Sulla rotta di Trieste, una montagna di coca lega Urabeños e ‘ndrangheta

Sulla rotta di Trieste, una montagna di coca lega Urabeños e ‘ndrangheta

Cecilia Anesi

Edoardo Anziano

È il 12 aprile 2021. A Puerto Bolivar – il più grande scalo marittimo della Colombia – gli agenti dell’antidroga fermano un carico di 300 chili di cocaina pronto a essere issato su una nave mercantile in partenza per l’Italia, porto di Trieste per la precisione. Gli agenti colombiani, guidati dai magistrati della “Fiscalìa 42 Especializada contra el Narcotrafico” sono riusciti a infiltrare un agente in un gruppo di narcos colombiani guidato da Angel.

Il sequestro avviene all’insaputa dei narcotrafficanti, che credono il carico già partito alla volta di Trieste. In realtà, le autorità colombiane consegnano, via aereo, la cocaina alla Direzione Distrettuale Antimafia (Dda) di Trieste, che la stocca.

La Fiscalia colombiana aveva infatti avviato una collaborazione con la Dda giuliana per potere indagare a fondo il gruppo di narcotrafficanti, risalendo la china sia dei fornitori in Colombia che dei distributori e acquirenti in Europa. Una complessa indagine congiunta, che farà emergere da una parte il Clan del Golfo, anche chiamati Urabeños, il più potente cartello di narcotrafficanti attivo oggi in Colombia che conta fino a 2mila affiliati per lo più da gruppi paramilitari di estrema destra, dall’altra diversi gruppi di acquirenti est-europei e un gruppo italiano legato alla ‘ndrangheta attivo tra Roma e Milano.

A consegnare la cocaina agli acquirenti, un emissario del cartello colombiano mandato a Trieste per supervisionare e garantire che le consegne andassero a buon fine. Una misura di sicurezza presa dal clan del Golfo viste le grandi quantità spedite tra la primavera e l’autunno 2021.

Trieste viene supportata da altre procure che di volta in volta si attivano per sequestrare la cocaina in distribuzione, cadono i corrieri, ma i magistrati lasciano in sospeso per mesi gli arresti dei narcos per raccogliere tutte le prove di una fitta rete di narcotraffico internazionale. Un mese fa, il 7 giugno scorso, il Tribunale di Trieste ha chiuso il cerchio spiccando 38 ordinanze di custodia cautelare contro i narcotrafficanti attivi tra Italia, Slovenia, Croazia, Bulgaria, Olanda e Colombia. “Geppo2021”, verrà battezzata questa delicata operazione dalle molte ordinanze di custodia cautelare: in memoria di “Geppo”, finanziere undercover di Trieste venuto a mancare.

Sono in tutto 4380 i chili di cocaina sequestrati dalla Guardia di Finanza di Trieste, il terzo sequestro più grande d’Europa, e che dovevano essere solo l’inizio di un’alleanza tra il clan del Golfo e compratori europei che avrebbero ritirato di volta in volta circa 500 chili alla volta che sarebbero sbarcati al porto di Trieste. Se lasciate nelle mani dei narcotrafficanti, le quattro tonnellate avrebbero fruttato almeno 240 milioni di euro di guadagni illeciti.

L’Italia è il secondo Paese produttore di pomodori, dopo gli Usa. La Puglia produce più della metà dei pomodori in scatola italiani, in particolare nella zona di Foggia.

Una veduta aerea del porto di Trieste- Foto: Getty

Una veduta aerea del porto di Trieste

Foto: Getty

 

L’ambasciatore e l’infiltrato

Convinto del successo della spedizione, il cartello colombiano invia in Italia il suo «ambasciatore» Ramon Abel Castano Castano, col compito di recuperare e vendere i 300 chili di cocaina, pura al 75%. A lui vengono affidate «tutte le attività indispensabili per il recupero e la distribuzione dell’ingente carico inviato in Italia».

Castano Castano aveva già fatto un sopralluogo al porto di Trieste prima dell’arrivo della cocaina, visitando l’ufficio del titolare di un servizio di import-export: quello che doveva garantire che la spedizione di trivelle da miniera, in cui era nascosta la cocaina, giungesse tra le banchine senza intoppi.

Ciò che il colombiano non immaginava, era che l’uomo fosse in realtà un finanziere sotto copertura. Una copertura inventata dal Gruppo d’investigazione sulla criminalità organizzata (Gico) della Guardia di Finanza di Trieste, guidato dal colonnello Marco Iannicelli, una volta che la Fiscalia 42 si era messa in contatto avvisandoli del fatto che il Clan del Golfo stesse cercando un nuovo porto in Italia dove inviare i carichi al posto di Gioia Tauro.

«A Gioia Tauro c’erano stati diversi sequestri e quindi i colombiani cercavano un altro porto e Trieste è buono per i narcos perchè è grande ma anche vicino al confine con la Slovenia, quindi è la porta per i balcani e serve le mafie balcaniche», spiega a IrpiMedia il comandante Iannicelli.

Insomma il Gico si adopera per costruire una copertura credibile, ovvero un logista che avrebbe potuto fare arrivare la cocaina fino a Trieste nonché organizzare il suo stoccaggio.

L’obiettivo è scoprire gli acquirenti finali della partita, quei terzisti che si divideranno i 300 chili per poi venderli a pesci più piccoli che si occuperanno di rifornire le reti di spaccio.

«La particolarità di questa operazione è non solo la quantità sequestrata, ma il fatto che siamo riusciti a seguire passo passo la distribuzione e svelare la rete di acquirenti», incalza Iannicelli.

Quando dalla Colombia parte la cocaina, c’è un’altra cosa che Castano Castano non immagina: la droga è stata sequestrata, tolta dal container e consegnata alle autorità italiane per via aerea. L’agente sotto copertura, con grande maestria, riesce a far credere all’ambasciatore del cartello di essere riuscito a recuperare la spedizione al porto di Trieste.

Mostrando i 300 chili effettivamente arrivati e stoccati, il finanziere undercover riesce a conquistare definitivamente la fiducia di Castano Castano, al punto da aiutarlo con le diverse consegne che consentono di tracciare la rete di acquirenti in diretto contatto coi produttori colombiani.

