La zona grigia dell’agricoltura dei pesticidi

#PesticidiAlLavoro

La zona grigia dell’agricoltura dei pesticidi

Edoardo Anziano
Lorenzo Bagnoli
Francesco Paolo Savatteri

Èun mistero il numero di lavoratori agricoli che si sono ammalati o sono morti in Europa di malattie come Parkinson e tumore alla prostata negli ultimi cinquant’anni. Nonostante la pletora di studi che riconoscono il nesso tra alcune patologie e le sostanze attive dei fitofarmaci, i dati sanitari sui lavoratori scarseggiano, anche per la poca volontà di conoscere fino in fondo la situazione, come raccontato nella scorsa puntata di #PesticidiAlLavoro.

A mantenere l’alone di mistero intorno ai dati italiani sulle malattie correlate all’uso dei pesticidi, ci sono prassi consolidate, regolamenti sorpassati e disinteresse nella gestione dei rischi di infortunio sul lavoro. Di fondo, c’è un’opacità del mondo agricolo che è dovuta in parte alla mancanza di personale che dovrebbe svolgere i controlli: ispettori del lavoro, forze dell’ordine (Guardia di finanza e Nas), ispettori Inps e Inail, ispettori regionali dei fitofarmaci. Sei categorie sotto organico – hanno spiegato a IrpiMedia fonti del settore – che non riescono a controllare quanto dovrebbero, soprattutto le aziende più piccole, le più numerose e le più esposte.

L'inchiesta in breve
  • In Italia i pochi dati sulle morti e i casi di malattia riconducibili all’uso dei pesticidi sono dovuti a una serie di fattori strutturali.
  • Il mercato agricolo italiano è composto da aziende a conduzione familiare spesso piccole e con poca capacità ad adeguarsi alle regole per la sicurezza. Le organizzazioni che dovrebbero svolgere controlli periodici sulle condizioni di lavoro sono sotto organico e questo incentiva delle condizioni di irregolarità nella gestione dei prodotti più pericolosi.
  • Momo e Job Tax sono due inchieste delle procure di Cuneo e Latina per sfruttamento lavorativo. Entrambe, però, hanno raccolto prove dell’uso di fitofarmaci senza mascherine e senza la minima formazione da parte degli stessi lavoratori stagionali stranieri sfruttati.
  • Tra i fitofarmaci usati senza precauzioni ci sono anche prodotti che sono stati recentemente vietati dalla Commissione europea perché ritenuti pericolosi.
  • Tra questi ce n’è anche uno di quelli inseriti dall’Inail tra le lavorazioni previste per il riconoscimento del morbo di Parkinson. Lavorazione, malattia e tempo utile della denuncia sono le tre condizioni richieste per l’ottenimento della malattia occupazionale.
  • C’è la possibilità anche di ottenere il riconoscimento di un indennizzo attraverso una causa legale, ma non sempre medici del lavoro e patronati sono preparati a sufficienza per dare un vero contributo ai ricorsi.

L’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) spiega che solo 260 ispettori (dati 2020) si occupano della categoria Salute e sicurezza, in cui rientrano anche il mancato uso dei dispositivi di protezione individuale (Dpi) e la mancata formazione dei lavoratori. Per il settore agricolo, le violazioni in materia di Salute e sicurezza accertate dall’Inl nel 2020 sono state 660. «Si sta cercando solo adesso di incentivare la conoscenza e di migliorare le condizioni di prevenzione alla sicurezza nell’uso dei fitofarmaci», spiega l’agronomo Carlo Antellini, formatore di corsi Inail per l’uso dei fitofarmaci che opera nella regione della Sabina, nel Lazio.

Malgrado le regole da seguire, «il mercato è talmente viziato che i prodotti si vendono online», aggiunge. In teoria, infatti, il mercato dei pesticidi dovrebbe essere altamente regolato. I punti vendita dovrebbero consegnare il prodotto solo a chi può esibire un patentino. Invece sulle piattaforme e-commerce generaliste chiunque può comprare, anche prodotti che ormai sono vietati sul mercato europeo, ma che continuano a circolare altrove (vedi articolo precedente). Significa che il patentino obbligatorio per l’acquisto di un fitosanitario non verrà richiesto. «Servirebbero più controlli», è l’auspicio di Antellini. I consorzi di agricoltori autorizzati a vendere i pesticidi non hanno risposto alle richieste di chiarimenti di Scomodo e IrpiMedia in merito al funzionamento del mercato dei prodotti fitosanitari e ai connessi problemi di controlli..

Da alcuni casi giudiziari è possibile comunque ricostruire il modo in cui alcune aziende hanno gestito i fitofarmaci negli ultimi anni. Sono una fonte collaterale, perché i procedimenti sono scaturiti dopo segnalazioni di sfruttamento lavorativo, quindi nulla a che vedere con l’uso dei fitofarmaci.

Le malattie tabellate

Perché un lavoratore, una volta che si presentano i sintomi di una patologia, possa ottenerne da parte dell’Inail il riconoscimento “automatico” del suo carattere professionale, devono verificarsi tre condizioni: la malattia deve essere inserita nelle tabelle Inail delle malattie riconosciute come professionali; la malattia deve essere provocata da una lavorazione prevista dall’Inail; deve essere denunciata entro un periodo stabilito («periodo massimo di indennizzabilità»). Altrimenti può sempre percorrere la via giudiziaria e presentarsi di fronte a un giudice del lavoro. Strada che però è più difficile e costosa.

Per il morbo di Parkinson, le lavorazioni previste sono quelle «che espongono
all’azione del etilenbisditiocarbammato di manganese» entro dieci anni. L’etilenbisditiocarbammato di manganese è una molecola che si trova all’interno di certi fungicidi come il Mancozeb, revocato nel febbraio 2021.

Le operazioni Momo e Job Tax

I dati del Laboratorio sullo sfruttamento lavorativo dell’associazione AdiR – L’altro diritto aggiornati al 2020 riportano un solo caso, a Saluzzo, in cui i braccianti agricoli entravano a contatto con i fitofarmaci – sia nei campi che nei magazzini – senza alcun tipo di dispositivo di protezione personale. L’inchiesta, denominata operazione Momo, è iniziata nel maggio del 2019 sotto la guida della Procura di Cuneo. Un presunto caporale era stato arrestato, mentre due imprenditori erano finiti ai domiciliari con l’accusa di sfruttamento lavorativo. Durante il processo, iniziato a settembre 2020 e ancora in corso, gli imprenditori hanno rigettato l’accusa di sfruttamento, sottolineando di non aver mai effettuato trattamenti fitosanitari mentre i lavoratori si trovavano nei campi.

Ad aprile 2021, in provincia di Latina, sette persone – fra imprenditori agricoli e presunti caporali – sono state arrestate con l’accusa di associazione a delinquere dedita allo sfruttamento e all’estorsione. L’operazione, denominata Job Tax, è stata condotta dai Nas, con il coordinamento della Procura di Latina. Agli indagati è stato contestato l’impiego illegale di pesticidi, anche vietati.

L’operazione Momo a Cuneo e l’operazione Job Tax a Latina hanno in comune un contesto di presunto sfruttamento lavorativo, un minimo comune denominatore che fa da sfondo all’impiego di pesticidi senza protezioni per i lavoratori. Il fenomeno, come indicano le inchieste giudiziarie, appare diffuso in tutta Italia. Secondo Marco Omizzolo, sociologo esperto di sfruttamento in agricoltura di lavoratori migranti, «a livello nazionale ci sono stati interventi soprattutto delle forze dell’ordine e delle diverse procure. Hanno certificato l’esistenza del fenomeno sul piano investigativo ed è un dato interessante che riguarda sia il sud che il nord Italia, ovvero forme di economia, di sviluppo e produzione agricola diverse, ma spesso caratterizzate dall’utilizzo di fitofarmaci in quantità eccedente quella legale o l’utilizzo di fitofarmaci illegali».

