Dal Csm al caso carceri: la malagestione del potere tra politica e magistratura

12 Giugno 2020 | di Luca Rinaldi

In questi ultimi mesi abbiamo assistito all’emersione di un iceberg che con il passare del tempo ha assunto dimensioni rilevanti ma che pochissimi hanno voluto vedere. Fino a che il Titanic non ci ha sbattuto contro, nonostante l’orchestra si dimeni per continuare a suonare. Lo spaccato che emerge dalle vicende del Consiglio superiore della magistratura, dalle recenti uscite di alcuni pubblici ministeri e dalla gestione del ministero della giustizia è desolante. Tre fronti in apparenza lontani ma che hanno più di un tratto in comune, a partire da quella divisione dei poteri che non ha di certo iniziato a vacillare oggi, ma che oggi sembra manifestarsi nelle sue forme più “estreme”.

Proviamo a procedere con ordine, da via Arenula, sede del ministero della Giustizia, alla gestione della questione relativa alla Direzione dell’amministrazione penitenziaria, il Dap. Il disagio del sovraffollamento che si trasforma in rivolta nei primi giorni del lockdown e un bilancio finale di 14 vittime tra i detenuti. Arriva poi la circolare dello stesso Dap del 21 marzo scorso dove si determina che in presenza di alcune patologie e del superamento dei settanta anni di età «le direzioni comunicheranno con solerzia alla autorità giudiziaria, per le eventuali determinazioni di competenza, il nominativo del ristretto che dovesse trovarsi nelle predette condizioni di salute». Tradotto: le direzioni dei penitenziari segnalano le situazioni che rientrano nel quadro della circolare e la magistratura di sorveglianza (che ha la competenza riguardo l’esecuzione della pena) assume in autonomia le decisioni del caso facendo riferimento per altro a normative già esistenti.

Capita dunque che la magistratura di sorveglianza dal giorno successivo inizi ad analizzare i casi e prendere decisioni sulla base delle normative in vigore (nulla c’entra per altro il provvedimento del governo relativo all’emergenza coronavirus) e in base al quadro patologico e anagrafico tracciato dall’amministrazione penitenziaria. Iniziano così le polemiche su alcune scarcerazioni dei detenuti al 41-bis. Non ripercorriamo le vicende relative alle famigerate liste di trecento e più “boss” scarcerati (basti un dato: dei 498 detenuti a cui sono stati concessi i domiciliari, solo quattro erano reclusi al 41bis, ovvero lo 0,5 per cento del totale), non è questo il punto di ciò che state leggendo, ma rileviamo come nel giro di qualche settimana sia saltata tutta la catena di comando del Dap e come per decreto da parte del governo, con in testa il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede siano state di fatto sovvertite le decisioni della magistratura di sorveglianza. Uno scenario sudamericano.

In questa vicenda si incastona poi un certo modo di intendere il ruolo del magistrato nella società da parte della magistratura stessa: nel pieno della polemica sulle scarcerazioni emerge l’attuale consigliere del Csm Antonino Di Matteo (già pm nel processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia) il quale in diretta televisiva a Non è L’Arena, con un candore che poco si addice alla funzione, lascia intendere al Paese che il ministro, lo stesso Bonafede, due anni prima non abbia proceduto a nominarlo al vertice dell’amministrazione penitenziaria a causa della pressione dei boss della mafia. Prova sarebbe l’intercettazione di personaggi legati al boss Graviano che in carcere dicono «se arriva Di Matteo è finita». Non esattamente una pistola fumante ma se Di Matteo, magistrato in carica, incrociando le circostanze avesse avuto contezza della pressione dei boss sul ministro avrebbe forse dovuto denunciarle subito in una procura e non due anni dopo in diretta televisiva.

Cosa è il Consiglio superiore della magistratura e come viene eletto

Il Consiglio Superiore della Magistrature è l’organo di governo della magistratura italiana e gestisce tutto ciò che riguarda i percorsi di carriera di giudici e pubblici ministeri. Organo dunque decisivo per il funzionamento della giustizia, definisice i concorsi per l’immissione in ruolo, le procedure di asssegnazione e trasferimento, gli avanzamenti di carriera, la cessazione del servizio e gli aspetti disciplinari relativi ai magistrati.

