I segreti di Imperiale, l’uomo che ha consegnato Scampia agli scissionisti

26 Novembre 2021 | di Lorenzo Bodrero

Raffele Imperiale, broker della cocaina al servizio della camorra, ha deciso le sorti di una delle più cruente guerre di camorra: la faida di Scampia del 2004. Questa verità storica è stata taciuta fino al 2015, quando il giudice per le indagini preliminari Mario Morra ha emesso l’ordinanza di custodia cautelare con la quale ordina la carcerazione e il sequestro dei beni di Raffaele Imperiale. Il broker è stato abile a sfuggire all’attenzione degli inquirenti per oltre vent’anni. E a darsi alla fuga da quel momento fino all’estate del 2021. Quell’ordinanza copre un lasso temporale che va dai primi anni Novanta alla metà dei Duemila, tempo nel quale il futuro superlatitante è passato dall’essere un anonimo venditore ambulante di acque minerali al vestire i panni del più grande trafficante di cocaina della mafia campana.

Prima di lui, e per tutti gli anni Novanta, i Di Lauro hanno dominato incontrastati nel settore del traffico di droga nell’area nord di Napoli, i quartieri di Scampia e Secondigliano, la “piazza di spaccio più grande d’Europa”, come riportano gli storici del narcotraffico. Metanfetamine, marijuana e cocaina fruttavano a uno dei più potenti clan camorristici miliardi di lire ogni anno, prima, e milioni di euro, poi. Il giro d’affari era tale che non solo ai Di Lauro ma anche alle numerose famiglie alleate, e a loro subalterne, erano garantiti introiti astronomici. Tra queste, gli Amato, considerati gruppo di spicco dell’alleanza, e i Pagano, a questi ultimi imparentati e che contavano su legami particolarmente solidi con grossi trafficanti in Sud America, Olanda e Spagna.

Una condizione imprescindibile era però alla base di questo ricco quanto fragile equilibrio: il flusso di droga doveva rimanere invariato, indirizzato alla cosca allora guidata da Paolo Di Lauro, detto Ciruzzo ‘o milionario, così da garantire al boss la supremazia verso gli altri temibili clan. Sarà un giovane e ambizioso ragazzo originario di Castellamare di Stabia a far saltare il banco e a sovvertire gli equilibri dell’underworld criminale in tutta la Campania.

Dal coffee shop alla cocaina

Mentre i Di Lauro dettano legge a Scampia e oltre, un giovanissimo Raffaele Imperiale neanche ventenne si trasferisce ad Amsterdam nei primi anni ‘90 per subentrare al fratello deceduto nella gestione di un coffee shop nella capitale olandese. È qui che conosce Raffaele Amato, membro di spicco dell’omonima famiglia e come molte altre affiliata ai Di Lauro. Tra i due nasce ben presto un’intesa professionale e insieme avviano un primo canale di traffico tra l’Olanda e il capoluogo campano. Ecstasy, prima, disponibile in grandi quantità nel Paese che in quegli anni è tra i principali produttori in Europa. Ma anche marijuana, «nell’ordine di 60-80 chili al mese», ammetterà lo stesso Imperiale quasi vent’anni più tardi. Il flusso è continuo, agevolato anche dalle capacità imprenditoriali di Imperiale il quale nel frattempo in terra olandese aveva avviato un’attività di import-export di prodotti floreali come copertura di facciata.

Per approfondire

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Dalla provincia di Napoli agli Emirati, passando per Amsterdam. Storia di un criminale collegato alla mocromafia, la nuova criminalità emergente dei Paesi Bassi

L’Olanda offre numerose opportunità. Da un lato, il porto di Rotterdam e quello non lontano di Anversa in Belgio erano e sono i principali attracchi europei della cocaina in arrivo dal Sud America; dall’altro, in quanto porta d’ingresso della polvere bianca in Europa, in Benelux gravitano tra i più importanti trafficanti europei e sudamericani che, se sfruttati al meglio, consentono di mettere in piedi una propria linea di approvvigionamento, scalzando onerosi intermediari. Raffaele Imperiale coglie questa opportunità e ben presto all’amico Amato è in grado di garantire i primi redditizi carichi di cocaina. La logistica è la stessa: insospettabili camion dalle insegne floreali percorrono ogni mese la tratta Amsterdam-Napoli, ciascuno con a bordo 200-300 chili di cocaina proveniente dalla Colombia.

Il clan Amato, allora alleato con quello dei Pagano, grazie a Imperiale è in grado di mettere in piedi un mercato parallelo all’insaputa del potente clan dei Di Lauro. Tutti dettagli messi nero su bianco in quell’ordinanza del 2015, dieci anni dopo dai fatti descritti, grazie alla collaborazione di una dozzina di collaboratori di giustizia.

Nuovi boss e nuovi equilibri: la faida di Scampia

Intanto, nei primi anni Duemila a Paolo Di Lauro subentrano i figli Cosimo, Ciro e Marco. I giovani boss avviano una campagna di repulisti, sostituendo vecchi capi-piazza con nuove leve. È il preludio alla guerra intestina che scoppierà da lì a poco. Dalla Spagna era rientrato infatti Raffaele Amato, fedelissimo dell’ex capoclan, eppure messo da parte come tanti altri dirigenti del clan. Intorno ad Amato si raggruppano così gli “scissionisti”, detti altrimenti “gli spagnoli”.

Il distacco tra i Di Lauro e gli Amato-Pagano è lento ma progressivo. Inevitabile è infine la rottura, guidata dalle ambizioni di indipendenza di Raffaele Amato e alimentata dagli imponenti traffici gestiti da Imperiale, che si schiera insieme agli “scissionisti”. La faida di Scampia deflagra nel 2004. Tra affiliati, fiancheggiatori e persone innocenti, lo scontro a fuoco ha causato almeno 70 morti in poco più di un anno. Ne scoppierà una seconda nel 2010, ed infine una terza nel 2012 tra gli stessi clan scissionisti.

Alla prima faida Raffaele Imperiale non rappresentava soltanto «la principale fonte economica degli Amato-Pagano» ma anche un fornitore di uomini e armi. Secondo i pentiti dell’epoca, infatti, «fu proprio lui [Imperiale, nda] nel 2004 a rifornire di armi gli Amato-Pagano quando scoppiò la faida».

Imperiale è imprescindibile per le ambizioni degli Amato, al punto che «il gruppo è nato e si è sviluppato grazie al suo decisivo contributo», scrivevano i pm. Tradotto: senza Raffaele Imperiale gli “scissionisti” non avrebbero mai avuto la forza sufficiente per affrontare la guerra con i Di Lauro. Guerra dalla quale, almeno in un prima fase, usciranno vincitori.

Le faide di Scampia

Prendono il nome dal quartiere napoletano di Scampia ma le faide hanno coinvolto numerose zone di Napoli e altre periferiche della parte nord del capoluogo campano. La prima scoppia nel 2004 ma le avvisaglie di una imminente spaccatura all’interno dell’ampio sottobosco criminale di Napoli si registrano almeno da due anni prima. Nel 2002, infatti, rientra dalla Spagna Raffaele Amato, reggente dell’omonimo clan da tempo fedele a quello dei Di Lauro. Paolo Di Lauro è un boss di portata internazionale ed è lui, di fatto, a controllare l’immensa area di spaccio che comprende un pezzo di Napoli nord, soprattutto i quartieri di Scampia e Secondigliano. Quell’anno gli inquirenti ottengono il riconoscimento dell’organizzazione mafiosa per il clan Di Lauro. Il boss si è dato alla macchia e si trova costretto a passare la mano ai suoi figli.

I giovani boss però non condividono il rispetto che il padre ha verso Raffaele Amato il quale, una volta rientrato a Napoli, è da loro accusato di tradimento. A sua volta, il boss in arrivo dalla Spagna accoglie sfavorevolmente l’idea dei figli di svecchiare il clan e ribaltare le vecchie gerarchie con nuove batterie di spacciatori e capipiazza. Il 28 ottobre 2004 è la data che apre una stagione di indicibile violenza, nel cuore di una delle capitali d’Europa. In poco più di un anno saranno 70 le vittime su entrambe le fazioni, da un lato quella dei Di Lauro, dall’altro i cosiddetti “scissionisti” capeggiati dagli Amato. Ne usciranno vincitori, momentaneamente, questi ultimi quando un bacio dato da Paolo Di Lauro all’interno di un’aula di tribunale a Vincenzo Pariante, uno dei capiclan degli “scissionisti”, sancisce la tregua.

