In Ue 3mila ricerche sviluppano tecnologie con scienziati legati all’esercito cinese

In Ue 3mila ricerche sviluppano tecnologie con scienziati legati all’esercito cinese

Giulio Rubino

Algoritmi in grado di identificare una persona da come batte i tasti su una tastiera, nuove tecnologie di riconoscimento facciale, sistemi di navigazione per droni o per la guida di veicoli sottomarini super-veloci: sono solo alcuni esempi fra le centinaia di studi condotti da università italiane in partnership con atenei cinesi, e che potrebbero avere importanti applicazioni militari. L’allarme è già stato lanciato dalle agenzie di intelligence di tutta Europa che, soprattutto da quando gli Stati Uniti hanno cominciato a limitare l’accesso degli scienziati cinesi nel loro Paese, hanno rilevato come sia fortemente aumentata la quantità di collaborazioni accademiche fra Cina e Europa, specialmente su settori ad alta tecnologia e ancora relativamente nuovi: veicoli a guida automatica (sia droni che altro), intelligenze artificiali, tecnologie aerospaziali.

Ma in che cosa consiste di preciso il rischio? Secondo molti analisti quello più grande è che queste tecnologie finiscano direttamente per essere applicate dalle forze armate cinesi. Ma è altrettanto preoccupante che alcune di queste possano andare a rinforzare i sistemi di sorveglianza di massa che la Cina mette in campo nei suoi territori, e che sono uno strumento chiave nelle più gravi violazioni dei diritti umani che sistematicamente avvengono in quel Paese, in particolare contro le minoranze etniche.

Sebbene la consapevolezza della situazione si stia diffondendo, fino ad oggi i controlli sulle collaborazioni accademiche in Europa sono stati minimi. Anzi, afflitte da una costante carenza di fondi e di investimenti, le università di tutta Europa sono state più che pronte ad offrire una sponda alle ambizioni del gigante asiatico e solo recentemente alcuni Paesi stanno iniziando a rivedere il loro approccio.

Il progetto di inchiesta #ChinaScienceInvestigation, collaborazione fra undici testate giornalistiche europee, guidata dalla testata olandese Follow The Money e da Correctiv, ha infatti raccolto e analizzato oltre 350 mila studi scientifici condotti in partnership tra università cinesi ed europee, dal 2000 ad oggi.

Se la condivisione internazionale di conoscenze e tecnologie è un principio fondamentale della scienza stessa, riconosciuto dall’Unione europea che definisce il concetto di “open science” una priorità, una parte minoritaria ma importante dei 350 mila studi analizzati – quasi tremila – sono stati portati avanti assieme a scienziati e istituzioni direttamente legate alle forze armate cinesi, l’Esercito popolare di liberazione. Per la precisione sono stati individuati 2994 studi di questo tipo, ma la cifra reale è probabilmente più alta, dato che non è stato possibile determinare con certezza se alcune delle istituzioni cinesi in analisi siano o meno legate alle forze armate.

Ambizioni di potere

La tabella di marcia era stata delineata con precisione già sei anni fa. Al congresso dell’Associazione Cinese per la Scienza e la Tecnologia a Pechino, a maggio 2016, Xi Jinping prometteva che la Repubblica popolare cinese (Rpc) sarebbe diventata entro il 2020 uno dei Paesi più innovativi del mondo in ricerca e sviluppo entro il 2030, ed arrivare al centesimo anniversario della fondazione della Rpc, nel 2049, a essere riconosciuta come una potenza scientifica globale.

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Per decenni considerata poco più di un enorme serbatoio di manodopera a basso costo per produrre prodotti pensati in Occidente, oggi non c’è dubbio che le aspirazioni di Xi non solo appaiono realistiche, sono anche in gran parte già realizzate.

La strategia con cui la Cina sta perseguendo questo obiettivo si basa su tutta una serie di politiche, interne ed esterne. Internamente, e fin dall’inizio degli anni 2000, una serie di politiche industriali e fiscali hanno dato un forte impulso all’innovazione scientifica. Scrive Lorenzo Mariani, ricercatore dell’Istituto Affari Internazionali (Iai), nel suo report L’Iniziativa Belt and Road e l’internazionalizzazione della potenza cinese in campo scientifico: il caso dell’Italia: «Nel 2019 la Cina è stato il primo Paese per numero di richieste di brevetti internazionali, con oltre 58.000 domande […] Il numero dei brevetti presentati alle autorità nazionali non è da meno: nel 2020 sono state registrate all’incirca 3,6 milioni di istanze di concessione. Recentemente il Paese ha superato gli Usa nel numero di articoli di ricerca prodotti, con il 19,9 per cento degli studi sottoposti a referaggio e pubblicati nelle riviste scientifiche a livello globale».

Lo stesso Mariani nota come, per quanto sul piano dei numeri sia già vicina all’obiettivo dichiarato da Xi nel 2016, il peso di questa immensa produzione è ancora relativamente basso, almeno a confronto delle ambizioni del colosso asiatico. Infatti: «L’impatto scientifico delle ricerche cinesi – scrive sempre Mariani – è ancora relativamente modesto, con uno standard di qualità inferiore a quello delle principali economie sviluppate.[…] Mentre negli Stati Uniti i brevetti universitari hanno tassi di commercializzazione tra il 40 e il 50%, quelli cinesi hanno un tasso di industrializzazione del solo 18,3%».

In questo quadro appare chiaro come il governo cinese ritenga fondamentali, tanto da investirvi significative risorse, le collaborazioni accademiche tra le università cinesi e quelle europee.

Dei circa tremila identificati, la maggior parte (2.210) sono stati fatti in collaborazione con la National University of Defense Technology, la principale università militare del Paese. Affiliata direttamente alla Commissione militare centrale, una delle più importanti istituzioni di tutta la Cina, la NUDT è una delle università più all’avanguardia, specialmente nei campi delle scienze informatiche, ottiche, delle comunicazioni e aerospaziali. Oltre alla NUDT, ai primi posti per numero di collaborazioni ci sono la Information Engineering University, che è direttamente dipendente dalle forze armate, e la China Academy of Engineering Physics, indirettamente anch’essa sotto il controllo della Commissione Militare Centrale, e famosa per le ricerche nel campo degli armamenti convenzionali, nucleari e laser.

Europa ventre molle

I primi 10 Paesi Ue per numero di collaborazioni in corso con istituti cinesi. L’inchiesta #ChinaScienceInvestigation ne ha rintracciati 2.994, di cui quasi la metà nel Regno Unito

Dal lato europeo, la maggior parte delle collaborazioni ha avuto luogo con università del Regno Unito, seguita da Olanda, Germania e Svezia. L’Italia, almeno secondo le ricerche fatte da questo consorzio, è al settimo posto nelle collaborazioni con istituzioni militari, con appena 123 studi. Eppure il nostro Paese è stato fra i primi ad aprire le porte agli scambi accademici con la Cina. Il primo accordo intergovernativo di cooperazione scientifica con la Cina è infatti del 1978, e secondo i dati del Miur, ci sono state 939 collaborazioni universitarie bilaterali fra i due Paesi solo fra il 2007 e oggi.

I timori delle intelligence europee

L’ampiezza delle collaborazioni fra università europee e cinesi è un argomento che negli ultimi anni ha destato grande preoccupazione nelle agenzie di intelligence di tutta Europa. Fra i primi a sottolineare il problema ci sono stati gli olandesi. Nel 2010 AIVD (Algemene Inlichtingen- en Veiligheidsdienst, i servizi segreti dei Paesi Bassi) ha lanciato pubblicamente l’allarme rispetto all’interesse cinese per le tecnologie europee, dichiarando che aveva già allertato aziende e università del rischio.

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I servizi belgi, similmente, hanno nel 2020 fatto esplicitamente fatto riferimento alla NUDT, segnalando come da quando gli Stati Uniti hanno irrigidito le regole d’accesso per studenti e università cinesi alle loro tecnologie, queste abbiano girato il loro interesse all’Europa. Nel febbraio di quest’anno, sia i servizi danesi sia quelli italiani hanno puntato il dito contro la Cina. La relazione annuale del Copasir infatti sottolinea come la presenza di scienziati e studenti cinesi nei nostri atenei sia in costante aumento, tanto tramite collaborazioni fra università, quanto tramite accordi quadro fra università e aziende private cinesi, specie quando tali aziende non possono essere considerate indipendenti rispetto al governo di Xi Jinping.

La questione, naturalmente, è molto politica: secondo il Copasir, «l’alleanza operativa inedita tra Cina, Russia e Iran» è uno degli elementi che porta a considerare la Cina come un «avversario strategico» del nostro Paese e l’atteggiamento sempre più assertivo di Pechino sul piano internazionale preoccupa il blocco atlantico, che vede una minaccia nelle ambizioni globali di Xi Jinping.

Al di là delle preoccupazioni di ordine geopolitico, però, c’è da considerare l’opportunità di sviluppare tecnologie assieme a un Paese che, specialmente dall’ascesa del presidente Xi, continua ad essere colpevole di innumerevoli violazioni di diritti umani. La repressione delle minoranze etniche, la persecuzione di attivisti e giornalisti indipendenti, lo sviluppo sempre più pervasivo di sistemi di controllo e repressione basati su tecnologie avanzate, come il sistema di credito sociale messo in piedi in alcune città, sono tutti elementi che lo scambio indiscriminato di tecnologia può aggravare notevolmente.

Cos’è e cosa fa il Copasir

Il CO.PA.SI.R. è il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, sostanzialmente l’organismo di vigilanza del Parlamento sui servizi segreti. La legge che regola il funzionamento del Copasir è la 124 del 30 agosto 2007, in particolare tra gli articoli 30 e 38. Il CO.PA.SI.R. è composto da 5 deputati e 5 senatori, ripartiti in maniera tale da garantire comunque la rappresentanza paritaria della maggioranza e delle opposizioni e nominati entro venti giorni dall’inizio di ogni legislatura dai Presidenti dei due rami del Parlamento.

Obbligo del segreto

I componenti del Comitato, i funzionari e il personale di qualsiasi ordine e grado addetti al Comitato stesso e tutte le persone che collaborano con il Comitato oppure che vengono a conoscenza, per ragioni d’ufficio o di servizio, dell’attività del Comitato sono tenuti al segreto relativamente alle informazioni acquisite, anche dopo la cessazione dell’incarico.

Organizzazione interna

Le attività e il funzionamento del Comitato sono disciplinati da un regolamento interno approvato dal Comitato stesso a maggioranza assoluta dei propri componenti. Ciascun componente può proporre la modifica delle disposizioni regolamentari.

Le sedute e tutti gli atti del Comitato sono segreti, salva diversa deliberazione del Comitato.

Le spese per il funzionamento del Comitato, determinate in modo congruo rispetto alle nuove funzioni assegnate, sono poste per metà a carico del bilancio interno del Senato della Repubblica e per metà a carico del bilancio interno della Camera dei deputati. Il Comitato può avvalersi delle collaborazioni esterne ritenute necessarie, previa comunicazione ai Presidenti delle Camere, nei limiti delle risorse finanziarie assegnate. Il Comitato non può avvalersi a nessun titolo della collaborazione di appartenenti o ex appartenenti al Sistema di informazione per la sicurezza, né di soggetti che collaborino o abbiano collaborato con organismi informativi di Stati esteri.