I componenti del CSM sono 27. Tre ne fanno parte di diritto e sono il presidente della Repubblica (che è presidente dell’organismo), il primo presidente e il procuratore generale della Corte di Cassazione. Sedici sono invece i componenti togati, cioè personale della magistratura, e otto sono invece i componenti laici, tra cui il vice presidente. Quest’ultimo è un ruolo fondamentale per i lavori ordinari dell’assemblea dal momento che il presidente della Repubblica ha esclusivamente compiti formali e di garanzia. I membri laici sono eletti in seduta comune dal parlamento a scrutinio segreto e con la maggioranza dei 3/5 dei componenti l’assemblea.

In questo quadro rivestono grande importanza quindi sia le decisioni parlamentari, sia le correnti interne della magistratura. Secondo l’ultimo rapporto di OpenPolis nell’ultima consiliatura dell’organismo (2014-2018) si è toccato il record dei membri laici provenienti dal Parlamento o dal governo: su 8 membri laici, 7 avevano avuto incarichi parlamentari o governativi.

Discorso analogo per quanto riguarda l’influenza delle cosiddette correnti della magistratura in seno all’Associazione nazionale magistrati, che nel tempo si sono sempre più avvicinate alle corrispondenti aree di espressione del potere parlamentare. Nate con l’intento di portare idee e concezioni nuove nel sistema giustizia, le correnti hanno assunto un peso rilevante nella gestione politica dell’intero Consiglio superiore della magistratura.

Ma l’aria che si respira è questa e l’ascesa di una parte della magistratura a figure “resistenti” ha fatto sì che le briglie si sciogliessero, pure troppo. In barba a coloro che tutti i giorni lavorano dietro alle loro scrivanie con abilità e senza ribalta.

La magistratura è un potere dello Stato, ed esattamente come tutti gli altri poteri si comporta, con tutti i pregi, i difetti e le distorsioni proprie del potere. Il caso del mercimonio delle funzioni al Consiglio superiore della magistratura ne è una dimostrazione più che mai lampante. La logica delle correnti, legate a doppio filo alla politica, la fa da padrone e non certo da oggi. Nasce così il caso di Luca Palamara, ex consigliere del sindacato delle toghe, l’Asssociazione nazionale magistrati, ex consigliere dello stesso Csm e tra i leader di Unicost, la corrente centrista della magistratura. Nel 2018 quando finisce la sua consiliatura torna a fare il pm a Roma, ma continua senza sosta il suo lavorìo di gran tessitore di relazioni. Una rete che si espande dal cuore della magistratura alla politica, passando per attori e sportivi.

Le correnti della magistratura

MAGISTRATURA DEMOCRATICA (MD/AREA) – Considerata la corrente “di sinistra” della magistratura.

UNITÀ PER LA COSTITUZIONE (UNICOST) – Considerata la corrente centrista, insieme a Magistratura Indipendente esprime il maggior numero di membri in seno al Csm.

MAGISTRATURA INDIPENDENTE (MI) – Fondata nel 1963 è la corrente della magistratura più antica. Considerata espressione della destra è con Unicost la corrente che esprime più membri al Csm

AUTONOMIA E INDIPENDENZA – La più “giovane” delle correnti è stata fondata nel 2015 dall’ex pm del pool di Mani Pulite, Piercamillo Davigo. 

Restiamo qui a ciò che è ritenuto penalmente o disciplinarmente rilevante. Cioè le accuse di corruzione a carico di Palamara e le manovre per la nomina dello stesso a procuratore aggiunto di Roma per poi influenzare la scelta sul nuovo procuratore capo della Capitale. Viaggi e lavori di ristrutturazioni pagati da un amico lobbista. Per le accuse di corruzione il magistrato fa valere le sue relazioni tessute abilmente durante la carriera e riesce a ottenere, secondo la procura di Perugia tramie l’ex procuratore generale della Cassazione Riccarco Fuzio, informazioni sul fascicolo aperto che lo riguarda. Dall’inchiesta emergono decine di migliaia di pagine sulle chat whatsapp di Palamara tra cui le conversazioni con due deputati i renziani Cosimo Ferri e Luca Lotti. Ex magistrato e leader della corrente Magistratura Indipendente il primo, indagato dalla procura di Roma il secondo. I tre si mettono in testa di allungare le mani sulle nomine alla procura di Roma e nelle trame rimangono impigliati anche cinque togati del Csm costretti alle dimissioni la scorsa estate.