La seconda faida si ritiene abbia inizio a fine 2010. Questa volta la frattura avviene tra gli “scissionisti” stessi. Ancora una volta da un lato rimangono gli Amato-Pagano, contrapposti ora alle “cinque famiglie”, dette anche i “girati” dal gergo napoletano che indica colui che tradisce. Il sangue riprende a scorrere a Scampia e Secondigliano, i quartieri roccaforte dei clan in guerra. Saranno circa 30 le vittime in poco più di un anno. Le uccisioni poi si interrompono, forse per la grande attenzione mediatica – nazionale e internazionale – che avevano causato. Gli scontri, tuttavia, riprendono agli inizi del 2012 poiché la seconda faida non aveva decretato un vero vincitore. Le fazioni avverse sono le medesime e la terza faida è di fatto la prosecuzione della seconda.

Durante l’intero protrarsi delle faide, Raffaele Imperiale riuscirà a tenersi a debita distanza dagli scontri armati, pur sostenendo in maniera cruciale il clan Amato-Pagano, sia garantendo loro un flusso costante di cocaina – e quindi di preziose risorse economiche – sia rifornendo gli scissionisti di armi e uomini. Averlo dalla propria parte voleva dire disporre di un vantaggio cruciale nei confronti del nemico.

In merito a Imperiale, un collaboratore di giustizia che ai tempi della faida era a capo di un gruppo criminale autonomo dirà agli inquirenti: «Era lui la chiave del problema [la faida, ndr] e che poteva determinare la svolta nei rapporti di forza. Portarlo dalla nostra parte significava acquisire il controllo della principale fonte di importazione della droga in Campania».

Attilio Repetti: la finanza, la Fiorentina e il Rotary Club di Genova

Alla base dello strapotere esercitato da Raffaele Imperiale non possono che esserci i soldi che i suoi traffici generavano. Gli inquirenti, grazie a intercettazioni ambientali, sequestri e alle dichiarazioni di pentiti dell’epoca, stimavano in 16-17 milioni di euro il fatturato annuo generato dal traffico di cocaina. Tutto messo nero su bianco nell’ordine di custodia cautelare datato 2015 che gettava la prima, e a oggi unica, luce sulla rete messa in piedi da Imperiale.

Un solo carico andato a buon fine poteva fruttare 5-6 milioni di euro di profitto, sufficiente a saturare il mercato per circa sei mesi. «Se i fornitori [di Imperiale, nda] acquistavano dal Sud America erano di un quantitativo non inferiore ai 1.000 chili», ha dichiarato un collaboratore. In questi casi il prezzo al chilo era particolarmente allettante, inferiore ai 20.000 euro, a cui veniva applicata una maggiorazione nella vendita al dettaglio sulla piazza napoletana che raggiungeva i 35.000 euro al chilo. Se invece lo stupefacente transitava per la Spagna, il prezzo di acquisto era più alto: 25.000 euro al chilogrammo.

Il traffico internazionale di stupefacenti riconducibile a Imperiale era «in grado di determinare introiti impressionanti» – scrivevano gli inquirenti – la cui rete rappresentava il livello più alto della catena di importazione e che occupava «una posizione quasi monopolistica per l’importazione della cocaina nella provincia di Napoli e, dunque, della Campania».

Ma come reimpiegare somme tanto elevate? Come investire gli introiti in maniera – almeno in parvenza – lecita? Per farlo, si affidava ad Attilio Repetti. Originario di Genova, con un trascorso in Ferrovie Nord Torino nonché una breve parentesi nel Cda della Fiorentina, membro del Rotary genovese, Repetti era considerato un “finanziere d’assalto” in Liguria. Le strade tra il broker ligure e la camorra si erano incrociate già nei primi anni ‘90 quando un’indagine della Direzione investigativa antimafia di Genova portò all’arresto di 36 persone, accusate di riciclare denaro attraverso «l’acquisizione di attività imprenditoriali e l’acquisto di partecipazioni in società per azioni, di beni immobili, di attività turistiche e di pubblici servizi», scriveva La Stampa. Era il 1993 e la camorra dimostrava già di saper sfruttare al meglio i colletti bianchi e la finanza internazionale per riciclare i propri proventi. Tra gli arrestati in quell’operazione, battezzata Mare Verde, figuravano infatti, tra gli altri, due ex direttori del Banco di Napoli in Liguria.

Repetti fu accusato di un tentativo poi fallito di riciclare i soldi per gli allora boss Michele Zaza e Carmine Alfieri attraverso la finanziaria Finligure di cui era presidente. Allora era stato assolto pienamente, ma nel 2016 lo hanno arrestato a Genova con l’accusa di aver riciclato il denaro sporco di Raffaele Imperiale e del clan Amato-Pagano.

Secondo l’accusa, il broker avrebbe progettato un sofisticato sistema con il quale il contante, che a lungo Imperiale aveva tenuto al sicuro in Olanda, sarebbe transitato verso una società appositamente creata sull’Isola di Man e di cui Repetti, per conto di Imperiale, era il legale rappresentante. Dal paradiso fiscale sull’isola tra Irlanda del Nord e Regno Unito, il denaro avrebbe dovuto essere trasferito in una società di diritto spagnolo intestata alla madre di Imperiale. Per aggirare gli eventuali problemi con il fisco iberico che avrebbe segnalato l’arrivo di fondi da un noto paradiso fiscale, Repetti in una mail suggeriva di registrare una società a Londra da dove bypassare il denaro diretto in Spagna.

Qui, sarebbe stato utilizzato in due modi: per aumentare il capitale sociale della società spagnola e per acquistare beni mobili e immobili. Durante le indagini, gli inquirenti avevano contato almeno 15 appartamenti, 10 ville, 17 box auto a Madrid e dintorni, e un’imbarcazione, riconducibili a Imperiale. Il coinvolgimento di Repetti era giudicato dai pm della procura di Napoli come un «quadro indiziario gravissimo».

Lo shopping dei passaporti

17 maggio 2013: Attilio Repetti scrive un’email urgente a un suo contatto, Raffaele Maiorano, all’epoca «ambasciatore presso il Presidente della Repubblica di Guinea», si legge nell’ordinanza. O meglio, «ambasciatore itinerante» come si legge invece nel profilo di Linkedin; una carica sempre di natura diplomatica che è assegnata però in questo caso dalla Presidenza della Repubblica della Guinea Conakry, per meriti particolari.

«All’imprenditore – scrive il commercialista Repetti a Maiorano, riferendosi al suo cliente Raffaele Imperiale – interessa avere – CON URGENZA per motivi d’affari un passaporto, al momento di un paese Centro e Sud America, dove il cognome sia solo quello della madre». Al momento ne ha già due, uno italiano e uno spagnolo, e forse si prepara già alla latitanza con un terzo documento. Repetti e Maiorano tenteranno di procurare un passaporto, meglio se «diplomatico» – così da consentire una più libera circolazione al suo datore di lavoro tra Europa e Medio oriente – della Costa Rica, del Messico e di Trinidad e Tobago. Costo dell’operazione per quest’ultimo: 150 mila euro, da consegnare in due tranche.

«Per questo caso ci dobbiamo vedere e parlare da vicino», diceva Maiorano, il quale, consapevole della complessità della richiesta, faceva pressioni su Repetti perché velocizzasse l’invio delle generalità del suo assistito con cui avviare la pratica: «Io ho messo a posto la situazione lì per te e il tuo amico» ma «mi devi capire Attilio», diceva Maiorano al telefono, «la gente è molto importante, non posso giocare con loro», altrimenti «lo devono dare a un altro [il passaporto, nda], mica aspettano noi!».

Raggiunto telefonicamente da IrpiMedia, il legale di Repetti, l’avvocato Giovanni Ricco, ha preferito non rilasciare dichiarazioni.

Gli investimenti immobiliari del duo Imperiale-Repetti coinvolgevano anche Dubai. L’emirato era stato scelto da Imperiale quale sede per l’apertura di un’altra società (tra i cui soci, quasi per scherno, figurava “Rafael Empire Zara” laddove quest’ultimo era il cognome della madre) con cui, nelle intenzioni e a riprova delle disponibilità economiche del broker campano, intendeva avviare la costruzione di dieci ville dal valore di 20 milioni di dollari ciascuna. Quella società sarebbe poi servita come schermo per i futuri investimenti mentre Dubai, a partire almeno dal Natale del 2013, sarebbe diventato il nascondiglio dorato di Imperiale per il resto della sua latitanza, terminata con l’arresto della scorsa estate.

Si è chiusa infatti il 4 agosto la carriera criminale di quello che è forse stato il broker più rilevante nella storia della camorra, capace di determinarne la storia per quasi un quarto di secolo. Tanto quanto la durata della sua latitanza. Significativo della sua abilità è che in quel lasso di tempo, a suo carico, risulti ad oggi soltanto quell’ordinanza del 2015 firmata dal gip di Napoli. In quelle pagine, quasi a concedere un inconfessabile onore delle armi, si legge: «L’assenza di precedenti penali da parte di Imperiale Raffaele […] è un dato che appare persino beffardo».