Il Comitato

Il Comitato è presieduto da un esponente dell’opposizione.

É eletto dai componenti del Comitato a scrutinio segreto. Il presidente è eletto tra i componenti appartenenti ai gruppi di opposizione e per la sua elezione è necessaria la maggioranza assoluta dei componenti. Se nessuno riporta tale maggioranza, si procede al ballottaggio tra i due candidati che hanno ottenuto il maggiore numero di voti. In caso di parità di voti è proclamato eletto o entra in ballottaggio il più anziano di età.

É preventivamente informato dal Presidente del consiglio dei Ministri circa le nomine del direttore generale e dei vice direttori generali del DIS (Dipartimento delle informazioni per la sicurezza) e dei direttori e dei vice direttori dei servizi di informazione per la sicurezza.

Anche su richiesta di uno dei suoi componenti, denuncia all’autorità giudiziaria i casi di violazione del segreto. Qualora risulti evidente che la violazione possa essere attribuita ad un componente del Comitato, il presidente di quest’ultimo ne informa i Presidenti delle Camere.

Il Presidente del Consiglio dei Ministri, su richiesta del presidente del COPASIR, espone, in una seduta segreta appositamente convocata, il quadro informativo idoneo a consentire l’esame nel merito della conferma dell’opposizione del segreto di Stato.

L’ufficio di presidenza, composto dal presidente, da un vicepresidente e da un segretario, è eletto dai componenti del Comitato a scrutinio segreto. Il presidente è eletto tra i componenti appartenenti ai gruppi di opposizione e per la sua elezione è necessaria la maggioranza assoluta dei componenti.

Le funzioni

Controllo

Il Comitato verifica, in modo sistematico e continuativo, che l’attività del Sistema di informazione per la sicurezza si svolga nel rispetto della Costituzione, delle leggi, nell’esclusivo interesse e per la difesa della Repubblica e delle sue istituzioni.
È compito del Comitato accertare il rispetto di quanto stabilito dall’articolo 8, comma 1 (cioè che le funzioni attribuite al DIS, all’AISE [Agenzia informazioni e sicurezza esterna] e all’AISI [Agenzia informazioni e sicurezza interna] non possono essere svolte da nessun altro ente, organismo o ufficio), nonché verificare che le attività di informazione previste dalla legge 124 del 2007, svolte da organismi pubblici non appartenenti al Sistema di informazione per la sicurezza rispondano ai principi della presente legge.

Procede al periodico svolgimento di audizioni del Presidente del Consiglio dei ministri e dell’Autorità delegata, ove istituita, dei Ministri facenti parte del CISR, del direttore generale del DIS e dei direttori dell’AISE e dell’AISI.

Ha altresì la facoltà, in casi eccezionali, di disporre con delibera motivata l’audizione di dipendenti del Sistema di informazione per la sicurezza. La delibera è comunicata al Presidente del Consiglio dei ministri che, sotto la propria responsabilità, può opporsi per giustificati motivi allo svolgimento dell’audizione.

Il Comitato può ascoltare ogni altra persona non appartenente al Sistema di informazione per la sicurezza in grado di fornire elementi di informazione o di valutazione ritenuti utili ai fini dell’esercizio del controllo parlamentare
Può ottenere, anche in deroga al divieto stabilito dall’articolo 329 del codice di procedura penale, copie di atti e documenti relativi a procedimenti e inchieste in corso presso l’autorità giudiziaria o altri organi inquirenti, nonché copie di atti e documenti relativi a indagini e inchieste parlamentari. L’autorità giudiziaria può trasmettere copie di atti e documenti anche di propria iniziativa.

Può ottenere, da parte di appartenenti al Sistema di informazione per la sicurezza, nonché degli organi e degli uffici della pubblica amministrazione, informazioni di interesse, nonché copie di atti e documenti da essi custoditi, prodotti o comunque acquisiti.

Qualora la comunicazione di un’informazione o la trasmissione di copia di un documento possano pregiudicare la sicurezza della Repubblica, i rapporti con Stati esteri, lo svolgimento di operazioni in corso o l’incolumità di fonti informative, collaboratori o appartenenti ai servizi di informazione per la sicurezza, il destinatario della richiesta oppone l’esigenza di riservatezza al Comitato.

Al Comitato non può essere opposto il segreto d’ufficio, né il segreto bancario o professionale, fatta eccezione per il segreto tra difensore e parte processuale nell’ambito del mandato. Il Comitato può esercitare il controllo diretto della documentazione di spesa relativa alle operazioni concluse, effettuando, a tale scopo, l’accesso presso l’archivio centrale del DIS. Il Comitato può effettuare accessi e sopralluoghi negli uffici di pertinenza del Sistema di informazione per la sicurezza, dandone preventiva comunicazione al Presidente del Consiglio dei ministri.

Consultive

Esprime il proprio parere sugli schemi dei regolamenti previsti dalla legge, nonché su ogni altro schema di decreto o regolamento concernente l’organizzazione e lo stato del contingente speciale del personale. Il Comitato esprime, altresì, il proprio parere sulle delibere assunte dal Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica sulla ripartizione delle risorse finanziarie tra il DIS e i servizi di informazione per la sicurezza e sui relativi bilanci preventivi e consuntivi, nonché sul piano annuale delle attività dell’ufficio ispettivo.

Relazioni

Presenta una relazione annuale al Parlamento per riferire sull’attività svolta e per formulare proposte o segnalazioni su questioni di propria competenza.
Può trasmettere al Parlamento nel corso dell’anno informative o relazioni urgenti.
Entro il mese di febbraio di ogni anno il Governo trasmette al Parlamento una relazione scritta, riferita all’anno precedente, sulla politica dell’informazione per la sicurezza e sui risultati ottenuti. Alla relazione è allegato il documento di sicurezza nazionale, concernente le attività relative alla protezione delle infrastrutture critiche materiali e immateriali nonché alla protezione cibernetica e alla sicurezza informatica.

Un esempio su tutti, riportato da Mariani nel suo report è quello della tecnologia comprata dall’Italia dalle multinazionali cinesi Hikvision e Dahua. Tra il 2017 e il 2019 infatti sono state acquistate e installate telecamere di sorveglianza prodotte da queste aziende negli uffici di 134 procure, negli aeroporti di Roma e Milano, e anche negli uffici della Rai. Sempre da Dahua, all’inizio della pandemia, sono stati acquistati 19 termoscanner con tecnologia di riconoscimento facciale per monitorare Palazzo Chigi. Le tecnologie fornite da queste aziende sono però apparentemente usate anche in strutture di sorveglianza in Xinjiang, la provincia cinese dove la minoranza uigura è oppressa dal regime cinese. Se non bastassero le violazioni dei diritti umani, è stato successivamente provato che le telecamere fornite erano dotate di memorie secondarie, in grado di connettersi con server cinesi e trasmettere informazioni, «specifiche tecnologiche, queste, che non erano incluse nelle informazioni fornite ai clienti», riporta Mariani.

Ricerche oceanografiche

Molti degli studi analizzati e condotti in partnership con istituzioni militari cinesi hanno a che vedere con droni sottomarini, sensori sottomarini o ricerche su intelligenze artificiali a questi applicabili.

Naturalmente non si può tracciare un legame diretto fra questi studi e l’espansione cinese nel Mar Cinese Meridionale, ma è ragionevole vedervi un forte legame. A maggio 2017 la rivista specializzata in questioni militari Jane’s Defence Weekly, di proprietà dell’azienda di OSINT Janes Information Services, ha rivelato che l’azienda pubblica cinese China State Shipbuilding Corporation aveva pubblicato i dettagli di una “grande muraglia sottomarina”, un progetto commissionato dalle forze armate.

Il trend delle collaborazioni militari

Lo storico del numero di collaborazioni dell’esercito cinese con Paesi Ue

Almeno due degli studi analizzati sembrano avere direttamente a che fare con l’implementazione di questo progetto. Uno è stato condotta dalla NUDT assieme all’università di Eindhoven, in Olanda, e si tratta di una ricerca su sistemi di localizzazione di oggetti sott’acqua (i sistemi esistenti di GPS non funzionano sott’acqua). L’altro invece, fatto assieme al Politecnico di Milano, sembra avere implicazioni ancora più strettamente militari.

Si tratta di uno studio teso a migliorare i sistemi di navigazione per oggetti (probabilmente droni o siluri) sottomarini che usano la tecnologia della supercavitazione: generando uno strato di vapore o gas intorno all’oggetto si riduce l’attrito dell’acqua, permettendo all’oggetto di raggiungere velocità fino a 720 chilometri orari. La Russia ha già in uso dei siluri di questo tipo, gli Shkval VA-111. Anche in questi due esempi, come nella stragrande maggioranza di quelli analizzati, i finanziamenti sono arrivati dalla Cina.

La Cina è un’alternativa alla cronica carenza di fondi

Naturalmente, il problema di fondo che apre ogni porta alle collaborazioni con la Cina, è la costante mancanza di fondi per ricerca e sviluppo nelle università europee. Studenti e dottorandi cinesi portano con sé infatti considerevoli fondi dal loro Paese, un asset a cui è difficile che le nostre università rinuncino. L’aveva già denunciato sulle pagine del Corriere della Sera nel 2019 Antonio Tripodi, membro del senato accademico dell’università Ca’ Foscari di Venezia, che ha accusato il suo ateneo di autocensura su temi a cui Pechino è sensibile (come l’autonomia di Taiwan e del Tibet, aree sulle quali Pechino ha un forte interesse) per evitare di perdere le risorse che l’Italia non garantisce.

La situazione è la stessa in tutta Europa. La maggior parte dei paesi dell’Unione infatti ha continuato a tagliare i finanziamenti per università e ricerca per anni, mentre al contrario la Cina ha promesso un aumento costante del 7% all’anno per il periodo 2021-2025, con un aumento fino al 10% per settori particolarmente importanti.

Fra questa endemica debolezza e gli allarmi degli analisti è fin troppo semplice passare direttamente dall’ignorare la questione del tutto allo scivolare in una diffidente paranoia. «È una sfida cruciale per la nostra epoca – commenta Lorenzo Mariani -. È difficile capire cosa debba prevalere tra i valori su cui si fonda la cooperazione scientifica e le questioni di sicurezza che essa stessa genera. Si tratta piuttosto di una scelta politica: come devono comportarsi le democrazie al giorno d’oggi dove ci sono competitor diretti pronti a sfruttare a proprio vantaggio i benefici offerti dai valori democratici?».