Agricoltura a conduzione familiare

L’ultimo rapporto Istat sull’agricoltura (dati 2017, il prossimo censimento verrà aggiornato a giugno 2022) conta 413 mila imprese agricole, cioè imprese che hanno come attività primaria la gestione di campi, boschi o allevamenti. Sono inserite nel più ampio insieme delle aziende agricole (1,6 milioni), cioè tutte le imprese che svolgono attività relative all’agricoltura.

Le imprese agricole rappresentano due terzi della dimensione economica italiana e circa il 65% dei 12,8 milioni di ettari coltivabili. Poco più di un terzo del totale di tutte le aziende agricole hanno un titolare che è «unità economica non attiva». Significa che il settore agricolo non è il suo unico lavoro.

Un altro 30% delle aziende agricole è a conduzione familiare con dimensioni molto piccole, sotto i due ettari. In altri termini, l’agricoltura italiana è composta da piccole imprese. Dal censimento Istat 2010 emergeva anche che «la formazione dei capi azienda è decisamente ancora molto legata all’esperienza di campo e meno al grado di istruzione conseguito. Il 71,5% dei capi azienda ha un livello d’istruzione pari o inferiore alla terza media (70,8% per gli uomini e 73% per le donne). Solo il 6,2% dei capi azienda è laureato e inoltre solo lo 0,8% risulta aver acquisito una laurea ad indirizzo agrario».

Il livello di istruzione dei titolari di aziende agricole


«Riteniamo certo che in dieci anni la quota dei conduttori fino alla terza media sia molto diminuita», precisa Roberto Gismondi, dirigente di ricerca dell’Istat che si che si occupa del Servizio statistiche e rilevazioni sull'agricoltura, ma resta molto significativo. Conduzione familiare e scarso livello di istruzione sono due fattori che possono spiegare la scarsa attenzione alla dimensione della sicurezza sul lavoro che da un lato si può tradurre in poca attenzione all’uso dei Dpi e alla conservazione dei fitofarmaci, che a sua volta è un impedimento per ottenere il riconoscimento della malattia professionale.

Nessuna protezione

Durante il processo di Cuneo, il presunto caporale, Tassembedo Moumouni – dal cui soprannome, Momo, prende il nome l’inchiesta – interrogato dal Pubblico Ministero Carla Longo, spiega che i lavoratori non avevano alcun tipo di dispositivo di protezione personale. Moumouni racconta di non aver «mai» ricevuto guanti o occhiali protettivi, e spiega come, mentre i braccianti lavoravano nei campi, venivano sparsi fitofarmaci tutto intorno. «Quindi, voi lavoravate nella raccolta e… in altre zone o nella stessa zona dove eravate voi si buttava il diserbante?» domanda il magistrato. «Nella stessa zona – spiega Moumouni –. Stiamo lavorando in questa fila, lui passa qua, nella fila si butta. Qualche volta ci spostiamo solo due metri e poi ritorniamo».

Questo viene confermato da uno dei lavoratori costituitisi parte civile nel processo. Il bracciante, originario del Burkina Faso, spiega che sostanze antiparassitarie venivano irrorate nei campi mentre, in contemporanea, veniva effettuata la potatura. «Ogni tanto – racconta – il prodotto toccava anche loro». I lavoratori dormivano nello stesso magazzino in cui i pesticidi venivano stoccati, «davanti a quella porta c’era pure un segno, con scritto pericoloso», e gli stessi pesticidi venivano poi sparsi «mentre loro lavorano». Tuttavia, due lavoratori interrogati come testimoni, affermano che i trattamenti fitosanitari venivano effettuati, ma non quando i lavoratori erano presenti sul campo.

Nelle carte dell’operazione Job Tax, invece, i proprietari di un’azienda agricola di San Felice Circeo, in provincia di Latina, vengono accusati di aver sfruttato manodopera straniera – di nazionalità bengalese, indiana e pakistana –, facendogli eseguire anche trattamenti con fitofarmaci, nonostante i lavoratori stessi non fossero in possesso dell’autorizzazione all’utilizzo di prodotti fitosanitari. Si tratta del cosiddetto “patentino”, che viene rilasciato dopo la frequenza di un corso di formazione e il superamento di un esame. Per i lavoratori agricoli è obbligatorio.

Jean-Baptiste Lefoulon, agricoltore, partecipa allo studio “Pestexpo”. È dotato di patch che consentono agli scienziati di misurare la sua esposizione ai pesticidi (Lingèvres, Francia, 28 maggio 2021) - Foto: Ed Alcock/MYOP, Le Monde

Jean-Baptiste Lefoulon, agricoltore, partecipa allo studio “Pestexpo”. È dotato di patch che consentono agli scienziati di misurare la sua esposizione ai pesticidi (Lingèvres, Francia, 28 maggio 2021) - Foto: Ed Alcock/MYOP, Le Monde

Dalle carte emerge come gli stessi proprietari avessero impiegato un cittadino indiano senza permesso di soggiorno, Kumar Ravi, per «compiti strategici nello svolgimento dell'attività agricola», fra cui l’«impiego di fitofarmaci nelle colture», senza che questi fosse abilitato all’utilizzo dei pesticidi, né tanto meno «formalmente istruito».

Ancora i proprietari, insieme all’agronomo dell’azienda agricola, sono accusati di aver “adulterato” gli ortaggi coltivati, nello specifico ravanelli, con pesticidi non autorizzati, rendendo le colture «pericolose per la salute pubblica». L’agronomo avrebbe fornito indicazioni sulle tempistiche in modo che dalle analisi non risultasse l’uso di prodotti che, secondo le valutazioni della polizia giudiziaria, erano «estremamente pericolosi per la salute pubblica». «All'interno di un locale pozzo artesiano – si legge nei verbali di perquisizione – sono stati rinvenuti e sequestrati prodotti fitosanitari risultati non consentiti sulle colture in atto».

Durante le ricerche dei Nas, «i responsabili aziendali […] freneticamente si adoperavano per occultare altre confezioni di fitofarmaci non autorizzati per l'impiego sui ravanelli». Nei certificati di analisi che l’azienda effettuava sui propri prodotti, gli investigatori troveranno concentrazioni di pesticidi più alte del consentito. Questo fatto, scrive il Giudice per le indagini preliminari, è particolarmente significativo considerando «che lavoratori dipendenti privi della prescritta autorizzazione risulteranno essere adibiti all'impiego di fitofarmaci vietati nell'utilizzo sulle colture».

Prodotti vietati eppure in circolazione

Dalle intercettazioni emerge che lavoratori senza abilitazione né formazione – e quindi verosimilmente senza dispositivi di protezione personale – venivano impiegati in trattamenti fitosanitari. Al telefono con Kumar Ravi, uno dei soci dell’azienda agricola domanda «Tu capace sicuro?». Alla risposta affermativa del bracciante indiano, l’imprenditore detta le istruzioni con i quantitativi di fitofarmaci da irrorare: «1,5 litri di Reldan» e «85 di Butisan». «[…] tu mi raccomando non ti sbaglià mai a misurà la medicina eh il Reldan e Butisan eh» si preoccupa al telefono l’imprenditore, che dopo le rassicurazioni del bracciante aggiunge: «Eh non fare cazzate, perchè dopo esci quando fai analisi sopra i ravanelli esce fuori io ammazzo te eh!».