Editing: Lorenzo Bagnoli | Foto: una “vela” di Scampia, a lungo simbolo del quartiere a nord di Napoli – Elaborazione IrpiMedia su immagine di Ivan Romano/Getty Images

Società fantasma, container e camorra: le sigarette di contrabbando cinesi in Italia

Società fantasma, container e camorra: le sigarette di contrabbando cinesi in Italia

Alessia Cerantola
Andrei Ciurcanu

Quattro agosto 2016. Due contrabbandieri e una dirigente rumena della China Tobacco sfrecciano per le strade di Napoli a bordo di una Golf. Sono di ritorno da Salerno dove hanno lasciato un container che nei loro piani avrebbe dovuto raggiungere la Libia via mare. I tre hanno escogitato un piano: dichiarare che il container affittato pieno di sigarette avrebbe raggiunto la Libia, evitando così il pagamento delle accise europee. A bordo del container diretto verso il nord Africa però non si trova un carico di “bionde”, bensì 17 tonnellate di materiale vario come mattoni, cartoni e materassi. Al contrario, le sigarette sono state stipate in un altro container, poi nascosto in un garage della provincia campana.

Il trio sta mettendo in atto quello che i procuratori italiani hanno poi definito un piano «ingegnoso» per contrabbandare tonnellate di sigarette cinesi in Europa e venderle sul mercato nero. Una telefonata interrompe però la loro corsa e getta i tre nel panico. All’altro capo del telefono c’è il figlio dell’autista, uno dei due contrabbandieri, con una brutta notizia: la Guardia di finanza sta facendo irruzione nel garage in cui era stato nascosto il carico di sigarette da contrabbandare.

La Golf usata dai contrabbandieri – Foto: Guardia di finanza

La donna, intercettata, chiede: «Come fanno a saperlo?». Ha molto da perdere, essendo un alto dirigente della China Tobacco International Europe (CTIEC) e buone ragioni per essere preoccupata: i suoi compagni di viaggio sono contrabbandieri esperti che in passato avevano lavorato con la camorra. La CTIEC è la filiale romena del più grande produttore di sigarette al mondo, la China Tobacco Corporation, meglio conosciuta come China Tobacco, e il caso testimonia per la prima volta l’impegno dei funzionari di China Tobacco nel contrabbando di sigarette al tavolo con gli uomini della criminalità organizzata in Europa. Non solo: la polizia romena sospetta che altri funzionari di China Tobacco contrabbandino sigarette in Ucraina e Moldavia servendosi delle medesime reti criminali.

L’Europa è una regione chiave per il colosso cinese. Anche se China Tobacco controlla quasi la metà del mercato globale delle sigarette, la maggior parte di queste viene venduta ai circa 300 milioni di fumatori cinesi. L’azienda sta cercando così di espandersi in nuovi mercati e, dicono gli esperti del settore, il contrabbando è una delle strategie che i giganti del tabacco hanno storicamente messo in campo per espandere il proprio bacino di consumatori.

CTIEC in una mail a OCCRP ha risposto di aver sempre seguito le normative, fatto le dovute verifiche sul personale, cooperato con le autorità doganali e preso altre misure per combattere il commercio illegale di tabacco. «Come società con sede in Romania – sostiene la CTIEC – ci siamo impegnati a rispettare le leggi e i regolamenti in Romania e negli altri Paesi in cui operiamo».

Adina Ionescu, la dirigente coinvolta nel caso, ha negato ogni coinvolgimento nel giro di contrabbando: «Non parlo italiano ora, non parlavo italiano prima e non conoscevo questi personaggi», ha detto, ma le intercettazioni telefoniche, le carte giudiziarie e una ricostruzione temporale precisa raccontano invece una storia diversa. Gli inquirenti definiscono Ionescu una «pedina centrale» in una operazione di contrabbando che si estende in tutta Europa.

Al centro di questa rete c’è una fabbrica nel mezzo della campagna rumena. L’impianto, di proprietà della CTIEC, produce alcune delle marche illecite di sigarette più popolari in Europa, e ha fornito aziende legate ai contrabbandieri in diversi Paesi, Italia compresa.

La fabbrica rumena

Sulle rive di un fiume che scorre attraverso le colline boscose a nord di Bucarest si trova uno dei più grandi investimenti cinesi in Romania: una fabbrica di sigarette. L’edificio senza pretese vicino alla piccola città agricola di Parscov esiste dall’inizio del 2000 come investimento minore di una filiale della China Tobacco. Ma a partire dal 2007, è stato ribattezzato come China Tobacco International Europe Company (CTIEC) con l’idea che la fabbrica potesse servire come avamposto principale della Cina per espandere le vendite di sigarette in Europa. Dai primi anni 2000, la Cina ha investito oltre 40 milioni di dollari nella struttura.

TobaccoChina Online, una rivista di settore, ha descritto come CTIEC abbia usato questo denaro oltre che per promuoversi grazie all’amministrazione statale cinese, anche per investire in nuove tecnologie e aggiornare la sua linea di produzione.

La China Tobacco International Europe Company in Romania- Foto: Andrei Ciurcanu

«Come pioniere nell’implementazione della strategia “Go Global” di China Tobacco, China Tobacco International Europe ha l’ambizione di  diventare un marchio leader mondiale», ha annunciato CTIEC sul suo sito ufficiale. Nel 2018 CTIEC ha prodotto quasi 2 miliardi di sigarette all’anno – marche molto economiche come Dubao, Dubliss e D&B, così come alcune delle offerte di fascia alta di China Tobacco, come Marble e Regina. Ma nonostante le alte ambizioni di CTIEC, o forse a causa di esse, una parte della sua produzione stava trovando uno sbocco nei mercati illegali.

La polizia rumena ha iniziato quindi a indagare sulla fabbrica. Nel 2015, ha aperto un’indagine per verificare se i funzionari della fabbrica stessero contrabbandando sigarette attraverso il confine dell’Unione europea in combutta con imprese moldave e ucraine. La polizia non ha dato ulteriori informazioni sulla sua indagine, che rimane aperta ma non ha portato ad alcun procedimento penale.

Restano domande su chi ci sia esattamente dietro il contrabbando e sul coinvolgimento dello staff della CTIEC. Ma quello che è chiaro è che Marble e Regina sono diventati alcuni dei marchi più contrabbandati in Europa negli anni successivi alla strategia “diventare globale” di China Tobacco.

In Italia, le sigarette Regina sono diventate rapidamente la marca più contrabbandata del Paese: nel 2016, la metà di tutte le sigarette del mercato nero sequestrate erano Regina. Cosimo De Giorgi, capo della sezione dogane della Guardia di finanza, ha detto che non si può escludere che il marchio Regina sia un “cavallo di Troia”, fatto su misura per coltivare un mercato italiano di sigarette cinesi.

Marble e Regina sono diventati alcuni dei marchi più contrabbandati in Europa negli anni successivi alla strategia “diventare globale” di China Tobacco

Il marchio, ha sottolineato ancora De Giorgi, è oggi diffuso soprattutto nelle regioni più povere d’Italia, perché è più economico delle sigarette legali. La Guardia di finanza sospetta anche che China Tobacco stia contrabbandando imballaggi e materie prime per le sigarette Regina alle numerose fabbriche di tabacco illegali della Campania, dove possono essere prodotte e vendute localmente.

In questo modo, «la Cina non perde un solo yuan in accise, poiché queste vengono pagate al Paese in cui le sigarette vengono vendute» ha detto De Giorgi. «D’altra parte – conclude – la Cina promuove i suoi prodotti e spiana la strada al suo mercato di sigarette».

Nonostante il grande e crescente numero di sigarette che produce in Europa, China Tobacco è difficile da monitorare. Non è una società quotata in borsa e non è obbligata a rilasciare informazioni finanziarie, così non lo fa. Il sito ufficiale della CTIEC è offline da quasi un anno. In un rapporto del 2018 sul contrabbando di tabacco in Romania, il capitolo su CTIEC era quasi vuoto. Il rapporto identificava CTIEC come la filiale nazionale di China Tobacco International, dicendo: «Non è stato possibile analizzare le attività anti contrabbando della filiale rumena di CTI. La società non ha risposto alle richieste dei ricercatori». Tuttavia, OCCRP è riuscito a ottenere uno storico di dieci anni di dati commerciali dell’azienda.

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I numeri mostrano come molte delle sigarette prodotte nella filiale rumena siano state vendute ad aziende in aree colpite dalla guerra o da disordini civili: Iraq, Siria, Libia e territori occupati dalla Russia in Ucraina, Moldavia e Georgia. Tutte queste aree, secono Luk Joosens, esperto internazionale del commercio illegale del tabacco, sono famigerati “buchi neri” per le sigarette di contrabbando.

CTIEC ha anche venduto a New Eastern Management, una società registrata in Liberia che è stata citata in un recente rapporto investigativo come un importante protagonista nel contrabbando di sigarette fuori dal Montenegro. Tre diverse aziende ucraine che hanno comprato sigarette da CTIEC sono attualmente sotto inchiesta nel loro Paese per contrabbando di tabacco.