È apparsa in tutta la sua evidenza la degenerazione del sistema correntizio e linammissibile commistione fra politici e magistrati

Nota del Quirinale dello scorso 29 maggio

Emerge così lo spaccato di un organismo con la responsabilità, tra le altre di nomina dei vertici dell’apparato giudiziario italiano disperatamente a caccia di sponde politiche in grado di influenzarne le decisioni. Così l’instabilità politica si è trasmessa alle correnti della magistratura e in ultima istanza al Csm. Tanto che perfino il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, presidente del Csm stesso, arriva a scrivere in un comunicato che quella che abbiamo sotto gli occhi altro non è che una evidente «degenerazione del sistema correntizio e l’inammissibile commistione fra politici e magistrati». Lo stesso ha poi invitato il parlamento a prendere in considerazione «una adeguata legge di riforma delle regole di formazione del Csm».

Tre degenerazioni, dalla gestione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria al ruolo del Csm, passando per la bulimia di esternazioni di taluni rappresentanti della giustizia, che fotografano una perdita di credibilità costruita giorno per giorno da quella stessa quota di magistrati che vorrebbe ergersi a giusta fra i giusti, ma che fanno il male della categoria. E della giustizia.

Covid-19: il nodo carceri è una questione di diritti umani

7 aprile 2020 | di Lorenzo Bodrero, Matteo Civillini

Dal Garante dei detenuti alle associazioni, dagli avvocati ai familiari passando per i sindacati di polizia penitenziaria. L’appello è unanime: decongestionare le carceri prima che sia troppo tardi. L’emergenza sanitaria ha acuito la questione del sovraffollamento delle carceri, vecchio e irrisolto problema della giustizia italiana. Secondo il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale il tasso di affollamento è del 122%, con picchi oltre il doppio della capienza. A fronte di 50.931 posti disponibili ci sono 61.230 detenuti, oltre un quinto della capienza massima.

Il decreto cosiddetto Cura-Italia prevede l’assegnazione degli arresti domiciliari a coloro che devono scontare una pena o un residuo di pena entro i sei mesi. Tra i sette e i diciotto mesi è contemplato anche l’utilizzo del braccialetto elettronico. Fonti giudiziarie interpellate da IrpiMedia descrivono come a dir poco «oberati» gli uffici di sorveglianza, gli unici preposti a giudicare le richieste di scarcerazione provenienti dal detenuto, dai familiari, dai magistrati ma anche dal direttore del singolo carcere.

Indice di affollamento nelle carceri a febbraio 2020 (sopra) e andamento storico della popolazione e della capienza carceraria (sotto). Dati: Associazione Antigone, Istat

La misura denota «estrema timidezza da parte delle istituzioni nella gestione del problema», ha dichiarato a IrpiMedia Michele Miravalle, portavoce dell’associazione Antigone. La norma coinvolgerebbe meno di 4.000 detenuti ma «per rendere praticabili le condizioni minime di sicurezza sanitaria occorre liberarne almeno il doppio», ha aggiunto. E lamenta: «Inoltre, nessuno ha contezza del reale numero di braccialetti a disposizione».

Mentre il 2 aprile si è registrata la prima vittima per coronavirus tra i detenuti – 2 quelle accertate tra la polizia penitenziaria -, non mancano le perplessità intorno ai dati ufficiali. Al momento sono 140 le guardie carcerarie risultate infette, 26 i detenuti. «Non abbiamo motivo di non fidarci dei dati rilasciati. La domanda che dovremmo porci però – continua Miravalle – è: fin dove potranno arrivare quei numeri? Mai come oggi la “prevenzione” è tutto, se arriveremo alla “reazione” allora sarà troppo tardi».