Si tratta, come scrive il gip di Trieste, di individui «strettamente contigui ad organizzazioni criminali di indiscutibile alto profilo». Infatti, ciascuno di loro acquista quantitativi che variano, ogni volta fra 60 e 115 kg di cocaina, per non meno di 35.000 euro al chilo.

A organizzare le spedizioni dalla Colombia sono o direttamente uomini del Clan del Golfo, o Antonio Prudente, un italiano residente in Colombia e tutt’ora latitante. «Hanno infatti organizzato dalla Colombia la spedizione dei carichi di cocaina, inviando in Italia dei loro emissari incaricati di sovraintendere le operazioni di stoccaggio e gestire le consegne ai diversi gruppi di trafficanti – scrive il gip. In Italia hanno pagato solo un corrispettivo per la logistica mentre la merce è sempre stato pagata anticipatamente direttamente in Colombia: lo si desume agevolmente dalle conversazioni captate».

Infatti, i narcos utilizzavano telefoni cifrati che sono stati decriptati grazie alla collaborazione della Homeland Security (HSI) americana.

Surespot l’app di Isis e narcos, infiltrata da HSI

I narcotrafficanti colombiani e calabresi colpiti dalle indagini congiunte della Fiscalia 42, della Dda di Trieste e con il supporto della agenzia statunitense Homeland Security Investigations, utilizzavano un’app di messaggistica istantanea chiamata Surespot, sviluppata nel 2013 da due statunitensi, che offre un modo di comunicare completamente cifrato end-to-end. Si tratta di una tecnologia che (al pari di Whatsapp e Signal) cifra ogni messaggio prima di inviarlo, in modo che possa essere decifrato esclusivamente dal dispositivo a cui è destinato. Vale a dire che chi controlla l’infrastruttura o i server non dovrebbe poter avere accesso all’informazione.

In seguito alle accuse di essere lo strumento di riferimento dello Stato islamico, tra il 2014 e il 2015 alcuni esperti di sicurezza informatica e giornalisti hanno iniziato a chiedere a 2fours, azienda che sviluppa l’app, se questa fosse ancora sicura e se le autorità statunitensi avessero in qualche modo cercato di ottenere l’accesso ai messaggi scambiati dagli utenti. Adam Patacchiola – CEO dell’azienda – non avrebbe risposto a ripetute domande relative a una possibile infiltrazione delle autorità statunitensi nella rete di Surespot. Lo stesso profilo Twitter dell’app risulta dormiente da anni e di Surespot non si è più parlato, sebbene sia rimasto disponibile negli store di Google e Apple.

Ciò che i narcotrafficanti hanno curiosamente sottovalutato, è la possibilità che HSI tenesse un piede dentro Surespot, cosa effettivamente avvenuta. Quando il 7 giugno sono scattati gli arresti di Trieste, e l’operazione “Geppo2021” è stata chiusa, sul sito di Surespot è comparsa una notizia: dal 31 luglio prossimo l’app verrà definitivamente disattivata. Surespot ha esaurito il suo scopo (ra. an.)

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Stando alle informazioni rese pubbliche dalle autorità colombiane, i carichi di cocaina erano riconducibili a Chiquito Malo, ovvero Jobanis de Jesus Avila Villadiego, un narcotraficante che ha preso la guida del clan degli Urabeños dopo che il gran capo del gruppo, Dario Antonio Úsuga David alias Otoniel era stato arrestato, ad ottobre 2021, e estradato negli USA lo scorso maggio.

Cocaina su tutto lo stivale

A maggio 2021, Castano Castano si attiva per la distribuzione sul territorio italiano. La prima consegna, appena 10 chili, è una partita di prova ceduta a due noti narcotrafficanti bulgari.

La seconda consegna è dieci volte più grande: il colombiano recapita 100 chili a due pregiudicati pugliesi, referenti di un gruppo chiamato “i veneziani”. Il pagamento, viene spiegato all’undercover, sarebbe stato «saldato mediante la cessione a Angel [uno dei capi degli Urabeños] alcuni immobili nel napoletano.

A giugno i bulgari si rifanno avanti, con un ordine di 60 chili. I finanzieri li seguono fino a Roma, ma lì ne perdono le tracce. Non hanno voluto fermarli e sequestrare la droga: si sarebbe preclusa la possibilità di indagare l’organizzazione criminale transnazionale e la possibilità di sequestrare carichi più grossi.

La pazienza premia: questo primo carico non è altro che una «prova generale» di una spedizione molto più grande.

La taglia su Jobanis de Jesus Avila Villadiego, detto Chiquito Malo, alla guida degli Urabeños

Quattro tonnellate di polvere

La Fiscalìa 42, infatti, informa gli italiani che un grande carico di cocaina è in preparazione: si parla di circa 1800 chili «che il cartello avrebbe deciso di destinare nuovamente al mercato italiano». Quasi due tonnellate, che secondo i narcos potrebbero essere facilmente distribuite in Italia, con lo stesso meccanismo usato per i primi 300 chili.

«C’è stata una progressione in cui i colombiani promettevano di inviare prima 1800 chili poi 2000 e poi si è arrivati fino a 4000 e a quel punto ci siamo mossi per organizzare la consegna controllata», spiega il comandante del Gico Iannicelli.

E così alla fine dalla Colombia (sempre con consegna controllata) a ottobre 2021 partono 4080 chili, il doppio di quanto ipotizzato. Una montagna di cocaina, con picchi di purezza fino all’85%.

Con le stesse modalità della prima spedizione, l’agente sotto copertura recupera la droga e aiuta i colombiani a smerciarla, consegnando ai clienti in Italia partite da non meno di 500 chili l’una.

A metà dicembre l’agente sotto copertura viene infatti contattato da un gruppo albanese, interessato a comprare 1800 chili di cocaina in tre consegne.

La procura di Trieste ha già tessuto la sua tela: i primi 600 chili vengono caricati il 20 gennaio 2022 in un camion sloveno in un magazzino gestito da finanzieri undercover. Ignaro, l’autista porta il camion in un capannone alle porte di Roma dove verrà arrestato assieme a chi era venuto per ritirare la cocaina.

La droga non interessa solo alle organizzazioni criminali straniere. Infatti a dicembre 2021 l’undercover viene contattato da Francesco Megna, referente di un’organizzazione calabrese che aveva concordato direttamente con il Clan Del Golfo un ritiro di 500 chili a 24mila euro al chilo, un ottimo prezzo.

