Arrestato Fuminho, re della logistica per il narcotraffico brasiliano

16 aprile 2020 | di Cecilia Anesi

Èstato arrestato lunedì 13 aprile a Maputo, capitale del Mozambico, e dopo 21 anni di latitanza Gilberto Aparecido dos Santos alias Fuminho. Dos Santos è uno dei più pericolosi narcotrafficanti del cartello Primeiro Comando da Capital (PCC), l’organizzazione criminale più potente del Brasile.

«Era il più importante fornitore di cocaina di una fazione operante in tutto il Brasile, e responsabile dell’invio di tonnellate di cocaina in diversi paesi del mondo», ha dichiarato la polizia federale che ha posto fine alla sua fuga.

Un terremoto per il PCC, per gli equilibri del crimine organizzato in Brasile e per le sorti del narcotraffico di mezzo mondo. Fuminho non era solo un esperto criminale, al vertice della catena di comando, era l’uomo chiave per la logistica, la mente delle rotte, la mano destra del capo dei capi Marco Willians Herbas Camacho alias Marcola – incarcerato a San Paolo.

L’arresto di Gilberto Aparecido dos Santos – Foto: archivio UOLScorri le immagini

Latitante dal 1999, il quarantanovenne Fuminho era riuscito per anni a sfuggire alla cattura muovendosi tra Bolivia, Paraguay, Brasile. Era conosciuto come il “re dei confini”, che sfruttava sia per fare passare la droga sia per evitare le forze dell’ordine che lo braccavano.

Maestro del telelavoro, riusciva a gestire le relazioni internazionali del PCC e i suoi membri in esilio. Il principale distaccamento del PCC è infatti a Pedro Juan Caballero, una città del Paraguay a cavallo della frontiera con il Brasile e ormai soffocata dai narcos, dove Fuminho aveva organizzato la fuga di 75 membri del cartello.

Ma la triple frontera (l’area di confine tra Paraguay, Argentina e Brasile) non bastava più ad un uomo dalle grandi mire. Negli ultimi tempi infatti si era spinto fino al continente africano.

Come scritto da Luis Adorno di UOL Brasil, la polizia federale brasiliana che gli dava la caccia assieme alla Dea (l’antidroga americana) sapeva che Fuminho gestiva per il PCC una parte del traffico locale di droga e armi in Mozambico, in associazione con organizzazioni criminali locali. Aveva scelto l’ex colonia portoghese per la lingua, una base perfetta da cui – hanno scoperto gli inquirenti – il narcos pianificava di controllare il narcotraffico in tutto il Sud dell’Africa.

Per approfondire

I broker della cocaina

El viejo è un ex logista della cocaina. Era lui a fare in modo che tonnellate di polvere bianca in partenza dal Sud America raggiungessero l’Europa. Fino alla condanna a 17 anni di carcere

Ma c’è un dettaglio che suggerisce piani di espansione ancora maggiori. Arrestati assieme a lui in un hotel di lusso a Maputo, due nigeriani, a suggerire un accordo in corso per sfruttare anche la costa nord-ovest dell’Africa, in paesi come Guinea Bissau, Costa d’Avorio, Senegal. Questi sono da decenni paesi strategici per il “rimbalzo” della droga verso l’Europa: una rotta consolidata, che ha già visto la collaborazione tra mafie brasiliane, africane ed europee. Specialmente italiane.

Dall’evasione dal carcere nel 1999, Fuminho ha girato il mondo come uno dei principali narcotrafficanti del pianeta e gli inquirenti brasiliani avevano già raccolto dati sulla sua presenza in Africa nel 2019. Tra il 2016 e il 2017 entrava spesso in Brasile dalla Bolivia per negoziare personalmente con emissari della ‘ndrangheta, come Irpi e UOL hanno scritto in un’inchiesta l’anno scorso.

A determinare la caduta di Fuminho, l’arresto di un suo collaboratore di fiducia a settembre scorso. Si tratta di André de Oliveira Macedo, alias André do Rap, che era il ponte diretto tra Fuminho e la mafia italiana nella regione della Baixada Santista.

André do Rap si occupava della logistica dell’invio dei container con la cocaina dal porto di Santos, e lavorava di concerto agli ‘ndranghetisti presenti sul territorio, come Nicola e Patrick Assisi arrestati proprio a Santos a luglio 2019 dopo una lunga latitanza.

Secondo quanto riportato da UOL, la caduta di André do Rap ha stretto il cerchio attorno a Fuminho. A nulla sono serviti i 15 telefoni cellulari e i tre passaporti che aveva con sé al momento dell’arresto. A tradirlo, una ferita al piede e la necessità di farsi curare. Tornato dalla clinica, è stato circondato dalla polizia e non ha potuto fare altro che arrendersi.