CREDITI

Autori

Giulio Rubino

Editing

Lorenzo Bagnoli

In partnership con

Follow the Money e RTL Nieuws (Olanda)
Correctiv, Deutsche Welle, Deutschlandfunk e Süddeutsche Zeitung (Germania)
El Confidencial (Spain)
De Tijd (Belgium)
Politiken (Denmark)
IrpiMedia (Italy)
Neue Zürcher Zeitung (Switzerland)

Infografiche

Lorenzo Bodrero

Foto di copertina

Correctiv

La China Tobacco alla conquista del mondo

La China Tobacco alla conquista del mondo

Alessia Cerantola
Andrei Ciurcanu

Èla più grande compagnia di sigarette di cui abbiate sentito parlare. La China National Tobacco Corporation (CNTC) produce quasi la metà delle sigarette del mondo, ma sono perlopiù consumate in casa. Almeno fino a poco tempo fa.

Nel 2015, la CNTC si è lanciata sul progetto della Nuova via della seta, una strategia globale per lo sviluppo di infrastrutture e rapporti commerciali che si basa sulla dottrina cinese del “go global”, diventare globali. L’azienda, che è spesso chiamata anche semplicemente China Tobacco, ha iniziato a spingere le sue sigarette verso nuovi mercati, espandendo la produzione di tabacco in altri paesi.

«Stanno cercando il dominio globale e un posto nel mondo», ha detto Judith Mackay, consigliera dell’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS) esperta dell’industria globale del tabacco. «Il dragone sta ruggendo», ha aggiunto.

Si sa relativamente poco della la CNTC, nonostante il gruppo sia cresciuto fino a diventare la più grande compagnia dei tabacchi del mondo. Le sue sigarette hanno un gusto diverso rispetto a quelle occidentali.

«Questa è la ragione principale per cui China Tobacco sta faticando a promuovere le proprie marche di sigarette a un pubblico di consumatori più vasto in altri Paesi», ha spiegato Gan Quan, responsabile del dipartimento che si occupa dei danni del fumo per la non-profit International Union Against Tuberculosis and Lung Disease, organizzazione con sede a Parigi che ha lo scopo di promuovere la prevenzione sanitari in Paesi dal reddito medio-basso.

Questa inchiesta OCCRP svela che l’enorme industria di Stato del tabacco cinese ha perseguito una strategia di espansione che è eticamente dubbia, e talvolta del tutto illegale.

Lavorando attraverso una rete di filiali, joint venture e altre controllate – alcune con connessioni a reti di contrabbando – la China Tobacco ha inondato i mercati con i suoi marchi di sigarette, anche quando i prodotti non sono regolarmente registrati dalle autorità competenti nei vari Paesi.

L’azienda ha anche comprato il favore dei consumatori attraverso la pubblicità, e finanziando progetti sociali in Cina e all’estero. Gli impegni che la Cina ha preso nella Convenzione quadro sul controllo del tabacco (FCTC), un trattato globale supervisionato dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), prevedono però che CNTC non finanzi né l’una, né gli altri. Lo scopo del trattato, infatti, è quello di ridurre il consumo di sigarette a livello globale.

Nelle sue strategie di espansione, la CNTC si è ispirata ai suoi concorrenti, noti anche con il nome collettivo di “Big Tobacco”, secondo Mackay, che nel suo ruolo di consigliera dell’OMS si occupa proprio dell’attuazione della FCTC.

Queste aziende – la Philip Morris International (PMI), la British American Tobacco (BAT), Imperial Brands e Japan Tobacco International (JTI) – sono state tutte coinvolte nel corso degli anni da scandali che riguardano il contrabbando o la pubblicità non etica.

«Come modello, si potrebbe sostenere che questo è proprio quello che la Cina sta facendo ora», ha detto Mackay.

E China Tobacco lo ha implementato bene. Secondo una stima del 2019 del suo maggiore concorrente, PMI, China Tobacco controlla circa il 45% del mercato globale. È una quota maggiore di PMI, BAT, JTI e Imperial Brands messe insieme. Vuol dire che è diventata il principale attore del mercato.

Poiché la CNTC è interamente di proprietà statale, a differenza dei suoi principali concorrenti, il suo successo mette il governo cinese nella posizione scomoda di lavorare direttamente contro i suoi stessi obblighi per l’OMS.

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Il museo del tabacco di Hongta Group – Foto: Rocco Rorandelli

Ma i soldi parlano chiaro: China Tobacco è la quarta azienda più redditizia del Paese, secondo gli autori di un articolo del 2017 pubblicato sulla rivista Global Public Health. Il gruppo fornisce tra il 7 e l’11 % delle entrate fiscali della Repubblica popolare cinese. Non sono un’azienda dalla quale il Paese può prescindere, anche se in contrasto con quanto firmato con l’Organizzazione mondiale della sanità.

«Il mercato principale della CNTC rimane in Cina e la società non è conosciuta all’estero, fuori dalla la diaspora cinese – ha spiegato in una e-mail Jennifer Fang, esperta nel settore del tabacco in Asia e ricercatrice alla Simon Fraser University in Canada -. Penso che questo sia il motivo principale per cui è passata inosservato ai ricercatori che si occupano di tabacco, alle istituzioni, ai media, e così via».

Ma la situazione sta cambiando.

Negli ultimi anni, Fang e i suoi colleghi hanno documentato la spinta della China Tobacco alla conquista del mercato globale.

«Più scaviamo a fondo, più ci rendiamo conto di quanto la CNTC sia stata aggressiva nella sua strategia di globalizzazione, in quanto punta alle materie prime, ai prodotti, allo sviluppo del marchio e al funzionamento», ha aggiunto.

L’inchiesta di OCCRP ha portato alla luce un proliferare di filiali della CNTC in tutto il mondo. Alcune sono responsabili dell’acquisto di foglie di tabacco e della produzione di sigarette. Le filiali in Paesi come il Brasile e lo Zimbabwe sono diventate attori importanti anche nella coltivazione, a volte a spese degli agricoltori locali.

Persone e società collegate alla CNTC hanno consegnato alcune delle sigarette prodotte a contrabbandieri che le hanno rivendute nel mercato nero di Europa e America Latina. Si tratta di una strategia ben documentata che la PMI ha usato in Colombia negli anni Novanta

China Tobacco sta anche forgiando nuovi mercati – spesso in Paesi dove i suoi marchi non possono essere venduti legalmente, in quanto non sono registrati tra i tabacchi autorizzati da Dogane e Monopoli. L’inchiesta rivela inoltre che persone e società collegate alla CNTC hanno consegnato alcune delle sigarette prodotte a contrabbandieri che le hanno rivendute nel mercato nero di Europa e America Latina.

Si tratta di una strategia ben documentata che la PMI ha usato in Colombia negli anni Novanta, quando le sue sigarette Marlboro hanno inondato illegalmente il mercato. Il governo ha poi scelto di legalizzare e tassare la multinazionale. Oggi, invece, la Colombia è piena di marchi di sigarette made in China come Golden Deer e Silver Elephant.

«Se volete capire cosa sta succedendo ora, guardate cosa è successo negli anni Ottanta e Novanta con i produttori delle multinazionali del tabacco», ha riferito un funzionario doganale rimasto anonimo perché non autorizzato a parlare con i giornalisti.

In Italia, un ufficiale della Guardia di finanza ha detto che si potrebbe sospettare CNTC stia usando la stessa tattica, incoraggiando la proliferazione nel mercato nero di sigarette poco costose, che entrano senza pagare nessuna accisa ai Monopoli di Stato o che vengono prodotte in laboratori non autorizzati.

La polizia colombiana esamina degli scatoloni di sigarette sequestrati a Bogotà e provenienti dalla Cina – Foto: Policia National

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Queste sigarette si chiamano Regina, «un nome legato alla tradizione italiana, alla lingua italiana» – ha detto Cosimo De Giorgi, responsabile della sezione dogane per la Guardia di finanza, e sembrano essere specificamente progettate per attrarre il mercato locale.

«Questo potrebbe anche essere un cavallo di Troia», ha detto. Potrebbe infatti diventare un modo per entrare nel mercato legale in Italia.

Contrabbando globale

Regina e altri marchi sono prodotti nell’unica fabbrica di China Tobacco presente in Europa, in Romania, a 140 chilometri dalla capitale Bucarest, vicino a un fiume e circondata da colline ricoperte di foreste.

La filiale si chiama China Tobacco International Europe Company (CTIEC) e le sue sigarette sono vendute legalmente in tutta Europa, soprattutto nei negozi duty-free degli aeroporti. Ma le sigarette prodotte in Romania sono anche contrabbandate attraverso i confini, anche con metodi ingegnosi.

Nell’inchiesta è emersa una rete di persone collegate alla criminalità organizzata e una funzionaria della CTIEC, Adina Ionescu, coinvolti. Assieme avevano organizzato una truffa per contrabbandare sigarette ed evitare di pagare le accise in Italia, usando come stratagemma un container “clonato”.

Per prima cosa, i contrabbandieri, tra cui spicca il nome di Raffaele Truglio (già noto per i suoi traffici), hanno affittato un container nel porto di Salerno, dichiarando che sarebbe stato usato per spedire sigarette in Libia – evitando così le tasse europee. Invece, hanno riempito il container con mattoni e materassi esattamente dello stesso peso del carico di sigarette. Poi hanno comprato un altro container, l’hanno dipinto dello stesso colore, hanno attaccato un adesivo con lo stesso codice di identificazione dell’originale e l’hanno mandato alla fabbrica della CTIEC, in Romania, per caricarlo di sigarette.

Alle guardie di frontiera e ai funzionari doganali sono stati mostrati dei documenti che indicavano che questo container clonato era legittimo e poteva essere portato in Italia, in transito verso la Libia. In realtà il carico sarebbe stato contrabbandato in Europa e venduto – esentasse – sul mercato illegale.

O almeno è così che doveva andare.

Sfortunatamente per i contrabbandieri, la polizia ha scoperto la truffa, che gli investigatori italiani hanno poi definito «ingegnosa».

La polizia ha intercettato i telefoni dei membri della rete criminale. Uno dei sospetti chiave era una dirigente della sezione marketing della CTIEC, secondo le trascrizioni delle intercettazioni ottenute da OCCRP. I procuratori dicono che si è coordinata per mesi con i contrabbandieri, soggetti che hanno anche connessioni con la camorra.

Dei finanzieri traggono in arresto un uomo nel 2016 sospettato di essere parte di un gruppo dedito al contrabbando di sigarette CNTC prodotte in Romania – Foto: Guardia di Finanza

I dati italiani elaborati dalla Guardia di finanza mostrano anche che 30 tonnellate di sigarette cinesi sono state contrabbandate dall’Ucraina in soli due anni. Queste stesse marche di sigarette erano tra i 500 milioni esportati negli ultimi sette anni dalla fabbrica rumena in Ucraina, dove non possono essere vendute legalmente. Alcune sono state portate da aziende ora sotto inchiesta per contrabbando.

Oltre ai Paesi dell’Unione europea, le sigarette sono portate in zone di conflitto, tra cui la Libia e l’Iraq. L’inchiesta ha anche rivelato un altro nodo per il contrabbando di sigarette cinesi in una zona di libero scambio alla foce del canale di Panama. Il criminologo colombiano Daniel Rico l’ha definita «la Disneyland del contrabbando». Rintracciando l’origine delle sigarette di contrabbando trovate in Colombia e gli Stati Uniti, i giornalisti hanno trovato una scia di società di comodo che porta alla CNTC.

