La passione del calcio italiano per Olanda, Lussemburgo e Delaware

30 Aprile 2021 | di Lorenzo Bodrero

La mappa delle proprietà delle società calcistiche italiane porta sempre più spesso nei paradisi fiscali. Non importa se i club militano in serie A o in serie C, la tendenza è diffusa ovunque. La Juventus sta di casa in Olanda, centro nevralgico da cui i proprietari – la famiglia Agnelli-Elkann – gestisce buona parte dei propri affari. In Lussemburgo si trovano invece le società che controllano Milan, Inter e Udinese. Un pezzo del Milan è anche in Delaware, in un edificio condiviso con Fiorentina, Roma e Venezia. Sempre nel principale paradiso fiscale degli Stati Uniti, questa volta però via Lussemburgo, si arriva anche a scovare la società proprietaria del Bologna. Come tutte le principali multinazionali, anche le squadre di calcio hanno cercato di trovare condizioni fiscali più favorevoli offshore.

Tra le residenze più ambite per la propria società-madre c’è il Lussemburgo, cuore finanziario dell’Europa a partire almeno dal crollo della Borsa di New York del 1929 e già al centro di un’ampia inchiesta di IrpiMedia, OpenLux. Nell’arco di un secolo, il Granducato è diventato il luogo ideale dove registrare società e istituti di credito. Ad oggi, il 94% delle banche registrate in Lussemburgo ha la propria sede principale all’estero mentre i fondi d’investimento di base nel Granducato gestiscono un patrimonio netto di 4.500 miliardi di euro, secondo solo a quelli dei fondi statunitensi. La prassi più comune, per il piccolo stato nel cuore dell’Europa, è di registrare qui società che detengono quote di altre società – le cosiddette holding – le quali di fatto non generano né profitti né utili.

Oltreoceano, c’è invece il Delaware, il paradiso per le Limited Liability Company, le società a responsabilità limitata degli Stati Uniti. Non richiede un capitale da versare in fase di registrazione, non esiste un registro pubblico delle cariche sociali, le tasse sulle società sono a zero, inesistenti gli obblighi contabili, consente l’occultamento dei titolari effettivi e mette al riparo beni e proprietari da eventuali responsabilità penali e amministrative. Ma soprattutto prevede una tassazione agevolata dei profitti generati al di fuori degli Stati Uniti.

Inter

A tirare le fila delle sorti nerazzurre ci sono società registrate in tre Paesi che compaiono nei primi sei posti del Financial Secrecy Index 2020, la classifica stilata dal centro Tax Justice Network che dal 2009 misura il grado di trasparenza di centinaia di giurisdizioni. Il 68,5% dell’Fc Internazionale Milano Spa è infatti in mano alla lussemburghese Great Horizon, a sua volta controllata dalla casa madre Suning Sports International Limited di base a Hong Kong. I due Paesi si classificano rispettivamente al sesto e al quarto posto nel Financial Secrecy Index. Un altro 31,1% è invece detenuto dal fondo di private equity Lionrock Zuqiu Limited delle Isole Cayman attraverso l’italiana International Sports Capital Spa. Le Cayman rappresentano forse il più noto paradiso fiscale al mondo, famoso – tra le altre cose – per non avere imposte sulle società né sui redditi generati al di fuori del suo territorio.

Cos’è il Financial Secrecy Index

L’indice di segretezza finanziaria è una classifica che misura il grado di opacità delle singole giurisdizioni e la loro attrattività per capitali occulti. È elaborato ogni due anni dal Tax Justice Network, think tank sulla finanza illecita di base a Londra, e la prima edizione risale al 2009 con l’analisi di 60 giurisdizioni. L’ultima, del 2020 e che è ripresa all’interno di questo articolo, ne ha analizzate 133.

L’indice è il risultato di due variabili: la prima calcola il grado di trasparenza delle politiche finanziarie del singolo Paese con un punteggio da 0 a 100, dove zero rappresenta la totale trasparenza e cento la massima segretezza; il secondo misura invece il volume di transazioni finanziarie all’interno di quel Paese fatte da non residenti. La combinazione dei due valori costituisce l’indice: più alto è l’indice di un Paese e più questo contribuisce all’occultamento di capitali, al riciclaggio di denaro, all’evasione fiscale, a operazioni bancarie segrete e all’anonimato di società e proprietà mobili e immobili.

Uno dei vantaggi del piccolo arcipelago caraibico è la tassazione nulla sui profitti, dettaglio particolarmente allettante nella compravendita di società. In Italia, ad esempio, se si acquista un’attività per 1.000 euro e la si rivende poi a 1.500 euro, si pagano le tasse sui 500 euro di profitto. Se però la proprietà dell’attività è intestata a una società registrata alle Cayman e invece di vendere l’attività italiana si vende la società nel paradiso fiscale allora quei 500 euro di profitti saranno netti.

Udinese

Sempre in Lussemburgo porta la catena societaria che controlla l’Udinese, club di proprietà della famiglia Pozzo. Per capire l’organigramma della società friulana, e delle altre registrate nei paradisi fiscali, bisogna prima introdurre il concetto di “titolare effettivo”. È la figura che controlla effettivamente il patrimonio e le finanze di una società, la quale quasi mai coincide con la persona che quella società l’ha registrata e che ricopre invece il ruolo di legale rappresentante. Tendenzialmente, se un individuo detiene almeno il 25% delle azioni di una società allora questo è considerato come titolare effettivo che esercita un controllo di tipo “diretto”. È il caso, per esempio, della Diversify Sport Investment, società registrata in Lussemburgo e a cui è riconducibile Gino Pozzo, figlio dello storico presidente bianconero Giampaolo Pozzo. Questa ha in mano la totalità delle quote di un’altra società registrata sempre in Lussemburgo, la Kalmuna, che a sua volta detiene le quote dell’Udinese Calcio sulla quale, non essendo immediatamente identificabile il beneficiario ultimo fisico, esercita una proprietà di tipo “indiretto”.

Nel 2014 il club bianconero era finito sotto la lente della procura di Udine per presunte dichiarazioni fiscali fraudolente mediante operazioni inesistenti. Gli inquirenti avevano scoperto che i soci della holding Gesapar erano due società di comodo registrate a Panama e che attraverso queste il club friulano avrebbe spostato in modo ingiustificato 63 milioni di euro verso altre due società controllate dalla famiglia Pozzo, il Granada (Spagna) e il Watford (Inghilterra), con l’obiettivo di aggirare le tassazioni. A fronte di una richiesta di risarcimento di 18 milioni di euro per otto annualità tra il 2007 e il 2014, la vicenda si è chiusa con un accordo con l’Agenzia delle entrate e il pagamento da parte dell’Udinese di un milione di euro.

Bologna

Il club emiliano è riconducibile all’imprenditore canadese e di origini italiane Joey Saputo, che lo controlla sfruttando le larghe maglie sia del Lussemburgo sia del Delaware. Il piccolo stato della costa occidentale americana è uno dei motivi per i quali gli Stati Uniti occupano il secondo posto nel Financial Transparency Index, dietro solo alle Isole Cayman. Si spiega forse così la catena societaria che dal capoluogo emiliano porta alla Bfc 1909 Lux Spv in Lussemburgo che è a sua volta detenuta dalla Bfc 1909 Usa Spv registrata nel Delaware a un indirizzo sconosciuto.

«I paradisi fiscali non sono tutti uguali», afferma a IrpiMedia Marianna Vintiadis, esperta di business intelligence. «Esiste – spiega – una concorrenza fiscale tra loro, alla ricerca di incentivi sempre maggiori per attrarre individui e corporation a danno della concorrenza. E così le Isole Marshall convengono al mondo della finanza, la Liberia alla registrazione di imbarcazioni, le Isole Cayman per il regime fiscale, e così via in una sorta di corsa al ribasso» che danneggia il pubblico e favorisce un ristretto numero di individui. Offrire dati certi è impossibile ma si stima che i governi perdano ogni anno tra i 500 e i 600 miliardi di dollari in tasse non incassate a causa dei paradisi fiscali.

