Le certificazioni di sostenibilità non fermano la deforestazione

2 Marzo 2023 | di Edoardo Anziano, Fabio Papetti, Giulio Rubino

Dal 1990 a oggi, un’area di foreste grande come l’Europa intera è scomparsa. Prima nell’indifferenza generale, poi, quando finalmente gli allarmi degli scienziati sulla crisi climatica e la perdita di biodiversità hanno cominciato ad essere trattati con più serietà, nel generale sconcerto. Senza che però si facesse nulla di concreto per mettere un freno a questa distruzione.

Lo sfruttamento industriale delle foreste è una delle cause principali dei cambiamenti climatici. Tagliare gli alberi, però, ha sempre delle conseguenze negative: gli scienziati stimano che il 10% delle emissioni climalteranti di tutto il mondo derivino da queste attività. La distruzione delle foreste inoltre aumenta il rischio di frane, allagamenti, e contribuisce in modo sostanziale all’estinzione di massa in corso della fauna silvestre. In aggiunta al danno ambientale, secondo alcuni, è anche una delle cause dell’aumento del rischio di epidemie. Con meno habitat forestale a disposizione, infatti, è più facile che patogeni sconosciuti vengano in contatto con umani o con animali da fattoria, entrando in questo modo nella catena alimentare umana.

Quindi, nonostante l’incapacità di intervenire degli Stati e delle organizzazioni internazionali, oggi resta impossibile per l’industria della deforestazione continuare a negare l’esistenza del problema. Come spesso accade in questioni che riguardano l’ambiente, i gruppi privati hanno ribaltato la narrazione presentandosi come “parte della soluzione”: per ottenere il risultato basta cambiare nome alla propria attività allo scopo di presentarla al pubblico come “verde”. Per questo è nata l’industria delle certificazioni di sostenibilità.

Le certificazioni di sostenibilità sui prodotti forestali (legno, carta, mobili e quant’altro) sono nate negli anni ‘90, in risposta all’impossibilità di creare accordi internazionali efficaci per arginare la deforestazione. Le più importanti sono Forest Stewardship Council (FSC), e Programme for the Endorsement of Forest Certification (PEFC), ma l’opportunità di business è stata prontamente colta dal più grande settore delle certificazioni industriali. Infatti da un lato giganti come KPMG e PwC (PricewaterhouseCoopers) hanno aperto divisioni specifiche per questo tipo di certificazioni, dall’altro sono sorte decine di aziende più piccole che fanno lo stesso, per un giro d’affari complessivo da 10 miliardi di dollari all’anno.

I certificati, è importante ricordarlo, sono del tutto volontari. Avere un certificato verde non semplifica le procedure di controllo, né protegge dalle verifiche delle forze dell’ordine. Il loro effetto è però molto importante, in primis per il consumatore finale, abituato oggi a trovare confortanti bollini verdi anche in fondo ai taccuini che compra, o sulla sovracopertina dei propri libri preferiti. Anche JK Rowling, dando alla stampa il settimo libro della saga di Harry Potter (oltre 500 milioni di copie vendute nel mondo) ha concordato con l’editore che la carta fosse certificata FSC.

Dato il prestigio di alcune delle grandi aziende che le emettono (KPMG, PwC), il ruolo e l’impatto di queste certificazioni si espande rapidamente anche a tutta la catena produttiva. La speranza velata delle aziende certificatrici è che, prima o poi, i loro bollini vengano sempre di più richiesti anche a livello ufficiale, come accade per altri settori.

L’inchiesta

#DeferestazioneSpa è un progetto coordinato da International Consortium of Investigative Journalists (Icij). L’inchiesta si interroga su come la deforestazione a livello globale continui, favorita anche dal greenwashing di cui, grazie a certificazioni carenti o inefficaci, molte aziende si rivestono per ingannare i propri clienti. Al progetto partecipano 40 testate da 27 Paesi. Per l’Italia, fanno parte di #DeforestazioneSpa IrpiMedia e l’Espresso.

Le certificazioni sfoggiate dalle aziende che lavorano il legname delle foreste dovrebbero accertare il rispetto degli standard ambientali, sociali e lavorativi, nonché il rispetto dei diritti umani di lavoratori e popolazioni indigene impattate dall’industria. Quando sono inaffidabili o falsificate, possono quindi causare enormi danni.

Stando ai risultati delle nostre ricerche, è difficile sentirsi rassicurati dagli effetti delle certificazioni di sostenibilità. I giornalisti di #DeforestazioneSpa hanno verificato che molte aziende apparentemente sostenibili hanno ripetutamente violato gli stessi standard che si erano date.