Per approfondire, qui la serie documentaria sul PCC di UOL (in lingua portoghese).

Foto: Gilberto Aparecido dos Santos – UOL

Storia di Nicola Assisi, il narcos calabrese che riempie l’Italia di coca

Storia di Nicola Assisi, il narcos calabrese che riempie l’Italia di coca

Cecilia Anesi
Giulio Rubino

Nel cuore della notte, fra le alte mura di ferro dei container del porto di Gioia Tauro, Rosario Grasso comincia a sentirsi in trappola. Qualcuno lo sta fregando, ne è certo. Mentre i suoi stessi uomini gli giurano impauriti di essere innocenti, lui stringe nervosamente il cellulare. Dall’altra parte, su una linea che crede sicura, c’è il suo contatto in Brasile. «Che cazzo mi fate fare, vedi che ho la persona legata qua per terra», digita rapido sulla tastiera del suo telefonino dopo avere identificato un possibile colpevole.

Grasso è un picciotto della ’ndrangheta, mandato a recuperare 197 chili di cocaina purissima nascosti in un container tra alcuni sacchi bianchi. Nel container però del grosso carico di droga non c’e neppure l’ombra. Come spiegare ai suoi capi che ha perso un carico che frutterebbe almeno venti milioni di euro al dettaglio? È stato qualcuno dei suoi a tradirlo? O peggio ancora, sono i venditori brasiliani che stanno giocando sporco e l’hanno portato ad un passo dal punire i suoi stessi uomini per uno sgarro che non hanno commesso?

Fino all’apertura del container era andato tutto liscio: un ufficiale corrotto del porto, che gli ’ndranghetisti chiamano con il nome in codice “il porco”, gli aveva garantito un accesso sicuro al container “msc u356 5753”. Lo stesso numero che i narcos brasiliani avevano consegnato all’intermediario della spedizione, scolpito su una tavoletta di legno.

Il container individuato al porto di Gioia Tauro è quello giusto, non ci possono essere errori. Della coca non c’è traccia. In Brasile a ricevere i messaggi di Grasso c’è Patrick Assisi, primogenito del broker Nicola Assisi. Il suo telefono squilla senza sosta. «Digli che quello arrabbiato sono io non loro», scrive in un messaggio Grasso, e poi aggiunge: «Pensavo che mi stavano imbrogliando e ne ho legato uno e piangeva come un bambino, un padre di famiglia…».

Di solito la cocaina è posizionata all’apertura del container, affinché il rip-off possa essere rapido e indolore. Invece nelle foto che Grasso invia agli Assisi si vedono solo sacchi bianchi. Il container ne è pieno. Grasso ordina ai suoi di aprirli tutti, ma della cocaina «non c’è nemmeno la puzza».

Per proteggersi dalle operazioni di polizia i boss della ’ndrangheta hanno fatto in modo di tenere la struttura dei trafficanti il più possibile separata dalla gerarchia interna ai clan. Invece di mettere a rischio i propri uomini più preziosi, i clan calabresi contano su dozzine di broker ai quattro angoli del globo. Sono specialisti del narcotraffico poliglotti, colletti bianchi, pronti a entrare senza timore nella giungla Amazzonica controllata dai paramilitari colombiani, o a scalare le alture delle Ande pur di stringere la mano direttamente ai produttori e assicurarsi i prezzi migliori.

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L’ultima foto disponibile di Nicola Assisi

Dopo gli arresti dei piu famosi mediatori della cocaina Natale Scali, Roberto Pannunzi e Marco Rollero Torello, resta ancora libero Nicola Assisi, calabrese classe ‘58 emigrato a Torino negli anni Ottanta, ancora latitante. Riesce a sfuggire alle maglie della giustizia da oltre vent’anni. Assisi è stato il delfino di Pasquale Marando, originario di Platì, che per vent’anni ha gestito i traffici internazionali di cocaina fino a quando nel 2002 è stato eliminato con il metodo della lupara bianca.

Adesso, grazie ad una indagine giornalistica, è possibile ricostruire gli ultimi movimenti di Nicola Assisi tra Portogallo e Sudamerica, le “cartiere” brasiliane e gli accordi che ha fatto con i narcos locali.