«Quello che stanno facendo ora – commenta Joosens – è esattamente ciò che hanno fatto le altre compagnie del tabacco negli ultimi 25 anni. Esportano, dicendo “non sappiamo dove vada a finire ciò che esportiamo”. Tutto – conclude – in Paesi troppo piccoli per le ingenti quantità di sigarette che ricevono».

CTIEC ha negato qualsiasi atto illecito, ribattendo che le spedizioni nei paesi del Medio oriente e dell’Europa sono «giustificate in base alla domanda del mercato». Tuttavia CTIEC ha ammesso come la quota di mercato in tali Paesi fosse «molto bassa o insignificante». «CTIEC – conclude la società – si sforza continuamente nel migliorare le pratiche commerciali riguardo le misure di controllo dei rischi», aggiungendo di non poter commentare però le accuse di contrabbando.

Il nodo napoletano

La CTIEC ha fatto sapere di aver immediatamente licenziato Adina Ionescu non appena scoperto il suo presunto ruolo nel contrabbando di sigarette in Italia usando un container “clonato”. Ma le intercettazioni della Guardia di finanza suggeriscono che i legami con i controbbandieri moldavi e italiani in rapporti con la criminalità organizzata fossero risalenti nel tempo.

«Il contatto – si legge nelle intercettazioni è sempre lo stesso: Adina. Lei conosce le procedure doganali». In un’altra conversazione, uno dei contrabbandieri moldavi ha parlato del ruolo sia di CTIEC, sia della società madre, la China Tobacco. «I soldi saranno diretti allo Stato cinese, hai capito?», spiegava a Raffaele Truglio, contrabbandiere esperto che si occupava del trasporto delle sigarette e aiutava a organizzare l’uso del magazzino di Napoli dove erano conservate.
«La fabbrica è di proprietà dello Stato cinese. E il tuo profitto sarà inviato al tuo IBAN o quello di Salvatore», ha detto il moldavo, citando un altro membro del gruppo. «Salvatore tiene la nostra parte, paga i soldi alla fabbrica cinese. Una volta che i soldi arrivano lì, la merce sarà spedita in Libia. Radwan deve prendere la merce e chiudere i nostri documenti».

Gli investigatori italiani non hanno mai identificato la persona identificata come “Radwan” o “Raduan” a cui si riferiva il gruppo di contrabbandieri nelle intercettazioni. Tuttavia questa inchiesta, grazie all’incrocio di fonti e documenti, ha potuto verificare come il personaggio in questione fosse in realtà Rodwan Omar Ahmed Elmagrebi, un uomo d’affari in Italia con connessioni di alto livello in patria, la Libia.

Elmagrebi ha dichiarato a OCCRP di non avere nulla a che fare con questo caso di contrabbando, anche se è stato menzionato nelle intercettazioni come qualcuno che avrebbe potuto aiutare a portare il container pieno di spazzatura in Libia.

Il sequestro della Guardia di finanza – Foto: Guardia di finanza

Nel luglio 2016, dopo due tentativi falliti di mettere in atto il piano, il gruppo ha prenotato un passaggio di un container sulla Messina Line, una delle più grandi compagnie di trasporto merci che serve il Mediterraneo. Poi hanno comprato un vecchio container delle stesse dimensioni, l’hanno dipinto dell’esatta tonalità di arancione usata da Messina e hanno aggiunto lo stesso numero di identificazione di quello vero.

Dopo la verniciatura, il falso container è stato inviato alla fabbrica di China Tobacco, a nord di Bucarest, per essere caricato con 8,9 milioni di sigarette che i contrabbandieri avevano comprato per 66.200 dollari, o 0,15 dollari a pacchetto. In Italia, il prezzo era ancora più alto – tra 2 e 3 euro a pacchetto sul mercato nero, secondo i media locali.  Ciò significa che vendendo l’intero carico i contrabbandieri avrebbero potuto ottenere un profitto di circa un milione di dollari.

Le sigarette sono state riportate in Italia, dove Ionescu le aspettava in un magazzino usato da Truglio. Lì vicino, un container identico era stato riempito di mattoni, cartone e vecchi materassi che pesavano esattamente la stessa quantità. Nel momento in cui le sigarette sono arrivate in Italia, Ionescu e altri tre contrabbandieri hanno accelerato verso il porto con il loro container pieno di spazzatura. Speravano di portarlo al largo prima che qualcuno si rendesse conto che c’erano due container in Italia che condividevano la stessa identità.

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Sfortunatamente per i contrabbandieri, la Guardia di finanza aveva seguito le loro mosse. Le autorità sono intervenute non molto tempo dopo il trasporto del container pieno di sigarette di contrabbando nel magazzino di Truglio.

«Il carico con i materassi da spedire in Libia, l’abbiamo sequestrato in partenza nel porto di Salerno», ha spiegato il tenente Dionigi Orfello, l’ufficiale della Guardia di finanza che ha coordinato l’operazione.  «L’altro, quello con le sigarette – conclude Orfello – l’abbiamo sequestrato nel magazzino di Truglio a Napoli».

La banda a quel punto se la prende con la dirigente di CTIEC: «gliela farò pagare, le taglierò la testa», sbotta uno dei componenti, intercettato. Truglio è ora in carcare in attesa del processo, mentre Adina Ionescu è stata estradata in Italia dalla Romania. Dopo alcuni mesi di carcere la donna è tornata libera in Romania e in una intervista telefonica ribadisce la propria innocenza.

Campanelli d’allarme

La CTIEC – dice il tenente Orfello – sosteneva che Truglio avesse rubato il carico di sigarette, tanto che l’azienda ha presentato anche una denuncia nei confronti di Truglio dicendo che l’uomo sostiene il falso. Tuttavia, diversi aspetti del caso suggeriscono che CTIEC sapesse, o quantomeno avrebbe dovuto sapere che le sigarette fossero destinate al mercato nero.

Per prima cosa, la società libica destinata a ricevere le merci, Al Emteyaz, aveva sede nella città portuale di Misurata, un importante centro di contrabbando anche prima che fosse devastato dai pesanti combattimenti della guerra civile che ha seguito il rovesciamento di Muammar Gheddafi nel 2011.

Dentro la rotta del contrabbando – OCCRP

«La Libia – sottolinea l’esperto analista del settore Luk Joosens – non ha quasi nessuna tassa sulle sigarette e ha un enorme problema con il contrabbando. Tutto il traffico per l’Africa – conclude – passa attraverso il Niger e la Libia».

Solo nel 2016, CTIEC ha riferito di aver inviato oltre 350 milioni di sigarette in 33 spedizioni separate ad Al Emteyaz. Questa inchiesta però non è stata in grado di individuare l’indirizzo della società o le informazioni di contatto per chiedere un commento.

Un campanello d’allarme ancora più importante è la Devmak, una società irachena acquirente delle sigarette, che le avrebbe consegnate ad Al Emteyaz – almeno secondo alcuni documenti in possesso di OCCRP e IrpiMedia.

Devmak, come mostrano i documenti doganali era uno dei principali clienti della fabbrica CTIEC. Ha acquistato quasi un terzo dell’intera produzione di CTIEC dal 2014 al 2020, spendendo venti milioni di dollari per 2,6 miliardi di sigarette Regina, Dubao e D&B.

Non è chiaro se tutte le sigarette elencate come acquistate dalla Devmak siano effettivamente arrivate in Iraq, o se alcune o tutte siano state poi inviate da altre parti. Secondo Joossens però il volume inviato in Iraq risulta sospetto.

«Se la Romania produce marche cinesi ed esporta miliardi in Iraq e nessuno compra marche cinesi in Iraq, allora c’è un problema», ha osservato lo stesso Joosens. Devmak, nonostante i volumi dichiarati, tiene un profilo molto basso. I reporter di OCCRP hanno trascorso diverso tempo cercando di rintracciare prove della sua esistenza, almeno da un punto di vista legale. La società è registrata a Duhok, centro a nord del Kurdistan iracheno, snodo fondamentale per il contrabbando di sigarette. Tuttavia della Devmak non ci sono tracce nell’edificio in cui risulta registrata, e all’interno della stessa palazzina diverse persone hanno dichiarato di non aver mai sentito parlare della società. La Camera di commercio irachena non ha risposto a una richiesta di informazioni sull’azienda.

Le tracce della Devmak sono emerse in un luogo all’apparenza improbabile: dopo il sequestro a Napoli gli investigatori hanno fatto irruzione nell’appartamento di Adina Ionescu, la dirigente di CTIEC, in Romania e lì hanno trovato i timbri della società. Gli stessi che sono stati utilizzati per convalidare i documenti doganali e che dovrebbero rimanere nella disponibilità degli amministratori della società stessa.