Questa rete di aziende si estende a nord, in Messico, in Texas e fino a Vancouver, Canada. Ma la maggior parte delle sigarette prodotte in Cina che passano per Panama vengono spostate in Sud America – anche se l’unico Paese del continente con un mercato legale per queste sigarette è il Cile.

Nel giugno del 2020, le autorità colombiane hanno fatto un sequestro storico di sigarette cinesi, fermandone quasi abbastanza perché ciascuno dei 50 milioni di abitanti del paese ne possa fumare due a testa. Erano state prodotte in Cina e spedite a Colon, poi si sono fatte strada attraverso i Caraibi, attraverso la Giamaica e Aruba, prima di arrivare finalmente nella città costiera colombiana di Cartagena.

«Il contrabbando è un modo per espandere il mercato», ha spiegato Rico, che dirige la società di ricerca con sede in Colombia chiamata C-Analisis.

Tabacco d’importazione

Mentre la CNTC sta spingendo i suoi marchi di sigarette in tutto il mondo, il conglomerato ha anche incrementato la produzione di tabacco in altri Paesi. La Cina ha ridotto la coltivazione del tabacco in patria, in conformità con i suoi obblighi FCTC, e Paesi come il Brasile e lo Zimbabwe hanno contribuito a colmare il deficit.

China Tobacco è entrata in Brasile, il secondo produttore mondiale, nel 2002, formando una filiale per comprare le foglie e spedirle a casa. Circa un decennio dopo, ha formato una joint-venture con un gigante americano del commercio del tabacco, che ha iniziato a contrattare direttamente i contadini brasiliani.

Nel 2019, la Cina rappresentava più del 19% delle esportazioni di tabacco del Brasile, per un valore di quasi 386 milioni di dollari. Questa cifra è cresciuta di appena 12 milioni di dollari di tabacco brasiliano – solo l’1% delle esportazioni – nel 1997.

Nonostante la crescita di una delle principali aziende di tabacco del Brasile, i giornalisti hanno scoperto che la joint-venture della CNTC con la Pyxus International Inc, China Brasil Tabacos Exportadora SA (CBT), è sfuggita al radar dei controlli. Le autorità hanno sanzionato CBT solo quattro volte dal 2014, mentre molte più sanzioni sono state emesse ad altre aziende di tabacco per abusi sul lavoro che affliggono il settore.

«Il contrabbando è un modo per espandere il mercato»

Dirigente della società di ricerca con sede in Colombia, C-Analisis

In un caso, la filiale della Pyxus che possiede il 49%della CBT è stata multata per aver permesso il «lavoro in condizioni di schiavitù» in una azienda contrattualizzata per la vendita di tabacco. In un altro caso, la filiale della Pyxus è stata multata per aver costretto le dipendenti incinte a lasciare il loro lavoro in una fabbrica dove anche la CBT aveva la sua sede.

Le autorità hanno riferito a OCCRP che in entrambi i casi, non erano a conoscenza del coinvolgimento di CBT con la filiale Pyxus.

In Zimbabwe, il più grande produttore di tabacco dell’Africa, la Cina era il primo importatore di tabacco locale nel 2019, comprando almeno un terzo dell’intero raccolto del paese attraverso una filiale della CNTC. Ma i contadini hanno contratti svantaggiosi e il sistema di cambio della valuta contribuisce a rendere i loro stipendi da fame.

Da quando la moneta dello Zimbabwe ha iniziato a crollare nel 2007, la Banca Centrale non è stata infatti in grado di ottenere abbastanza dollari americani per mantenere l’economia a galla. La maggior parte della gente è pagata in “quasi-valuta”, un sistema che può essere usato solo all’interno del Paese, e che comprende le scarse banconote conosciute come “bollars” così come una valuta digitale locale. Entrambe sono scambiate a un tasso di cambio ufficiale che è solo una frazione di quello che valgono in strada.

La filiale della CNTC Zimbabwe, la Tian Ze Tobacco (Pvt), Ltd è tenuta a pagare gli agricoltori attraverso la Banca Centrale con un misto di quasi-valuta locale e di dollari statunitensi. Gran parte dei pagamenti in dollari sono usati per ripagare i prestiti per strumenti produttivi come il fertilizzante e il carburante, che i contadini comprano dai fornitori della Tian Ze. Il pagamento in valuta locale, nel frattempo, viene convertito al tasso ufficiale enormemente sopravvalutato, prosciugando gran parte del suo valore.

Crescita furtiva

Le società di China Tobacco in Romania, Brasile, Panama e Zimbabwe sono solo quattro punti di una costellazione che si estende in tutto il mondo, dalla Corea del Nord alla Svizzera, dalla Namibia agli Stati Uniti. Nel 2019, ha lanciato China Tobacco International (HK) Company Limited, che è quotata alla Borsa di Hong Kong, per supervisionare l’espansione globale.

Nonostante la sua spinta espansiva, la China Tobacco rimane misteriosa anche per le autorità globali che supervisionano la FCTC.

«Le informazioni sono molto frammentate – ha detto Mackay -. Abbiamo così poche idee, perché è un dipartimento del governo statale e il modo in cui interagisce con altri dipartimenti del governo statale è tutto a porte chiuse. Non c’è trasparenza».

Come ha notato una pubblicazione del 2020 finanziata dalla Foundation for a Smoke-Free World, fondazione per combattere il fumo finanziata dalla PMI, l’azienda non è stata menzionata nemmeno una volta nel rapporto dell’OMS del 2019 sulle tendenze globali dell’uso del tabacco. Al contrario, hanno sottolineato gli autori, concorrenti come PMI e BAT sono stati menzionati venti volte o più.

L’OMS ha rifiutato di commentare le domande sul rispetto della FCTC da parte della Cina.

C’è una contraddizione intrinseca tra gli impegni della Cina nella FCTC per combattere il fumo e la sua proprietà della più grande azienda di tabacco del mondo. Non solo le fortune del governo e dell’azienda sono saldate insieme, ma sono unite anche a livello politico.

China Tobacco condivide lo stesso sito web dell’autorità incaricata di regolare l’industria, la State Tobacco Monopoly Administration (STMA). I due enti, apparentemente separati, impiegano anche molto dello stesso personale.

«In realtà, la STMA e la CNTC sono la stessa organizzazione, con due nomi diversi», hanno scritto gli autori di uno studio del 2012 pubblicato dalla Società giapponese di igiene.

Nel frattempo, abbondano gli esempi di come la Cina viola la FCTC cercando di attirare i fumatori con la pubblicità e attraverso progetti di responsabilità sociale delle imprese (CSR).

«L’industria del tabacco continua a lanciare grandi campagne di marketing ed è ancora in grado di espandere la sua base di consumatori e acquisire con successo una nuova generazione di fumatori», ha notato l’OMS nel suo rapporto 2019 sull’epidemia globale di tabacco.

I benefici del contrabbando

Potrebbe essere controintuitivo, ma le grandi compagnie del tabacco hanno una lunga storia di contrabbando, sia direttamente, sia riversando deliberatamente sigarette nei vari mercati, sapendo che i prodotti in eccesso finiranno nelle reti di distribuzione illegali.

Il contrabbando beneficia le multinazionali del tabacco per diverse ragioni:

  • Spingere le sigarette sul mercato nero è un’utile strategia d’ingresso nel mercato locale. Quando le sigarette sono più economiche e più ampiamente disponibili, più persone cominceranno a fumarle – specialmente i giovani e i più poveri.
  • Una volta che le loro marche sono ampiamente presenti sul mercato nero, le compagnie del tabacco possono sfruttare questa situazione per fare pressione e abbassare le accise o ridurre le restrizioni sul tabacco.
  • Queste aziende fanno la maggior parte dei loro soldi vendendo ai grandi distributori. Non importa se le sigarette sono vendute legalmente o sul mercato nero.
  • All’inizio del 2000, la Commissione Europea ha intentato una causa contro Philip Morris e RJR Nabisco a New York, sostenendo che avevano sistematicamente messo le loro sigarette – che includevano i marchi più venduti come Marlboro e Camel – nelle mani dei contrabbandieri. PMI ha accettato di pagare 1,25 miliardi di dollari per i successivi 12 anni in cambio della fine del contenzioso. L’azienda è stata anche di riciclaggio di denaro e frode telematica ai sensi della legge RICO (Racketeer Influenced and Corrupt Organizations).

CNTC aveva appena iniziato a espandersi a livello globale proprio in quegli anni, agli inizi del 2000, e non era coinvolta nelle cause. Tuttavia, è ancora obbligata a seguire l’accordo anti contrabbando negoziato all’indomani dello scandalo, il Protocollo del Commercio Illecito. In base a questo accordo, le compagnie del tabacco non possono lavorare con distributori noti per essere stati coinvolti nel contrabbando in passato, e devono condurre una due-diligence sui loro clienti.

I media statali cinesi e persino i siti web governativi riportano articoli sulle buone opere delle filiali della CNTC, come la Guangdong China Tobacco Industry Co. Un comunicato stampa pubblicato sul sito web del governo provinciale del Guangdong a metà del 2020 esponeva la «vittoria decisiva» della società sulla povertà nel villaggio di Dengfang.

Un residente, «reso povero a seguito di una malattia contratta da giovane», ha ricevuto una formazione agricola che lo ha aiutato a ottenere «il più alto reddito da coltivazione del tabacco nel villaggio», riporta il comunicato stampa.

La China Tobacco ha anche svolto attività di supporto economico all’estero, in violazione con quanto riporta la FCTC. La filiale CNTC in Zimbabwe si impegna in una serie di progetti, dal rimboschimento al finanziamento di orfanotrofi, secondo il suo profilo aziendale sul sito del ministero del commercio cinese.

In Cambogia, la società Viniton, che è della della CNTC e produce la popolare marca di sigarette Angkor, ha pubblicizzato la sua sponsorizzazione delle scuole primarie sul suo sito web, fino a quando la pagina è stata tolta l’anno scorso.

La società ha citato un discorso tenuto dal direttore generale di Viniton, Liu Daoxin, in una scuola elementare. Ha detto che Viniton «contribuisce attivamente alle iniziative di welfare nazionale, specialmente nel settore dell’istruzione» e ha «costantemente fornito assistenza finanziaria in diverse forme per finanziare la fornitura di infrastrutture e attrezzature per scuole e strutture educative, contribuendo a promuovere lo sviluppo del settore dell’istruzione del paese».

Queste sono flagranti violazioni del trattato FCTC. Anche se la Cina è firmataria della convenzione, i documenti scoperti da OCCRP mostrano che la società ha reso nota la sua opposizione alla FCTC negli anni precedenti al lancio del trattato nel 2003.