Attività offshore e beneficiari effettivi

Fare uso di giurisdizioni offshore non significa necessariamente commettere attività illegali. La segretezza che questi garantiscono è però indispensabile per facilitare flussi finanziari illeciti e un’ampia gamma di pratiche che vanno contro l’interesse pubblico. Una di queste è la mancanza di trasparenza per quanto riguarda i reali beneficiari. Una società, in questo caso un club calcistico, può infatti non essere direttamente riconducibile a una proprietà umana bensì, per esempio, a un trust il quale detiene il club per conto di uno o più individui. A questo punto gli eventuali utili del club verranno sì distribuiti ai trustees ma la responsabilità legale rimane al trust stesso, liberando i beneficiari da eventuali contraccolpi penali e la cui identità è ben schermata da quella segretezza contabile che i paradisi fiscali si contendono.

Una società registrata in italia può essere quindi detenuta da una registrata nel Delaware, ad esempio. Nel piccolo stato americano la pubblicazione dei bilanci e dei nomi dei proprietari non è obbligatoria, il pubblico quindi non può sapere cosa succede ai soldi una volta che questi lasciano l’Italia e se ci sono altri titolari effettivi oltre a quelli comunicati al pubblico.

Quella in uso nel calcio italiano si chiama spesso “esterovestizione”, ovvero la pratica di localizzare la residenza fiscale di una persona giuridica nelle giurisdizioni con regimi fiscali agevolati. Allo stesso tempo quelle medesime giurisdizioni «garantiscono l’anonimato e spesso proteggono i reali beneficiari da responsabilità penali e non impongono l’obbligo di depositare bilanci e altri documenti aziendali», conclude Vintiadis. Nel 2016 l’economista e avvocato americano James S. Henry stimava in 36mila miliardi di dollari la ricchezza stipata nei paradisi fiscali.

Milan

Ben radicato in Lussemburgo e nel Delaware è il Milan. Pressoché il totale delle azioni di AC Milan Spa è infatti in mano alla Rossoneri Sport Investment Sarl, a sua volta controllata dalla Project Redblacks Sarl, entrambe in Lussemburgo. Per risalire alla cima della piramide bisogna però passare per la King George Investments e la Genio Investments, due società di base nel piccolo stato americano del Delaware e controllate dal fondo Elliot, reale proprietario del Milan.

Juventus

Seppur quotata alla Borsa di Milano, l’azienda madre dei campioni d’Italia dal 2011 ha scelto l’Olanda quale sede finanziaria. La Exor, storica holding della famiglia Agnelli, con un fatturato che sfiora i 163 miliardi di dollari è la prima società in Italia per ricavi e la 28ma nella classifica di Fortune 500 nonché l’azionista di maggioranza della Juventus Football Club Spa. L’Olanda è un paradiso fiscale dagli anni ‘50 e occupa l’ottavo posto nella classifica 2020 del Financial Secrecy Index, in netto peggioramento rispetto all’edizione precedente che vedeva i Paesi Bassi occupare la 14ma posizione. Per capire l’opacità del Paese fiammingo, un dato su tutti: qui hanno trovato dimora 15.000 Special Financial Institutions (FSI), acronimo che indica l’anello di congiunzione tra le filiali nel Paese di “origine” e quello di “destinazione” di grosse corporation internazionali.

Sono tanti i motivi alla base di una tale attrattività ma i più irresistibili sono una tassazione minima sui dividendi, sugli interessi e sui flussi finanziari da e verso Paesi terzi, oltre alla totale esenzione dal pagamento di imposte sul reddito delle società con sede all’estero. Esistono anche termini più colloquiali per questo tipo di società, come “società di comodo” o “società cartiere”. Le FSI muovono attraverso l’Olanda circa 4.000 miliardi di euro ogni anno, un flusso costante di denaro che equivale a dieci volte il prodotto nazionale lordo dei Paesi Bassi. È un “Paese condotto” dunque, i flussi finanziari non si arrestano in Olanda bensì la attraversano: i primi tre Paesi per provenienza e destinazione occupano le prime sei posizioni del Financial Secrecy Index (Svizzera, Lussemburgo e Stati Uniti), rendendo l’Olanda una giurisdizione cruciale per la movimentazione di capitali occulti.

Roma e Fiorentina

È un piccolo anonimo edificio di un piano quello che nella città di Wilmington, Delaware, ospita la Corporation Trust Company, la società incaricata di custodire le holding di Fiorentina, Milan, Roma e Venezia le quali così, dal punto di vista fiscale, condividono lo stesso indirizzo. Con 970mila abitanti e 1,5 milioni di società registrate, il Delaware è la meta preferita per le grosse multinazionali. Il 68% delle società presenti nella classifica di Fortune 500 è registrata qui, nel piccolo stato-cuscinetto tra il Distretto di Washington e l’Oceano Atlantico.

Il club giallorosso ha cambiato proprietario nell’estate 2020 ma non sede: con il passaggio di mano da James Pallotta a Dan Friedkin, la Roma fa capo oggi alla Romulus and Remus Investments registrata nel Delaware attraverso il 50% di partecipazioni dell’italiana Neep Roma Holding Spa, portatrice dell’83,3% delle azioni del club capitolino.

Negli uffici della Corporation Trust Company è registrata anche la holding del patron viola Rocco Commisso. All’imprenditore italo-americano è infatti riconducibile la Columbia Soccer Ventures con la quale dal giugno 2019 è proprietario della Fiorentina.

La Corporation Trust Company è una cosiddetta company formation agent, una società che per conto dei propri clienti crea e registra altre società. Di loro si serve tipicamente chi in quel Paese non è residente e sono dunque particolarmente diffuse nelle giurisdizioni offshore a regime fiscale ridotto. Pensano a tutto loro. Per un compenso che va dalle poche decine alle poche centinaia di dollari si occupano della registrazione, di aprire un conto in banca collegato alla neo società e se necessario provvedono a dedicare un servizio di segreteria incaricato di rispondere al telefono e alle mail. In Stati come il Delaware, Nevada, Vermont e Wyoming le azioni di lobbying di queste società per il mantenimento dell’attrattività fiscale del singolo Stato sono tali che il Tax Justice Network li definisce dei «capture state», giurisdizioni in cui i poteri politico e legislativo sono ostaggio degli interessi privati. Alle maglie larghe di diversi singoli Stati si aggiunge, inoltre, il paradosso federale: sebbene gli USA siano oggi all’avanguardia nel contrasto all’utilizzo dei paradisi fiscali da parte dei propri cittadini, il Paese stesso rappresenta il rifugio ideale per flussi di denaro illecito e complessi schemi di evasione fiscale provenienti dall’estero che portano negli Stati Uniti un quinto delle quote del mercato globale della finanza offshore.

Foto: magliarossonera.it, inter.it, juventus.com | Editing: Lorenzo Bagnoli

Da locale a offshore, la metamorfosi del calcio italiano in 30 anni

#FuoriGioco

Da locale a offshore, la metamorfosi del calcio italiano in 30 anni

Lorenzo Bodrero

Sono passati 35 anni da una fredda sera di febbraio quando, con un colpo di coda sul fotofinish, Silvio Berlusconi acquisiva il Milan per 6 miliardi di vecchie lire. Allora – era il 1986 – molti se non tutti i presidenti di Serie A e B faticavano a generare utili, coscienti che l’unica fonte certa per far quadrare i bilanci fosse la vendita dei biglietti da stadio. Erano tempi in cui i risultati sul campo determinavano in maniera diretta i conti societari. Ne era certamente cosciente il neo proprietario del club rossonero che ereditava un club in grave crisi, economica prima che sportiva. Ma ciò che forse ignorava era che con lui il calcio italiano entrava in una nuova epoca dove le società sportive avrebbero gradualmente cessato di essere entità no-profit per diventare imprese votate al profitto.