Braccialetti elettronici, quell'appalto in parte inevaso

Da risorsa a ostacolo. Il mancato utilizzo di un numero adeguato di braccialetti elettronici è il più classico dei colli di bottiglia. Disporne a sufficienza porterebbe a decongestionare l’affollamento delle carceri e a un maggiore controllo nella diffusione del contagio. Il forte ritardo nell’esecuzione del contratto per la fornitura (l’installazione e l’attivazione mensile di 1.000 braccialetti vinto da Fastweb, insieme alla Vitrociset, risale ormai tre anni fa) è un nodo irrisolto, tornato a galla con le misure per contenere il coronavirus negli istituti di pena.

Il servizio sarebbe dovuto partire già a fine 2018 ma mancava ancora il via libera del ministero dell’Interno – allora guidato da Matteo Salvini – per la nomina della commissione di collaudo. «Ad oggi, dal sito della Polizia di Stato, risulta che la procedura di collaudo sia ancora aperta» ha rilevato il quotidiano Il Dubbio che ha dedicato una lunga inchiesta al tema. Secondo la relazione tecnica il contratto sarebbe partito a dicembre 2018 e in 15 mesi sarebbero stati attivati 5.200 braccialetti, 350 al mese, ben al di sotto degli accordi presenti nell’appalto.

La stessa relazione dice anche che fino a metà maggio ne saranno disponibili 2.600, un numero che forse spiega l’immobilismo istituzionale verso le esortazioni allo sfollamento dei penitenziari. In un’intervista a Radio Radicale del 27 marzo, il sottosegretario agli Interni Achille Variati ha detto che «da oggi verranno resi disponibili circa 5.000 braccialetti che saranno consegnati con un numero non inferiore ai 300 a settimana». Ancora poco: associazioni e garanti dei detenuti auspicano il rilascio tramite misure alternative alla detenzione di non meno di 10.000 persone.

Della stessa posizione è Mauro Palma, Garante Nazionale dei detenuti che si fa portavoce delle pressioni che arrivano dagli oltre 60 colleghi dispiegati sul territorio: «Quella norma è un primo passo ma perde di senso se non ne saranno presi ulteriori provvedimenti», dice Palma a IrpiMedia. «La priorità – continua – è allentare gli spazi, non farlo avrebbe forti ripercussioni, anche all’esterno, ma il governo deve decidere in fretta e ancora più celermente deve darne esecuzione».

L’opinione diffusa tra gli addetti ai lavori è che se all’esterno il picco dell’infezione sembra essere raggiunto, all’interno delle carceri sia invece ancora in piena crescita. E così i timori crescono, soprattutto alla luce delle condizioni delle strutture e della popolazione carceraria. Il 67% di loro, secondo Antigone, ha almeno una patologia, il 10% è sopra i 60 anni e quasi mille detenuti sono sopra i 70. Le misure intraprese fin qui per isolare le infezioni sono considerate ampiamente insufficienti. Scarso il numero di mascherine, personale sanitario ridotto all’osso, spazi di isolamento inadeguati e promiscuità con potenziali positivi creano forti tensioni tra i detenuti.

Chiara* è la madre di Diego* e, come tutti gli altri famigliari, non vede suo figlio da oltre un mese a causa delle misure di prevenzione. I colloqui sono stati aboliti e avvocati e parenti possono comunicare solo via telefono. «Ieri abbiamo fatto la prima video chiamata», racconta Chiara a IrpiMedia, «mi ha detto “mamma la situazione è ben peggiore di quella che vi raccontano, sta degenerando”». L’area allestita per i contagiati è stata soprannominata “braccio Covid” dai detenuti. Ci vengono trasferiti esclusivamente quelli sottoposti a tampone, che viene somministrato quando ormai i sintomi sono palesi. Fino a un attimo prima, però, il detenuto divideva la cella con altre tre o quattro persone.

Ma la preoccupazione di Chiara è rivolta anche agli altri: «E se la situazione peggiora, come è probabile che sia? Si ribelleranno? Temo il peggio…». I colloqui virtuali con Diego continueranno una volta alla settimana. «Prima di salutarci mi ha detto “ti prego, mamma, siate voi la nostra voce, non fateci morire nel silenzio”».