Il Reldan è un insetticida a base di Chlorpyrifos-Methyl. La Commissione Europea ha confermato, il 10 gennaio 2020, la decisione degli stati membri di non rinnovare l’autorizzazione di prodotti contenenti Chlorpyrifos-Methyl, per la sua possibile genotossicità e neurotossicità. All’epoca delle intercettazioni dell’operazione Job Tax (2019) il prodotto non era ancora stato vietato. Uno studio pubblicato nel 2018 sulla rivista Environmental Health ha revisionato test di tossicità forniti dai produttori di pesticidi a base di Chlorpyrifos e Chlorpyrifos-Methyl: «Uno studio di tossicità finanziato dall'industria conclude che non si verificano effetti selettivi sul neurosviluppo nemmeno in caso di esposizioni elevate». Tuttavia, secondo i ricercatori, gli studi contengono «problemi che riducono impropriamente la capacità degli studi di rivelare effetti reali, tra cui un regime di dosaggio che ha portato a un'esposizione troppo bassa». Ciò ha conseguenze sulla «capacità delle autorità di regolamentazione di effettuare una valutazione valida e sicura di tali antiparassitari». Fra la pubblicazione dello studio e la revoca di fitofarmaci a base di Chlorpyrifos-Methyl sono passati due anni.

In Italia la maggior parte dei prodotti commercializzati come “Reldan” sono stati revocati fra gli anni ‘90 e i primi anni 2000. Soltanto per il Reldan 22 – lo stesso trovato nell’azienda agricola di Latina durante una perquisizione dei Nas a Dicembre 2019 e revocato a Gennaio 2020 – è stato concesso lo smaltimento fino all’Aprile dello stesso anno. Come dichiarato dal Ministero della Salute in una richiesta di accesso civico generalizzato presentata da Scomodo, «lo smaltimento si applica ai lotti di prodotti fitosanitari che riportano una data di produzione antecedente a quella del provvedimento di revoca del prodotto stesso o di modifica delle condizioni di autorizzazione del prodotto oggetto dello smaltimento». Tuttavia, «il dato riferito al quantitativo dei prodotti fitosanitari da smaltire non è oggetto di specifica valutazione o comunque non a conoscenza dell’Ufficio, in quanto afferisce alla gestione interna dell’azienda che detiene la proprietà del prodotto».

Il Ministero, quindi, non è a conoscenza delle quantità di pesticidi (proibiti in quanto pericolosi) le cui scorte possono comunque essere utilizzate per molti mesi dopo la revoca. La conferma arriva da Agrofarma - Federchimica: l'associazione di categoria non è in grado di sapere quanti lotti erano nei magazzini al momento della revoca, né quanti siano stati effettivamente smaltiti. Lungo la filiera, infatti, ci sono altri attori, fra cui le imprese produttrici e i rivenditori. I consorzi agrari e le aziende produttrici contattate non hanno fornito chiarimenti.

Dalle intercettazioni di Job Tax emergono ulteriori dettagli rispetto all’utilizzo di pesticidi ormai vietati da tempo. Intercettato, l’agronomo dell’azienda spiega preoccupato a uno dei soci: «L'altra volta quando abbiamo fatto pulire il magazzino degli attrezzi io non so chi l'ha pulito hanno lasciato un cartone di SCLEROSAN dentro». Come risulta dalla banca dati dei prodotti fitosanitari del Ministero della Salute, l’ultimo prodotto in commercio col nome di Sclerosan è stato revocato nel 2009. L’esposizione al Dicloram, il principio attivo contenuto in questo fungicida, «può danneggiare la riproduzione e/o lo sviluppo».

Come sintetizza il Gip, «le sostanze rinvenute sono risultate non utilizzabili nelle colture di ravanelli oltre che caratterizzati da un profilo di “conclamata pericolosità”, tanto da aver determinato per talune una revoca dell'autorizzazione all'uso (è il caso del Clorpirifos Metil)». Nonostante ciò, l’utilizzo di questi pesticidi «in maniera sistematica e diffusa», è pienamente consapevole: secondo il Gip, infatti, tutti gli indagati «sono a piena conoscenza del fatto che se tali sostanze attive vengono rilevate dalle analisi verrebbe bloccata la commercializzazione del prodotto».

Quello che emerge dai casi giudiziari di Latina e Cuneo è un quadro in cui si intrecciano lavoro nero, sfruttamento e mancato rispetto delle norme di sicurezza. Il sociologo Marco Omizzolo ne ha avuto esperienza diretta: «Io ho lavorato nelle campagne pontine (nella stessa provincia di Latina in cui è stata condotta l’operazione Job Tax, ndr) per diversi mesi come infiltrato – racconta a Scomodo – accanto ai braccianti immigrati, soprattutto indiani. Una delle cose per me più inquietante è l’assenza di qualunque misura di sicurezza, e quando dovevamo distribuire i veleni lo facevamo senza alcun genere di protezione, già dieci anni fa. Noi braccianti andavamo nelle campagne anche d’inverno indossando una sciarpa per proteggerci dal freddo, la sciarpa diventava la nostra mascherina anche quando diffondiamo quei veleni. Quella sciarpa si trasformava in una sorta di aerosol di veleno per i lavoratori, perché si impregna di quelle sostanze. Non c’era quindi l’effetto protettivo, al contrario, diventava un bagno tossico di quei prodotti».

Quando i vani della seminatrice sono pieni, il coltivatore semina il mais - Foto: Ed Alcock/MYOP, Le Monde
Quando i vani della seminatrice sono pieni, il coltivatore semina il mais - Foto: Ed Alcock/MYOP, Le Monde

Omizzolo ha anche raccolto centinaia di testimonianze dei cosiddetti “bagni di veleno”: quando i braccianti lavorano alla raccolta, «il caporale o il datore di lavoro passa con il vaporizzatore, ovvero una botte piena di veleni e acqua, il cui contenuto viene poi spruzzato in aria e loro si fanno il bagno. Alcuni mi hanno raccontato che hanno delle irritazioni cutanee, altri iniziano a perdere liquidi dal naso, a lacrimare, a tossire. Fare tutto questo per 14 ore al giorno quasi tutti i giorni del mese significa vivere sotto una pressione costante, prima o poi ti rompi».

Patronati e medici del lavoro

I primi a riconoscere le caratteristiche della malattia professionale dovrebbero essere i medici del lavoro. Nell’esperienza di Alberto Vedrani, avvocato di Lucca che ha difeso durante la sua carriera decine di lavoratori, da due anni è in pensione: «I medici dei patronati - racconta Vedrani - sono i primi ad istruire la pratica per il lavoratore e non sempre sono inattaccabili. A volte c'è manchevolezze sul piano professionale e a volte non riescono a dare una svolta alle pratiche in termini di evidenze mediche».

Vedrani che si è trovato a difendere lavoratori quando le malattie “tabellate”, quindi riconosciute dall’Inail, erano di molto inferiori, spiega: «Quando una malattia non è tabellata non è che la porta è chiusa - spiega -. Rimane aperta, solo che comporta un lavorìo notevole per il ricorrente, il quale deve dimostrare in modo certo che quella malattia è in connessione con l'attività lavorativa svolta: è il rapporto cosiddetto di causa-effetto. Si riesce abbastanza spesso, non tutte le volte ma spesso».