La società di consulenza Kpmg individua quattro forze motrici dietro l’acquisto di una società di calcio professionistica alle quali associa altrettanti profili di acquirenti. Quella più comune in Italia, nonché la più longeva, è la «proprietà politica», tipica del medio-grande imprenditore per il quale il fine primario non è tanto l’arricchimento quanto invece veicolare il messaggio di un marchio o di una società attraverso la straordinaria unicità rappresentata dal calcio, capace di raggiungere un audience pressoché inestinguibile. L’aveva compreso Berlusconi, secondo cui «ogni tifoso è un potenziale consumatore, ogni consumatore è un potenziale utente televisivo», come ha ricostruito in un libro l’ex avvocato di Mediaset, Vittorio Dotti. L’intuizione di Berlusconi si è rivelata vincente. Un concetto utile al marchio Milan ma anche all’entità politica che è nata in quegli anni, Forza Italia (1994). La stessa dinamica si ripropone con i casi, ad esempio, di Manchester City e Paris Saint Germain, i cui successi sul campo contribuiscono a promuovere positivamente l’immagine di due Paesi – Emirati Arabi e Qatar – non particolarmente popolari nell’immaginario pubblico internazionale.

Immutabile per quasi un secolo, dall’arrivo di Berlusconi in poi l’archetipo imprenditoriale alla base dei club si è trasformato più volte. All’era inaugurata da Berlusconi è seguita quella dell’imprenditore straniero in cerca di fortune in un campionato, quello italiano, lontano dai fasti dello scorso secolo ma comunque ancora attraente e certamente più accessibile rispetto agli altri big europei (Inghilterra e Spagna). E così, dall’estero, è subentrata una prassi oggi sempre più diffusa, ossia registrare in paradisi fiscali le holding societarie che controllano i club: dal Lussemburgo (cuore finanziario europeo dalla tassazione agevolata) all’Olanda; dalle Isole Cayman al Delaware e oltre. Fino all’ultimo stadio di questa evoluzione, dove le quote dei club sono in mano a fondi di investimento e grosse società assicurative

È una metamorfosi ancora in corso, guidata soprattutto da questioni economiche, naturalmente. Con l’avvento delle pay-tv nei primi anni ‘90 le società sportive hanno cominciato a registrare utili fino ad allora mai visti. Nel 1995 arrivava poi la “sentenza Bosman” che dava avvio alla stagione degli agenti sportivi, principali autori della rivoluzione del calciomercato con stipendi stellari ai calciatori e trasferimenti multi-milionari tra i club. Il nuovo millennio ha portato gli introiti per diritti televisivi a nuove vette mentre i club hanno implementato nuove strategie commerciali globali, capaci di raggiungere nuovi e ricchi mercati per gran parte ancora inesplorati.

E così, mentre a Berlusconi si sono susseguiti i Tanzi, i Cragnotti, i Matarrese, i Moratti, i Borsano e molti altri, nel 2011 il calcio italiano è entrato in una nuova stagione con l’arrivo alla Roma di una cordata capeggiata dall’americano James Pallotta, il primo di una lunga serie di investitori stranieri.

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Le proprietà straniere nel calcio italiano

Dalla ritirata cinese all’arrivo degli americani

L’Italia calcistica si sta rivelando particolarmente attraente per gli investitori a stelle e strisce. Dall’avvento di Pallotta, oggi sono undici i club di Serie A, B e C in mano a entità straniere, di cui sette americane. Il dato, così come i grafici in questo articolo, tiene conto della nazionalità del beneficiario ultimo del club, in genere individuato nel presidente. Nella prossima puntata di IrpiMedia analizzeremo invece dove sono registrate le holding che detengono le quote di maggioranza dei club italiani. Le ragioni della nuova Eldorado all’italiana le spiega a IrpiMedia Fernando Roitman, responsabile del Cies Sports Intelligence: «I magnati Usa non solo dispongono di importanti capitali ma sanno anche che disporre di un club calcistico in Europa porta prestigio e una maggiore valutazione dei propri asset. Inoltre, l’investimento iniziale per l’acquisto di un club italiano è irrisorio rispetto alla cifra da sborsare per comprarne uno americano o inglese, senza contare che in Italia la prospettiva di investire nella costruzione di nuovi impianti sportivi risulta molto allettante».

Prima dell’Italia è toccato all’Inghilterra accogliere gli investitori da Oltreoceano. «Il modello americano si basa sulla massimizzazione dei profitti, mentre quello europeo prevede la massimizzazione dei risultati sportivi, a costo di indebitarsi», spiega Francesco Addesa, docente di Sport Economics all’Università di Leeds. E aggiunge: «Con la nascita della Premier League inglese nel 1992 è cominciato un graduale avvicinamento del modello europeo a quello americano», accelerato dalla sentenza Bosman e dall’introduzione nel 2013 del Fair Play Finanziario.

Successi e fallimenti del Fair Play Finanziario

Introdotto nel 2011 e voluto da Michel Platini durante la sua presidenza alla Uefa (2007-2015), il Fair Play Finanziario (FPF) nasceva con l’obiettivo di «migliorare le condizioni finanziarie generali del calcio europeo» e di riequilibrare le forze sportive dei club partecipanti alle competizioni europee – Champions League ed Europa League. Per i primi due anni, il Fair Play Finanziario imponeva alle società di dimostrare di non avere debiti insoluti verso club, giocatori o autorità fiscali. Nel 2013 è poi stato inserito l’obbligo del “pareggio di bilancio”: se la differenza tra ricavi (biglietti, diritti tv, calciomercato, sponsorizzazioni, commerciali) e costi (calciomercato, stipendi, oneri finanziari, dividendi ecc.) è positiva allora il club ottiene la “licenza Uefa”, obbligatoria per la partecipazione ai due tornei continentali e la valutazione è fatta sulle tre stagioni calcistiche precedenti. È ammissibile una “soglia di sforamento” di 5 milioni di euro per il triennio economico preso in considerazione e di 30 milioni di euro nel caso il negativo venga saldato dal proprietario del club o da una parte correlata.

«Il FPF non ha ridotto il numero di società indebitate né quello di club falliti, ha invece aumentato la profittabilità dei grandi club», spiega a IrpiMedia Francesco Addesa, docente di Sport Economics all’Università di Leeds. Nell’anno della sua introduzione (2011) il calcio europeo contava un debito aggregato di 1,67 miliardi di euro. Nel 2013 il debito era dimezzato e il 2017 ha registrato il primo saldo positivo (+580 milioni di euro). «I conti in positivo hanno certamente influito sull’entrata dei fondi di investimento nel calcio, soprattutto in quello inglese», afferma Addesa.

In caso di violazioni spetta all’Organo di Controllo Finanziario dei Club stabilire le sanzioni, solitamente comminate gradualmente. Si va dall’ammonimento, alla sanzione pecuniaria, dal trattenimento di parte delle quote incassate per la partecipazione alle competizioni europee fino a quelle più severe quali il divieto di iscrizione di calciatori alla lista di coloro che possono prendere parte alle competizioni e l’esclusione del club dalle competizioni stesse.

La crisi portata dalla pandemia e l’impossibilità per i club di rispettarne i parametri stanno spingendo l’Uefa a ripensare drasticamente il Financial Fair Play. Andrea Traverso, direttore della ricerca e stabilità finanziaria della Uefa, in un incontro con funzionari dell’Unione europea lo scorso 24 marzo ha definito «inutili» le regole sul pareggio di bilancio, precisando che «per come sono impostate guardano indietro, ovvero valutano una situazione del passato (le tre stagioni precedenti, ndr). La pandemia rappresenta un cambiamento così radicale che guardare a ritroso adesso è privo di senso». A chi specula che il FPF verrà accantonato, Traverso aggiunge: «Le regole non saranno né ammorbidite né abbandonate, dovranno probabilmente porre un’attenzione maggiore sulle sfide implicite nel calciomercato e nei livelli degli stipendi». Le consultazioni, ha aggiunto, «saranno celeri ma scrupolose».