Ad esempio, un’azienda brasiliana che lavora nella foresta amazzonica è stata certificata «a pieno titolo», come dice il suo stesso sito, nonostante sia stata multata 37 volte dal 1998 a oggi per aver stoccato e trasportato legname senza autorizzazione. Un’azienda giapponese che opera in Cile ha ricevuto la certificazione nonostante si sia rifornita da aziende che hanno usato documenti falsi per l’origine del legname. Un altro gruppo di aziende canadesi condannate da un tribunale per aver danneggiato territori indigeni erano comunque certificate per utilizzare un «piano sostenibile di gestione delle foreste».

Dal 1998, oltre 340 aziende del legno certificate sono state accusate di crimini ambientali e altre violazioni da comunità locali, gruppi ambientalisti e agenzie governative, fra gli altri. Circa 50 di queste aziende possedevano certificati di sostenibilità quando sono state multate o condannate.

Greenwashing con il bollino

Gli enti certificatori, in tutto ciò, sono raramente chiamati in causa quando si verificano casi di questo tipo. Mancando ancora regole precise per l’assegnazione delle certificazioni, anche quando le ditte certificate vengono multate, spesso chi ha dato il “bollino verde” se la cava senza conseguenze, a prescindere dalla qualità delle verifiche effettuate.

Le sole certificazioni più importanti e riconosciute, Forest Stewardship Council (FSC), e Programme for the Endorsement of Forest Certification (PEFC) a oggi hanno certificato come “sostenibili” circa 320 milioni di ettari di foresta e migliaia di prodotti in tutto il mondo. Il loro ruolo è pervasivo in buona parte del mondo, ma in mercati specifici, anche molto importanti, sono sorte piccole aziende specializzate, come PT Inti Multima Sertifikasi in Indonesia, che certifica buona parte del legname tropicale esportato da quel Paese, molto richiesto in occidente.

Secondo la Forest Monitoring Network, un’organizzazione ambientalista di base a Bogor, nella provincia occidentale di Giava, in Indonesia, gli ispettori delle aziende di certificazione indonesiane hanno mancato di segnalare violazioni delle leggi ambientali per almeno 160 aziende. Si parla di permessi di taglio falsi, deforestazione illegale e distruzione di habitat protetti per animali come tigri ed elefanti. In alcuni di questi casi, inoltre, gli ispettori non hanno fatto nulla per impedire che queste pratiche continuassero.

Le organizzazioni internazionali si affidano a enti terzi per verificare che i loro clienti – produttori di legname, di olio di palma e altri prodotti derivanti dalla gestione delle foreste – raccolgano la materia prima in modo sostenibile e non usino materiali provenienti da deforestazione illegale. Gli ispettori degli enti terzi, che lavorano sul campo per documentare il lavoro di chi opera nelle foreste, controllano le segherie, intervistano gli impiegati dell’azienda e verificano tutte le condizioni che fanno parte delle dichiarazioni volontarie di sostenibilità.

Gli esperti, per quante criticità ci siano, concordano che in assenza di leggi nazionali in molti Paesi fornitori di legname, le certificazioni possono contribuire a mitigare i rischi di deforestazione. Ovviamente non possono dare il via ad azioni repressive contro le pratiche illegali, ma dovrebbero favorire sul mercato, grazie alla pressione dell’opinione pubblica, i soggetti che le hanno, i quali in teoria dimostrerebbero una maggiore trasparenza e attenzione all’ambiente.

In Brasile ad esempio, dove larga parte dell’industria in Amazzonia opera nell’illegalità più totale, poche sono le aziende che permettono a ispettori di enti terzi di controllarle. Anche quelle che si aprono possono però restare, almeno parzialmente, opache. Marcos Planello, ispettore forestale di base a Sao Paulo confessa ad ICIJ i limiti del suo lavoro: «Noi ispettori controlliamo solo quello che le aziende ci permettono di controllare, se un’azienda vuole fare qualcosa di illecito di nascosto, lo farà».

L’illusione di poter fare la differenza

Negli ultimi anni le certificazioni FSC e PEFC sono finite sotto accusa a causa di una sostanziale mancanza di trasparenza rispetto ai criteri e i risultati delle ispezioni, di scandali che hanno coinvolto aziende da loro certificate e di presunti conflitti di interessi.

