truffa.

Infatti, non solo parte dei prodotti non rispettosi delle prescrizioni del biologico sarebbe stata acquistata da aziende terze ma, dalle carte del processo, emerge anche che gli imputati avrebbero fatto eseguire a un analista di laboratorio loro complice (e anch’egli imputato) «campionamenti ed analisi chimiche aventi ad oggetto i prodotti ortofrutticoli biologici delle aziende coinvolte anche alterando i rapporti di prova». O che, scrive ancora il Pm, le aziende coinvolte avrebbero gestito «un “Registro di Campagna” a fogli mobili, parallelo a quello ufficiale, distinto per concimazioni e trattamenti, dove venivano annotate le operazioni colturali e riportati i trattamenti fitosanitari e le concimazioni, relativamente ad appezzamento, data e coltura, eseguiti anche con prodotti non ammessi in agricoltura biologica».

E il tutto sarebbe proseguito fino all’arrivo, nel novembre 2017, degli agenti della Guardia di finanza e dell’Ispettorato centrale tutela qualità e repressione frodi dei prodotti agroalimentari (Icqrf).

Per approfondire

Le lobby agroalimentari contro la Farm to Fork

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Proprio Icqrf pubblica annualmente un rapporto sulle attività svolte nel settore bio. Nel 2021 (ultimo dato disponibile), ha effettuato 6.097 controlli, sottoponendo a verifica 3.355 operatori e 5.040 prodotti. Gli operatori irregolari sono risultati il 12% circa, mentre i prodotti irregolari il 9% del totale. Le percentuali sono molto inferiori a quelle che Icqrf registra in altri ambiti, come le produzioni Dop/Igp/Stg, ma molto più elevate rispetto al passato: nel 2011, erano rispettivamente poco più del 5% e quasi il 4% per i prodotti. Sono dieci anni in cui il biologico ha vissuto una grande crescita: sono aumentati gli operatori, le superfici coltivate e anche le percentuali di irregolarità.

Per Giardina di Coldiretti, negli ultimi anni, il comparto del bio ha avuto «un’enorme evoluzione», ma «il sistema di certificazione non si è evoluto in maniera adeguata». «La certificazione è necessaria ma dovrebbe evolvere», gli fa eco Massimiliano Solano, presidente della cooperativa agricola Valdibella, che produce biologico in provincia di Palermo dal 1998. «Serve una riforma strutturale, senza più il rapporto tra organismo di controllo e produttore. Un agricoltore da solo non commette la truffa», prosegue.

Secondo Carnemolla di Federbio, il sistema di certificazione del biologico in Italia è «iperburocratizzato e poco efficace: in questo momento produce carta ma non sufficiente affidabilità». «Paradossalmente – prosegue – gli organismi di controllo che lavorano meglio, quindi fanno più pressione sulle aziende e si fanno pagare necessariamente di più, vengono penalizzati da un sistema come quello attuale».

Chi me lo fa fare?

Gli organismi di controllo autorizzati per le produzioni biologiche in Italia sono 19. L’ultimo arrivato ha ottenuto l’ok dal ministero dell’Agricoltura lo scorso febbraio, mentre il precedente a ottobre 2022.

Secondo diversi osservatori del settore, l’elevato e crescente numero di questi enti ha generato alcune conseguenze negative. La maggiore concorrenza, per esempio, potrebbe aver influito sui prezzi delle certificazioni e anche sulla qualità dei controlli, come lascia intendere Carnemolla. Inoltre, una così ampia scelta potrebbe favorire le aziende meno corrette, che potrebbero cambiare più spesso l’ente a cui rivolgersi, anche se va registrato che la nuova normativa pone dei limiti a queste furbizie.

La domanda però rimane: gli organismi di controllo sono troppi?
Sicuramente tutti quelli esistenti soddisfano i requisiti richiesti da Accredia, come prevede la normativa. Ma il dubbio resta, sia per i meccanismi appena evidenziati, sia perché nel resto d’Europa ci si muove in modo diverso.

La Francia, che ha percentualmente meno superfici bio dell’Italia ma una crescita più forte, ha autorizzato 10 organismi di controllo. La Spagna, che gestisce questi enti a livello regionale, conta nove organismi in Andalucia, cinque in Aragona e ancora nove sia in Castiglia Leon sia in Castiglia-La Mancia. In altre regioni come la Catalogna e la Galizia, invece, il modello è totalmente differente e l’organismo di controllo è unico e pubblico.

Non accade solo in Spagna: la Dg Agri della Commissione Ue spiega che ci sono enti pubblici di questo tipo anche in Finlandia, Danimarca, Estonia e Paesi Bassi (anche se si tratta di un ente pubblico/privato). Potrebbe essere una soluzione anche per l’Italia. Dagli addetti ai lavori però arrivano richieste e proposte di altro tipo. Come portare il costo della certificazione bio a credito d’imposta. O come creare una banca dati delle transazioni, unica e pubblica.

Sia Federbio sia Aiab sostengono l’idea, che consentirebbe di contrastare più efficacemente frodi come quella di Ragusa. «La chiediamo da anni, è urgente», si scalda Romano. Lo strumento digitale monitorerebbe quanti quintali produce un’azienda, quanti ne vende e quanti, eventualmente, risultano di provenienza sospetta, perché in eccesso rispetto alla produzione dichiarata. «Serve una piattaforma che consenta lo scambio di dati e informazioni in tempo reale», aggiunge Carnemolla. Oggi manca e, a suo giudizio, questo consente «a chi vuole frodare, di costruire quantità di prodotto biologico che sono solo sulla carta».

La speranza delle organizzazioni del settore è che la questione controlli e certificazioni venga affrontata nell’ambito del Piano d’azione nazionale per il biologico, attualmente in discussione al ministero dell’Agricoltura. Se e come ciò verrà fatto, però, rimane ancora tutto da capire. Alla fine, il Governo, come già avvenuto in passato, potrebbe anche decidere di non farlo.

L’immobilismo però porterebbe con sé conseguenze negative. In una fase di potenziale crescita, potendo contare su contributi Ue dedicati e su prezzi che, per ora, sono ancora superiori a quelli del convenzionale, il biologico potrebbe far sempre più gola ad aziende poco trasparenti, e non porre un limite al loro ingresso inciderebbe negativamente sulla reputazione del comparto, molto votato alle esportazioni.

«I rischi – ammette Giardina – sono elevati e ne siamo consapevoli. Il momento è particolare». Così particolare che c’è anche chi alla certificazione bio rinuncia. O la abbandona proprio.

«Ci sono aziende piccole, ma anche medie che mollano la certificazione», dice Romano di Aiab. Accade in Veneto, per esempio. «Ci sono tanti produttori che lavorano bene in modo sostenibile e non sono certificati. Tentano, si approcciano, vengono da noi a formarsi, ma poi alla fine non si certificano», racconta Stefano Bianchi, di Aiab Veneto. «Altri, invece, escono dal sistema di controllo perché hanno consumatori locali che si fidano dell’azienda da decenni e che vanno direttamente in azienda, loro stessi, a controllare», prosegue. Bianchi spiega che sono aziende che vendono al loro spaccio o nei mercati contadini e, dopo anni di certificazione, si chiedono: «Perchè spendere soldi e impiegare tempo con la burocrazia? Se tanto i miei clienti comprano lo stesso, chi me lo fa fare?».

Foto: Una serra in Veneto per la coltivazione biologica di fragole – REDA&CO/Getty
Editing: Giulio Rubino
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