«Vietare qualsiasi pubblicità del tabacco o determinare l’avvertimento sulla salute nel pacchetto con la stessa dimensione e contenuto in tutto il mondo è inaccettabile ed è una violazione di diritto di un prodotto legale», ha scritto la società in una presentazione del 2000 alla FCTC, che i giornalisti hanno scoperto in un archivio online dell’Università della California a San Francisco.

Tre anni prima, in risposta a una conferenza dell’OMS sul tabacco, la CNTC aveva scritto agli organi statali del governo – compreso l’Ufficio Centrale del Partito Comunista – per mettere in guardia contro l’imposizione di nuovi regolamenti antifumo. La società ha fatto notare che l’industria del tabacco era «il produttore di tasse più importante del governo» e impiegava 100 milioni di persone in tutto il Paese.

Nella lettera, che è stata fornita a OCCRP da un esperto dell’industria e che non è stata precedentemente resa pubblica, China Tobacco ha persino attaccato la scienza che dimostra che il fumo è dannoso.

«L’evidenza sanitaria è controversa, e molti fumatori vivono a lungo», ha scritto la compagnia. «Una pubblicità anti-fumo non scientifica non raggiungerebbe l’obiettivo e sarebbe fuorviante».

CREDITI

Autori

Alessia Cerantola
Andrei Ciurcanu

Ha collaborato

Bopha Bhorn
Nathan Jaccard
Sol Lauría
David Tarrazona
Mateo Yepes
Lilia Saúl
Anna Myroniuk
Naira Hofmeister
Luiz Toledo

In partnership con

OCCRP

Editing

Lorenzo Bagnoli

Immagine di copertina

Svetlana Tiourina (OCCRP)

Vietato chiedere trasparenza nella filiera degli acquisti pubblici

16 Dicembre 2020 | di Laura Carrer*, Matteo Civillini

L’inchiesta è partita da una semplice domanda: l’acquisto di mascherine da parte della nostra pubblica amministrazione ha contribuito ad alimentare lo sfruttamento dei lavoratori uiguri in Cina? Un quesito legittimo nato dalle molteplici testimonianze secondo cui alcuni tra i principali produttori cinesi di dispositivi di protezione individuali utilizzino lavoratori uiguri messi alle loro dipendenze da un controverso programma statale di “rieducazione” coatta. Si inserisce in questo scenario anche la notizia pubblicata alcuni giorni dal Washington Post che, facendo riferimento a un report interno all’azienda Huawei, parla della creazione di un sistema di riconoscimento facciale ad hoc per identificare proprio la minoranza uigura.

Non ci sono dubbi che prodotti macchiati da sospetti di lavoro forzato siano arrivati anche in Europa e in Italia. Come abbiamo raccontato nell’inchiesta pubblicata ieri, 15 dicembre, su IrpiMedia, la più grande catena italiana di farmacie vende ancora oggi le mascherine fabbricate in una di queste aziende. Un guaio – quantomeno di immagine – per una multinazionale che vorrebbe fare della responsabilità sociale il suo fiore all’occhiello.

Ancor più spinoso, però, sarebbe sapere che le nostre casse pubbliche supportano un modello volto a soffocare i diritti e le libertà individuali di decine di migliaia di persone. Seppur questi acquisti siano stati spinti con molta fretta e pochi controlli da una drammatica situazione di emergenza. Ma non è il caso di abbassare la guardia, soprattutto in un momento come questo. La Regione Puglia, per esempio, ha ricevuto lo scorso aprile una partita di 200mila tute mediche che, secondo il Guardian, sono state prodotte da lavoratori nordcoreani sfruttati.

Il diritto di sapere

Un caso isolato o parte di un problema più ampio? Per andare a fondo in una questione di stretto interesse pubblico ci siamo rivolti al governo centrale e alle più grandi regioni dal nord al sud Italia. Lo abbiamo fatto tramite il progetto FOIA4journalists di Transparency Italia, che da giugno 2018 supporta giornalisti e associazioni nella stesura di istanze di accesso agli atti delle Pubbliche Amministrazioni.

Il FOIA (Freedom of Information Act) è un diritto-strumento fondamentale per ottenere documenti ufficiali e di prima mano da parte degli enti centrali o, in questo caso, delle Regioni. Quest’anno è risultato particolarmente decisivo per il tema dell’accesso alle informazioni poiché da una parte la pandemia da covid-19 ha incentivato la richiesta di dati aperti soprattutto in ambito sanitario; dall’altra parte è stato possibile constatare tristemente quanto un’emergenza sanitaria come quella che stiamo vivendo non basti per incentivare la trasparenza e la proattività degli enti che ci amministrano.

Il Freedom of Information Act in Italia

Il Freedom of Information Act (FOIA), diffuso in oltre 100 paesi al mondo, è la normativa che garantisce a chiunque il diritto di accesso alle informazioni detenute dalle pubbliche amministrazioni, salvo i limiti a tutela degli interessi pubblici e privati stabiliti dalla legge.

In Italia tale diritto è previsto dal decreto legislativo n. 97 del 2016 che ha modificato il decreto legislativo n. 33 del 2013 (c.d. decreto trasparenza), introducendo l’accesso civico generalizzato al fine di promuovere la partecipazione dei cittadini all’attività amministrativa e favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche.

L’obiettivo del FOIA è dunque promuovere una maggiore trasparenza nel rapporto tra le istituzioni e la società civile e incoraggiare un dibattito pubblico informato su temi di interesse collettivo. Giornalisti, organizzazioni non governative, imprese, cittadini italiani e stranieri possono richiedere dati e documenti, così da svolgere un ruolo attivo di controllo sulle attività delle pubbliche amministrazioni.

Il passaggio di una delle risposte ricevute da IrpiMedia dopo l’accesso agli atti alle Regioni

Il FOIA serve infatti a questo: richiedere dati, documenti o informazioni che non sono oggetto di pubblicazione obbligatoria nelle sezioni di amministrazione trasparente degli enti locali e centrali, senza obbligo di motivazione. Un diritto che si estende quindi a chiunque voglia controllare l’operato delle amministrazioni e della cosa pubblica richiedendo tutto ciò che è considerato atto pubblico, una mole davvero importante di informazioni che possono contribuire ad una lettura meno opaca delle azioni dei decisori.

Risposte evasive e insufficienti

Le richieste inoltrate vertevano sulla presenza o meno, all’interno degli elenchi dei produttori di dispositivi di protezione individuale (DPI) e mascherine chirurgiche ai quali le varie stazioni appaltanti si sono rivolte dall’inizio dell’emergenza covid-19 fino al 30 ottobre 2020, di alcune aziende cinesi note per utilizzare lavoratori uiguri. Abbiamo anche specificato di voler ottenere le stesse informazioni nel caso in cui produttore e soggetto affidatario fossero differenti, casistica non proprio rara.

Degli 11 soggetti interrogati solo 3 hanno risposto pienamente alle richieste, verificando l’assenza delle aziende segnalate sia tra i loro fornitori diretti che tra i produttori dei dispositivi acquistati. Tra gli altri i riscontri sono stati tra i più disparati. C’è chi non ha neppure risposto, rimpallando la questione tra diversi uffici. C’è chi ha rimandato a una lunga serie di delibere o liste, dove però venivano indicati solo i nomi dei fornitori – per la stragrande maggioranza importatori italiani di prodotti cinesi.

Degli 11 soggetti interrogati solo 3 hanno risposto pienamente alle richieste, verificando l’assenza delle aziende segnalate sia tra i loro fornitori diretti che tra i produttori dei dispositivi acquistati

E c’è chi, infine, ha detto che i dati non erano “immediatamente reperibili”, che l’estrazione degli stessi sarebbe “troppo onerosa” da sostenere durante l’emergenza sanitaria, o che la richiesta era “irragionevole”.

Regioni come Toscana e Veneto, colte dalle nostre istanze, si sono dette impossibilitate a rispondere dettagliatamente e con sicurezza poiché il funzionario incaricato avrebbe dovuto cercare i nominativi delle aziende manualmente all’interno di centinaia di documenti cartacei. Unica concessione la ricerca all’interno di una singola gara. Insufficiente a garantire un livello minimo di trasparenza per la cittadinanza.

Un risultato diametralmente opposto a quello ottenuto dai colleghi stranieri che hanno posto le medesime domande alle rispettive amministrazioni pubbliche. In Svezia, Danimarca, Norvegia ed Estonia – Paesi dove la trasparenza rappresenta un valore cardine – i funzionari pubblici hanno fornito risposte rapide e dettagliate. Se i prodotti incriminati non figuravano lo hanno detto senza giri di parole.

L’inchiesta

Le mascherine prodotte dagli uiguri ai lavori forzati in Cina e vendute in Europa

Trasferiti da Pechino in fabbriche lontano dalla loro regione, gli operai uiguri sono costretti ai lavori forzati. La distribuzione nelle farmacie europee e italiane

15 Dicembre 2020

Quando invece la risposta era affermativa hanno indicato con precisione i quantitativi, i distributori europei che li hanno reperiti in Cina, e infine i luoghi di destinazione finale, come ospedali o case di cura. Dati che hanno restituito una panoramica limpida, permettendo così di ricostruire l’intera filiera. Non per fare una caccia alle streghe, ma per capire le sue implicazioni più profonde e, quando necessario, mettere i soggetti coinvolti di fronte alle proprie responsabilità. E perché no, metterli anche nella condizione di poter verificare gli attori della stessa filiera.

Se la cosiddetta accountability, ovvero la responsabilità da parte dei funzionari pubblici di rendicontare ai cittadini come vengono investite le risorse finanziarie per il bene pubblico, è ormai aspetto cardine all’interno delle decisioni in una lunga lista di paesi nel mondo anche durante la pandemia che ci accomuna senza distinzioni, in Italia così non è: possiamo chiaramente affermare che il suo posto al tavolo dei decisori è ancora vuoto.

*Transparency International Italia | Editing: Luca Rinaldi | Foto: Nirat.pix/Shutterstock

Le mascherine prodotte dagli uiguri ai lavori forzati in Cina e vendute in Europa

#Covid-19

Le mascherine prodotte dagli uiguri ai lavori forzati in Cina e vendute in Europa

Matteo Civillini

C’è anche la più grande catena italiana di farmacie tra i rivenditori di mascherine prodotte in Cina da cittadini uiguri sottoposti a condizioni di lavoro forzato. In Italia, i prodotti sono distribuiti dal gruppo Lloyds Farmacia (marchio di Admenta Italia, divisione italiana del colosso americano della distribuzione farmaceutica McKesson), presente nella penisola con oltre 260 punti vendita, tra cui quelli gestiti da società partecipate di enti pubblici come i Comuni di Milano, Bologna e Bergamo. A scoprirlo è un’inchiesta internazionale – di cui IrpiMedia è partner italiano – che ha ricostruito la presenza in Europa di dispositivi di protezione forniti da aziende cinesi accusate da analisti internazionali di sfruttamento.