Nel 2005 è riuscito a ottenere il riconoscimento del morbo di Parkinson per un floricoltore della piana di Lucca che aveva fatto per anni uso di pesticidi a base di manganese, quelli che sono tabellati oggi. Come ha scritto in un contributo pubblicato nel 2019 da Olympus - centro di ricerche nato dalla collaborazione tra la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, della Regione Marche e dell'Inail - Direzione regionale per le Marche - «a seguito di consulenza medico-legale disposta dalla stessa Corte, veniva dichiarata sufficiente la probabilità indicata nel 70 % circa il rapporto di causa-effetto fra uso di pesticidi a base di manganese e morbo di Parkinson».

La causa è durata dieci anni e si è conclusa solo con la compensazione delle spese. Nonostante l’esito positivo, non c’è stato nessun altro lavoratore che ha chiesto all’avvocato di dedicarsi a una causa analoga.

CREDITI

Autori

Edoardo Anziano
Lorenzo Bagnoli
Francesco Paolo Savatteri

Hanno collaborato

Gaia Buono, Nicolò Benassi (Scomodo)

In partnership con

Scomodo (Italia)
Le Monde (Francia)
Ippen Investigativ (Germania)
BR (Germania)
Investigative reporting Denmark (Danimarca)
Oštro (Slovenia/Croazia)
Tygodnik Powszechny (Polonia)
TV2 (Danimarca)
De Groene Amsterdammer (Olanda)

Infografiche

Lorenzo Bodrero

Editing

Luca Rinaldi

Foto di copertina

Ed Alcock/MYOP (Le Monde)

Con il sostegno di

L’Europa dei braccianti: lavoratori invisibili e senza tutele

#InvisibleWorkers

L’Europa dei braccianti: lavoratori invisibili e senza tutele
Lorenzo Bagnoli
Matteo Civillini
Sara Manisera

L’Italia ha un problema irrisolto con il settore agricolo. L’emergenza Covid ne è stata l’ennesima dimostrazione. «Mancano migliaia di stagionali», era il messaggio d’allarme che girava tra aziende e amministrazioni locali tra fine aprile e inizio maggio: il blocco imposto dalla pandemia ha impedito a migliaia di lavoratori di entrare in Italia, proprio nel momento decisivo per la stagione agricola. Per far fronte alla crisi, il governo ha introdotto una sanatoria per migranti che lavorano in nero, nella speranza di recuperare manodopera. Come scrive il Viminale in una nota del primo luglio, al 30 giugno sono pervenute in totale 80.366 domande di regolarizzazione. Di queste circa l’80% riguardava operatori domestici. Doveva essere la regolarizzazione dei braccianti, invece per ora lo è più che altro di colf e badanti. Gli stagionali agricoli, invece, restano nell’ombra.

Verso la fine di giugno è scoppiato poi il caso di Mondragone: un focolaio di una quarantina di persone in mezzo alle palazzine ex Cirio, in una delle zone centrali della cittadina, dove abitano i braccianti della zona, soprattutto bulgari di etnia rom. Il focolaio non è partito dai campi, ma si è diffuso nella comunità rom a causa delle condizioni abitative in cui sono costretti a vivere: appartamenti sovraffollati, subaffittati in nero. Una situazione mai affrontata, che dura da decenni. Alcuni bulgari pare siano andati alle piantagioni comunque, nonostante fossero in quarantena. Sostenevano di non potersi permettere di stare a casa.

Si è scatenata la rabbia sociale che scorreva carsica per le vie di Mondragone: da un lato della barricata, asserragliati in casa, stavano gli stranieri che lavorano nei campi; dall’altro chi li accusava di essere il motivo per cui la città fosse stata messa in zona rossa proprio in prossimità dell’inizio della stagione turistica. Per fortuna i casi Covid erano asintomatici e poco gravi. Il focolaio è stato contenuto e risolto in poco tempo. Però, le condizioni di totale emarginazione in cui vivono i rom bulgari non sono cambiate da allora. I braccianti della città, finita l’emergenza Covid, sono tornati invisibili.

IrpiMedia è gratuito

Fai una donazione per sostenere un giornalismo indipendente

Invisible workers è la serie di inchieste coordinata da Lighthouse Reports a cui IrpiMedia partecipa insieme a Der Spiegel, Mediapart, Euronews, The Guardian Follow the Money. È un quadro di come l’Europa intera abbia ignorato il tema del lavoro agricolo, salvo poi accorgersene quando in piena pandemia frutta e verdura continuavano ad arrivare sugli scaffali dei supermercati. Nelle prossime settimane usciranno nuove puntate riguardanti l’Italia su IrpiMedia.

Le contraddizioni delle politiche agricole europee

Nemmeno le politiche europee sull’agricoltura mettono un freno allo sfruttamento dei braccianti, ma anzi spesso ne acuiscono i punti critici. Ogni anno l’Unione europea versa circa 50 miliardi di euro di contributi alle aziende agricole attraverso i fondi della Politica agricola comune (Pac). Un terzo di questi fondi è erogato in modo diretto. Inizialmente concepiti come strumenti per stabilizzare le rendite agricole, oggi non riescono più a incentivare alcun miglioramento nelle aziende. Sono versati a prescindere, senza che venga richiesto ai beneficiari di garantire condizioni lavorative degne ai propri dipendenti. Il criterio dei pagamenti diretti favorisce infatti grandi produttori e proprietari terrieri: più è esteso il terreno, più soldi si ricevono. Gli unici incentivi previsti riguardano, in minima parte, il benessere degli animali e il rispetto dell’ambiente. «Gli animali hanno delle lobby più forti rispetto ai lavoratori migranti», commenta Arnd Spahn, segretario generale del settore agricoltura per la European Federation of Trade Unions in the Food, Agriculture and Tourism (Effat), sigla sindacale che difende 22 milioni di lavoratori europei.

Condizioni assimilabili al caporalato si vedono anche nel Nord Europa. In questo caso, il problema legato allo sfruttamento non è solo la presenza dei caporali o intermediari. È frequente infatti che il problema nasca dall’intermediazione delle agenzie interinali

Vuoi fare una segnalazione?

Diventa una fonte. Con IrpiLeaks puoi comunicare con noi in sicurezza

Nell’Unione europea sono in tutto oltre nove milioni i braccianti contrattualizzati, di cui 1,1 milioni solo in Italia, il Paese con il numero più alto di impiegati nel settore agricolo. A volte si ha l’illusione che lo sfruttamento di chi lavora nei campi sia una condizione solo di Italia, Spagna e Grecia, Paesi dell’Europa meridionale con un alto tasso di lavoro nero e molto esposti al fenomeno migratorio. Invece condizioni assimilabili si vedono anche nel Nord Europa. In questo caso, il problema legato allo sfruttamento non è solo la presenza dei caporali o intermediari. È frequente infatti che il problema nasca dall’intermediazione delle agenzie interinali. Sono previste dalla legge, ma per accumulare gli utili offrono servizi sempre più scadenti e offrono paghe sempre più basse a chi firma con loro, seppur il regolamento europeo preveda che a parità di mansione, il salario debba essere per tutti uguale. Sono una forma di caporalato mascherato. Il motivo per cui le aziende si rivolgono a loro è infatti, paradossalmente, lo stesso per cui ci si rivolge a un caporale: ottenere manodopera a bassissimo costo.