Quando ha iniziato a trattare la coca, Nicola Assisi per i narcos era solo un soprannome, “il nipote”. Nella primavera del 1997 per la polizia italiana il giovane narcotrafficante non ha ancora un nome e nemmeno un volto. In quei mesi la Direzione investigativa antimafia di Torino era a caccia di broker calabresi in Costa del Sol, nel sud della Spagna, che inviavano cocaina sotto la Mole e a Rotterdam.

«All’epoca chiaramente usavano le cabine telefoniche, non i cellulari», ricorda Gianni Abbate, ex investigatore della Dia che ha indagato in passato su Assisi. «Eravamo riusciti ad individuare due cabine a Torino, che i trafficanti usavano spesso, e le abbiamo messe sotto controllo», aggiunge Abbate. All’alba del 16 maggio 1997 la Dia inizia a pedinare un uomo che proprio da una di quelle cabine aveva ricevuto l’ordine di assistere “il nipote” in una missione. Seguendolo gli agenti finiscono nelle campagne a nord di Torino, dove scoprono il volto di Assisi. Il calabrese e un suo complice hanno il compito di attendere un camion con un carico di droga per guidarlo ad un magazzino sicuro. Gli agenti danno ai trafficanti il tempo di scaricare, poi intervengono e li bloccano con 200 chili di cocaina: è il più grosso sequestro effettuato fino ad allora.

Quando Assisi vede gli investigatori tenta di fuggire. «Cercò di rubare una delle volanti dando un pugno ad un collega», racconta Abbate, «ci sono voluti tutti gli altri agenti per fermarlo».

Diciassette anni dopo, mentre Rosario Grasso e i fornitori brasiliani litigano a distanza per mezzo di Patrick, Nicola Assisi ha ormai l’esperienza e l’autorità per gestire quello che potrebbe diventare per i narcotrafficanti un grave “incidente diplomatico” fra i fornitori brasiliani e i compratori calabresi. Nessuno, infatti, aveva tradito nessun’altro. La coca era stata sequestrata a Valencia ma in accordo con gli investigatori italiani il container era stato nuovamente sigillato e lasciato proseguire. Nicola Assisi intuisce la trappola e fornisce al gruppo nuovi telefoni mentre Patrick organizza una nuova piccola spedizione “di prova”. La Guardia di finanza non si lascia ingannare e il “canarino” passa indisturbato. E il clan mangia la foglia.

La svolta nella carriera di Assisi arriva nel 2002, quando viene assassinato il suo mentore, Pasquale Marando, il primo a fare accordi direttamente con i cartelli colombiani in Sudamerica, aumentando i margini di profitto.

Il vuoto lasciato dal broker è un’opportunità per Assisi, che diventa l’unico in grado di portare avanti il traffico allo stesso livello. Eredita come alleati e compratori le famiglie di Platì a Torino, i Perre e gli Agresta, e un metodo di lavoro che lo porta con successo in America Latina. Il 6 novembre 2007 per lui arriva la prima sentenza definitiva con il bollo della Cassazione. I giudici lo condannano a 14 anni per droga. «Esattamente dieci giorni prima della sentenza, Assisi lascia l’Italia. Prima scappa in Spagna e poi in Sudamerica», spiega a l’Espresso l’ex agente Dia, Gianni Abbate, che gli ha dato la caccia.

Da allora Assisi si muove nell’ombra. Per altri sei anni nessuno sente nemmeno parlare di lui, ma vari indizi fanno pensare che abbia passato lunghi periodi in Brasile a stringere accordi con i fornitori. È la qualità dei contatti con i cartelli che producono la coca il vero valore di un broker.

Secondo Nicola Gratteri, procuratore a Catanzaro e autore di Oro Bianco, «i più abili riescono a strappare prezzi bassissimi, anche 1.200 euro al chilo». Lo stesso chilo, venduto ai clan dopo il trasporto in Italia, vale già 30 mila euro. «Almeno il 66 per cento del bilancio della ’ndrangheta è costituito dal business della cocaina, circa 44 miliardi di euro l’anno», conclude Gratteri.

All’inizio del 2013 il nome di Assisi ricompare sui radar degli inquirenti. È il 20 gennaio e a Torino c’è un freddo da tagliare il respiro, specialmente a un uomo ormai abituato al sole del Brasile. Sotto la Mole compare Patrick Assisi, è in missione per conto di suo padre.

Il rampollo entra in un ristorante del centro e prende posto ad un tavolo dove siedono intermediari della ’ndrangheta reggina che gli chiedono di importare per loro cocaina dal Brasile. I compratori saranno gli Alvaro e tramite loro gli Aquino-Coluccio di Gioiosa Ionica. Dal pranzo usciranno tutti soddisfatti, ma non sanno di essere intercettati. Per gli investigatori delle Fiamme gialle mentre Nicola Assisi è latitante, sono i figli a condurre gli “affari” in Italia.