Alta tensione

Scontri e sommosse sono già scoppiate all’indomani dell’emanazione delle prime contromisure volte a isolare il virus nei penitenziari italiani. Da Salerno a Modena, da Napoli a Vercelli, da Frosinone ad Alessandria, da Foggia a Pavia, i carcerati lamentavano non solo l’abolizione delle visite con i parenti ma anche, e soprattutto, l’alto livello di concentrazione di persone e l’impossibilità di mettersi al riparo dall’infezione. Le violente proteste hanno causato 13 morti, 77 invece i detenuti evasi.

È di pochi giorni fa un audio pubblicato dal Corriere della sera di alcune guardie penitenziarie registrato durante lo svolgimento degli scontri. Una di queste denuncia il tentativo messo in atto da alcuni ristretti di uccidere lui e i colleghi allagando i locali e mettendo a contatto l’acqua con dei fili elettrici. Un’altra si rivolge ai colleghi e in tono allarmato grida: «Hanno sfasciato tutto… Tutti fuori sono… Non c’è più controllo… Era inevitabile che succedesse».

Tutto questo, un mese fa. E oggi? Le proteste sono state sedate ma il malumore rimane. Sulle piattaforme di messaggistica cominciano a circolare appelli lanciati dall’interno dei penitenziari in cui si denunciano le pessime condizioni sanitarie e igieniche delle aree, in particolare, adibite alla gestione del contagio. Al quotidiano di via Solferino ha parlato anche il sostituto procuratore di Napoli, Catello Maresca: «La questione carceraria è molto grave e seria», dice il magistrato, «le carceri sono delle polveriere pronte a esplodere nuovamente dopo i fatti del 7 marzo. Gli interventi presi sono assolutamente insufficienti, bisogna fare i tamponi a tutti i detenuti e alla polizia penitenziaria».

I moniti del Consiglio d’Europa

La «questione grave e seria» richiamata dal procuratore Maresca ha origini lontane. Il sovraffollamento delle carceri è una costante da almeno dieci anni, con picchi come quello del 2010 che non ha precedenti nella storia della Repubblica (vedi infografica).

All’appello unanime sulla necessità di ridurre il numero di detenuti si è aggiunto quello del Consiglio d’Europa (Coe). Attraverso il proprio comitato anti tortura (Cpt), ha richiamato una serie di principi a cui tutti gli Stati membri devono attenersi per evitare il rischio di pandemia nelle carceri: «Tutte le autorità competenti dovrebbero compiere sforzi concertati per ricorrere ad alternative alla privazione della libertà. Questa esigenza diviene imperativa, in particolare in situazioni di sovraffollamento». Commutazione della pena, rilascio anticipato e libertà vigilata sono le soluzioni proposte dal Consiglio.

«Non si tratta di un amnistia, tento meno di un indulto come tanti sostengono», commenta Miravalle di Antigone. «Quello che chiediamo è un allargamento delle misure alternative alla detenzione per, almeno, tutta la durata dell’emergenza».

Sempre dal Coe sono arrivati, nel giro di un anno, due pareri negativi sul sistema carcerario italiano. Il primo nell’aprile 2019 quando l’Italia è risultata tra gli ultimi posti in Europa per il sovraffollamento delle carceri, preceduta solo da Macedonia del Nord, Francia e Romania. Particolarmente alta è risultata anche la percentuale di detenuti in attesa di giudizio, con il 34% della popolazione carceraria contro il 22% della media europea.

Il secondo, lo scorso gennaio, quando a termine di visite ispettive agli istituti di Milano Opera, Biella, Saluzzo e Viterbo il Cpt ha constatato la necessità di rivedere il regime di carcere duro cosiddetto 41-bis – giudicato carente nelle attività sociali – e di abolire l’istituto di isolamento diurno poiché «anacronistico» e dannoso per la salute psicologica del detenuto.

* Nome di fantasia | Foto: il corridoio di un carcere – Lorenzo Bodrero/IrpiMedia

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