Dall’incrocio tra le chat cifrate e le conversazioni ascoltate dall’undercover si capisce che Megna fa parte di un’organizzazione di narcotrafficanti di matrice ‘ndranghetista guidata da tale “Jio Scotti” (questo il nickname nelle chat).

Il mese successivo, lo stesso giro di narcos torna alla ribalta. “Jio Scotti” chiede all’infiltrato di incontrare un altro suo uomo, un giovane narcotrafficante di San Luca, che dovrà ritirare un’altro carico. Seguendolo, il Gico arriverà fino al suo capo, il misterioso “Alexander”, che solo ad aprile viene identificato. È un romano di nome Rossano Sebastiani, direttamente in contatto con i colombiani. Classe 1975, Sebastiani ha precedenti per associazione a delinquere e traffico di stupefacenti. Viene arrestato la prima volta nel 2006, perché membro di una banda che distribuiva cocaina importata dalla Spagna fra Roma e Viterbo. E poi ancora nel 2015, con oltre mille chili di droga fatta arrivare dal Brasile per la ‘ndrangheta.

Parla con l’undercover solo tramite chat cifrata, la app Surespot, e racconta come lui e “Jio Scotti” facciano capo «ad un’unica famiglia locale operante nel narcotraffico», il cosiddetto «Gruppo dei Calabresi».

Sebastiani non si dà per vinto, nonostante l’arresto del suo luogotenente sanlucota. Vuole 300 chili e così Pedro, uno dei capi del Clan del Golfo, gli organizza un incontro con i logisti triestini (ovvero gli undercover). Nel convincere l’undercover, Pedro si lascia sfuggire dettagli fondamentali: Sebastiani e i calabresi lavorano per la stessa organizzazione, e così anche Antonio Prudente dalla Colombia.

Rossano Sebastiani in posa a Medellin, Colombia, nel 2020 – Foto: Facebook

Ai primi di maggio di quest’anno il Gico viene a sapere che Sebastiani è in viaggio con un colombiano, in taxi, dalle parti dell’aereoporto di Ciampino. La GdF di Trieste, coordinata dal colonnello Leonardo Erre, decide di chiudere il cerchio e manda gli agenti a braccarlo. Ma a casa sua c’è solo la madre. Eppure dalla cellula risulta nei paraggi: i finanzieri scavalcano un cancello, trovandosi di fronte un bed & breakfast. A difenderne l’ingresso, due grossi pastori maremmani. Stanno per aggredire gli agenti quando in accappatoio, calmissimo, esce Sebastiani. Sono le nove di mattina, ha già sentito il notiziario: «Siete qui per me». Ha però una richiesta, se mi volete vivo non portatemi al carcere di Rebibbia. Deve dei soldi ad una grossa organizzazione di narcotrafficanti romani, connessa alle guerre di mafia della capitale.

Prudente resta invece latitante, come gli esponenti degli Urabeños.

Uno yacht al largo della Costa Smeralda - Foto: IrpiMedia

Un dettaglio di come veniva nascosta la merce. A destra la Guardia di finanza mostra un carico sequestrato

Via del Rimessaggio nel comune di Arzachena - Foto: IrpiMedia

I pugliesi, gli albanesi, gli sloveni e i bulgari invece sono stati tutti catturati, uniti da uno stesso destino pur essendo di gruppi slegati tra loro. «Gli acquirenti entravano direttamente in contatto con i colombiani e non si conoscevano tra loro», spiega Iannicelli a IrpiMedia.

«Normalmente l’arresto viene fatto contro i primi broker che si presentano. Gli altri candidati acquirenti spariscono perché mangiano la foglia», ha spiegato in un’intervista Antonio De Nicolo, Procuratore capo di Trieste.

Per questo, in un anno e mezzo ci sono state 19 consegne controllate che hanno permesso di tracciare gli acquirenti, e di volta in volta sequestrate la cocaina e arrestare i narcotrafficanti con delle specifiche ordinanze di custodia cautelare che il pm Federico Frezza man mano chiedeva al gip di spiccare. Un’indagine che ha richiesto una continua capacità di adattarsi, fra l’imprevedibilità di ogni consegna, il timore per la sicurezza degli undercover e vere e proprie scene da film: pedinamenti, droni, pistole in pugno. Ma la partita non è ancora chiusa, restano da fare gli arresti nella giungla colombiana e capire chi fosse “Jio Scotti”.

CREDITI

Autori

Cecilia Anesi
Edoardo Anziano

Editing

Giulio Rubino

Box

Raffaele Angius

A due passi dal Brennero, la ‘ndrangheta aspromontana in Südtirol

A due passi dal Brennero, la ‘ndrangheta aspromontana in Südtirol
Cecilia Anesi Margherita Bettoni

Avevano il quartier generale in un bar di Via Resia, l’ultima periferia costruita a Bolzano negli anni ‘70. Un luogo di edilizia popolare, lontano dagli sfarzi dei famosi portici dai negozi scintillanti, che bene rappresentano la ricchezza del Sudtirolo. Un luogo dimesso, eppure strategico, vicino allo svincolo autostradale per il Brennero che da lì porta dritti in Austria e poi fino al sud della Germania, quella Baviera dove la ‘ndrangheta ha ormai costruito una presenza stabile. È dall’anonimo bar Coffee Break che Mario Sergi gestiva tanto i cappuccini quanto una locale di ‘ndrangheta. Questa l’accusa della Direzione Distrettuale Antimafia di Trento che, con la Squadra Mobile, ha arrestato 20 persone tra il Trentino Alto Adige, il Veneto, e Platì (Calabria) lo scorso 9 giugno. Un fiorente traffico di cocaina, che imbiancava l’Alto-Adige con circa cinque chili al mese, l’attività principale del gruppo di Sergi. I narcos calabresi la acquistavano a buon prezzo, tra i 29 e i 32mila euro al chilo. Un business che – se confermato – faceva di loro una vera e propria impresa, capace di fare concorrenza alle grandi aziende lecite sudtirolesi, perchè tolti i costi e considerato il prezzo medio della cocaina al grammo la holding “Coffee Break” poteva contare su profitti tra i 150 e i 300mila euro al mese. Un “fatturato” esentasse che supera di gran lunga quello delle piccole e medie imprese sudtirolesi che si aggirano sui 38.000 euro al mese. Un fiume di cocaina per una piccola città di 100mila abitanti, ma non senza costi sociali. Parliamo di una regione già colpita duramente negli anni ‘80 dalla piaga dell’eroina, e che nell’ultimo decennio ha visto un preoccupante nuovo aumento delle tossicodipendenze. Un contesto in cui, secondo gli inquirenti e il giudice per le indagini preliminari Marco La Ganga, si sono inseriti alla perfezione i narcos aspromontani. Li ritiene pericolosi trafficanti di droga, affiliati alla ‘ndrangheta, e in grado di controllare il territorio altoatesino con la forza dell’intimidazione mafiosa e delle armi.