Gli uiguri sono una minoranza di religione musulmana ed etnia turcofona che risiede principalmente nella regione autonoma dello Xinjiang, nella Cina occidentale. Da anni il governo cinese sottopone gli uiguri a una sistematica campagna di repressione che prende pieghe particolarmente distopiche: dalla sorveglianza di massa, al controllo delle nascite e alla prigionia in centinaia di centri di detenzione.

Tra le misure più controverse c’è il “trasferimento” di lavoratori uiguri dalla loro terra di origine a fabbriche dislocate nel resto del Paese. Per Pechino questo programma offre alla minoranza musulmana la possibilità di migliorare le proprie condizioni di vita ed emanciparsi da situazioni di povertà. Ma, a detta di gruppi per la difesa dei diritti umani, gli uiguri non hanno reale libertà di scelta e sono costretti ad accettare gli spostamenti nei “campi di lavoro” sotto la minaccia, anche solo implicita, di un ulteriore peggioramento delle proprie condizioni.

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McKesson, multinazionale americana da 200 miliardi di dollari di fatturato all’anno che in Europa è presente in 13 Paesi, dichiara pubblicamente di avere un occhio di riguardo per la responsabilità sociale all’interno della propria filiera. Il codice di condotta di Admenta richiama i propri dipendenti a «prestare particolare attenzione a ciò che è giusto dal punto di vista etico».

Tra le aziende che hanno ricevuto operai uiguri attraverso il programma di trasferimento c’è la Hubei Haixin Protective Products, azienda che si occupa di dispositivi di protezione individuale con sede nella provincia di Hubei. Video della TV di Stato e notizie sul sito del governo provinciale dimostrano che 131 operaie uigure hanno lavorato nella fabbrica fino allo scorso settembre. Il gruppo McKesson è cliente della Hubei Haixin.

I dispositivi di protezione nelle farmacie italiane

In Italia, il gruppo McKesson è attivo dal luglio 1999, quando acquistò dal Comune di Bologna l’80% del pacchetto azionario dell’azienda che gestiva le farmacie comunali. Prima tappa dell’inarrestabile processo di privatizzazione del settore, nel quale Admenta Italia – holding italiana di McKesson – l’ha fatta spesso da padrone, inghiottendo grosse fette di mercato nel centro-nord.

Da Milano a Padova, da Bergamo a Modena, passando per numerosi piccoli paesi. Il modello di gestione è sempre lo stesso: Admenta acquisisce il pacchetto di maggioranza delle partecipate, mentre ai comuni resta in mano una quota di minoranza. Le amministrazioni mantengono un posto in consiglio d’amministrazione e la possibilità di influenzare l’operato delle farmacie comunali.

Oggi il gruppo Admenta gestisce più di 260 punti vendita e, tramite la controllata Farmalvarion, distribuisce prodotti ad oltre 2500 clienti, tra farmacie private, ospedali e case di cura. L’holding italiana ha un fatturato consolidato di oltre 600 milioni di euro.

Alle farmacie fisiche Lloyds affianca un sito di e-commerce, ulteriormente potenziato nel corso della pandemia. A gestire le vendite online è l’Azienda Farmacie Milanesi, la società partecipata dal Comune che riunisce le farmacie comunali di Milano di cui Palazzo Marino detiene il 20% delle quote. Proprio sul sito di Lloyds si trovano ancora oggi in vendita le mascherine chirurgiche di Hubei Haixin.

No comment

IrpiMedia ha chiesto ad Admenta Italia un’intervista, ma l’azienda ha declinato l’offerta. Il Comune di Milano non ha voluto fornire commenti. McKesson Europe, la holding che controlla Admenta Italia, ha dichiarato di impegnarsi «a garantire una buona responsabilità sociale d’impresa e l’approvvigionamento etico».

L’editoriale

Vietato chiedere trasparenza nella filiera degli acquisti pubblici

La Pubblica amministrazione italiana, nonostante la legge e gli strumenti, non è stata in grado di rispondere ai quesiti sulle società che avrebbero sfruttato i lavoratori uiguri in Cina

«I fornitori – conclude l’azienda – devono accettare i nostri principi di sostenibilità della filiera che riguardano il rispetto delle leggi pertinenti, oltre che l’adesione alle nostre rigorose politiche sulla protezione dei lavoratori, la preparazione alle emergenze, l’identificazione e la gestione dei rischi ambientali e la protezione dell’ambiente».

Lavorare alla Hubei Haixin

Decine di milioni di mascherine chirurgiche prodotte da Hubei Haixin sono arrivate in tutta Europa, compresa l’Italia, dove vengono vendute al pubblico da Lloyds Farmacia.

Le mascherine marchiate Hubei Haixin sono rimaste sugli scaffali – virtuali e non – di Lloyds, sebbene la presenza e lo sfruttamento di lavoratori di origine uigura all’interno dell’azienda cinese sia nota da almeno marzo scorso.

Le mascherine chirurgiche prodotte da Hubei Haixin che IrpiMedia ha acquistato sul sito di Lloyds Farmacia

L’antropologo tedesco Adrian Zenz è tra i maggiori studiosi al mondo della questione uigura e delle politiche repressive di Pechino nello Xinjiang. Tanto che è diventato bersaglio delle campagne propagandistiche del governo cinese a causa dei suoi studi sui campi di rieducazione. Secondo Zenz chiunque abbia nella propria filiera aziende che utilizzano il programma cinese di trasferimento dei lavoratori «commette una violazione di qualsiasi codice etico».

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Genesi delle attuali politiche di Pechino nei confronti degli uiguri

Lo Xinjiang, terra stanziale degli uiguri, detiene lo status ufficiale di Regione Autonoma dal 1955. Da allora il governo centrale ha incentivato il trasferimento nella regione dei cittadini han, l’etnia maggioritaria del Paese, attraverso politiche agricole e industriali. In seguito al crollo dell’Unione Sovietica e alla nascita delle vicine repubbliche centro-asiatiche, i sentimenti secessionisti della minoranza uigura si sono riaccesi, dando vita a gruppi indipendentisti. All’indomani degli attacchi dell’11 settembre, Pechino ha designato alcune di queste frange indipendentiste come “terroristi” legati a una vasta rete internazionale di terrorismo islamico.

Ma sono gli eventi del 2009 che hanno segnato lo spartiacque della politica governativa nei confronti degli uiguri. Nel luglio di quell’anno a Ürümqi è scoppiata una sanguinosa rivolta tra uiguri e han che, secondo le autorità, ha provocato 197 morti e 1721 feriti. A innescarla è stato un incidente avvenuto in una fabbrica della regione di Guangdong dove lavoravano alcuni operai uiguri. Erano stati trasferiti proprio in virtù del controverso programma di cui è vittima la minoranza etnica, già attivo all’epoca. Due di essi sono stati linciati da colleghi han dopo che erano circolate accuse di stupro nei loro confronti, rivelatesi poi infondate. A Ürümqi gli uiguri sono scesi in piazza per chiedere un’indagine imparziale sulla duplice uccisione. Inizialmente pacifica, la manifestazione si è trasformata in un violento scontro etnico. Da una parte gli uiguri hanno preso d’assalto le proprietà dei cittadini han, aggredendoli brutalmente. Dall’altra, gruppi di vigilantes di origine han hanno attaccato gli uiguri in rappresaglia.

Come scrive Gabriele Battaglia su Internazionale, quelle violenze, insieme a successivi episodi, hanno fornito al governo di Pechino il pretesto per scatenare la guerra contro i cosiddetti “tre mali”: terrorismo, separatismo ed estremismo religioso. Costruendo, passo dopo passo, quell’apparato di controllo sociale e repressione in vigore ancora oggi.

Al contrario di quanto afferma il governo di Pechino, Zenz sostiene che i trasferimenti degli operai nelle fabbriche non siano “politiche del lavoro” ma violazioni dei diritti umani: «Si passa dal reclutamento e dall’addestramento in ambienti di tipo militare, a programmi di indottrinamento e lavaggio del cervello fortemente coercitivi», dice il ricercatore.

I lavoratori uiguri che vengono spediti in altre zone della Cina finiscono molto spesso «in dormitori dove viene applicata la segregazione, dove sono continuamente monitorati da videocamere e guardie, senza la possibilità di entrare e uscire liberamente», aggiunge Zenz.

Secondo un’indagine dell’Australian Strategic Policy Institute (Aspi), pubblicata nel marzo scorso, sono oltre 80mila gli uiguri che tra il 2017 e il 2019 sono stati costretti ad abbandonare le propria regione per andare in fabbriche che funzionano come campi di lavoro forzato nel resto della Cina. Il report del centro studi australiano è stato il primo a documentare la presenza di lavoratori uiguri nello stabilimento di Hubei Haixin.

Lavoro forzato

Dal 2017 più di un milione di uiguri e appartenenti ad altre minoranze etniche sono stati rinchiusi in campi di prigionia sparsi per lo Xinjiang. Il governo cinese li descrive come “Centri Vocazionali di Istruzione e Formazione” necessari nella lotta all’estremismo religioso. Ma per numerose Ong internazionali e governi occidentali si tratta di campi di concentramento, dove i reclusi vengono privati di qualsiasi libertà.

I racconti di ex detenuti, insieme a un corposo leak di informazioni riservate, hanno permesso di ricostruire il funzionamento dei centri. Al loro interno gli uiguri sono costretti a seguire un rigido programma di indottrinamento, imparare il mandarino e rinunciare ai propri costumi e abitudini religiose. Nei casi più estremi, i reclusi raccontano di aver subito punizioni corporali e torture dopo essersi rifiutati di aderire alla dura disciplina.

Come scrive l’Australian Strategic Policy Institute (Aspi), il programma di “rieducazione” è ora entrato in nuova fase, il cui nucleo centrale è il trasferimento forzato degli uiguri in fabbriche collocate sia nello Xinjiang che nel resto della Cina. In alcuni casi i lavoratori uiguri vengono spostati direttamente dai campi di prigionia verso i luoghi di produzione a loro assegnati.

A detta di Aspi, per gli uiguri è estremamente complicato rifiutare questi incarichi lavorativi, poiché essi sono sempre espressione del più ampio apparato di repressione e indottrinamento politico. «Oltre all’incessante sorveglianza fisica, sulle minoranze che provano a disertare il programma di trasferimento dei lavoratori incombe la minaccia della detenzione arbitraria», scrive Aspi nel suo report.

«La mia pelle è così splendente!»

All’inizio del 2019, 131 donne di origine uigura sono state trasferite nella fabbrica di Songzi, a poco meno di 3mila chilometri di distanza dal confine con lo Xinjiang. Un articolo pubblicato dall’organo di propaganda statale Hubei Daily racconta che, all’interno dello stabilimento, le donne devono partecipare a quotidiane cerimonie dell’alzabandiera, cantare l’inno cinese, seguire lezioni di mandarino e soggiornare in alloggi dedicati.

Un altro resoconto dall’interno di Hubei Haixin riporta la composizione scritta da una lavoratrice uigura durante uno dei corsi serali obbligatori: «L’acqua, il terreno e l’aria sono così puliti qui. In soli tre mesi, sono passata da essere scura e smilza, ad avere la pelle chiara ed essere ben nutrita. La mia pelle è così splendente!»