La scoperta suggerisce che Devmak sia stata utilizzata come veicolo societario per contrabbandare le sigarette della CTIEC. Alla richiesta del motivo della disponibilità dei timbri Devmak Ionescu non ha risposto interrompendo la comunicazione telefonica, e allo stesso tempo la stessa CTIEC, invocando la riservatezza dei propri clienti, non ha voluto commentare né la presenza di Devmak nella vicenda né i grossi ordini della stessa società irachena.

CTIEC ha poi comunicato agli autori di questa inchiesta dell’avvenuto licenziamento di Ionescu subito dopo i fatti del 2016, in realtà questa inchiesta ha potuto ricostruire come la stessa abbia continuato a lavorare per CTIEC nei tre anni successivi, fino a gennaio 2019, quando ha abbandonato l’azienda con una buona uscita di 30 mila euro.

CREDITI

Autori

Alessia Cerantola
Andrei Ciurcanu

In partnership con

OCCRP

Editing

Luca Rinaldi

Foto

Svetlana Tiourina

Il Vallo di Diano, cerniera di traffici tra ‘ndrangheta e camorra

7 Luglio 2021 | di Sara Manisera, Pasquale Sorrentino

Il Vallo di Diano è un’area pianeggiante della provincia di Salerno, racchiusa tra le dorsali appenniniche e il fiume Tanagro. Per la sua posizione geografica – tra la Basilicata, la Calabria e il nord della Campania, e per la presenza dell’Autostrada Salerno-Reggio Calabria – l’area svolge da sempre un importante ruolo di cerniera e di connessione. Queste caratteristiche l’hanno resa almeno da trent’anni appetibile alle mire espansionistiche ed egemoniche delle organizzazioni criminali campane e calabresi.

È dentro questo contesto storico di commistione tra impresa e criminalità che ha origine la vicenda della Sviluppo Risorse Ambientali, la società al centro del traffico di rifiuti tra Italia, Tunisia e Bulgaria di cui abbiamo scritto.

Il Vallo di Diano è un territorio aperto, vasto e spopolato, privo di presidi dello Stato e di forze dell’ordine. Nel 2012, la riforma della geografia giudiziaria ha eliminato il Tribunale di Sala Consilina e la Procura, portando alla riduzione del numero di finanzieri e alla chiusura del carcere del Vallo di Diano. L’ex tribunale di Sala Consilina è stato annesso a quello di Lagonegro, che si trova nel distretto di Potenza, quindi in Basilicata e non in Campania; un caso unico in Italia, dove, in base alla riforma della geografia giudiziaria del 2012 i tribunali “accorpati” sono sempre rimasti all’interno della provincia.

All’assenza di presidi dello Stato, si aggiunge quella dei servizi e lo spopolamento: in una superficie di oltre 800 km², vivono solo 60 mila persone, in un territorio composto da piccoli paesi – Sala Consilina è l’unica cittadina con circa 12 mila residenti – dove i cittadini sono spesso uniti da rapporti parentali o di amicizia. In questo contesto le organizzazioni criminali si insediano senza alcuno sforzo – e senza che al loro agire sia opposta alcuna resistenza – approfittando dell’assenza dello Stato, di una diffusa omertà e della possibilità di riciclo dei capitali. Benché dal punto di vista giudiziario la presenza delle organizzazioni di stampo mafioso sia stata messa in dubbio da alcune assoluzioni, il processo di colonizzazione è cominciato oltre trent’anni fa, quando camorristi e ‘ndranghetisti sono stati costretti dal soggiorno obbligato a trasferirsi in questo territorio. Con il tempo, il Vallo di Diano è diventato sempre più un crocevia di interessi economici e criminali.

Il soggiorno obbligato

Dal 1965 al 1995, il soggiorno obbligato è stata una misura cautelare che prevedeva per un condannato l’obbligo di soggiornare con limitazioni in una località scelta fuori dal proprio contesto d’origine. Il soggiorno obbligato avrebbe dovuto prevenire il rafforzamento dei legami mafiosi. Durante un’audizione alla Commissione antimafia nel 1993, il collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo ha però dichiarato che il soggiorno obbligato «è stata una cosa buona in quanto ci ha dato modo di contattare altre persone, di conoscere luoghi diversi, altre città, zone incontaminate dalla delinquenza organizzata». Questa considerazione di Mutolo è suffragata da diverse indagini antimafia in territori in origine estranei alle organizzazioni criminali mafiose.

Ciò che emerge dalle carte delle inchieste e dalle attività investigative condotte negli ultimi dieci anni nel Vallo di Diano non delinea solamente uno scenario criminale di gruppi dediti al traffico di stupefacenti, estorsioni e smaltimento dei rifiuti: «Il Cilento e il Vallo di Diano – si legge nella relazione della Direzione investigativa antimafia (DIA) del 2019 – oltreché essere luoghi prescelti per la latitanza da parte di camorristi napoletani e casertani, negli ultimi anni stanno emergendo per attività di riciclaggio e reimpiego di capitali di provenienza illecita, investiti in loco da sodalizi provenienti dall’area napoletana nonché per la presenza, nella gestione di attività commerciali e del traffico di sostanze stupefacenti, di soggetti legati a consorterie ‘ndranghetiste, che hanno qui esteso la loro influenza tramite pregiudicati locali».

Secondo il Procuratore Distrettuale Antimafia di Potenza Francesco Curcio, il territorio del Cilento meridionale, del Vallo di Diano e il lagonegrese (l’area della comunità montana di Lagonegro, in provincia di Potenza, ndr) sono sempre più contaminati dalla presenza mafiosa che «seppur silente sotto il profilo militare, sta acquisendo posizioni economiche di assoluto predominio attraverso una incessante attività di riciclaggio accompagnata da episodi di sintomatica intimidazione verso la concorrenza».

I protagonisti
  • Francesco Muto: classe 1940, detto il “re del pesce”. Capobastone della ‘ndrina Muto di Cetraro (Cosenza), a Sala Consilina dagli anni Novanta, inizialmente in soggiorno obbligato.
  • Vito Gallo: luogotenente del clan Muto nel Vallo di Diano. Protagonista, insieme a Pietro Valente, di diversi episodi di estorsione.
  • Luigi Cardiello: noto come il “Re Mida” della spazzatura. Originario di San Pietro al Tanagro, è stato arrestato ad aprile 2021 per traffico di rifiuti
  • Gaetano Vassallo: per oltre vent’anni ha gestito gli sversamenti abusivi dei rifiuti sotto la protezione del clan dei casalesi. Nel 2008 diventa collaboratore di giustizia e nel 2010 è condannato per traffico di rifiuti e associazione camorristica.
  • Raffaele Diana: manager dei rifiuti che fungeva da collegamento dei casalesi con il Vallo di Diano. Da circa dieci anni si è trasferito a San Pietro al Tanagro.
  • Michele Cicala: presunto boss dell’omonimo clan a Taranto. Indagato nell’operazione Febbre dell’oro nero.

Le prime indagini

La data spartiacque per ricostruire la storia dell’infiltrazione mafiosa nel Vallo di Diano è il 1990. È allora che Francesco Muto, detto il “re del pesce”, viene mandato in soggiorno obbligato a Sala Consilina. Francesco Muto non è uno qualunque: è il capo di una delle più agguerrite ‘ndrine calabresi.

Nato nel 1940, costruisce il suo impero imprenditoriale mafioso grazie al monopolio del mercato ittico dell’area del nord Tirreno calabrese: da Scalea ad Amantea, lungo il litorale cosentino, non si vende pesce senza il suo consenso. Una posizione acquisita nel corso degli anni fino a farlo sedere al tavolo con esponenti della ‘ndrangheta reggina e con la camorra napoletana, da Raffaele Cutolo a Carmine Alfieri, ovvero l’ex capo della Nuova Camorra Organizzata (morto a febbraio del 2021) e l’ex boss del clan Nuova Famiglia diventato collaboratore di giustizia.

Il potere della ‘ndrina Muto non si limita al controllo del mercato del pesce. Come ha rilevato l’operazione Godfather del maggio 2004, il potere dei Muto arriva fino al mondo bancario, alle aziende sanitarie e alle amministrazioni comunali. L’enorme disponibilità di capitali ha permesso al gruppo criminale di inserirsi in numerosi settori dell’economia legale. Da notare che nell’ambito dell’operazione Godfather, il Gip di Catanzaro ha disposto il sequestro preventivo di beni per oltre 40 milioni di euro della famiglia Muto. Il reimpiego dei capitali illeciti nell’economia legale ha permesso alla cosca Muto di radicarsi nel tessuto economico di molte regioni italiane: Lazio, Toscana, Lombardia, Basilicata e Campania.

Le articolazioni della cosca arrivano fino al Vallo di Diano grazie alla complicità di persone legate alla cosca attraverso rapporti di “comparaggio” – vincolo che si cementa sulla promessa fatta dai padrini alla famiglia del battezzato o del cresimando, oppure dai testimoni di nozze agli sposi – e imprenditori della zona.