L’arrivo degli americani è coinciso con il ritiro graduale dal calcio del Vecchio continente degli investitori cinesi. Il piano di grandeur della Cina, che nelle intenzioni di Xi Jinping puntava a diventare una potenza del calcio mondiale e a ospitare – e possibilmente vincere – la Coppa del mondo entro il 2050, ha portato a investire nei club europei 2 miliardi di euro tra il 2014 e il 2018. Di questo shopping compulsivo fanno parte le acquisizioni dell’Inter (2016), del Milan e del Parma (2017) ma anche del Southampton, del Wolverhampton, dell’Espanyol, del Nizza e molti altri in Europa. La bolla si è però sgonfiata in fretta e dal 2017 si assiste alla ritirata cinese, causata dalla stretta sugli investimenti esteri non strategici prima e dalla pandemia poi. Nel frattempo, l’avanzata americana si è fatta sempre più evidente fino a soppiantare quella del Dragone. Considerando le prime due divisioni dei campionati europei, al momento sono 38 i club in mano a investitori Usa (dati Cies).

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Gli ultimi dieci anni hanno visto un’ulteriore evoluzione della figura dell’investitore proveniente dall’estero, con l’avvento sempre più frequente di fondi di investimento, fondi hedge e di private equity. Ancora una volta è stata la Premier League inglese a fare da apripista, campionato cresciuto in maniera esponenziale dai primi anni Duemila soprattutto in tema di diritti televisivi e per questo diventato assai appetibile ai soggetti dell’alta finanza internazionale: tra società di private equity, fondi sovrani e hedge funds, lo scorso anno tre club su quattro del campionato inglese erano in mano a un qualche tipo di investitore straniero.

Cronologia delle proprietà straniere nel calcio italiano

A farla da padrone, come anche in Italia, sono gli investitori americani in quella che Kpmg descrive come «proprietà economica», un’impostazione che punta soprattutto alle entrate commerciali e da diritti televisivi a patto che i risultati della squadra siano migliori di quelli al momento dell’acquisto. La tendenza per questo tipo di profilo è anche quella di acquistare club di piccola o media categoria con l’obiettivo di portarle nella categorie più nobili e generare profitti grazie ai maggiori introiti, ancora, dai diritti televisivi e al maggior appeal commerciale. Su questa strada, in Italia, si muovono il Padova, il Pisa, il Venezia, il Catania e Lo Spezia.

Fondi di investimento, i nuovi padroni

A prima vista un interesse simile verso un settore, quello calcistico, considerato assai volatile sembra ingiustificabile. Troppe le variabili. Impossibile prevederle. Basta chiedere a chi guida un club quotato in borsa (22 in Europa e tre in Italia: Juventus, Lazio e Roma). Nel breve periodo, il valore delle azioni va di pari passo con i risultati sul campo e una stagione particolarmente sfortunata, infortuni eccellenti o una mancata qualificazione alle competizioni europee possono costare decine di milioni di euro, abbastanza per disincentivare molti investitori. Eppure dall’avvento di Joe Pallotta alla Roma, sono 11 i club di Serie A, B e C che hanno visto l’arrivo di imprenditori stranieri – di cui cinque soltanto negli ultimi 14 mesi – evidentemente convinti che i potenziali benefici sono maggiori dei rischi. Otto di questi club militano nella massima serie e sei investitori sono americani.

«Generalmente questo tipo di investitori ha come obiettivo quello di rivalorizzare un club sottovalutato utilizzando nuovi metodi per poi rivendere il club stesso, non mirano a una strategia a lungo termine», aggiunge Francesco Addesa, professore all’Università di Leeds. Con un debito complessivo passato dai 2,6 ai 4,6 miliardi di euro in dieci anni e con i costi della pandemia che hanno raggiunto i 700 milioni, la serie A è sempre più obiettivo fondi di private equity, come quelli interessati all’acquisto di Sampdoria e Genoa. A destare il loro interesse non sono solo i prezzi più bassi causa crisi e pandemia ma anche la prospettiva di nuovi stadi e la torta dei diritti televisivi. Secondo Deloitte, il rinnovamento degli impianti nei prossimi dieci anni potrebbe attirare investimenti per 4,5 miliardi di euro, mentre i diritti tv – seppur valgano circa un terzo rispetto al ricco campionato inglese – nel prossimo triennio sono destinati a pareggiare o superare gli 1,4 miliardi di euro del ciclo precedente.

Cosa sono i fondi di investimento e di private equity

L’esordio dei fondi di investimento nel calcio italiano risale al 2018 quando il fondo Elliot ha acquisito il 99,7% del pacchetto azionario del Milan. Più di recente, è noto l’interesse dei fondi Cvc Capital Partners, Bain Capital, FSI e Advent International per la creazione di una media company nella quale i fondi controllerebbero una quota minoritaria della società che per conto della Lega Serie A gestirà i pacchetti dei diritti televisivi. Sono invece in corso da mesi complicate trattative tra l’Inter e il fondo BC Partners per l’acquisto da parte di quest’ultimo di una quota maggioritaria del club nerazzurro, i cui proprietari – la famiglia Zhang – sono alla disperata ricerca di liquidità.

Un fondo è un investimento in cui confluiscono gli investimenti di piccoli e grandi risparmiatori. La gestione di questo “salvadanaio” è solitamente in mano a una società per la gestione degli investimenti la quale garantisce un livello di professionalità che, altrimenti, non sarebbe accessibile al singolo risparmiatore a causa dei costi di servizio elevati. Il gestore del fondo può decidere di investire in liquidità, obbligazioni, azioni e immobili in base all’obiettivo d’investimento del fondo. Molti fondi di investimento sono specializzati in private equity, ovvero quella tecnica di investimento che consiste nel finanziare una società non quotata in Borsa ma dotata di elevate potenzialità di crescita, per poi disinvestire con lo scopo di ottenere plusvalenze dalla vendita della partecipazione azionaria.

Nonostante il campionato italiano sia meno attraente in termini di qualità e competizione di altri, come ad esempio quello inglese, ci sono comunque tanti investitori sui quali i club della Serie A esercitano ancora un certo appeal. I motivi sono diversi. In primis, il valore culturale del calcio italiano, che è storicamente tra i più prestigiosi, con club dal forte fascino internazionale e giocatori e allenatori entrati nell’immaginario collettivo globale. Poi, i prezzi più bassi: tra i 32 club europei più prestigiosi, le società italiane valgono in media un terzo di quelle inglesi e la metà di quelle spagnole, necessitano quindi di un capitale iniziale assai inferiore per l’eventuale acquisto. Inoltre, 60 milioni di abitanti e 30 milioni di appassionati rappresentano un ampio mercato a cui rivolgersi.

Infine la questione immobiliare, forza trainante della finanza che si rivolge al pallone. Al momento soltanto quattro società di Serie A sono proprietarie dello stadio in cui giocano (Atalanta, Juventus, Sassuolo e Udinese). Non possederlo non è percepito come ostacolo quanto invece un’opportunità per sviluppi futuri. Non sorprende che gran parte dei nuovi investitori stranieri (Fiorentina, Inter, Milan, Roma) abbiano in programma la costruzione di nuovi impianti – tra stadi e centri sportivi – alla ricerca dell’ottimizzazione dei ricavi, tra biglietteria, diritti di denominazione dello stadio e utilizzo lungo tutto l’arco dell’anno dell’arena trasformata in uno spazio multifunzionale, da utilizzare non solo durante le gare. Ma non basta. «Non dimentichiamo che per essere appetibile agli occhi di un investitore finanziario un club deve dimostrare di avere i conti a posto ed essere in grado di sfornare nuovi giovani talenti regolarmente», spiega a IrpiMedia Stefan Szymanski, docente di economia dello sport all’università del Michigan.