Tre ex-ispettori intervistati da ICIJ hanno detto che avevano inizialmente scelto questo lavoro per l’impatto positivo che speravano di poter avere, ma che gradualmente hanno perso le speranze rispetto al sistema. Le testimonianze sono concordi: mano a mano che le certificazioni si sono diffuse e sono aumentate le aziende pronte a pagare per la certificazione volontaria, gli standard si sono abbassati e il metodo ha perso di efficacia. Nel 2021, alcune associazioni di consumatori in Olanda e in Gran Bretagna hanno esaminato centinaia di siti di aziende che vendono prodotti che definiscono “ecosostenibili”. Nel 40% dei casi esaminati, sostengono, l’affermazione «potrebbe indurre in errore i consumatori».

«In molti hanno pensato che questi standard sarebbero stati una buona idea, a fronte degli scempi fatti nell’industria – spiega Bob Bancroft, biologo ed ex-ispettore forestale canadese -. Ora la vista dei bollini verdi sui prodotti di supermercato tranquillizza le coscienze dei consumatori, e questo è il problema».

Kim Carstensen, direttore generale di FSC, risponde alle critiche in un’intervista con i colleghi della televisione tedesca WDR. «Crediamo di essere un buon marchio per molti motivi. Abbiamo un sistema di governance che include diversi portatori di interesse e abbiamo rigidi regolamenti ambientali e sociali». In un mondo ideale, spiega Carstensen, i governi dovrebbero avere un ruolo più attivo nella protezione delle foreste. «Ma la situazione non è ideale – ragiona – quindi quando ci sono dubbi sulla sostenibilità o meno della gestione delle foreste, le certificazioni sono ancora importanti». FSC, quindi, continua a sopperire ad un vuoto di leggi internazionali in certe occasioni.

In quanto “strumento volontario”, aggiunge un portavoce di FSC in risposta alle nostre domande, «FSC non pretende di poter essere una soluzione ad un problema complesso come la deforestazione». «La credibilità di PEFC – ha dichiarato invece il suo portavoce Thorsten Arndt – e di altre certificazioni è stata riconosciuta molte volte», aggiungendo che le Nazioni Unite considerano PEFC come un «indicatore di progresso rispetto ai Sustainable Development Goals (SDGs)», ha spiegato riferendosi all’agenda 2030 delle Nazioni Unite per la sostenibilità ambientale in cui, dal 2015, sono definiti degli obiettivi intermedi che dovrebbero contribuire allo sviluppo globale, promuovere il benessere umano e proteggere l’ambiente.

Arndt ha anche risposto alle critiche, mosse da diverse associazioni ambientaliste, che gli standard di PEFC siano sbilanciati a favore dell’industria. Le aziende, replica il portavoce, sono solo uno dei nove stakeholder che stabiliscono gli standard di PEFC, assieme alle comunità indigene, i sindacati e altri attori.

Alcune aziende certificatrici contattate da ICIJ hanno ammesso che possono esserci stati casi di sviste o leggerezze da parte dei loro ispettori, ma che questi casi rimangono isolati rispetto alla maggioranza del loro lavoro. «Alle accuse di greenwashing – ribatte Linda Brown, co-fondatrice dell’azienda di certificazioni americana SCS Global Services – rispondo che [quelli che ci attaccano] stanno cercando di usare l’eccezione per smontare la regola».

Nei fatti, tuttavia, la deforestazione non accenna a fermarsi, nonostante le ambiziose dichiarazioni delle aziende certificatrici di voler «proteggere le foreste» o di volerne «favorire lo sfruttamento sostenibile». L’approccio lassista sui controlli ha permesso ad aziende del legname di ottenere permessi di esportazione in Paesi dove è più difficile che i compratori siano a conoscenza dei reati commessi all’inizio della catena di approvvigionamento.

Ma anche in quei pochi casi in cui le violazioni vengono sanzionate, spiega Danial Dian Prawardani dell’ONG ambientalista indonesiana Forest Monitoring Network, le multe e le condanne raramente possono compensare la perdita di habitat per la fauna, la distruzione delle terre indigene e quella delle foreste primarie. «Le vere perdite [per la collettività] sono molto più alte delle multe emesse, perché il danno sociale ed ecologico è impossibile da calcolare», conclude.

Non solo, il danno causato dalla deforestazione è impossibile da riparare, almeno nel corso di una generazione, e ha conseguenze tuttora difficili da prevedere.

Foto: Veduta aerea di una segheria sulle rive del fiume Madeira nello stato dell’Amazzonia, in Brasile – Foto: Mauro Pimentel/Getty
Editing: Lorenzo Bagnoli
Hanno collaborato: Scilla Alecci, Paolo Biondani, Gloria Riva, Leo Sisti
In partnership con: ICIJ