Lavoratrici uigure all’interno dello stabilimento di Hubei Haixini – Foto: weibo.com

Racconti come questo non convincono gli osservatori internazionali. Secondo Penelope Kyritsis, direttrice del Worker Rights Consortium, organizzazione internazionale per la difesa dei diritti dei lavoratori, è semplicemente impossibile essere certi che l’utilizzo di lavoratrici uigure da parte di Hubei Haixin non comporti aspetti di coercizione.

Qualsiasi distributore che compra prodotti da aziende come Hubei Haixin deve «immediatamente interrompere i suoi rapporti commerciali con stabilimenti situati nello Xinjiang o che abbiano degli input dalla regione», aggiunge Kyritsis.

Le mascherine nelle farmacie europee e il silenzio di Hubei Haixin

L’Italia non è l’unico paese europeo in cui McKesson vende i dispositivi di protezione individuale prodotti da Hubei Haixin. Le stesse mascherine possono essere acquistate nelle farmacie online controllate dalla multinazionale in Norvegia, Belgio e Olanda.

Nel Nord Europa, a commercializzare prodotti medicali legati al lavoro degli uiguri è anche Onemed, leader della distribuzione farmaceutica con sede in Svezia. A differenza di McKesson, Onemed non vende direttamente al dettaglio, ma gestisce numerosi appalti pubblici per la forniture di Dpi. Mascherine e camici marchiati Hubei Haixin sono stati forniti da Onemed a governi e ospedali pubblici in Svezia, Norvegia, Danimarca ed Estonia.

Onemed ha dichiarato a SVT, la TV di stato svedese, di essersi accorta dell’utilizzo di lavoratori uiguri da parte di Hubei Haixin alla fine del 2019 e di aver continuato il proprio rapporto dopo aver svolto alcune verifiche: «La nostra valutazione complessiva è che non vi è alcun caso di lavoro forzato o discriminazione contro la minoranza uigura nella nostra catena di fornitura – dichiara il portavoce del gruppo svedese Onemed – ma ovviamente continueremo a seguire la questione e a prendere provvedimenti se dovessimo ricevere nuove informazioni».

Le mascherine di Hubei Haixin in vendita sul sito di Lloyds Farmacia

Hubei Haixin non ha risposto a una lista di domande dettagliate. Tuttavia, OCCRP è entrata in possesso di una lettera redatta da Hubei Haixin, nella quale l’azienda spiega di aver tenuto le lavoratrici uigure alle proprie dipendenze fino alla fine di settembre. «Il contratto di lavoro tra la nostra azienda e i dipendenti dello Xinjiang sarebbe dovuto terminare a marzo 2020 – ha scritto l’azienda Hubei Haixin -. In seguito allo scoppio della pandemia Covid-19 nella provincia di Hubei e i successivi lockdown regionali le 130 lavoratrici della Xinjiang sono rimaste bloccate a Hubei senza poter tornare a casa».

Anche il Ministero degli Esteri cinese non ha risposto alle domande inviate da OCCRP, ma un portavoce dell’ambasciata cinese a Oslo ha dichiarato: «I cosiddetti “abusi dei diritti umani” nello Xinjiang o la “persecuzione delle minoranze etniche” sono le menzogne del secolo inventate dalle forze estremiste anti-cinesi».

CREDITI

Autori

Matteo Civillini

Hanno collaborato

Aubrey Belford
Peter Svaar
Ola Westerberg

Editing

Lorenzo Bagnoli

In partnership con

OCCRP, SVT (Svezia)
NRK (Norvegia)
DR (Danimarca)
Follow The Money (Paesi Bassi)
De Tijd (Belgio)
Eesti Päevaleht (Estonia)

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Settori strategici: faro del Copasir sui capitali stranieri

27 Novembre 2020 | di Lorenzo Bodrero

Il Copasir, Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, ha puntato i fari sul rischio di acquisizione da parte di soggetti stranieri di quote di controllo di istituti bancari e società assicurative. Le conseguenze economiche della pandemia e le vulnerabilità strutturali dei settori creditizio e assicurativo italiani forniscono un viatico per l’arrivo di capitali dall’estero in due settori giudicati strategici per la stabilità finanziaria del nostro Paese. I due riferimenti principali sono a Cina e Russia, meritevoli di due allegati di approfondimenti in fondo alla relazione. Del primo spicca il balzo dei flussi di investimento diretti esteri (Ide) nel nostro Paese, dai 573 milioni di euro nel 2015 ai 4,9 miliardi nel 2018, con poco meno di cinquantunomila imprenditori cinesi operanti in Italia; il secondo, seppur in diminuzione, registra Ide per 1,5 miliardi di euro nel 2018 contro i 2,2 miliardi nel 2015.

A cascata, il risiko coinvolge anche le piccole e medie imprese, vera colonna portante del sistema economico italiano. Sono tre i motivi che rendono le nostre aziende particolarmente appetibili per l’ingresso di capitali stranieri: in primo luogo, l’ampio numero di quelle di piccole e medie dimensioni; poi, la loro alta specializzazione industriale, fattore particolarmente importante per soggetti di più grandi dimensioni alla ricerca di fusioni e acquisizioni; infine, la forte dipendenza delle imprese italiane dal settore bancario. Per loro natura, infatti, gli istituti di credito dovrebbero facilitare le politiche di accesso al credito adottate dal governo, specie in tempi di emergenza sanitaria.

Cosa è e cosa fa il Copasir

Il CO.PA.SI.R. è il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, sostanzialmente l’organismo di vigilanza del Parlamento sui servizi segreti. La legge che regola il funzionamento del Copasir è la 124 del 30 agosto 2007, in particolare tra gli articoli 30 e 38. Il CO.PA.SI.R. è composto da 5 deputati e 5 senatori, ripartiti in maniera tale da garantire comunque la rappresentanza paritaria della maggioranza e delle opposizioni e nominati entro venti giorni dall’inizio di ogni legislatura dai Presidenti dei due rami del Parlamento.

Obbligo del segreto

I componenti del Comitato, i funzionari e il personale di qualsiasi ordine e grado addetti al Comitato stesso e tutte le persone che collaborano con il Comitato oppure che vengono a conoscenza, per ragioni d’ufficio o di servizio, dell’attività del Comitato sono tenuti al segreto relativamente alle informazioni acquisite, anche dopo la cessazione dell’incarico.

Organizzazione interna

Le attività e il funzionamento del Comitato sono disciplinati da un regolamento interno approvato dal Comitato stesso a maggioranza assoluta dei propri componenti. Ciascun componente può proporre la modifica delle disposizioni regolamentari.

Le sedute e tutti gli atti del Comitato sono segreti, salva diversa deliberazione del Comitato.

Le spese per il funzionamento del Comitato, determinate in modo congruo rispetto alle nuove funzioni assegnate, sono poste per metà a carico del bilancio interno del Senato della Repubblica e per metà a carico del bilancio interno della Camera dei deputati. Il Comitato può avvalersi delle collaborazioni esterne ritenute necessarie, previa comunicazione ai Presidenti delle Camere, nei limiti delle risorse finanziarie assegnate. Il Comitato non può avvalersi a nessun titolo della collaborazione di appartenenti o ex appartenenti al Sistema di informazione per la sicurezza, né di soggetti che collaborino o abbiano collaborato con organismi informativi di Stati esteri.

Il Comitato

Il Comitato è presieduto da un esponente dell’opposizione.

É eletto dai componenti del Comitato a scrutinio segreto. Il presidente è eletto tra i componenti appartenenti ai gruppi di opposizione e per la sua elezione è necessaria la maggioranza assoluta dei componenti. Se nessuno riporta tale maggioranza, si procede al ballottaggio tra i due candidati che hanno ottenuto il maggiore numero di voti. In caso di parità di voti è proclamato eletto o entra in ballottaggio il più anziano di età.

É preventivamente informato dal Presidente del consiglio dei Ministri circa le nomine del direttore generale e dei vice direttori generali del DIS (Dipartimento delle informazioni per la sicurezza) e dei direttori e dei vice direttori dei servizi di informazione per la sicurezza.

Anche su richiesta di uno dei suoi componenti, denuncia all’autorità giudiziaria i casi di violazione del segreto. Qualora risulti evidente che la violazione possa essere attribuita ad un componente del Comitato, il presidente di quest’ultimo ne informa i Presidenti delle Camere.

Il Presidente del Consiglio dei Ministri, su richiesta del presidente del COPASIR, espone, in una seduta segreta appositamente convocata, il quadro informativo idoneo a consentire l’esame nel merito della conferma dell’opposizione del segreto di Stato.

L’ufficio di presidenza, composto dal presidente, da un vicepresidente e da un segretario, è eletto dai componenti del Comitato a scrutinio segreto. Il presidente è eletto tra i componenti appartenenti ai gruppi di opposizione e per la sua elezione è necessaria la maggioranza assoluta dei componenti.

Le funzioni

A. CONTROLLO

Il Comitato verifica, in modo sistematico e continuativo, che l’attività del Sistema di informazione per la sicurezza si svolga nel rispetto della Costituzione, delle leggi, nell’esclusivo interesse e per la difesa della Repubblica e delle sue istituzioni.

È compito del Comitato accertare il rispetto di quanto stabilito dall’articolo 8, comma 1 (cioè che le funzioni attribuite al DIS, all’AISE [Agenzia informazioni e sicurezza esterna] e all’AISI [Agenzia informazioni e sicurezza interna] non possono essere svolte da nessun altro ente, organismo o ufficio), nonché verificare che le attività di informazione previste dalla legge 124 del 2007, svolte da organismi pubblici non appartenenti al Sistema di informazione per la sicurezza rispondano ai principi della presente legge.

Procede al periodico svolgimento di audizioni del Presidente del Consiglio dei ministri e dell’Autorità delegata, ove istituita, dei Ministri facenti parte del CISR, del direttore generale del DIS e dei direttori dell’AISE e dell’AISI

Ha altresì la facoltà, in casi eccezionali, di disporre con delibera motivata l’audizione di dipendenti del Sistema di informazione per la sicurezza. La delibera è comunicata al Presidente del Consiglio dei ministri che, sotto la propria responsabilità, può opporsi per giustificati motivi allo svolgimento dell’audizione.

Il Comitato può ascoltare ogni altra persona non appartenente al Sistema di informazione per la sicurezza in grado di fornire elementi di informazione o di valutazione ritenuti utili ai fini dell’esercizio del controllo parlamentare

Può ottenere, anche in deroga al divieto stabilito dall’articolo 329 del codice di procedura penale, copie di atti e documenti relativi a procedimenti e inchieste in corso presso l’autorità giudiziaria o altri organi inquirenti, nonché copie di atti e documenti relativi a indagini e inchieste parlamentari. L’autorità giudiziaria può trasmettere copie di atti e documenti anche di propria iniziativa

Può ottenere, da parte di appartenenti al Sistema di informazione per la sicurezza, nonché degli organi e degli uffici della pubblica amministrazione, informazioni di interesse, nonché copie di atti e documenti da essi custoditi, prodotti o comunque acquisiti.