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Il bar Coffee Break, quartiere generale della “locale” di ‘ndrangheta di Bolzano

Dall’Aspromonte all’Alto-Adige, la genesi di una nuova “locale” di ‘ndrangheta

Mario Sergi nasce a Delianuova, paesino arroccato sul lato tirrenico dell’Aspromonte e che cade sotto il controllo delle ‘ndrine Italiano ed Alvaro. Arrivato a Bolzano già negli anni ‘80 si dedica a piccole attività criminali, ma ha un sogno: mettere in piedi una solida struttura criminale tra la Calabria e Bolzano. Un collaboratore di giustizia racconta di come già negli anni ‘80 Sergi avesse trascorso un periodo in carcere assieme a un cugino arrestato con dell’eroina alla stazione ferroviaria di Bolzano. E proprio in carcere Sergi avrebbe elaborato il piano per allargare il suo giro, e arrivare a gestire il traffico di eroina dell’intera provincia altoatesina.

#Mafie

Bolzano aveva una vasta comunità migrante calabrese, alcuni erano giunti da poco in cerca di lavoro al nord, altri erano arrivati durante il processo di italianizzazione voluto da Mussolini. E come sempre, anche la ‘ndrangheta aveva sfruttato il flusso migratorio dei propri conterranei, un po’ per dare meno nell’occhio, un po’ per assicurarsi una prima base economica con le estorsioni. Ma all’epoca si trattava di “cani sciolti”, trafficanti di eroina per lo più in proprio, senza un vero piano e senza un comando.

La svolta arriva a metà anni ‘80 da Platì: Francesco Perre, alias U Gulera, viene “attivato” a Bolzano da due colonne portanti della ‘ndrangheta dell’epoca: Domenico Agresta e Pasqualino Marando. Così racconta agli inquirenti di Torino il collaboratore Domenico Agresta detto “Micu Mc Donald”, nipote dell’omonimo boss, e divenuto il più giovane pentito della ‘ndrangheta. Era cresciuto con i racconti di come a fine anni ‘80 i suoi zii Domenico Agresta e Pasquale Marando reggessero la “locale” (unità territoriale di ‘ndrangheta) di Volpiano, in provincia di Torino, e da lì controllassero la più moderna e grande holding del narcotraffico dell’epoca.

Articolo de La Stampa del novembre ‘92

Marando ci aveva visto lungo: la droga andava venduta a nord, dove c’erano i soldi per acquistarla e dove i giovani borghesi si annoiavano. Non solo, le polizie non erano preparate a identificare gli ‘ndranghetisti e a decifrare il dialetto calabrese. Dall’arco alpino c’erano inoltre comodi sbocchi verso gli altri paesi europei, Spagna, Francia, Germania. Ed è all’interno di questa strategia espansiva che i platioti mandano Perre in Trentino-Alto Adige: viene incaricato di aprire una “locale” sotto la quale possano fare riferimento varie ‘ndrine, ovvero varie famiglie. Perre è uomo di fiducia di Marando perchè sposato, come lui, con una donna della famiglia Trimboli e inserito a pieno nel narcotraffico dei platioti a Nord.
I legami tra i Barbaro, i Papalia e i Marando di Platì

I Barbaro alias Castanu sono una potente ‘ndrina di Platì oggi egemone sull’area della cittadina e di grande influenza sul mandamento Jonico nonché in Piemonte e Lombardia. Le altre famiglie di Platì alleate ai Barbaro alias Castanu sono la famiglia Marando, che ha dato i natali al più grande narcotrafficante italiano, Pasqualino Marando, pioniere del traffico di cocaina dall’America Latina. Pasqualino viene ucciso nel 2001 in una faida, il suo corpo mai ritrovato. Ucciso per una faida con la famiglia della moglie, come suo fratello Ciccio, altro narcos di spicco. Entrambi vivevano tra Platì e Volpiano, cittadina piemontese diventata per loro roccaforte.

Un’altra famiglia alleata è quella dei Papalia, particolarmente attiva a Milano e provincia. Anche i Perre e gli Agresta sono due famiglie di Platì che storicamente operano assieme ai Marando e sono alleate dei Barbaro. Le famiglie Barbaro e Papalia di Platì si sono entrambe insediate nei comuni ad ovest di Milano, Buccinasco, Corsico e Trezzano sul Naviglio che lentamente divennero quella che oggi viene considerata una vera e propria colonia, detta “la Platì del Nord”, per poi allargarsi successivamente anche nelle aree limitrofe. Da allora, le due famiglie si sono praticamente unite in un unico clan (noto come Barbaro-Papalia e legato a Domenico Barbaro l’Australiano), capace, dagli anni Settanta, di resistere alle numerose inchieste e riorganizzarsi ogni volta.

Così Perre si darà da fare, e troverà anche un luogotenente per portare avanti il traffico di eroina: Mario Sergi. Il duo potrà così operare all’interno di un contesto preciso, e le azioni criminali non avverranno più in modo spontaneo e casuale ma all’interno di un piano specifico, discusso di volta in volta con la “casa madre” di Platì e con il nucleo di narcos operanti da Volpiano. È infatti da lì che Pasquale Marando dirige il suo impero alla Escobar, e grazie alle alleanze con i trafficanti turchi e pachistani rifornisce di eroina tutta Europa, compresa la Bolzano gestita dal suo “clan dei calabresi” – così veniva chiamato dagli inquirenti dell’epoca il gruppo guidato da Perre e Sergi.