Atti intimidatori: l’attentato al Conad di Sant’Arsenio

È il 9 marzo del 2014. Manca circa un mese all’apertura di un nuovo centro commerciale Conad a Sant’Arsenio (Sa). Una bomba carta esplode davanti a una porta laterale e crea un migliaio di euro di danni. Poca roba, tanto che si pensa a un atto vandalico. Si tratta invece di un atto intimidatorio da parte del clan Muto al proprietario del supermercato per far acquistare il pesce dai propri affiliati. Si tratta di un momento cruciale nell’inchiesta dei carabinieri sulle infiltrazioni ‘ndranghetiste nel Vallo di Diano in quanto episodi del genere non se ne erano registrati negli anni recenti. Da questa esplosione e da alcune denunce è partita l’inchiesta Frontiera e ha evidenziato come il clan Muto attraverso Vito Gallo volesse conquistare fette di mercato e di potere nel Vallo di Diano.

Riciclaggio, traffico di droga, usura, estorsioni e incendi sono le attività più frequenti. Tra il 2013 e il 2014, infatti, Vito Gallo, il collegamento nel Vallo di Diano dei Muto, insieme a Pietro Valente, porta avanti una serie di intimidazioni ed estorsioni nella zona di Sant’Arsenio e Sala Consilina ai danni di diversi titolari di negozi per imporre l’assunzione di determinate persone e assicurare ai Muto la gestione delle pescherie e il controllo monopolistico dell’offerta di pescato nel Vallo di Diano. È l’indagine Frontiera, nata nel 2014, in seguito all’omicidio del sindaco di Pollica Angelo Vassallo, che mette in luce gli storici rapporti criminali tra la famiglia Gallo di Sala Consilina e gli esponenti delle cosche Muto di Cetraro e Valente-Stummo di Scalea.

Secondo la relazione semestrale della DIA del 2020, «i Gallo erano dipendenti gerarchicamente dai Muto nelle attività legate al narcotraffico». Vito Gallo, condannato in secondo grado a 26 anni e 8 mesi di reclusione, era considerato un vero e proprio narcotrafficante che riceveva pacchi di cocaina, via aereo, direttamente sull’aviosuperficie di Teggiano, nel cuore del Vallo di Diano.

Chi era Angelo Vassallo

Angelo Vassallo è stato sindaco del comune di Pollica, località in provincia di Salerno, nel parco del Cilento, Alburni e Vallo di Diano. Il 5 settembre 2010 mentre rincasava alla guida della sua auto, Vassallo è ucciso per mano di uno o più attentatori, ancora oggi ignoti. Anche la matrice camorristica dell’omicidio è ancora oggi incerta. Da un troncone delle indagini sull’omidicio di Angelo Vassallo nasce l’inchiesta Frontiera, diretta dalla DDA di Catanzaro sulla cosca Muto della ‘ndrangheta che ha portato ad accertare l’operatività nel Cilento e nel Vallo di Diano di articolazioni della cosca Muto di Cetraro attiva nel settore del narcotraffico, estorsioni e riciclaggio di capitali.

Luigi Cardiello e i casalesi

Gli anni Novanta segnano anche l’ingresso della camorra nel Vallo di Diano. Il personaggio di collegamento è Luigi Cardiello, che diventerà noto come “il Re Mida dei rifiuti”. Le prime cronache sulla sua attività risalgono al 1991 quando Mario Tamburrino, l’autista della ditta di autotrasporti di San Pietro al Tanagro, intestata a Cardiello, si reca all’ospedale dicendo di aver subito un fortissimo abbassamento della vista dopo aver scaricato alcuni bidoni contenenti rifiuti chimici provenienti dalla ditta Ecomovil di Pianfrei in provincia di Cuneo in una discarica di Sant’Anastasia, in provincia di Napoli. Tamburrino perderà la vista ma a partire dalle sue dichiarazioni gli inquirenti scopriranno che i 158 fusti sono stati seppelliti altrove, nelle campagne di Villaricca e Giugliano. Durante le indagini, gli investigatori mappano oltre cinquanta discariche abusive nel solo hinterland napoletano.

È l’inizio dell’avvelenamento della Terra dei fuochi e del traffico illegale di rifiuti tossici dalle aziende del Nord verso la Campania. Cardiello verrà in un primo momento arrestato e poi prescritto, come in quasi tutti i processi che l’hanno visto coinvolto. Nel 2003 è arrestato e indagato per traffico illecito di rifiuti e inquinamento ambientale nell’ambito dell’operazione Re Mida, chiamata così proprio per un’intercettazione dove Cardiello si vantava di riuscire a «trasformare la spazzatura in oro». Un’operazione che svela un traffico di sostanze prelevate da società di smaltimento del centro-nord Italia e interrate in aree tra Napoli e Caserta con il coinvolgimento di aziende di vario tipo: centri di stoccaggio, società commerciali e di gestione discariche, società di autotrasporto.

Cardiello è in rapporti d’affari anche con Gaetano Vassallo, al servizio del clan dei casalesi, che sarà condannato nel 2010 per traffico di rifiuti e associazione camorristica. Nel 2008, Vassallo diventa collaboratore di giustizia e inizierà a raccontare che nelle discariche in mano alla camorra in quel fazzoletto di terra tra le province di Napoli e Caserta, la Terra dei fuochi, hanno scaricato migliaia di aziende, oltre che campane provenienti da ogni parte d’Italia. Vassallo parla di Cardiello nel libro-confessione Così vi ho avvelenato, raccontando che la ditta intestata all’imprenditore e alla convivente fu usata da Vassallo tra il 1998 e il 2003 per il trasporto e l’interramento di rifiuti tossici e pericolosi in varie zone della Campania provenienti da aziende e imprese di mezza Italia. Dopo diciotto anni, il processo Re Mida si chiude con la prescrizione per tutti gli imputati delle accuse di disastro ambientale, traffico e smaltimento illecito di rifiuti.

C’è un altro processo che vede coinvolto il Vallo di Diano nello sversamento illegale di rifiuti, anch’esso finito nel nulla: è il processo Chernobyl, nato da un filone di indagine della Procura di Santa Maria Capua Vetere nel 2006, concluso nel 2017, dopo oltre dieci anni di rinvii, udienze e dibattimenti, con la prescrizione per la maggior parte dei reati e l’assoluzione di tutti gli imputati perché il fatto non sussiste per insufficienza di prove. Un processo a carico di 38 persone, tra cui diversi imprenditori del Vallo di Diano, accusati di delitti ambientali inerenti al traffico illecito di rifiuti speciali, danneggiamento aggravato, gestione illecita di rifiuti inquinanti dispersi nell’ambiente, falsi e truffa aggravata ai danni dello stato, deturpamento di bellezze naturali e infine disastro ambientale. Tutti i capi d’accusa, tranne l’ultimo, sono andati in prescrizione. Per quanto riguardo il reato di disastro ambientale, invece, tutti sono stati assolti perché manca «un’attendibile perizia da parte di soggetti titolati e qualificati, che attesti la sussistenza del reato di inquinamento ambientale», si legge nella sentenza.

Dopo l’assoluzione, il pm Giancarlo Russo ha chiesto al tribunale di Salerno di ordinare ai Comuni coinvolti – Pontecagnano, Montecorvino Rovella, Teggiano, San Pietro al Tanagro, San Rufo e Sant’Arsenio – di compiere analisi e carotaggi per stabilire se i terreni siano ancora inquinati. Una richiesta che ha lasciato perplesse le parti civili, secondo le quali quelle indagini erano state chieste dalla Procura di Santa Maria di Capua Vetere ma mai effettuate.

Da Re Mida a Shamar

Ci sono nomi che ritornano negli affari legati allo sversamento dei rifiuti in Campania anche dopo anni. Sono quelli di Luigi Cardiello e Raffaele Diana. Entrambi coinvolti nell’inchiesta Re Mida, entrambi prescritti. Ma proprio un’intercettazione tra di loro ha fatto scoprire ai carabinieri un altro sversamento di rifiuti. Questa volta ad Atena Lucana, il Comune più prossimo al Confine tra Campania e Basilicata.

Diana, esponente di rilievo dei casalesi residente nel Vallo di Diano, è intercettato perché coinvolto in un’inchiesta sul traffico di idrocarburi. Durante un’intercettazione parla con Cardiello di un affare di rifiuti speciali anche pericolosi, da sversare. Le indagini permettono di bloccare un secondo sversamento e fanno arrestare ad aprile 2021 sette persone – compreso Cardiello – accusate di traffico di rifiuti, inquinamento ambientale, gestione illecita di rifiuti e associazione a delinquere. Scopo di tutta l’organizzazione sarebbe quello di risparmiare sullo smaltimento: secondo l’indagine, Cardiello avrebbe permesso di sversare 22 cisterne di rifiuti in alcuni terreni del Vallo di Diano.