Dal Sud America alle campagne francesi: il caporale è l’agenzia di lavoro interinale

Nei tre dipartimenti delle Bocche del Rodano, Valchiusa e Gard, nella Francia meridionale, a giugno sono scoppiati diversi focolai di Covid tra i braccianti agricoli stagionali. In tutto si stimano 250 lavoratori contagiati. Tra questi, alcuni sono stati portati in Francia dall’agenzia interinale Terra Fecundis. L’azienda è spagnola, di base a Murcia. Somministra, specialmente in Francia, lavoratori stagionali provenienti dall’America Latina, ma anche da Marocco e Senegal. I lavoratori sono sotto contratto con l’agenzia, che si occupa di portarli sul posto di lavoro e nel loro alloggio. L’emergenza Covid ha riacceso i riflettori su Terra Fecundis che proprio a maggio sarebbe dovuta andare a giudizio al Tribunale di Marsiglia: l’azienda è accusata, secondo le leggi francesi, di “lavoro nero” e “somministrazione fraudolenta di lavoro”. Secondo i documenti della procura, l’azienda sarebbe inoltre all’origine di una frode contributiva che solo tra il 2012 e il 2015 avrebbe toccato quota 112 milioni di euro. Il processo però è stato rimandato proprio a causa della pandemia.

Terra Fecundis – il cui profitto è generato in Francia per 57 milioni di euro su 77 totali – secondo le leggi transalpine dovrebbe registrare i lavoratori e pagare i loro contributi in Francia. E invece non lo fa, motivo per il quale è scattata l’accusa di frode al sistema previdenziale. L’azienda, concludono le indagini, a partire dal 2016 ha beneficiato di una «redditività eccessiva» dovuta proprio al mancato rispetto delle leggi sul lavoro. Una società del gruppo Terra Fecundis è stata già condannata alla pena di 75 mila euro per «lavoro nero» e applicazione indebita del regolamento europeo sul lavoro distaccato.

Il lavoro distaccato

I lavoratori distaccati, in inglese posted worker sono impiegati mandati dal loro datore di lavoro a svolgere una mansione in un Paese membro dell’Unione europea per un periodo di tempo limitato, secondo la definizione del Dipartimento Occupazione affari sociali e inclusione della Commissione europea.

Sudamericani lavorano anche in Guascogna, nella Francia sud-occidentale. Qui i reporter di Mediapart, partner del progetto, hanno intervistato decine di migranti impiegati nella raccolta delle carote. La principale azienda agricola della zona è Les fermes Larrère, leader del settore. Decine di interviste descrivono un quadro di sfruttamento, con paghe da 660 euro per 70 ore di lavoro, a fronte di promesse di paghe mensili da 1.500 o 2.000 euro con turni da sei ore. I lavoratori si devono anche pagare l’alloggio.

Come nella Francia meridionale, anche in Guascogna il sistema funziona con un’agenzia interinale che fa da tramite, la G.e.n.a. Una volta ricevute le domande dai giornalisti, Les fermes Larrère ha risposto dicendo di aver organizzato un sondaggio interno tra i suoi stagionali, i quali hanno effettivamente rilevato una serie di malfunzionamenti nella raccolta delle carote di quest’anno. L’azienda si è quindi impegnata ad avviare un audit interno al fine di emanare una “carta etica” per quanto riguarda il rispetto del diritto del lavoro.

Germania, il paradiso perduto dei braccianti che arrivano da Est

George Mitache è uno dei centinaia di romeni partito per la Germania per la raccolta delle fragole con la promessa di guadagnare 5 o 6 mila euro in tre mesi di lavoro. Netti: il costo del volo, del pernottamento e del cibo saranno coperti dal datore di lavoro. È quanto gli ha assicurato l’intermediario, un concittadino di Bacani, villaggio vicino al confine con la Moldavia. Invece, una volta atterrato a Bonn, Mitache è costretto a lavorare per pagarsi il viaggio e l’alloggio, insieme agli altri lavoratori. Preferisce vivere in strada ed evitare di mangiare, pur di guadagnare qualcosa.

Truffe come queste sono molto frequenti durante le campagne di raccolta di asparagi e fragole, soprattutto con i lavoratori comunitari. Con l’emergenza coronavirus, la situazione si è ulteriormente aggravata. Nicolae Bahan, un bracciante romeno che ha lavorato nella raccolta degli asparagi a Bad Krozingen, vicino al confine con la Francia, ha contratto il virus ed è morto a fine aprile. Nello stesso periodo, ad Ahrweiler, a sud di Bonn, gli ispettori del lavoro notificavano l’assenza di disinfettanti e carenze nelle misure di distanziamento nell’azienda in cui lavorava Mitache.

Lagnasco, Cuneo – Foto: Arianna Pagani

Al problema dei contagi nei campi, si è aggiunto il clamoroso caso dei macelli. Il caso più importante riguarda un’azienda di Gütersloh, città del Nord Reno-Vestfalia. Qui intorno all’azienda Tönnies ci sono stati duemila contagi. Anche qui, la maggior parte dei dipendenti sono stagionali che provengono da Paesi dell’Europa dell’Est e sono stati i primi ad essere contagiati.

Tra Germania e Francia il virus ha colpito così forte la comunità romena da spingere la ministra dell’Interno Violeta Alexandru a violare il lockdown. È salita sull’auto a Bucarest e dopo 18 ore ha raggiunto Berlino per incontrare il suo omologo Hubertus Heil. «Questa situazione rivela una grande quantità di problemi sistematici che non abbiamo affrontato nel modo corretto», ha detto alla Reuters a margine dell’evento.

Il boom olandese dei contratti temporanei

Agata, dalla Polonia, ha lavorato a giugno nella filiera della raccolta della frutta a Waddinxveen, cittadina a meno di 30 chilometri da L’Aja. Ogni mattina cominciava il turno alle 6 di mattina, senza sapere quando avrebbe finito. Ha ricevuto insulti, è stata scaricata dal furgone che la portava al lavoro in mezzo a una strada, senza sapere esattamente dove. Furgone dell’agenzia interinale impiegata dalla società. Per ogni trasporto pagava sei euro, a cui doveva aggiungene 94 a settimana se avesse voluto un letto più vicino al posto di lavoro. Trattamenti inumani come questi sono stati confermati da altri partecipanti alla raccolta degli asparagi.

In azienda, non è stata presa nessuna misura anti-Covid, nonostante le statistiche dimostrino che i migranti impegnati nella raccolta della frutta e nei macelli siano stati i più contagiati. Quando attendeva di riavere indietro i documenti a fine giornata, Karolina aspettava in una mensa sovraffollata, dove non era possibile mantenere il rispetto delle distanze di sicurezza. È in un contesto simile che, tra maggio e giugno, diverse aziende dell’industria della macellazione (sulla stampa locale sono usciti i nomi di Van Rooi Meat e Vion Food Group) sono finite in quarantena, dopo l’esplosione di piccoli focolai.

Tra maggio e giugno, diverse aziende dell’industria della macellazione sono finite in quarantena, dopo l’esplosione di piccoli focolai

I dipendenti con contratti temporanei, nei Paesi Bassi, sono passati da 140 mila nel 1995 a 900 mila oggi. Il business più importante non è per i datori di lavoro, ma per le agenzie interinali che somministrano i lavoratori, passate in 30 anni da poche centinaia a circa 14 mila. Tutto grazie alla “flessibilità”: in altri termini, la stagione che dal 1996 in avanti ha reso possibile per legge il lavoro a tempo determinato, stagionale o precario.