Qualcuno però se ne accorge. Il 13 febbraio 1992 le Procure di Trento e Bolzano concludono la prima indagine sulla ‘ndrangheta in Trentino Alto-Adige togliendo il velo su un fiorente traffico di droga e di armi e arrestando 46 persone. Tra gli arrestati, ve ne sono anche alcuni coinvolti nel sequestro di Carlo Celadon, il 19enne veneto tenuto prigioniero in Aspromonte per oltre 800 giorni a fine anni ‘80.

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Le indagini del 1992 hanno dimostrato come in Alto-Adige ci fosse una solida organizzazione di stampo ‘ndranghetista dedita al traffico di armi e droga. Ma soprattutto, che già all’epoca esisteva quel piglio imprenditoriale che ha permesso alla ‘ndrangheta di diventare sempre più forte, sempre più colletto bianco e quindi sempre più invisibile, accolta e fusa nella società, anche a Bolzano. Infatti, già nel 1992, fu rilevato dagli inquirenti come i profitti derivanti dalle attività illecite fossero reinvestiti nel circolo dell’economia legale con il coinvolgimento di imprenditori, commercianti, titolari di locali pubblici e di concessionarie di automobili. Ecco dunque che che l’operazione “Freeland” con i suoi venti arresti dello scorso 9 giugno è allora un deja-vu: i nomi importanti tra gli indagati sono i recidivi del “clan dei calabresi” – non solo Ciccio Perre e Mario Sergi, ma anche Angelo Zito, coinvolto proprio nel sequestro Celadon, e rimasto a vivere in Trentino. A gennaio 1993 inizia il processo contro il clan dei calabresi a Bolzano, ma Ciccio Perre è latitante, tornato a Platì dove può nascondersi con più facilità. A novembre dello stesso anno viene però stanato e arrestato. Uscirà dal carcere solo nel 2011, un anno prima del suo braccio destro Mario Sergi.

Il 13 febbraio 1992 le Procure di Trento e Bolzano concludono la prima indagine sulla ‘ndrangheta in Trentino Alto-Adige togliendo il velo su un fiorente traffico di droga e di armi e arrestando 46 persone

Quando nel 1994 vengono condannati, Mario Sergi non può crederci. Aveva costruito bene la sua copertura, essendo socio in ben quattro imprese edili e in un bar stando ai dati della camera di commercio. Alla lettura della sentenza in aula, Sergi sbraita e minaccia l’intero collegio giudicante. «Quando il Presidente ha letto il dispositivo di sentenza, Sergi dalla gabbia ha iniziato a minacciarci in calabrese stretto», ricorda l’allora giudice, oggi in pensione, Margit Fliri. Era la prima volta che a Bolzano si svolgeva un processo con mafiosi alla sbarra, e per il quale era stata fatta appositamente costruire una gabbia. I giudici istruttori di Palermo Giovanni Falcone e Paolo Borsellino erano stati uccisi due anni prima, e l’Italia di quegli anni aveva ancora ben in mente l’eco della strage di Capaci. Le minacce di Sergi però non serviranno a molto, ma nei venti anni successivi passati in carcere avrà modo di pensare a come riorganizzare la “locale” di Bolzano una volta fuori.

Nel 2012 infatti Mario Sergi torna libero e torna a Bolzano. Come ha potuto verificare IrpiMedia sei mesi dopo aprirà con altri tre Sergi e un cittadino albanese una cooperativa edilizia a Bolzano a cui tre anni dopo seguirà l’inaugurazione di un’altra impresa edile e dal 2018 il bar Coffee Break. Quello che, secondo l’accusa, diventerà il quartier generale per il traffico di droga del gruppo guidato – proprio come negli anni ‘90 – da Sergi con Ciccio Perre U Gulera. «Ben presto – si legge nelle carte dell’inchiesta “Free Land” – Sergi riprende le redini del traffico di sostanze stupefacenti, in particolare cocaina, giovandosi dell’apporto dei suoi sodali, in gran parte a lui gerarchicamente sottoposti».

«Quando il Presidente ha letto il dispositivo di sentenza, Sergi dalla gabbia ha iniziato a minacciarci in calabrese stretto»

Margit Fliri

Ex giudice

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I carichi di cocaina – che nelle intercettazioni spuntano come “caffè” o “macchina”, “motorino” e “bicicletta” – arrivavano dalla Calabria nascosti tra la frutta e l’olio d’oliva, oppure il gruppo reperiva lo stupefacente in Veneto, dove poteva contare su altri affiliati. Perre gestisce tutto da Platì, Sergi invece a Bolzano si è rifatto una vita e in Calabria ci va solo per gli incontri importanti. Ai primi di settembre 2019 è presente allla festa della Madonna di Polsi, santuario nel comune di San Luca poco distante da Platì dove ogni anno si celebra una festa religiosa molto popolare, e con l’occasione si incontra con Rocco Papalia, della cosca Italiano-Papalia di Delianuova, con cui discute di traffici di droga verso nord.
L'intercettazione

È il 2 settembre 2019 e, svelerà un’intercettazione ambientale, i due discutono di traffico di droga verso il nord. «Questo vuole prendere da qui e portarla su», dice Papalia. «Se il prezzo è buono lassù riesco a piazzare», risponde Sergi. Nel corso della conversazione Sergi affronta anche il tema di ritardi nel pagamento: «Io volevo andare anche dalle parti di Verona», racconta a Papalia, «perchè li qualcosa c’è pure già…gliela portiamo là e vengono e se la prendono loro». «Ma pagano questi qui?», vuole sapere Papalia. «Pagare ce la pagano…è probabile che non ce la pagano subito…questo è il problema…loro ti dicono…un mese…e i soldi te li porto»

I rapporti tra Mario Sergi e Rocco Papalia sono di grande interesse per gli inquirenti, che considerano il secondo contabile della cosca di Delianuova e depositario della cosiddetta “bacinella”, ossia la cassa comune in cui confluiscono i proventi della ‘ndrina che vengono utilizzati ad esempio per il sostentamento dei familiari degli affiliati in carcere. Un aiuto a cui non si è sottratto Mario Sergi che, stando all’accusa, avrebbe inviato somme di denaro proprio alla “bacinella” gestita da Papalia. In cambio un riconoscimento importante: Sergi viene invitato alla riunione nella quale sarebbe stata conferita la carica di capo della cosca Italiano-Papalia, contesa tra i cugini Rocco e Saverio Papalia.