Nell’ambito dello stesso filone è partita una seconda indagine, Febbre dell’oro nero che ha portato all’arresto di 44 persone, tra cui Raffaele Diana. Tra i nomi del centinaio di indagati ci sono i figli di Diana, il boss Michele Cicala – presunto capo dell’omonimo clan tarantino – e alcuni imprenditori valdianesi nel campo dei carburanti. L’indagine ipotizza i reati di commercio illecito di idrocarburi, truffa ai danni dello Stato, riciclaggio di denaro sporco e associazione a delinquere di stampo mafioso. Secondo le indagini, tutte le attività illecite servivano a favorire la penetrazione economica dei casalesi nel Vallo di Diano.

La famiglia Diana, infatti, si era infiltrata nel tessuto economico-sociale del Vallo di Diano, stringendo accordi economici con diversi imprenditori, tra cui Massimo Petrullo, titolare dell’omonima società di carburanti (ai domiciliari da maggio 2021). I capitali del clan erano poi reimpiegati per acquistare beni immobili e quote societarie, realizzando un’economia illecita “circolare”, che ha permesso alla famiglia Diana di affermarsi nel Vallo di Diano, alterando le dinamiche del libero mercato e della concorrenza.

Infografiche: Lorenzo Bodrero | Foto: Google Maps | Editing: Lorenzo Bagnoli 

Pizza, friarielli e pounds: la ricetta per il riciclaggio a Londra

#MafiaInUk

Pizza, friarielli e pounds: la ricetta per il riciclaggio a Londra

Cecilia Anesi
Matteo Civillini
Giulio Rubino

Non è facile essere il boss di un clan mafioso. In anni di lotte per fare prevalere la tua famiglia devi trasudare carisma, violenza, intimidazione. Devi ispirare rispetto e timore, conoscere la strada e i suoi umori. Devi tanto mantenere la fedeltà dei tuoi uomini quanto gestire il rapporto con i clan rivali. Non c’è tempo per apprendere anche le abilità tecniche necessarie al funzionamento della macchina dell’economia mafiosa, specie in un mondo sempre più interconnesso e complesso.

E allora, i boss si rivolgono a specialisti di fiducia. Si tratta di professionisti, non necessariamente affiliati, pronti a sporcarsi le mani per la mafia. Le due posizioni per cui maggiormente si “assume” sono quella del narcotrafficante e quella del riciclatore.

Antonio Righi è considerato dalla Direzione Distrettuale Antimafia (Dda) di Napoli uno di questi specialisti, un esperto riciclatore per la camorra. Già condannato per traffico di droga e ricettazione è ora a processo con le accuse di concorso esterno e riciclaggio per avere favorito le famiglie Contini e Mazzarella. Due famiglie nemiche, protagoniste di una guerra che ha lasciato decine di morti sulle strade partenopee, eppure legate allo stesso abilissimo riciclatore: Antonio Righi alias Tonino ‘o Biondo.

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Si è inventato una figura nuova, ‘o Biondo. Non è un commercialista da usare come un fazzoletto e poi buttare via, non è soltanto uno specialista della finanza offshore. È un cardine tra due mondi: quello della camorra, che produce profitti illeciti, e quello dei colletti bianchi, che i soldi li ripulisce e fa fruttare tra i vetri a specchio delle banche europee.

Sa presentarsi in giacca e cravatta, Righi, quando si tratta di acquistare immobili per le sue pizzerie, ma conosce il potere dell’intimidazione mafiosa e quando deve minacciare non va per il sottile. «Noi siamo venuti stasera per ucciderti, forse tu non hai capito nulla! Contemporaneamente uccidiamo pure tuo figlio e tua moglie, vuoi capirlo o no?», dice senza mezzi termini a un promotore finanziario che si era impossessato di 200mila euro che Righi gli aveva affidato per conto della “famiglia” di camorra. Lo va a prelevare e lo obbliga a salire in auto.

Nella sala ascolto dei Carabinieri rimbomba il rumore delle percosse e il pianto disperato del broker. Cala il silenzio, scandito solo da ripetute minacce di morte. Il broker, terrorizzato, capisce di non avere scampo e mesto compila assegni per 375mila euro.

Pizza Ciro

La storia dei Righi inizia nel lontano 1983 quando a guidare la famiglia era il padre Ciro. Fu allora che gli venne affidato il compito di riciclare parte del riscatto da un miliardo e 700 milioni di lire pagato per liberare il gioielliere Luigi Presta, sequestrato dalla camorra. Era l’inizio di una dinastia. Nelle pagine dell’ordinanza di custodia cautelare dell’operazione “Margarita” della Procura di Napoli sono accusati decine di membri della famiglia, comprese nuore, generi e collaboratori più stretti. Per il pm Ida Teresi che ha guidato il pool d’inchiesta, sarebbero tutti implicati in un’associazione a delinquere finalizzata al riciclaggio e all’occultamento di denaro illecito.

Dai primi anni ‘80 i Righi hanno cavalcato un’escalation imprenditoriale che gli ha guadagnato un impero economico ai quattro angoli del globo.

Per gli inquirenti l’ascesa si deve principalmente al denaro del clan Contini. Nel 2014 i Righi finiscono sulle prime pagine dei giornali per il sequestro del marchio “Pizza Ciro” e con esso 28 tra ristoranti, pizzerie e gelaterie a Roma, Rimini e in Versilia perché considerate attività finanziate dai Contini. Ma l’espansione dei Righi è andata ben oltre il centro Italia.

Il portfolio di investimenti finanziari e immobiliari copre mezzo mondo, con acquisto di immobili di pregio soprattutto in Est Europa (a Bratislava un appartamento da 8 milioni di euro), mentre il marchio “Pizza Ciro” viene registrato in Spagna, Inghilterra e Cina. In Spagna, è Barcellona la città prescelta: lì aprono una pizzeria nel centro commerciale Arenas Nuova e un ristorante sulla Diagonal, una delle principali strade della capitale catalana.

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Tentacoli che partono da Napoli e si dipanano in tutto il mondo, ma che hanno però un comune denominatore: l’Inghilterra. Lo ammette in un’intercettazione Righi, di volere usare proprio il Regno Unito per operazioni estero su estero con una specifica azienda di diritto inglese. E la Dda partenopea vuole vederci chiaro. Quando arriva però il momento di chiedere alla polizia inglese una mano per scavare dietro ai muri delle fiduciarie, qualcosa non funziona. «Il paritetico organo, sentito tramite il sistema Sirena (per la collaborazione giudiziaria tra paesi dell’Unione Europea, ndr), non c’ha mai risposto», dichiara la procura generale in udienza a Napoli. E le indagini sul filone britannico si arenano definitivamente.

Così a seguire il filo dei soldi ha provato il centro di giornalismo di inchiesta Irpi, arrivando fino al cuore finanziario d’Europa, la City of London. Qui ad Antonio Righi sono legate cinque società, ormai tutte chiuse tranne una, che rischiano di custodire per sempre i segreti del riciclatore di punta del clan Contini.

Come aprire una società in dieci minuti

Il mondo delle corporation britanniche è un vero Far West fatto di aziende che spuntano come funghi e che spesso hanno vita molto breve, giusto il tempo di un’operazione sospetta o di trasferire capitali offshore. Una condizione che deriva dalla progressiva deregolamentazione delle normative per la creazione di imprese portata avanti dai governi inglesi dalla fine degli anni ‘70 in avanti.

Aprire una società nel Regno Unito è diventato un giochetto da ragazzi, che non richiede più di dieci minuti. Basta inserire i propri dati nel portale online del Registro Imprese britannico e versare 12 sterline (15 euro circa). Trentasei ore dopo la nostra Ltd è operativa. Senza alcun controllo a monte sulle informazioni fornite. Un estremo azzeramento della burocrazia che ha dato una forte accelerata all’economia del Regno, lasciando però la porta aperta a chi attraversa la Manica con scopi tutt’altro che nobili.

Fra questi, Righi si conferma un maestro. Le indagini del Comando Provinciale dei Carabinieri di Roma avevano dimostrato l’estrema complessità delle manovre economiche e aziendali della famiglia Righi in Italia.

Impiegavano un vero e proprio esercito di prestanome e con cadenza annuale effettuavano continui trasferimenti di quote, vendite e intestazioni fittizie di beni al fine di intorbidire le acque. A Londra, viene applicato lo stesso disegno: il nome di Righi appare e scompare nelle cinque società, incrociandosi con i nomi di soci di comodo o promotori finanziari, dando la costante impressione di non essere mai lui la mente dietro la fitta rete societaria. Le cinque aziende seguono tutte uno stesso destino: hanno un capitale sociale di decine di milioni di sterline, ma vengono tenute dormienti. Vengono risvegliate dal letargo per operazioni ad hoc, come il truffaldino acquisto di squadre di calcio in Italia e nei paesi dell’Est Europa.

Anche se aprire un’azienda a Londra è un’operazione rapida che si può fare online, è chiaro che risulta di maggiore garanzia rivolgersi a studi di esperti che seguano il processo di registrazione.