Generare introiti attraverso la rivendita di calciatori cresciuti “in casa” può infatti essere una fonte di utili inestimabile, specie con le valutazioni economiche dei calciatori che non cessano di crescere. Si spiega così l’ingresso nel capitale sociale del Barnsley (Regno Unito) e dell’AZ Alkmaar (Olanda) di Billy Bean, il noto dirigente americano celebrato nella pellicola L’arte di vincere che utilizza l’analisi statistica per scovare talenti nascosti o sottovalutati. Nella stessa direzione vanno i recenti investimenti del colosso delle assicurazioni spagnolo Mapfre nel capitale sociale dell’Ajax e del Lione, due dei più prolifici settori giovanili del calcio europeo.

CREDITI

Autori

Lorenzo Bodrero

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Lorenzo Bodrero

Editing

Lorenzo Bagnoli

Super-agenti, i veri padroni del calcio mondiale

23 Febbraio 2021 | di Lorenzo Bodrero

L’onnipotenza dei procuratori nel calcio professionistico internazionale è tale da renderli insostituibili. Venticinque anni fa erano semplici agenti dei giocatori mentre oggi sono i veri artefici di compravendite multi milionarie, padroni di un settore in cui nessuno è in grado di bilanciarne il potere. Il tutto con il beneplacito, e spesso la connivenza, di club, dirigenti e calciatori. È una di quelle verità che tutti conoscono ma nessuno vuole ammettere, men che meno mettere per iscritto. Lo ha fatto, invece, il Centro studi internazionale sullo sport (Cies) – pensatoio sportivo di base in Svizzera in cui un dipartimento è interamente dedicato all’analisi dell’economia del pallone – quando nel 2018 scriveva che «i pagamenti destinati agli agenti e agli intermediari sono spesso al centro di complessi schemi di evasione fiscale» e di riciclaggio di denaro e che questi schemi coinvolgono non solo gli agenti «ma anche i proprietari e i dirigenti dei club con cui collaborano».

Lo studio è stato commissionato dalla Uefa nel 2018 e consegnato all’associazione del calcio professionistico europeo un anno e mezzo più tardi. Non è mai stato reso pubblico integralmente e ha circolato pochissimo. Tra le conclusioni del report, di cui IrpiMedia ha ottenuto una sintesi, si legge che il conflitto di interessi rappresenta il modus operandi nel calcio europeo e che la «collusione tra agenti, intermediari e club» solleva «molti interrogativi dal punto di vista penale».

I procuratori ricoprono ormai diversi ruoli. Il primo è quello di “agente”, ossia il professionista a cui il calciatore si affida per la gestione della propria carriera, dei propri diritti di immagine, degli sponsor e che fanno le veci del calciatore in fase di contrattazione di un nuovo contratto; il secondo è quello dell’“intermediario”, coinvolto esclusivamente in quest’ultima fase, colma cioè le distanze tra il club che vende, il calciatore e il club acquirente. Da quando negli ultimi anni le due figure si sono sovrapposte, si è materializzata una distorsione del mestiere, nota oggi agli addetti ai lavori con il termine di “super-agenti”. Questi non solo fanno gli interessi dei calciatori ma anche dei club, percependo commissioni dagli uni e dagli altri e dando così vita a doppie o triple rappresentanze e a evidenti conflitti di interesse.

Il report del Cies non fa nomi ma è evidente il riferimento a quel ristrettissimo circolo a cui sono iscritti i più importanti agenti sportivi al mondo. Nell’intero settore, secondo il centro studi svizzero, la mancanza di regole ha creato «una situazione da far-west nei segmenti più bassi del calciomercato e un alto livello di concentrazione nei segmenti più remunerativi».

Il potere esercitato dai super-agenti nel calcio moderno è cosa nota tra gli addetti ai lavori, ma non era mai stato ammesso da un’istituzione sportiva.

Secondo il Cies, tra il 2014 e il 2017 le commissioni pagate agli agenti hanno raggiunto i 4,75 miliardi di euro e nel solo 2022 raggiungeranno i 3 miliardi. Con il crescere del loro potere è coincisa una esplosione dei prezzi dei diritti economici dei calciatori e allo stesso tempo è cresciuta esponenzialmente la loro mobilità, ossia il numero di scambi, di calciatori tra un club e l’altro.

Al centro del controllo esercitato dai super-agenti ci sono gli “accordi per terze parti” (third-party ownership, Tpo) che, sebbene resi illegali dalla Fifa nel 2015, «sono una realtà ancora ben radicata», scrive il Cies, e «consentono agli agenti più influenti un sostanziale controllo sulla carriera dei calciatori e un potere decisionale maggiore rispetto a quello esercitato dai club». E così, mentre il potere dei super-agenti non accenna a diminuire, nel calcio da un lato aumenta la forbice economica tra i club che possono permettersi o meno di collaborare con i super-agenti e, dall’altro, lo sport più popolare al mondo diventa strumento per la criminalità economica.

Cosa sono i Tpo

Con Third-party Ownership si intende un accordo stipulato da un soggetto terzo rispetto all’ordinamento sportivo (fondi di investimento, società, soggetti privati, ecc.) con il quale questo acquisisce tutto o una parte dei diritti economici di uno sportivo o, in gergo, il “cartellino”. L’abuso dei Tpo porta il detentore a influenzare le decisioni e l’indipendenza del club in materia di trasferimenti.

Grazie alle rivelazioni di Football Leaks – la piattaforma di whistleblowing fondata dal portoghese Rui Pinto che tra il 2015 e il 2018 ha reso pubblici centinaia di contratti tra calciatori, club, procuratori e fondi di investimento – si è inoltre appreso che in molti contratti che legano un calciatore al club sono presenti clausole di rivendita secondo le quali il Tpo beneficia di una percentuale sulla futura rivendita del calciatore. Questa prassi ha sollevato polemiche circa la “dignità umana” violata del calciatore oltre a violazioni del diritto del lavoratore e a interferenze esterne al calcio. Il Tpo, infatti, antepone l’interesse economico a quello del giocatore e del club.

Super-agenti, uomini della provvidenza

L’allarme sui conti in rosso è scattato la scorsa estate. Tra campionati slittati, azzeramento degli introiti da ticketing e diritti tv in calo, in piena pandemia la serie A si è trovata a fare i conti con una crisi senza precedenti. Per l’esercizio 2019-2020 sono previste perdite per 770 milioni di euro mentre la stagione in corso rischia un’emorragia ancora peggiore. E il problema non riguarda solo l’Italia. La Uefa ha stimato mancati introiti per 4 miliardi di euro per l’intero calcio europeo.

Ma nelle crisi giacciono opportunità. Tra coloro pronti a coglierle c’è Jorge Mendes, il super-agente portoghese vincitore per dieci anni di fila del Globe Soccer Awards come miglior procuratore. L’ex gestore di nightclub ha dato il meglio di sé nella finestra di calciomercato della scorsa estate, quando tutte le società facevano i conti con le ristrettezze della pandemia. Con la sua Gestifute, l’agenzia nonché il braccio destro per le sue operazioni di calciomercato fondata nel 1996, ha lavorato sia con i club che faticavano a far tornare i conti sia con quelli più ricchi che speravano di approfittare delle difficoltà altrui. Nel farlo, in molti casi ha rappresentato tutte le parti coinvolte: il club venditore, quello acquirente e il calciatore. Ha portato Ruben Dias, suo cliente, dal Benfica al Manchester City per 80 milioni di dollari, mentre Nicolas Otamendi, un altro suo assistito, ha fatto il percorso inverso per 15 milioni di euro.

Secondo Forbes, la Gestifute è la seconda agenzia di intermediazione al mondo per la gestione di calciatori e allenatori, con un pacchetto di contratti che supera il miliardo di dollari.