Gli inquirenti ritengono quindi che Sergi sia espressione diretta della ‘ndrina di Delianuova e che per essa, e per i platioti rappresentati da Perre, curi il traffico di droga in Trentino-Alto Adige. Un flusso bianco che toccava anche il Veneto e che puntava a espandersi ancora grazie a contatti diretti con la Colombia e con chi «ha in mano il porto, il porto di Gioia Tauro», come emerge dalle intercettazioni.

Una “locale” distaccata di ‘ndrangheta per funzionare deve riuscire ad operare il controllo sul territorio. A questo, secondo gli inquirenti, servivano le armi – detenute illegalmente – che i poliziotti hanno poi trovato e requisito durante l’indagine. Le trovano ancora  al bar Coffee Break di via Resia dove le armi venivano chiamate «amaro del capo».

Un flusso bianco che toccava anche il Veneto e che puntava a espandersi ancora grazie a contatti diretti con la Colombia e con chi «ha in mano il porto, il porto di Gioia Tauro»

D’altronde Sergi deve potere incutere timore. A febbraio 2020, ricostruiscono gli inquirenti, l’uomo convoca presso il Coffee Break tre uomini di etnia sinti che avevano rubato all’interno del locale di una sua cliente. Sergi li minaccia, i tre delinquenti si scusano, promettono di risarcire la malcapitata e promettono anche di non farlo mai più.

L’ordinanza di custodia cautelare “Freeland” dei pm Sandro Raimondi e Davide Ognibene non esplora il modo in cui la ‘ndrangheta di Delianuova e Platì a Bolzano abbia reinvestito i proventi delle presunte attività criminali, ma sono i nomi degli arrestati più giovani a suggerire un indizio.

Uno degli arrestati, un giovane classe 1988 nato a Bolzano che vanta un cognome importante nel mondo della ‘ndrangheta, aveva un ruolo marginale, faceva da autista a Sergi e gli nascondeva una pistola. Eppure, IrpiMedia ha verificato come il ragazzo sia titolare dell’impresa “I frutti della Calabria” che a Bolzano movimenta frutta e verdura fresca. Proprio il tipo di attività commerciale che il gruppo di Sergi avrebbe utilizzato almeno una volta per muovere un carico di droga. Il ragazzo sui social è “amico” di un altro giovanissimo arrestato in Freeland, titolare di un’impresa di lavori elettrici ed energie rinnovabili attiva tra Bolzano e la Calabria e un frantoio di olio d’oliva nella Piana di Gioia Tauro.

Al momento le indagini non hanno chiarito se le imprese degli arrestati fossero una copertura per altre attività, ma la storia scritta da altri procedimenti di ‘ndrangheta insegna che sono queste le tecniche predilette per muovere i carichi di droga e per riciclare i proventi. I due giovani, tramite i loro legali, hanno dichiarato di volere «attendere gli interrogatori» prima di rilasciare commenti sulla linea difensiva.

«Con l’operazione Freeland ci siamo detti: vuoi vedere che ci volevano questi venti arresti per poter parlare di mafie, nonostante abbiamo a che fare con persone che operavano in regione dagli anni ‘90?», dice a IrpiMedia Chiara Simoncelli, referente di Libera Trentino-Alto Adige. «Ci auguriamo che questa operazione contribuisca anche alla nascita di una nuova consapevolezza, ad un cambiamento culturale. Perchè in Trentino Alto-Adige sembra quasi un’onta parlare di mafie sul nostro territorio».

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Cecilia Anesi Margherita Bettoni

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Giulio Rubino

Scorte e nuove rotte: i narcos alla prova del lockdown

#Covid-19

Scorte e nuove rotte: i narcos alla prova del lockdown

Cecilia Anesi
Antonio Baquero
Nathan Jaccard
Giulio Rubino

È fine marzo e l’epidemia da Covid-19 sta colpendo duramente l’Italia. Rocco Molè, giovane narcos dell’omonima famiglia di ‘ndrangheta, si trova ad affrontare un bel dilemma. Cosa fare con 537 chili di cocaina appena arrivata a Gioia Tauro, il porto controllato dalla sua ‘ndrina, assieme a quella dei Piromalli? L’Italia è appena entrata in lockdown, circostanza che rende la distribuzione più problematica del solito: i camion di frutta e verdura possono viaggiare, ma con il resto del traffico veicolare sospeso, le possibilità di essere sottoposti a un controllo aumentano. E cinquecento chili non sono uno scherzo.

Molè decide alla fine di tenerne solo una piccola parte per la distribuzione e sotterrare il resto in un limoneto nella piana. La Squadra Mobile di Reggio Calabria scopre ugualmente il nascondiglio proprio durante un pattugliamento per far rispettare le misure previste per l’emergenza Covid-19. Siamo nei primi giorni del lockdown: nessuno è giustificato a trovarsi fuori casa senza motivo, tanto meno in una rimessa agricola intestata ad altri.

La storia di Molè racconta bene l’ondata di panico che ha investito in pieno anche il mondo della droga, a tutti i livelli, in quelle prime settimane di confinamento. Il blocco del commercio con la Cina ha paralizzato la produzione di cocaina in alcune regioni sudamericane; i controlli su strada hanno reso molto più rischiosi i trasporti interni agli Stati; gli spacciatori, non potendo più uscire liberamente di casa, hanno chiesto ai clienti di spostarsi loro, e venirla a prendere di persona, ma i consumatori stessi si trovavano di fronte allo stesso problema: cosa scrivere sull’autocertificazione? «Cerco droga»? Cosa per altro successa davvero, in più occasioni. Sembrava che il mercato della droga dovesse affrontare una significativa contrazione in periodo di lockdown. Ma questo, possiamo confermare dati alla mano, non è avvenuto.