Sugli stagionali del settore agricolo e dell’allevamento esistono solo stime, i numeri esatti sono difficili da trovare. Di certo la filiera ortofrutticola e quella della macellazione sono due dei settori di impiego più importanti. Ci lavorano soprattutto polacchi, altrimenti romeni e bulgari. Una stima molto al ribasso fornita dai sindacati parla di almeno centomila stagionali che tengono in piedi questi due settori. Nonostante i regolamenti europei sul lavoro stabiliscano paghe uguali per chi svolge la stessa mansione, nei Paesi Bassi chi raccoglie la frutta con un contratto stagionale guadagna di media il 13% in meno dei colleghi con un impiego fisso, nota il Centraal Bureau voor de Statistiek (Cbs), l’Istat olandese. Un dato che gli stessi analisti definiscono «inspiegabile», ma che è possibile, paradossalmente, per legge. Infatti il principio della parità retributiva può essere derogato in caso sopraggiunga un accordo tra le parti sociali, come in questo caso. Non solo: il lavoro temporaneo, con le condizioni di svantaggio di cui sopra, sono consentiti dal contratto collettivo di lavoro. Questo tipo di somministrazione riduce al minimo i costi del lavoro e al contempo riduce le tutele. È evidente, quindi, il motivo del successo di questo modello di impiego.

La scappatoia legale è stata sempre tollerata perché altrimenti, evidentemente, si dovrebbe mettere mano all’intero sistema. A partire dai contratti collettivi. Lo ha scritto in modo chiaro il ricercatore dell’Università di Amsterdam Niels Jansen in un report di Social Economic Research Agency (Seo), istituto universitario che conduce studi per conto di ministeri o aziende. Il lavoro si intitola “La posizione dei lavoratori temporanei” ed è stato presentato anche alla Camera dei deputati olandese. Tra i principali risultati c’è il fatto che i contratti collettivi, per chi ha un lavoro temporaneo o stagionale, sono controproducenti. Chi si ritrova in questa situazione dovrebbe conoscere sia quello della categoria nella quale lavorano (come a esempio quella ortofrutticola), sia quello degli stagionali: una missione praticamente impossibile. Eppure il sindacato confederale olandese Fnv lo difende. Il sindacalista Erik Pentenga ammette che il contratto collettivo crea differenze salariali rispetto agli altri 800 contratti collettivi, ma molte delle disposizioni erano in buona fede. È un problema di uso improprio, non dello strumento di per sé.

IrpiMedia è gratuito

Ogni donazione è indispensabile per lo sviluppo di IrpiMedia

CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli
Matteto Civillini
Sara Manisera

In partnership con

Editing

Luca Rinaldi

Foto

mikeledray/Shutterstock
Arianna Pagani
Stefan Widua, Moritz Knöringer, Frederic Köberl, Stephan Bernard/Unsplash

La “famiglia Agip”: il caporalato dell’industria petrolifera

#TheNigerianCartel

La “famiglia Agip”: il caporalato dell’industria petrolifera

Lorenzo Bagnoli

Lo Stato del Rivers è lo snodo principale dell’industria petrolifera nigeriana. A partire dagli anni Novanta, è stato uno dei principali luoghi di scontro tra gruppi armati locali e multinazionali del greggio: anni di sequestri, di scontri armati, di milizie criminali travestite da gruppi politici. A tutt’oggi il sito del Dipartimento di Stato americano sconsiglia di viaggiare in questa zona della Nigeria a causa di «criminalità, sommosse, sequestri e crimini marittimi».

Dietro questa instabilità ci sono i cosiddetti “miliziani”, gruppi criminali che controllano il territorio e parte dell’economia locale.

Le loro vittime sono da un lato le compagnie petrolifere, dall’altro le popolazioni locali, tenute sotto minaccia da queste organizzazioni e costrette a vivere in un ambiente altamente inquinato (qui un report di Amnesty International del 2012). Come in ogni angolo povero del pianeta, i gruppi di criminalità organizzata hanno gioco facile a comprare l’appoggio della popolazione locale.

Secondo un report dell’agenzia governativa Nigerian Extractive Industries Transparency Initiative (Neiti) del novembre 2019, tra il 2009 e il 2018 i furti di petrolio, greggio e raffinato, sono costati alle casse dello Stato nigeriano 41,9 miliardi di dollari. Il problema è definito «endemico». Secondo le ultime statistiche, è in continua crescita e con la crisi del petrolio dovuta al blocco imposto dal coronavirus è probabile che aumenti ancora.

IrpiMedia è gratuito

Fai una donazione per sostenere un giornalismo indipendente

Non ci sono vere e proprie indagini per trovare i responsabili dei furti. Il groviglio delle responsabilità tra miliziani, minoranze delle comunità che fanno affari con i criminali e aziende locali che si occupano di sicurezza sono difficili da districare.

Non c’è nemmeno interesse politico a trovare i colpevoli. A livello governativo, il capro espiatorio sono sempre le popolazioni locali.

Per cercare di contenere questo problema, fin dal 2009, il governo ha concesso l’amnistia agli ex miliziani, in cambio del loro disarmo. Riporta nel 2013 l’Istituto della pace americano, centro studi del Congresso, che «i critici del programma ritengono che abbia fallito nello sradicare le cause profonde del conflitto, che sia corrotto e instabile, e promuova la creazione di signori della guerra e diffonda il crimine organizzato, oltre al resto. Queste critiche non sono prive di basi, ma spesso mancano di contesto ed equilibrio».

Sette anni dopo luci e ombre rimangono le stesse: da un lato, il programma dell’amnistia è l’unico strumento per coinvolgere le popolazioni locali in una profonda trasformazione sociale, dall’altro, però, non è stato finora in grado di smantellare davvero le reti dei miliziani, che continuano ad esistere e che nel 2019 hanno ucciso almeno 1.031 persone.

Il programma prevede che circa 30 mila ex guerriglieri, in cambio della rinuncia alle armi, possano ricevere uno stipendio di 420 dollari al mese e trovare un lavoro. Non sempre questo accade e molti miliziani si riciclano nel settore della “sicurezza”. Il governo si ritrova così periodicamente minacciato dai leader delle ex milizie di abbandonare il programma e tornare alla guerriglia.

A condurre inizialmente il processo dell’amnistia – che è parte consistente del problema odierno – sono stati alcuni dei principali attori del cartello nigeriano.

La prima fase, nel 2009, è stata gestita dall’allora presidente Umaru Yar’Adua, padrino politico sia di Goodluck Jonathan, sia di Abubakar Atiku, entrambi, in tempi diversi, suoi vicepresidenti.

#TheNigerianCartel

Opl 245, fine dei processi per Eni e Shell

Assolte in via definitiva a Milano, incassano verdetti favorevoli anche altrove. Non è stata corruzione internazionale. E la procura generale di Milano dice che «portano ricchezza» alla Nigeria

Opl245Papers: il fascicolo della discordia

È uno dei casi più importanti degli ultimi anni, finito in primo grado con una piena assoluzione degli imputati. Non una revisione giudiziaria, ma un racconto necessario del sistema

Goodluck Jonathan è originario del Bayelsa, Stato confinante a quello di Rivers. È qui che ha cominciato, nel 2005, la sua carriera politica come governatore. L’ascesa si è completata con il quinquennio da presidente cominciato nel 2010, alla morte di Yar’Adua. Jonathan avrebbe avuto contatti con i vertici di Eni e Shell per le trattative della presunta tangente da 1,1 miliardi di dollari sui quali indagano i pm di Milano nel processo Opl 245.