Dopo l’incontro i finanzieri scoprono il lusso in cui vive la famiglia Assisi, ufficialmente senza reddito per il fisco, tra Bmw, voli intercontinentali e l’affitto estivo di una villa a Lisbona che gli costa diecimila euro al mese.

Gli inquirenti credono che gli Assisi siano in contatto con il gruppo criminale più pericoloso del Brasile, il Premier comando capital (Pcc), oltre che con i cartelli colombiani attivi in Perù con cui organizzano grosse spedizioni verso la Calabria.

Il Pcc condivide con i colombiani e i messicani il controllo del cosidetto “Cono Sur”, la parte più meridionale dell’America Latina anche detta “Narcosur” per la crescente importanza che riveste per il traffico di droga.
Il Paraguay in particolare sta diventando un Paese chiave per il transito dei carichi di droga destinati all’Europa. Qui piccoli gruppi criminali a conduzione familiare, ma affiliati al Pcc, organizzano le spedizioni. Assisi nell’estate del 2014 si trova proprio qui per nuovi accordi. «Sono in Paraguay, per i telefoni e per lavoro», dice a un suo collaboratore calabrese, e poi aggiunge: «Vedete che sto preparando altro…».

Nicola Assisi nel Narcosur fa affari lasciando pochissime tracce. Per tracciare le spedizioni i suoi fornitori brasiliani gli consegnano a mano un pezzo di legno dove è inciso il numero del container con la coca, numero che Assisi comunica poi con messaggistica criptata ai calabresi che devono recuperare il carico. Per rompere il cerchio del narcotraffico, buona parte del lavoro degli inquirenti è focalizzata sul riuscire a “craccare” il loro sistema di comunicazione. Il bisogno di passarsi informazioni a distanza resta il punto debole di ogni trafficante e con gli Assisi i risultati cominciano ad arrivare nella primavera 2014. La Guardia di finanza è infatti riuscita a intercettare e decriptare le chat Blackberry usate dal gruppo. È cosi che hanno scoperto come gli Assisi inviassero grandissimi quantitativi di cocaina ogni mese in Italia.

Da quel momento è scattata l’operazione Pinocchio. Di quasi mille chili di cocaina spediti da Assisi in soli quattro mesi, oltre quattrocento sono finiti nel capitolo delle prove a suo carico. Il 27 agosto 2014 Assisi finisce in manette di nuovo. Atterrava a Lisbona dal Brasile, con un passaporto argentino a nome Javier Varela, e la polizia portoghese lo blocca.

Mentre le autorità italiane si affrettano a ottenere l’approvazione per l’estradizione, il legale portoghese di Assisi racconta al giudice che non sussiste il pericolo di fuga perché «la sua intera vita sociale è a Lisbona», e il narcotrafficante viene liberato dal braccialetto elettronico che ne controllava i movimenti. Poco dopo, naturalmente, scompare nel nulla.
Colpito dalle ultime sventure, Patrick fornisce ai sodali telefoni Sony con chat Android ancora impossibili da intercettare. E così con Nicola di nuovo un fantasma, la famiglia può riprendere le attività.

Rosario Grasso, l’uomo della ’ndrangheta al porto di Gioia Tauro, è oggi in carcere in attesa di processo. “Il porco”, l’ufficiale corrotto, non ha ancora un nome per gli investigatori. E un volto certo non lo ha neppure Nicola Assisi, che non è nuovo a operazioni di plastica facciale. Quel che è certo è che il narcotrafficante e la sua famiglia restano forti in Sud America, lasciando poche flebili tracce.

La più recente è stata scovata in Brasile. Ad agosto di un anno fa Patrick ha registrato presso uno studio legale di Ferraz de Vasconcelos, una zona povera e degradata di San Paolo, una piccola azienda. Si chiama Poli Pat 9 e come attività ufficiale commercia cartoleria e prodotti sanitari e informatici e infine offre trasporto su gomma. Quattro business completamente diversi in un’azienda sola. Abbiamo chiesto agli Assisi di spiegare lo scopo dell’azienda e di commentare sulla loro latitanza, ma hanno preferito non rispondere, lasciandoci con il dubbio che Poli Pat 9 serva ad altro. Perche Ferraz de Vasconcelos è tristemente nota quale centro di riciclaggio di denaro sporco sia per i politici corrotti che per i narcotrafficanti del Pcc.

CREDITI

Autori

Cecilia Anesi
Giulio Rubino

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Foto di copertina

Getty

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