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Il mercato parallelo dei vaccini

Vero o presunto che sia, è oggetto di indagini in Italia ed Ue. Lo popolano truffatori ed esiste perché il sistema di distribuzione globale, soprattutto verso i Paesi poveri, arranca

A cominciare dai grandi produttori con un know how che forse molto ha da insegnare agli altri settori della nostra economia, il narcotraffico si è riorganizzato in fretta, grazie anche ad una gestione oculata del prodotto. I grandi cartelli colombiani da sempre tengono stoccate scorte di cocaina sufficienti a coprire circa due mesi di esportazioni, per far fronte a qualsiasi emergenza. Alcune rotte sono dovute cambiare e ci sono stati piccoli sconvolgimenti della geografia criminale globale ma le soluzioni trovate dalle mafie hanno raggiunto l’obiettivo di superare, senza perdite evidenti, due dei mesi più duri per l’intera economia mondiale.

Anche le vendite al dettaglio si sono aggiornate, con ordini online e consegne via food-delivery, e i precursori sono tornati ad arrivare. Analizzando i dati dei sequestri degli ultimi due mesi e intervistando produttori di coca, narcotrafficanti e forze dell’ordine, IrpiMedia può raccontare come il mondo del narcotraffico abbia saputo adattarsi alle sfide poste dal Covid-19, in un’inchiesta coordinata da Occrp in cinque Paesi del mondo.

Cosa sono i precursori

Con il termine “precursori” – spiega il Ministero dell’Interno – si intendono sostanze chimiche di vario genere normalmente utilizzate in numerosi processi industriali e farmaceutici. Si tratta di prodotti legali, ma che sono fondamentali per reazioni chimiche alla base della sintetizzazione e raffinazione di molti stupefacenti.
“Precursore” è ovviamente un termine generico, che fa riferimento a un “ingrediente non cucinato” del prodotto finale (lecito o illecito). Fra quelli più usati per la produzione di droga c’è l’anidride acetica, un reagente per l’ottenimento di eroina e cocaina, oppure solventi come acetone, etere e acido cloridrico per la raffinazione. La maggior parte di queste sostanze chimiche è commercializzata dalla Cina, o almeno arriva da quel Paese a prezzi più convenienti, anche se vi è una produzione anche in alcuni paesi Europei e in India.

Eppure, il cartello della droga più forte della Colombia, il Clan del Golfo, sembra aver sofferto poco di questa situazione. Un membro del gruppo criminale che ha chiesto di essere solo identificato come Raúl spiega ad Occrp che il Clan ha attinto a riserve messe da parte prima della pandemia e si è rifornito di foglie di coca da fattorie più piccole, che non si sono mai fermate, non avendo bisogno di troppa manodopera.

La roccaforte del Clan del Golfo è la regione di Urabà, nel nordest del Paese, una zona strategica dove ci sono piantagioni, laboratori di raffinazione, e soprattutto grandi porti internazionali per le esportazioni. Raúl racconta che il Clan ha sempre da parte circa 40-45 tonnellate di coca già pronta, abbastanza per due mesi di esportazioni. «Si è sempre conservata una “riserva”, è una catena molto ben organizzata. È l’unico modo per tenere tutto sotto controllo, specialmente il prezzo. Le scorte sono nascoste sulle spiagge, a Tarena (vicino al confine panamense, ndr), oppure nelle piantagioni di banani, o nella giungla. Sono dappertutto». Ramón Santolaria, dell’antinarcotici della Catalogna, in Spagna, aggiunge che i trafficanti di cocaina hanno continuato a esportare verso l’Europa, forse nella speranza che il lockdown rallentasse i controlli nei porti: «I cartelli devono continuare a esportare. Sono come un’azienda, non possono tenersi troppe scorte, sarebbe troppo rischioso».

La produzione non si ferma

In Colombia, Paese che produce il 70% della cocaina mondiale, la situazione due mesi dopo l’entrata in vigore del lockdown non è uniforme. Le forze dell’antidroga hanno da allora sradicato 1969 ettari di piantagioni in tutto il Paese. Misure del genere, però, colpiscono solo i coltivatori delle foglie di coca, non i trafficanti: «Stanno portando via il poco che quella gente ancora aveva», spiega Jorge Elias Ricardo Rada, rappresentante di un sindacato di piccoli coltivatori della regione di Cordoba, che con i cartelli non ha niente a che fare

Un lavoratore delle piantagioni di coca nell’area rurale di La Paz (Colombia), dipartimento di Guaviare, mentre aggiunge componenti chimiche alle foglie di coca – Foto: © Juan Manuel Barrero

Nella regione di Catatumbo, vicino al confine venezuelano, «il business è praticamente paralizzato», spiega Giovanni Mejía Cantor, giornalista di Ocaña, capoluogo della regione. Normalmente quel territorio produce almeno 84 tonnellate l’anno di cocaina pura, ovvero un quarto della produzione totale del Paese. «Le comunità locali sono scese in strada a mettere barricate per impedire l’ingresso a qualsiasi estraneo, per paura del virus», prosegue Mejía. Queste limitazioni hanno ovviamente impattato anche sul movimento delle materie prime necessarie alla produzione: la foglia di coca, la benzina, l’acetone.

Le rotte attive durante il lockdown per portare la coca fuori dalla regione produttrice/OCCRP

Un documento dell’intelligence della Marina colombiana, ottenuto da Occrp, conferma che i cartelli hanno spedito la coca prodotta prima della crisi da coronavirus soprattutto verso gli Usa, il loro mercato principale. In questi anni i narcos hanno fatto largo uso di motoscafi superveloci, barche da pesca e sottomarini artigianali per rifornire la “rotta del nord”, che dal Messico entra negli Stati Uniti. La quarantena ha reso questi sistemi più difficili da usare e i cartelli sono tornati a usare vecchie piste, più lente e frammentate. In questi mesi i carichi arrivati in California sono meno numerosi, ma più grandi.

Diverse fonti nel nord della Colombia, incluso Raúl e un coltivatore di coca, hanno descritto a Occrp almeno sei rotte in uso ora per portare la coca fuori dalla regione produttrice. Alcune di queste sono antichi sentieri e passaggi fluviali tracciati dalle popolazioni indigene degli Embera e dei Katío, che trasportano la coca per brevi tratti a bordo di piccole imbarcazioni. Nella fitta giungla montagnosa del “tappo del Darien”, una regione stretta tra Colombia e Panama, la coca viene portata a spalla, da carovane composte da oltre venti persone con pesanti zaini.