La scorsa estate Mendes ha agevolato altri due accordi che hanno interessato il club inglese Wolverhampton: da un lato ha reso possibile il trasferimento dell’attaccante Diogo Jota al Liverpool per 44 milioni di euro e, dall’altro, quello del difensore irlandese Matt Doherty al Tottenham per 17 milioni di euro. Ma i “Wolves” per Mendes non sono un club qualsiasi. Sono di proprietà del conglomerato cinese Fosun International, lo stesso che detiene quote di minoranza proprio in Gestifute. Il trasferimento di Doherty ha inoltre interessato il club attualmente allenato dal primo storico cliente di Mendes, Nuno Espirito Santo, e quello allenato da uno dei suoi clienti più celebri, José Mourinho. Entrambi portoghesi.

Con il Portogallo, infatti, Mendes è legato a doppio filo. Non solo perché suo Paese natìo e per la nazionalità lusitana della maggior parte dei suoi 137 clienti, ma soprattutto perché i suoi affari molto spesso coinvolgono club portoghesi.

Uno di questi è il Porto, particolarmente afflitto dai debiti e dalla crisi economica calcistica. Così il celebre club portoghese si è rivolto a Mendes ad agosto per fare cassa. Il super-agente ha persuaso il “suo” Wolverhampton ad acquistare due giovani, e presunti, talenti dal Porto per 60 milioni di euro. Un’iniezione di contanti sull’asse Inghilterra-Portogallo che desta, quantomeno, qualche dubbio dal punto di vista meramente sportivo per la qualità ancora tutta da dimostrare dei due giovani calciatori: l’attaccante diciottenne Fabio Silva e il centrocampista ventenne Vitor Ferreira. Nella scorsa stagione, il primo aveva collezionato 180 minuti di presenze nel massimo campionato portoghese, contro i mille minuti del secondo nella serie B lusitana. Due curricula non esattamente da top player. Ferreira è cliente della Gestifute, mentre dei 40 milioni sborsati dal Wolverhampton per Silva, 7 sono andati all’agenzia di Jorge Mendes.

A fare compagnia a Jorge Mendes tra gli agenti più influenti c’è l’italo-olandese Mino Raiola. È probabilmente suo il trasferimento che più di tutti offre la misura del potere in mano ai super-agenti. Quello che nel 2016 ha portato Paul Pogba dalla Juventus al Manchester United. Un affare da 105 milioni di euro per accaparrarsi il diritto alle prestazioni sportive del centrocampista francese. Oggi, l’agente originario di Nocera Inferiore cresciuto in Olanda, conta tra i suoi clienti giocatori del calibro di Zlatan Ibrahimovic, Gigi Donnarumma, Matthijs de Ligt, Erling Haaland e Marco Verratti. Nell’affare Pogba ha rappresentato tutte le parti in causa – la cosiddetta “tripla rappresentanza” – incassando così 27 milioni di euro dalla Juventus, 19,4 milioni dal Manchester United e ulteriori 2,6 milioni di euro dal suo assistito. In totale, 49 milioni, quasi la metà dell’intero importo della transazione.

“Fora de jogo”, l’indagine portoghese per riciclaggio ed evasione fiscale

Due sono le indagini attualmente in corso che provano a fare luce sul lato oscuro del calcio europeo. La prima è l’operazione “Fora de jogo” (“fuorigioco”) condotta dagli investigatori portoghesi. A marzo 2020 la polizia fiscale lusitana ha effettuato 76 perquisizioni in tutto il Paese, inclusi i due uffici della Gestifute a Porto e Lisbona e nelle sedi dei club più importanti della Liga, tra cui Porto, Benfica, Sporting e Braga. Come portata, l’indagine non ha precedenti in Europa. Gli inquirenti ipotizzano i reati di riciclaggio di denaro ed evasione fiscale nella compravendita di almeno 49 calciatori facilitata da 14 procuratori attraverso operazioni sia nazionali sia verso l’estero tramite «un crocevia di società» basate in paradisi fiscali. L’importo totale delle transazioni sotto indagine ha raggiunto i 500 milioni di euro, secondo le dichiarazioni dell’avvocato della Gestifute, nonché di Cristiano Ronaldo, riportate lo scorso 11 gennaio dal quotidiano Jornal de Notícias.

Non è la prima volta che il super-agente portoghese finisce nel mirino delle autorità. Nel 2019 i suoi due più celebri clienti, Cristiano Ronaldo e José Mourinho, sono stati condannati al pagamento di, rispettivamente, 18,8 e 2,2 milioni di multa per aver evaso il fisco spagnolo durante gli anni della loro militanza al Real Madrid. Un destino simile ha coinvolto altri celebri assistiti di Mendes che, pur non sedendo mai al banco degli imputati, è considerato la mente dietro l’ingegnoso sistema anti-tasse di cui hanno beneficiato i suoi clienti.

L’altra indagine è quella che lo scorso febbraio ha portato la Guardia Civil spagnola a fare irruzione in due lussuose ville situate a Calvià, sull’isola di Maiorca. Una delle due è la residenza di Abdilgafar Fali Ramadani, tra i più influenti procuratori del calcio professionistico. Gli investigatori spagnoli accusano lui e i suoi soci di aver riciclato almeno 10 milioni di euro utilizzati per acquistare i due immobili e diversi yacht attraverso un complesso schema di scatole societarie, così da mascherarne i beneficiari ultimi.

Ramadani è titolare della Lian Sports, definita da Forbes la terza agenzia calcistica più importante al mondo, con un portfolio che sfiora gli 800 milioni di dollari. Dai loro uffici passano pezzi da novanta del calcio europeo: da Federico Chiesa (Juventus) a Leroy Sané (Bayern Monaco), da Samir Handanovic (Inter) a Miralem Pjanic (Barcellona). Ma anche una miriade di perfetti sconosciuti.

Proprio questi ultimi erano funzionali alle operazioni di riciclaggio. Secondo gli inquirenti spagnoli, gli agenti utilizzavano club di seconda e terza divisione in Serbia, Belgio e Cipro come “scalo” dove parcheggiare i giocatori per poi rivenderli a terzi club a prezzi lievitati. Le indagini hanno preso spunto dalle rivelazioni di Football Leaks, riprese e pubblicate nel 2016 dall’European Investigative Collaborations il quale aveva scoperto che i calciatori non erano mai scesi in campo per conto delle società “ponte” e venivano rivenduti pochi giorni dopo il loro acquisto.

Le autorità spagnole sostengono che il denaro frutto di riciclaggio derivava dalle commissioni ricevute dagli agenti in questa girandola di società calcistiche.

In questo scenario, società come Gestifute e Lian Sports cessano di essere delle mere agenzie sportive per diventare delle società di consulenza. Rappresentano il punto di incontro necessario tra investitori e club (almeno per quelli che possono permettersele) e giocano un ruolo cruciale nelle strategie delle società che controllano il calcio globale. Ne è cosciente la stessa Fifa, che proprio un anno fa ha annunciato nuove regole in arrivo per gli agenti così da provare a mettere dei paletti in un sistema, scrive la stessa Fifa, basato sulla «legge della giungla, con diffusi conflitti di interesse e commissioni esorbitanti incassate a destra e a sinistra [dai super-agenti]». Ma, come vedremo, la soluzione è peggio del problema.

Foto: lo stadio Giuseppe Meazza – Paolo Bona/Shutterstock | Editing: Lorenzo Bagnoli

Quando il calcio finisce, storie di omertà e abusi di farmaci da banco

#FuoriGioco

Quando il calcio finisce, storie di omertà e abusi di farmaci da banco
Raffaele Angius
Giulio Rubino

Dallo sport professionistico alla partitella a cinque. Per alzare l’asticella dei propri limiti fisici e giocare anche quando il dolore imporrebbe loro di fermarsi, i calciatori di ogni categoria fanno costante abuso di farmaci da banco, antinfiammatori e antidolorifici. Tra questi i più ricorrenti sono ibuprofene, paracetamolo e voltaren: medicine legali che possono essere assunte senza prescrizione e che non hanno niente a che vedere con il doping. Ma diverse ricerche e decine di testimonianze certificano l’allerta: a lungo termine anche l’abuso di farmaci tanto comuni può produrre effetti collaterali gravissimi, tra i quali l’alta percentuale di infarti, il ritiro anticipato, perenni dolori articolari, problemi gastrointestinali cronici e malattie ai reni.