E così Righi sceglie Formations House, servizio di incorporazione di aziende a 29 Harley Street, nel ricchissimo quartiere di Marylebone. Non un nome a caso.

Il giornale inglese The Guardian ha scoperto come Formations House fosse specializzata nel registrare scatole vuote poi utilizzate da riciclatori o truffatori internazionali. È proprio qui che a maggio 2007 prende vita la prima società inglese di Righi, la Carrefur Ltd, l’unica scoperta dagli inquirenti italiani. A gestirla per lui è Alessandro della Chiesa, 75enne di Cesenatico, factotum di Righi indagato dai Carabinieri per il suo coinvolgimento nel commercio del pesce dell’azienda Società Cooperativa Pescevivo, che distribuiva a Napoli il pescato delle coste dell’Adriatico. La Pescevivo nasceva con un investimento personale di Righi, ma era destinata a sostenere il potere del clan Mazzarella nel mercato del pesce partenopeo, un’area d’influenza tradizionalmente di un altro gruppo, quello dei Mugnanesi. Alessandro della Chiesa, rivelano le intercettazioni, era strettamente a servizio di Antonio Righi in tutta l’operazione, rispondendo ai suoi ordini dalla costa adriatica.

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Un rapporto che specularmente continua in terra anglosassone. Ufficialmente, nella Carrefur, Della Chiesa ci entra solo a maggio 2009, ma dalle intercettazioni emerge come sarebbe stato proprio lui a permettere di aprire e gestire l’azienda dormiente a Londra. Infatti, già a luglio 2008 Righi chiede a Della Chiesa se può sfruttarla per un affare che ha per le mani. «Questa società come è, è buona?», chiede Righi. «È buona perché c’hai un bel capitale», risponde il socio. «Due milioni di sterline», ricorda Righi a voce alta.

L’affare non viene specificato, ma il giorno successivo Righi discute con un broker finanziario di un investimento da oltre 200mila euro in un fondo immobiliare della Credit Suisse. Un investimento che metterà il broker in seri guai. Non era riuscito a garantire nei termini richiesti dal clan la buona riuscita dell’affare, e finisce pestato a sangue e costretto a restituire l’intera somma, maggiorata.

Come ti affosso il club di serie A

Quella però non era la prima volta che la Carrefur veniva messa in moto per spostare soldi. Già l’anno precedente, prima che finisse sotto la lente degli inquirenti, la società era servita ad affacciarsi al mondo del calcio.

Infatti, a settembre 2007 acquisisce la squadra ungherese FC Sopron, all’epoca militante nella serie A locale. Il neo-presidente Righi fa grandi proclami: azzeramento dei debiti della precedente gestione, cinque nuovi giocatori di alto livello e calcio spettacolo. L’avventura però non dura molto: qualche mese più tardi la federazione ungherese squalifica la società per mancati pagamenti ai dipendenti e al fisco. A meno di un anno dell’ingresso a gamba tesa di Righi, lo storico club viene sciolto e scompare per sempre.

Il rettangolo verde è una vera passione per Tonino & Co. A settembre 2008, un anno dopo lo sbarco in Ungheria, il gruppo usa la società inglese Finance Mortgages Limited per l’acquisto del Modena Calcio con una fidejussione da mezzo milione di euro, salvo poi sparire nel nulla. Un’operazione folle, a meno che non avesse come unico scopo quello di giustificare dei movimenti di soldi finiti poi altrove. Lo stesso drappello di soci di Righi finisce in guai seri con la giustizia rispetto ad un’altra operazione finanziaria sospetta in tema di calcio. Nel 2013 infatti Alessandro della Chiesa viene condannato a sei anni e mezzo per la bancarotta fraudolenta del Ravenna Calcio.

Righi però compare anche in alcune società il cui scopo rimane criptico. Ce n’è una in particolare, la Magnolia Fundaction, che sembra uscita direttamente dal fumetto Topolino. Ha una ricca cassaforte di 90 milioni di sterline di capitale versato, ma a gestirla assieme a persone in carne e ossa sono personaggi del tutto inventati. Righi ci entra il 1 marzo 2008 e ci sta solo per 24 ore. Ad aprirgli la porta è il promotore finanziario Ottavio Siracusa, una vecchia conoscenza dell’imprenditore napoletano.

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A dirigere l’azienda fino a quel momento erano state le sapienti mani di due assi dell’abbaglio. Si tratta di Gennaro Ruggiero e Francesco Isidoro Candura, due broker finanziari saliti all’onore delle cronache nel 2008 per avere investito, tramite una finanziaria inglese, 250 milioni di euro in attività di lobbying presso le istituzioni europee – 30 volte di più di qualsiasi altro colosso americano registrato alla Commissione Europea. I due però vengono anche indagati dalle Procure di Milano e Benevento per aver preso parte all’organizzazione di un colpo di stato nella regione di Cabinda in Angola. La congiura, vera o finta che fosse, avrebbe permesso a Ruggiero di fregiarsi del titolo di Ambasciatore di Cabinda a San Marino.

Premiata ditta Banda Bassotti

Ed è in quello stesso periodo che Righi e l’Ambasciatore si incrociano nella Magnolia, un’azienda che ricorda una multiproprietà al mare: una scatola vuota da usare all’occorrenza da menti diverse. Passa di mano, rimbalza come una palla tra promotori finanziari e una serie di prestanome irrintracciabili, forse addirittura inesistenti.

Infatti, il 27 gennaio 2010, per un totale di 48 ore, viene iscritto come direttore un nuovo Ottavio, che questa volta di cognome fa «Detto Il Ladro di Galline», di professione «truffatore». E ad affiancare questo bizzarro amministratore come segretario, vi è la «Banda Bassotti Company Ltd», registrata in «Via Dei 40 Ladroni, Ali Babbà, Italy». Il tutto senza che il registro imprese d’Inghilterra battesse ciglio. Candura e Ruggiero, contattati da Irpi per un commento e per conoscere la natura degli affari della Business Bank al tempo della loro presenza nella società, hanno preferito non rispondere.

Delle varie aziende inglesi usate da Righi e identificate da Irpi, ne rimane attiva solo una. Si chiama Business Bank Italy Ltd e ha sede in una villetta a schiera dell’estrema periferia Est di Londra. Ha però ambizioni da multinazionale. Viene aperta nell’estate del 2008 con 10 milioni di sterline da Alessandro della Chiesa, uomo chiave per Righi, proprio nel periodo in cui i due curano l’affare del pesce per conto del clan Mazzarella.

Righi comparirà nella Business Bank come amministratore e azionista solo quattro anni più tardi, per qualche mese, per passare nuovamente la palla ai suoi fidati collaboratori. Fino al 2015 la società rimane sottotraccia, poi di colpo pubblica un sito web per attrarre clienti con tanto di motto: «Servizi finanziari per l’investitore globale». Una «venture capitalist alla ricerca di idee rivoluzionarie che già da diversi anni aiuta imprenditori a realizzare i propri sogni», si legge sul sito, che ai progetti selezionati fornisce «equity, capitali di partenza e prestiti da investitori privati». Una pretesa singolare per una società che si sveglia da una glaciazione di quattro anni. Ma soprattutto una promessa che non trova conferma nella realtà.

È davvero difficile entrare in contatto con chi l’amministra. Da gennaio di quest’anno infatti la controlla un misterioso italiano registrato presso un indirizzo ungherese, una casetta modesta in un villaggio nella piana di Budapest. E dal 26 giugno a dirigerla è un 71enne di Mazara del Vallo. Entrambi impossibili da contattare. Non è stato possibile chiedere delucidazioni né a Righi, né al socio Della Chiesa perché, contattati da Irpi tramite i legali, hanno preferito non rispondere né su questo ne sulle vicende processuali che li riguardano.

Se la legge protegge il riciclaggio

Alle mafie il Regno Unito, e specialmente il centro finanziario di Londra, piace davvero. Qui si trovano tutti i servizi necessari per architettare complesse strutture societarie da cui far transitare capitali occulti. Righi sembra averlo capito alla perfezione. Senza neppure doverci mettere piede, da lì tesse i fili delle sue attività nel mondo, lontano dagli occhi dell’Antimafia italiana, protetto da un sistema legislativo carente e da un mondo finanziario che non si fa domande.

Tra gli edifici di cristallo della City, sostengono gli investigatori, i riciclatori delle mafie italiane trovano il conforto necessario: sono visti come imprenditori in giacca e cravatta, che appaiono e scompaiono come i loro capitali, oggi a Londra domani alle Cayman, senza creare scompiglio. Mentre il sangue si versa per le strade di Napoli. A Londra, sui vetri dei palazzi, anche a guardare bene si può solo scorgerne un riflesso sbiadito.

CREDITI

Autori

Cecilia Anesi
Matteo Civillini
Giulio Rubino

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Editing

Il Fatto Quotidiano

Foto

Cecilia Anesi

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