Qualora la comunicazione di un’informazione o la trasmissione di copia di un documento possano pregiudicare la sicurezza della Repubblica, i rapporti con Stati esteri, lo svolgimento di operazioni in corso o l’incolumità di fonti informative, collaboratori o appartenenti ai servizi di informazione per la sicurezza, il destinatario della richiesta oppone l’esigenza di riservatezza al Comitato.

Al Comitato non può essere opposto il segreto d’ufficio, né il segreto bancario o professionale, fatta eccezione per il segreto tra difensore e parte processuale nell’ambito del mandato.

Il Comitato può esercitare il controllo diretto della documentazione di spesa relativa alle operazioni concluse, effettuando, a tale scopo, l’accesso presso l’archivio centrale del DIS

Il Comitato può effettuare accessi e sopralluoghi negli uffici di pertinenza del Sistema di informazione per la sicurezza, dandone preventiva comunicazione al Presidente del Consiglio dei ministri.

B. CONSULTIVE

Esprime il proprio parere sugli schemi dei regolamenti previsti dalla legge, nonché su ogni altro schema di decreto o regolamento concernente l’organizzazione e lo stato del contingente speciale del personale. Il Comitato esprime, altresì, il proprio parere sulle delibere assunte dal Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica sulla ripartizione delle risorse finanziarie tra il DIS e i servizi di informazione per la sicurezza e sui relativi bilanci preventivi e consuntivi, nonché sul piano annuale delle attività dell’ufficio ispettivo.

Relazioni

Presenta una relazione annuale al Parlamento per riferire sull’attività svolta e per formulare proposte o segnalazioni su questioni di propria competenza.

Può trasmettere al Parlamento nel corso dell’anno informative o relazioni urgenti.

Entro il mese di febbraio di ogni anno il Governo trasmette al Parlamento una relazione scritta, riferita all’anno precedente, sulla politica dell’informazione per la sicurezza e sui risultati ottenuti.

Alla relazione è allegato il documento di sicurezza nazionale, concernente le attività relative alla protezione delle infrastrutture critiche materiali e immateriali nonché alla protezione cibernetica e alla sicurezza informatica.

Dopo aver audito enti quali Consob, Banca d’Italia, Ivass, i principali protagonisti del mondo bancario, Cassa Depositi e Prestiti, Borsa Italiana e in ultima istanza il ministro dell’Economia e gli stessi servizi segreti, la relazione, presentata dal deputato Enrico Borghi (Pd) e dal senatore Francesco Castiello (M5S), sottolinea come «non tutti i principali istituti bancari sono coerenti con questa impostazione, ritenendo preferibile una strategia rivolta verso i mercati esteri». Tradotto, gli interessi delle grandi banche sembrano andare in direzione opposta rispetto agli interessi nazionali, in un settore che raccoglie l’80% dell’occupazione totale. Ciò crea un vuoto che le nostre imprese hanno difficoltà a riempire. Altre fonti di finanziamento sono infatti meno sviluppate che in altri paesi, come le obbligazioni, il private equity e le quotazioni in borsa. A chi rivolgersi dunque?

Il Copasir sorvola, ma il pensiero va all’indomani della crisi del 2008 quando le imprese più penalizzate furono quelle con meno di venti impiegati molte delle quali, oggi ancor più di allora, si sono rivolte ai mercati criminali pur di rimanere a galla. Come analizzato da IrpiMedia in un editoriale dello scorso aprile, le organizzazioni mafiose con grandi liquidità individueranno quei settori produttivi in cui immettere i propri capitali. Da forme più “classiche” di sostegno criminale quali il pizzo o l’usura, si assisterà a vere e proprie evoluzioni distorte di accesso al credito con acquisizioni di una miriade di aziende da parte delle mafie più ricche. «Questo – scrivevamo – succederà nelle aree economicamente più fragili del Paese, ma sarà uno scenario a cui fare attenzione anche nelle regioni più produttive del nord, che sono state le più colpite dal contraccolpo della pandemia».

La leva del debito pubblico per gli appetiti franco-tedeschi nel settore del credito

Con l’esposizione a ingerenze straniere verso gli istituti bancari e assicurativi è in gioco «la tenuta del sistema» economico nazionale, scrive il Copasir. Il nodo è la quota di debito pubblico detenuto dalle banche italiane, il 27%, ben oltre la media europea che si attesta al 16%. Il Comitato, punto di raccordo tra Parlamento e intelligence, definisce «preoccupanti» le voci degli ultimi mesi circa la possibile fusione di Unicredit con l’istituto tedesco Commerzbank o le banche francesi Crédit Agricole e Societé Générale.

Il nodo è la quota di debito pubblico detenuto dalle banche italiane, il 27%

La stessa Crédit Agricole non a caso è protagonista proprio in questi giorni per l’offerta pubblica di acquisto (Opa) sul Credito Valtellinese di cui la stessa banca francese detiene già una quota. Unicredit, secondo gruppo per patrimonio gestito, detiene al momento circa 44 dei 2.409 miliardi di euro di debito pubblico nostrano, oltre a quote rilevanti di crediti verso le pmi, le famiglie e le imprese medio-grandi. Gli operatori finanziari francesi andrebbero così ad aumentare la quota di debito italiano in loro possesso, al momento pari a 285 miliardi, quasi il 12% del totale.

Medesime preoccupazioni coinvolgono il leader italiano nel settore assicurativo. Anche Generali, infatti, ha rivolto l’attenzione oltralpe con la possibilità di cedere alle mire dei francesi di Axa. Dovesse concretizzarsi, l’acquisizione porterebbe in mani francesi un ulteriore 3,5% del debito italiano con, appunta il Copasir, «un rischio a livello strategico e di rilievo per l’interesse nazionale».

La paventata extraterritorialità però non riguarda solo le finanze pubbliche. Con la rapida conversione al digitale da parte del settore assicurativo e gli aspetti relativi alla tecnologia 5G, si porrebbe il problema del trasferimento, trattamento e della conservazione di dati sensibili di milioni di sottoscrittori di polizze conservati al di fuori del territorio italiano.

Occhi puntati sulla Cina

In tale scenario, non possono non ricoprire un ruolo di primo piano i capitali provenienti dalla Cina (inclusi quelli da Hong Kong e Macao). Ad un incremento del 755% tra il 2015 e il 2018 degli investimenti diretti provenienti dalla Repubblica popolare si accompagna una diminuzione delle quote delle rimesse verso Pechino, da 237 milioni di euro del 2016 a 1,4 milioni del 2020. Crescono gli investimenti cinesi in Italia e crollano le rimesse (la spedizione di denaro) verso la Cina, dunque, al netto delle quote sommerse e quindi non tracciabili di denaro contante, frutto di attività criminali e di successivo riciclaggio, dimostra come gli investitori cinesi si stiano radicando sempre più nel tessuto economico italiano, decidendo quindi di reinvestire in Italia i proventi delle proprie attività.

Sono in tutto 760 le aziende fondate in Italia da soci italiani in cui sono poi entrati soci cinesi nell’azionariato e quelle fondate da cittadini di nazionalità cinese. In totale, impiegano 43.700 persone, con un giro di affari superiore ai 25 miliardi di euro. Il settore più proficuo, sebbene conti soltanto 150 imprese, è quello manifatturiero in cui lavorano quasi tre quarti di tutti i dipendenti. Seguono poi i settori dei servizi e delle imprese commerciali. Ma, precisa il Copasir, «le acquisizioni avvengono con sistematicità ad ogni livello, nei settori a più alto valore aggiunto o più strategici». Tra gli attori più rilevanti figura StateGrid, colosso dell’utility. Controlla il 35% di CDP Reti Spa, finanziaria delle reti elettriche italiane la quale a sua volta controlla Snam, Terna e Italgas.

ChemChina detiene invece il 40% delle quote di Pirelli & C., della quale esprime anche il presidente. La lista di conglomerati cinesi con interessi nei comparti energetico, delle infrastrutture e metallurgico non si esaurisce qui. Nel 2014 la Ansaldo Energia ha ceduto il 40% delle proprie quote alla Shangai Electric Corporation mentre quote di Eni, TIM, Enel e Prysmian sono in mano alla People’s Bank of China, l’equivalente di Bankitalia. Anche il gruppo Candy, tra i leader nella produzione di elettrodomestici, ha ceduto alle avances cinesi nel 2018 con l’acquisizione da parte della multinazionale Haier. Stesso destino del gruppo cantieristico navale Ferretti, controllato per l’85% dal colosso industriale cinese Weichai. Di recente, è sfumata l’offensiva cinese verso il terminal logistico del porto di Trieste mentre in quello di Vado Ligure (Savona) la COSCO e il porto di Qingdao controllano il 49,9% delle azioni del terminal merci. Per quanto riguarda le società quotate in borsa, detto di Eni, Pirelli e Prysmian, le società cinesi detengono quote di minoranza di Intesa Sanpaolo, Saipem, Moncler, Salvatore Ferragamo e Prima Industrie.

«C’è sicuramente una parte che sfugge ai controlli, pensiamo per esempio agli investimenti nelle università o nei centri di ricerca, sono progetti che spesso esulano dalla conta degli investimenti diretti provenienti dall’estero»

Alessia Amighini

Senior researcher Asia per Ispi

Per tutte queste si tratta di investimenti esteri diretti, sono quindi esclusi e difficilmente individuabili quelli provenienti da fondi di investimento, società fiduciarie e finanziarie, le quali quasi sempre nascondono i reali titolari dei capitali. Si pensi al fondo sovrano China Investment Corporation (CIC) che realizza i propri investimenti in Europa tramite catene societarie registrate in Lussemburgo. «Da noi il problema si pone con le partecipazioni a cascata nelle grandi aziende, che possono mascherare l’ingresso di attori cinesi lungo la catena societaria», spiega a IrpiMedia Alessia Amighini, senior researcher dell’Asia per Ispi, l’istituto per gli studi di politica internazionale.

«Lo stesso vale per alcuni soggetti europei che possono fungere da spalla per investitori provenienti dalla Cina», aggiunge. È il caso, per esempio, di Amundi, la più grande società europea di gestione patrimoniale e controllata proprio da Crédit Agricole, in trattativa per l’acquisizione di Unicredit. Un anno fa la Cina ne ha autorizzato una joint venture con la Bank of China, dando vita alla prima società di gestione patrimoniale a controllo straniero mai creata in Cina. Al contrario di tanti altri paesi, in Europa e in Italia i bilanci delle aziende oggetto degli investimenti cinesi sono pubblici, «quindi sono tutto sommato trasparenti», precisa Amighini. «Tuttavia c’è sicuramente una parte che sfugge ai controlli, pensiamo per esempio agli investimenti nelle università o nei centri di ricerca, sono progetti che spesso esulano dalla conta degli investimenti diretti provenienti dall’estero».

Infografiche: Lorenzo Bodrero | Editing: Luca Rinaldi | Foto: Eric Prouzet/Shutterstock

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