Il centro di giornalismo tedesco Correctiv, che coordina questa inchiesta sulle omertà degli abusi farmaceutici nel mondo del pallone in collaborazione con La Stampa, ARD e France 2, ha anche condotto un sondaggio tra quasi 1200 giocatori a livello amatoriale in Germania. Il risultato è che oltre la metà dei partecipanti assume questi farmaci regolarmente, a conferma che non sono solo i professionisti ad assumere con troppa frequenza antinfiammatori e antidolorifici. Come aveva detto nel 2004 l’allenatore Antonio Conte, sentito come testimone nel primo processo italiano sul tema, «se non ci fosse il Voltaren non ci sarebbero campionati di serie A, B e C, e neanche quelli interregionali».

«Non importa in che categoria giochi, per te è sempre come la serie A: anche una partita di promozione diventa Real Madrid- Barcellona». Al telefono, col lockdown che non permette di guardarsi negli occhi, la sincerità e la passione di chi ha dedicato oltre 40 anni al gioco più bello del mondo ci coglie quasi di sorpresa. Edoardo (nome di fantasia obbligatorio per riservatezza) è tra i pochi che hanno accettato di raccontarci la sua storia. Tra eccellenza, promozione e prima categoria, ha tenacemente costruito una carriera e una famiglia, per poi diventare allenatore, professione che continua tutt’ora. Al calcio Edoardo ha dato tutto, forse troppo: «A fine carriera, mi è stata quasi diagnosticata un’insufficienza renale – racconta -. Mi dissero di non prendere più questi cavolo di antinfiammatori».

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L’immobilismo delle Leghe europee

Le federazioni calcistiche internazionali sono consapevoli del problema. «Dovremmo fare di più per educare tutti gli attori del mondo del calcio», dichiara Jiri Dvorak, capo dello staff medico della Fifa, la federazione internazionale del calcio, dal 1994 al 2015. Dalla sua questa posizione, Dvorak ha avuto un osservatorio speciale sulla dimensione del fenomeno. La Fifa a partire dai mondiali in Francia del 1998 ha raccolto sistematicamente dati su quanti farmaci venissero assunti dai giocatori durante ogni edizione della Coppa del mondo. «Nel ‘98 erano ancora incompleti, ma già potevamo osservare un consumo molto alto», spiega. Negli anni i consumi sono solo aumentati, tanto che secondo gli ultimi tre report, una percentuale tra il 40 e il 50% dei giocatori ha assunto farmaci prima di ogni partita del torneo. I numeri sarebbero ancora più alti secondo il medico Toni Graf-Baumann, al tempo collega di Dvorak alla Fifa e fino a marzo scorso consulente per la Dfb, il corrispettivo della Figc tedesca: «Credo che, tenendo in considerazione i casi non riportati, dobbiamo stimare che i numeri siano il 25-30% più alti».

Quanti e quali rischi per la salute vengano dall’abuso di antinfiammatori e antidolorifici è ancora relativamente poco noto. L’alta incidenza di infarti in ex-calciatori, tuttavia, è stata rilevata da almeno tre studi pubblicati negli ultimi anni. Uno fra questi, condotto da Morten Schmidt, Henrik Toft Sørensen e Lars Pedersen sul diclofenac (principio attivo del Voltaren, ndr) e pubblicato nel 2018, rileva che nei trenta giorni successivi all’assunzione il rischio di infarto raddoppia.

«Credo che, tenendo in considerazione i casi non riportati, dobbiamo stimare che i numeri siano il 25-30% più alti»

Toni Graf-Baumann

Ex consulente medico della federcalcio tedesca, DFB

L’ex medico della Fifa Jiri Dvorak è sorpreso e preoccupato dal legame tra antidolorifici e aumento del rischio cardiovascolare. Nonostante già ci fossero dati allarmanti su questa connessione, confessa che «non ne sappiamo ancora abbastanza». I casi esistenti sono raccolti in un registro internazionale dei giocatori che hanno subito attacchi di cuore improvvisi e sono morti di insufficienza cardiaca. A oggi si parla di più di 600 casi.

«L’uso di antinfiammatori iniettati, senza ricetta medica, dovrebbe essere proibito. Dovremmo inserirli nella lista delle sostanza proibite dal Wada quando non c’è una precisa ragione terapeutica per il loro utilizzo».

Jiri Dvorak

Capo staff medico FIFA dal 1994 al 2015

Certo servono più ricerche, come chiedono tutti i ricercatori e i medici consultati per questa inchiesta, ma anche regole più stringenti. «L’uso di antinfiammatori iniettati, senza ricetta medica, dovrebbe essere proibito. Dovremmo inserirli nella lista delle sostanza proibite dal Wada (l’agenzia mondiale antidoping, ndr) quando non c’è una precisa ragione terapeutica per il loro utilizzo», ragiona Dvorak. Anche perché oltre gli infarti si rischiano emorragie interne e malattie dei reni che arrivano a fine carriera, «quando ormai non interessa più a nessuno», constata l’ex medico Fifa.

Se il problema non si affronta, la responsabilità è delle leghe calcio di tutto il mondo, attacca l’ex collega di Dvorak, Toni Graf-Baumann: «Ma non si può cambiare nulla lì, è come sbattere contro un muro». I calendari che stilano sono sempre più fitti, il carico fisico sempre più pesante. Ridurlo però non è un’opzione: «È ovviamente una questione di soldi e interessi mediatici. Le ragioni mediche sembrano non avere nessuno spazio». In Germania Graf-Baumann ha provato a coinvolgere medici delle società calcistiche per uno studio sull’abuso di antidolorifici. Risultati zero: «Alcuni dei dottori mi hanno confessato che i presidenti delle squadre li avevano bloccati. Nessuno vuole parlare del problema», conclude.

I casi esistenti sono raccolti in un registro internazionale dei giocatori che hanno subito attacchi di cuore improvvisi e sono morti di insufficienza cardiaca. A oggi si parla di più di 600 casi.

Tra i fattori economici si contano i diritti televisivi, naturalmente, ma anche quelli del mondo delle scommesse, fattore trainante nella crescente popolarità del calcio specialmente sul mercato asiatico.

Il processo da cui tutto è cominciato

«A volte invidio i miei colleghi che fanno antimafia, perché a loro almeno qualche volta un pentito capita, io non ne ho trovato nessuno». La confessione è di Raffaele Guariniello, ex magistrato della procura di Torino che per primo si è occupato, nei primi anni Duemila, dell’abuso di farmaci legali, non considerati dopanti, nel mondo del calcio. In Italia più della giustizia sportiva è stata infatti quella penale a occuparsi del problema. Il mondo del calcio professionistico italiano ha assunto verso l’argomento due atteggiamenti, entrambi distorti.
Da un lato c’è la stessa omertà diffusa, dettata dalla paura di ritorsioni, che ha sottolineato anche Graf-Baumann. Tra tutti i giocatori contattati, salvo rare eccezioni, l’abuso di farmaci è stato ammesso solo in forma anonima oppure da chi si è ritirato da tempo.

Dall’altra parte, dietro le porte chiuse degli spogliatoi delle grandi squadre, c’è una frenetica attività di ricerca per sviluppare trattamenti farmacologici che possano migliorare le prestazioni dei giocatori. Tracce di queste attività emergono dalle carte del processo istruito dal pm Guariniello a carico di Riccardo Agricola, ex medico della Juventus, e l’allora Ad Antonio Giraudo, accusati di frode sportiva e di aver utilizzato una sostanza dopante, l’epo. Francesco Botrè, professore di Medicina alla Sapienza di Roma ed ex membro della procura antidoping del Coni, sentito come testimone durante il processo aveva ben sintetizzato l’approccio al problema: «Se uno trova che l’Aspirina migliora la performance, e l’aspirina non è vietata, questa scoperta ha quasi la valenza di un brevetto industriale, perché non viola la legge e vado meglio…».