Eni attraverso la sua controllata Nigerian Agip Oil Company (Naoc), per i nigeriani Agip, è presente in Nigeria dal 1962. Per molte persone delle comunità locali, e molti ex guerriglieri, lavorare per la multinazionale è una delle poche speranze di occupazione.

L’impiego più che con la società petrolifera è con i subappaltatori locali, che si occupano di reperire manodopera giornaliera non qualificata e a basso costo. Il sistema che denunciano i membri delle comunità locali, però, è sbilanciato fin dalle sue regole di partenza e legittima una gestione che non rispetta i diritti dei lavoratori, un sorta di caporalato istituzionale.

I colleghi Kelechuku Ogu e Damilola Banjo del giornale partner di questo progetto, Sahara Reporters, insieme ai ricercatori della Stakeholder democracy network (Sdn), sono andati sul posto a verificare quanto accade in una comunità, quella degli Egbema, tra le più toccate dalle esplorazioni di Naoc.

Molti hanno chiesto di restare anonimi per paura di conseguenze sul posto di lavoro.

Quello che segue è l’adattamento in italiano della loro inchiesta. Le informazioni raccolte sul campo risalgono a gennaio 2020.

Damilola Banjo
Kelechukwu Ogu

A segnare l’ingresso nel territorio delle tribù Ogba/Ndoni/Egbema (in breve, Onelga, dove Lga sta per “local government authority”) ci sono due torce fiammeggianti. Bruciano dai pozzi del petrolio estratto in queste terre. Le loro fiamme rosse e arancio sono il segno tangibile di una comunità impattata dall’industria petrolifera.

Le nuvole stanno per scaricare il loro carico di pioggia: dopo l’ultimo diluvio, almeno un terzo del territorio Onelga è rimasto senz’acqua corrente. L’acqua piovana, invece, invade tutto: si mescola al fango e a una poltiglia di greggio. È stata piantata una barriera protettiva – usata per contenere le perdite di petrolio – allo scopo di frenare la fiumana limacciosa. È inefficace: petrolio e acqua sono scivolate nei territori vicini di Aggah, Mgbede e Okwuzi, tre comunità che appartengono agli Egbema.

In questa terra gli sversamenti avvengono con una certa frequenza: stando ai dati aggiornati a settembre 2019 dell’agenzia governativa di Monitoraggio delle perdite di petrolio, oltre 81 mila km2 di terra sono stati contaminati da idrocarburi. Proprietaria delle licenze petrolifere è soprattutto la Nigerian Agip Oil Company (Naoc), la controllata nigeriana di Eni, che in queste terre fa perforazioni alla ricerca del greggio nel 1962.

Una perdita di petrolio – Foto: Cornelius Itepu

Un accordo non rispettato

Tra azienda e tribù locali è operativo un memorandum of understanding (MoU) firmato sotto l’egida del governo del Rivers State, uno degli Stati che compone la Repubblica federale della Nigeria.

Il primo MoU raggiunto nella regione di Onelga è stato firmato nel 1999 e va rinnovato ogni quattro anni. Quando abbiamo visitato la regione, avrebbe dovuto essere in funzione la sesta edizione dell’accordo, invece la comunità stava negoziando ancora il terzo, in un processo che durava già da oltre un anno.

Le copie dell’accordo sono in mano solo a poche persone che partecipano alla trattativa.

Abbiamo incontrato qualche giovane della comunità di Egbema alla porta d’accesso cittadina – sotto un possente mango. Nonostante la sua rarità, abbiamo ottenuto una copia del memorandum del 1999. L’accordo prevede impiego, educazione e infrastrutture per i membri delle comunità impattate dalle perforazioni petrolifere. Tutte compensazioni che non si sono mai viste.

Per ottenere un impiego ci si deve rivolgere a quella che i locali chiamano “la famiglia Agip”: un gruppo di famiglie importanti, con conoscenze e agganci politici che gestisce tutta la filiera della manodopera giornaliera. Sono loro a parlare con Agip a nome del resto della popolazione.

«Il 90 % dei lavori svolto dai giovani della nostra comunità – gli Egbema – sono saltuari e non richiedono specializzazioni», spiega un giovane che dice di chiamarsi Dagogo. Per ottenere un impiego, ci si deve rivolgere a quella che i locali chiamano “la famiglia Agip”: un gruppo di famiglie importanti, con conoscenze e agganci politici che gestisce tutta la filiera della manodopera giornaliera. Sono loro a parlare con Agip a nome del resto della popolazione. Eppure, sulla carta, i diritti dei lavoratori della filiera del petrolio nel territorio di Onelga dovrebbero essere diversi.

Il paragrafo dedicato all’impiego della popolazione locale esplicita che sette candidati debbano essere impiegati dalla Naoc e altri quattro ogni anno entrino in una scuola di formazione tecnica nella vicina città di Warri.

«Il problema è che Agip non vuole prendersi le sue responsabilità», aggiunge un uomo che ha lavorato con i subappaltatori di Naoc per dieci anni. «Quando impiegano qualcuno, la sua paga appartiene a loro (i subappaltatori, ndr). [Agip] sa di queste pratiche illegali. Queste persone non hanno alcun contratto, ogni giorno il loro datore di lavoro può lasciarli a casa». Era parte del gruppo di negoziatori del secondo memorandum of understanding. Sostiene che membri della “famiglia Agip” si siano opposti a trattative con l’azienda sui posti di lavoro.

La famiglia Agip

«Il mio salario è di 47mila naira (113 euro, ndr), ho nove figli – spiega, chiedendo di mantenere anonima la sua identità -. Lavoro qui da dieci anni».

È uno dei tanti impiegati nella filiera attraverso i caporali della “famiglia Agip”. È proprietario di un terreno dove sono costruiti gli alloggi di Agip per i pozzi petroliferi. Molti nella comunità hanno qualche pezzo di terra requisito dall’azienda. Una volta che un tecnico identifica un lotto come potenziale sito di trivellazione, nulla impedisce l’ottenimento del terreno. Lo prevede la sezione 36 del primo programma del Petroleum Act, secondo cui un’azienda titolare di un contratto per la prospezione petrolifera o per l’affitto di un terreno può fare ciò che vuole nell’area interessata, a prescindere dai proprietari.

Vuoi fare una segnalazione?

Diventa una fonte. Con IrpiLeaks puoi comunicare con noi in sicurezza

In teoria, la legge prevede anche «un’equa e adeguata compensazione per l’occupazione del suolo». Il prezzo, però, non è ritenuto adeguato dai locali: la compensazione più consistente è di 1,5 milioni di naira al mese (3.572 euro) per 60 membri dell’intero albero genealogico. A testa, sono 25 mila naira: 59,5 euro.

Il compenso, inoltre, si esaurisce una volta completata la struttura. Agip ripete il pagamento quando qualsiasi forma di manutenzione deve essere eseguita sul pozzo. Chiunque ritenga il corrispettivo troppo basso e voglia un lavoro, deve rivolgersi alla “famiglia Agip”.

Il caso della Manila Industrial Security Service Ltd

Tra le società della “famiglia Agip” c’è la Manila Industrial Security Services Ltd di Alexander Orakwe. Stando ai contratti visionati da Sahara Reporters, il 1° gennaio 2014 si è aggiudicata la gara di subappalto di Naoc per la guardia delle strutture.

Un contenzioso mai concluso, però, solleva dubbi sul modo in cui l’azienda tratta i lavoratori.

Nel 2017 lo Stato del Rivers e il Ministero federale del Lavoro scrivono in una lettera che l’impresa ha dedotto circa 5.000 naira (11,77 euro) dagli stipendi delle persone impiegate nel 2014 e non ha provveduto, come previsto dalla legge, a versare i contributi alla Cassa previdenziale (Pension Fund Administrator, Pfa). I giornalisti sono in possesso anche di un secondo documento in cui l’azienda rinuncia a un incontro con gli organismi statali per risolvere il contenzioso. Da allora, nessuno ha cercato di chiudere la faccenda.

Dal momento in cui è iniziato il contenzioso, diversi dipendenti sono stati licenziati. Non hanno però su chi far valere i loro diritti: nella lettera d’incarico per i lavoratori non specializzati di Manila era già prevista questa clausola: «Accetto la presente lettera di assunzione e rinuncio ad aderire a qualunque sindacato o organizzazione».

L’ultimo vantaggio è per le società petrolifere internazionali, che possono far lavorare manodopera contrattualizzata secondo la normativa nigeriana.

Non solo. Stando agli articoli 2.1.3 e 2.1.4 della bozza di accordo tra Manila e Agip, è previsto che i lavoratori abbiano diritto sia all’assicurazione, sia alla pensione. Nessuno dei lavoratori però ha mai avuto né l’una né l’altra, dichiarano.

Le autorità locali

Nelson Ekperi è il primo ministro della comunità di Okwuzi, nonché uno dei “baroni” della “famiglia Agip”. La sua carica, definita «governo tradizionale» dalle leggi nigeriane, gli conferisce un potere effettivo, seppur inferiore rispetto a governo di regione, Stato e federazione. Rappresenta la comunità nelle occasioni ufficiali, comprese le negoziazioni con le aziende.

A Naoc, spiega ai giornalisti, in una votazione da 0 a 10 dà 7. L’unico problema ritiene sia la gestione delle politiche occupazionali delle comunità impattate dai progetti: «Chi lavora come manager – spiega – tende ad assumere solo gente propria, senza considerare la comunità ospitante per occupazioni migliore, come il personale assunto direttamente». Aggiunge che la clausola di assunzione prevista nel protocollo d’intesa del 1999 «non è stata rispettata fino ad oggi». «Nell’ultimo MoU – prosegue – l’occupazione non c’è». La politica industriale, continua, «è causare divisioni all’interno della comunità, creando problemi al suo interno».

C’era una volta

Un tempo le relazioni lavorative tra comunità e Naoc erano migliori. Spiega Ignatius Ekezie, sovrano tradizionale della comunità di Aggah, tribù Egbema, che una volta i lavoratori saltuari potevano ambire, dopo qualche anno, a diventare impiegati normali non per subappaltatori ma direttamente con la multinazionale.

Questa condizione oggi si ripresenta molto più di rado: «In pochissimi Egbema oggi lavorano con Agip», dice. Racconta poi che il primo sciopero delle comunità è stato organizzato proprio dagli Aggah: «Abbiamo ottenuto molto in quel modo – rammenta -. Ora è diverso. Anche i nostri giovani preferiscono contrattare per il loro interesse personale piuttosto che per altro».

Contrariamente all’opinione del primo ministro di Okwuzi secondo cui Agip ha fatto abbastanza in termini di sviluppo della comunità, il capo Ekezie pensa di no. A suo avviso, «la multinazionale petrolifera non ha fatto abbastanza». Dà la colpa alla popolazione, però, non alla ditta: pensa che il clan Egbema non abbia trattato a sufficienza con la compagnia per ottenere quanto spettava loro di diritto.

È tra i pochi a sostenerlo. Molti altri sembrano soddisfatti delle attuali condizioni nelle quali alcuni privilegiati si aggiudicano gare e lavori e li distribuiscono agli altri che attendono le briciole.

Tra i primi c’è anche Nelson Ekperi. È un caso particolare quello degli Egbema: in altri contesti simili nel confinante Stato di Bayelsa contenziosi e sfide in tribunale sono state molto più frequenti.

A questo si aggiunge l’inefficacia delle leggi: il Local Content Act, scritto nel 2010 per aumentare la partecipazione dei nigeriani all’industria petrolifera, è rimasto sempre lettera morta, dicono dalla comunità.

La replica di Eni

«Naoc rispetta le pari opportunità e non discrimina alcuna comunità in materia di lavoro o di contratto. La Società inoltre non assegna quote di occupazione a nessuna comunità o area di governo locale. Le statistiche disponibili mostrano che oltre il 60% del personale Naoc (compresi i dirigenti) proviene dalle sue aree operative, tra le quali è il governo locale di Onelga nello stato di Rivers.

Per quanto riguarda i contratti di lavoro, il grado di retribuzione e le condizioni di servizio sono negoziati con i sindacati dei lavoratori dell’industria, il sindacato dei contraenti e la Naoc utilizzano accordi-quadro per generare contratti».

A un’ulteriore domanda di approfondimento rispetto agli stipendi previsti da questi accordi-quadro, non sono state fornite ulteriori risposte.

«Nel caso di contratti di servizio, il grado di retribuzione e le condizioni di servizio sono negoziati direttamente tra i contraenti e il loro personale senza coinvolgere Naoc e Naoc non prende decisioni di assunzione per altre società.

Tuttavia, la registrazione del fornitore Naoc e gli accordi contrattuali impongono agli appaltatori Naoc di rispettare:

  • Tutte le leggi, le norme, i regolamenti, le ordinanze, le sentenze, gli ordini e altri atti ufficiali del nigeriano e qualsiasi altra autorità governativa riconosciuta dalla Società che sono ora o potrebbero, in futuro, diventare applicabili al Contraente
  • Requisiti standard Eni, tra cui le Linee guida del sistema di gestione anticorruzione Eni, il Codice etico Eni (con particolare riferimento agli “Standard etici aziendali”) e la Dichiarazione Eni sul rispetto dei diritti umani, che copre i diritti economici, sociali e culturali (ad es. Il diritto all’occupazione, condizioni di lavoro eque e soddisfacenti, parità di retribuzione per pari lavoro, salute e istruzione).
  • I venditori si impegnano inoltre a garantire che i loro azionisti, amministratori, dipendenti e collaboratori rispettino le stesse linee guida e gli stessi principi.

Naoc gestisce oltre 3700 contratti all’anno e oltre 900 fornitori.

Per garantire che tutti gli appaltatori, in particolare i piccoli fornitori di servizi provenienti dalle comunità in cui operiamo, rispettino tutto quanto sopra, Naoc si impegna a fornire in modo proattivo la formazione ai propri appaltatori locali sulle normative pertinenti e sulle migliori pratiche di approvvigionamento da parte delle agenzie di regolamentazione del settore oil and gas.

Queste iniziative fanno parte del contributo della Società allo sviluppo delle capacità indigene e garantiscono la conformità con la legge nigeriana sullo sviluppo di contenuti dell’industria petrolifera e del gas del 2010. La formazione consente di sensibilizzare gli appaltatori sul rispetto e la promozione dei diritti umani nell’esercizio di le loro operazioni quotidiane e durante eventi a rischio.

In riconoscimento dell’impegno e del contributo della società allo sviluppo di contenuti locali nel settore oil and gas in Nigeria, nel febbraio 2020 Eni, attraverso le sue filiali in Nigeria, è stata riconosciuta come Local Content Operator dell’anno».

CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli
Damilola Banjo
Kelechuku Ogu

In partnership con

Sahara Reporters

Editing

Giulio Rubino

Foto

Flickr
Sahara Reporters

Con il sostegno di