Un momento dell’allenamento della squadra della Serie A tedesca del Lipsia – Foto: Jonathan Sachse

Condannato in primo grado nel 2002, Agricola è stato assolto nel 2005 dalla Corte d’Appello di Torino. Due anni dopo la Cassazione ha sì confermato l’assoluzione per il reato di doping, ma ha anche trasformato l’assoluzione per frode sportiva in prescrizione, riconoscendo cioè la validità dell’impianto accusatorio. Per tutta la durata del processo si è difeso definendosi capro espiatorio di un intero sistema.

Le conseguenze di questa sentenza, se venissero applicate su larga scala, sarebbero enormi.

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«Sono un teorico del fatto che i processi, al di là della condanna, servano proprio per stimolare l’attenzione su un problema», racconta il pm Guariniello. E infatti, almeno in un primo momento, sembrava che l’intero sistema del calcio fosse destinato a subire uno scossone, tanto che dopo il processo è stata scritta una legge sul doping, in cui si configurava un reato da affiancare al reato di frode sportiva contestato dal magistrato nel suo procedimento. Eppure sul futuro l’ex magistrato non sembra particolarmente ottimista, visto che di condanne non se ne vedono da anni.

Le ragioni sono duplici. La prima è tecnica: la giustizia penale, spiega Guariniello, è più libera e indipendente di quella sportiva, che per definizione dirime affari interni all’organizzazione. «In questa materia – dice Guariniello – non ci si può basare solo sui controlli delle urine, bisogna fare perquisizioni, sequestri, intercettazioni». Il pm ricorda di essere stato avvicinato alle prime fasi del processo dall’allora presidente del Coni, che cercò di tranquillizzarlo dicendo che le loro migliaia di analisi sulle urine non avevano portato a nulla. «Rimasi sconcertato», rammenta Guariniello, il quale per tutta risposta mandò uno dei suoi ispettori migliori al laboratorio del Coni, a Roma. «Scoprimmo che non trovavano le sostanze dopanti perché non le cercavano», fu l’ovvia conclusione del blitz.

Da un lato c’è la stessa omertà diffusa, dettata dalla paura di ritorsioni. Dall’altra parte, dietro le porte chiuse degli spogliatoi delle grandi squadre, c’è una frenetica attività di ricerca per sviluppare trattamenti farmacologici che possano migliorare le prestazioni dei giocatori

La seconda ragione delle mancate condanne è il compatto muro di omertà che abbiamo affrontato anche noi in questa inchiesta. Anche qui, il processo di Guariniello è esemplare. Il pm ricorda oramai con un sorriso le reticenze dei calciatori interrogati, compresa quella di Montero che chiedeva «stanza riservata», per le sue deposizioni. «Ho equiparato i calciatori ai lavoratori sfortunati dei miei processi per infortuni sul lavoro – spiega -, nel senso che se il lavoratore è ancora dipendente del datore di lavoro sotto accusa, è un pessimo testimone». Sono i calciatori, infatti, a restare con il cerino in mano, che siano campioni strapagati o semi-professionisti con uno stipendio medio-basso. Alla fine spetta a loro la scelta di ipotecare la propria salute domani in cambio di un altro assaggio di gloria oggi.

«Nessuno si preoccupa di salvaguardare oggi un calciatore che poi domani qualcun altro venderà»
Damiano Tommasi

Presidente Assocalciatori

Quando finisce la carriera

Molto spesso la decisione è di sottoporsi all’ennesima puntura. Come accaduto a Edoardo, il girovago delle leghe minori che per primo ha condiviso la sua storia: ogni sabato sera andava da un dottore, in dote una bottiglia di vino, per farsi un’infiltrazione che gli permettesse di giocare la domenica. «Sono sceso in campo, da portiere, anche con le dita lussate», ricorda. Prima del calcio d’inizio, prendeva due Aulin senz’acqua e si preparava un cocktail di Aulin, Vivin C e Supradyn. «Quando tornavo a casa la sera guidavo la macchina solo con la gamba sinistra, la destra mi faceva così male che la dovevo tenere distesa sul sedile del passeggero», ricorda. Per chi guadagna 1500 o 2mila euro in promozione, spesso in nero, giocare è un obbligo, perché «se cominci a saltare le partite, ti tolgono dalla prima squadra, e smetti di guadagnare».

Dal 2015 l’Associazione calciatori ha in corso una campagna di sensibilizzazione sull’argomento. Perché, come dice il presidente Damiano Tommasi, ex Roma e Nazionale, «nelle squadre il medico è un anello debole». Non riesce mai a imporre uno stop. Anzi, Uefa e Fifa stanno allungando la lista degli impegni: «Avevamo fatto una proposta che è stata introdotta due anni fa per l’introduzione dei cinque cambi, eccetto nei campionati di vertice, una proposta tornata utile in questa situazione di pandemia per far riprendere i campionati».
Un ulteriore problema riguarda le dirigenze: i contratti dei manager sono ormai più brevi di quelli dei calciatori, così «nessuno si preoccupa di salvaguardare oggi un calciatore che poi domani qualcun altro venderà».

Per chi guadagna 1500 o 2mila euro in promozione, spesso in nero, giocare è un obbligo, perché «se cominci a saltare le partite, ti tolgono dalla prima squadra, e smetti di guadagnare»

Tommasi conosce il problema sia in qualità di presidente di assocalciatori sia come giocatore: «Sicuramente ci sono stati dei momenti in cui una pausa in più non avrebbe fatto male», racconta. «Tra la Nazionale e la Roma impegnata nelle coppe avevo un calendario molto fitto, e spesso non si trovava tempo per quell’allenamento di strutturazione fisica che poi è anche antinfortunistico. E a volte anche l’allenamento non riesci a farlo senza l’aiuto di farmaci».

Non che nel passato la situazione fosse più semplice. Salvatore Garritano, attaccante di Bologna, Torino, Ternana e Atalanta negli anni Settanta, racconta che ai suoi tempi «se avevi un dolore, ti davano qualcosa con cui giocare, ma che fosse dannosa o meno noi non lo sapevamo». A Garritano è stata diagnosticata la leucemia nel 2007 e da allora, al male del corpo, si è aggiunto quello dell’ostracismo che ha subito per aver denunciato la presenza del doping nel calcio. Luca Mezzano, 15 stagioni e oltre 300 presenze tra serie A e B, per più di un anno ha tenuto a bada una pubalgia a botte di Aulin e iniezioni di Voltaren. Era il secondo anno nelle fila del Torino, il primo in serie A. A fine stagione è arrivata la chiamata dell’Inter: «Non ho detto nulla allo staff medico, perché per me era l’occasione della vita», confessa. Quando ormai gli anti infiammatori non facevano più effetto ha finalmente scoperto che si trattava di tre ernie inguinali.

A Gianluca Gil De Ponti nel 1995 è stato diagnosticato un tumore alla testa. Negli anni ‘70 è stato centravanti del Cesena, Bologna, Avellino e per un anno nella Sampdoria, prima di diventare allenatore. Oggi se pensa a tutte le squadre in cui ha giocato si ritrova a contare i nomi dei compagni di squadra morti negli anni, con il sospetto più o meno verificato di una responsabilità dovuta ai farmaci assunti: «Sulla parete di camera mia ci sono le fotografie di tutte le squadre in cui ho giocato: anche solo a colpo d’occhio, conto almeno venti morti». Spesso per infarto.

CREDITI

Autori

Raffaele Angius
Giulio Rubino (Correctiv)

In partnership con

Ha collaborato

Lorenzo Bodrero

Editing

Lorenzo Bagnoli

Foto

Ivo Mayr (Correctiv)

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