Le rotte attive durante il periodo di lockdown/OCCRP

Le esportazioni verso il secondo mercato più importante al mondo, l’Europa occidentale, hanno sofferto meno problemi. Al contrario della rotta per gli Stati Uniti, quella atlantica si basa sullo sfruttamento di sistemi di trasporto legali via nave o aereo, in particolare carichi di frutta, verdura o fiori freschi. I prodotti alimentari hanno continuato a muoversi costantemente durante il lockdown, prestandosi così a rifornire anche il mercato della cocaina.

Ci sono ad esempio le banane colombiane, tra i carichi di copertura più usati per portare cocaina in Europa. «Chiunque, autorità, polizia o altro, cerchi di bloccare queste rotte fa una brutta fine», spiega il narcos Rául, aggiungendo che tanto le forze dell’ordine quanto gli imprenditori continuano a ricevere le tangenti necessarie a oliare il meccanismo. «Tutti devono mangiare», conclude.

Elicotteri della polizia colombiana in pattugliamento nel dipartimento di Nariño nel sud est del Paese. In questa area c’è la maggior concentrazione di colture di coca nel mondo – Foto: © Juan Manuel Barrero Bueno.

Al contrario della rotta per gli Stati Uniti, quella atlantica si basa sullo sfruttamento di sistemi di trasporto legali via nave o aereo, in particolare carichi di frutta, verdura o fiori freschi

La terza rotta della cocaina per importanza è quella che dai Paesi produttori, Colombia, Bolivia e Perù, passa dal Paraguay per arrivare in Brasile, da dove i panetti vengono imbarcati a Santos, il porto di Sao Paulo, per procedere verso l’Africa e poi l’Europa. Questa rotta, secondo Lincoln Gakyia, procuratore antimafia dello Stato di Sao Paulo, è ancora perfettamente funzionante. Il principale gruppo criminale della zona, il Primeiro Comando da Capital (Pcc), è riuscito a mantenere le forniture, ma sta comunque finendo le scorte che aveva nascosto sul territorio, aggiunge il procuratore brasiliano.

Spaccio e dark web

Con il lockdown si è dovuto riorganizzare anche lo spaccio. Pur avendo molte scorte sul territorio, chi vende cocaina al dettaglio ha comunque alzato i prezzi e aumentato la percentuale di taglio. Spacciatori e consumatori intervistati da IrpiMedia a Roma hanno spiegato come ci siano volute alcune settimane per mettere in piedi nuovi sistemi di distribuzione.

Durante questo periodo, i canali preferiti sono stati quelli delle consegne a domicilio, assieme al cibo per lo più, oppure effettuate da lavoratori che avevano modo di giustificare gli spostamenti. Un altro metodo molto usato è stato quello delle file al supermercato, una delle poche situazioni rimaste dove stare fermi per strada per molto tempo non appariva sospetto.

Ma la quarantena ha anche portato a un aumento del commercio sul dark web, quella parte della rete accessibile solo tramite specifici software che garantiscono l’anonimato dell’utente.

«Abbiamo visto un aumento nell’utilizzo del dark web anche in Italia – spiega Marco Sorrentino, comandante, del GICO (antimafia) della Guardia di Finanza di Roma – e vige la regola del “coronasale” ovvero gli sconti da Covid-19. Se parliamo di pacchi, il più piccolo che abbiamo sequestrato era 240 grammi, quindi comunque non parliamo di consumo personale».

Alcuni mercati sul dark web sembrano più mirati ai consumatori che agli spacciatori. «Offerta speciale Quarantena per tutti, sia che siate in isolamento o che siate ancora in giro, tutti i nostri ordini apparte i campioni (0.2 grammi) scenderanno moltissimo rispetto a qualsiasi altro ordine che farete durante questi tempi stressanti», pubblicizzava uno dei venditori in un mercato monitorato da IrpiMedia.

L’offerta di “cocaina colombiana” è aumentata in entrambi i mercati, dove i venditori si sono moltiplicati e dichiarano di garantire cocaina pura all’80% per 80 dollari (75 euro). Lo stesso prezzo al grammo della cocaina che si trova attualmente su strada, ma con un livello di purezza molto superiore. E i clienti sembrano apprezzare: «Servizio eccellente in tempi duri».

Distribuite tramite il circuito postale, le partite vengono spedite prevalentemente all’indirizzo personale degli acquirenti, anche se c’è chi preferisce ricevere la merce a degli indirizzi di raccolta (tabaccherie, drogherie) che, nell’epoca dell’e-commerce, offrono sempre più spesso questo tipo di servizi. Il passaggio alla dogana non può naturalmente essere garantito, ma il tutto avviene in modo molto sicuro, sigillando la merce in più contenitori sottovuoto come in una matrioska, per evitare l’attenzione delle forze dell’ordine e dei cani antidroga.

I vendor principali dichiarano di essere basati in Olanda, Germania e Inghilterra, e spediscono in tutta Europa: «L’aumento medio della domanda registrato nel dark web riguardo agli stupefacenti è del 30% da quando è iniziato il lockdown», spiega a IrpiMedia Giovanni Reccia, Comandante del Nucleo Speciale Privacy e Frodi Tecnologiche della Guardia di Finanza. Prima della crisi da Covid-19, la cocaina rappresentava circa il 15% di tutte le vendite di droga sul dark web superata dalla marijuana che rappresentava un quarto del mercato online.

«L’aumento medio della domanda registrato nel dark web riguardo agli stupefacenti è del 30% da quando è iniziato il lockdown»

Giovanni Reccia

Comandante Nucleo speciali privacy e frodi tecnologiche Guardia di finanza

Il trend dei sequestri

«Se confrontiamo i dati di marzo e aprile 2019 con questi mesi di lockdown, in Italia i sequestri di cocaina sono scesi dell’80%», spiega a IrpiMedia Riccardo Sciuto, generale dei carabinieri che dirige la Direzione Centrale Servizi Antidroga, l’organo di coordinamento italiano per indagini internazionali sul narcotraffico.

I magazzini, tuttavia, erano già ben riforniti e in pochissimo tempo le nostre mafie si sono riorganizzate per farsi arrivare i carichi in Spagna. Il trend era cominciato già prima della pandemia: i porti prediletti dalla organizzazioni criminali italiane sono tornati ad essere per lo più quelli spagnoli, dopo dieci anni in cui si preferivano quelli del nord Europa.

Lo confermano i dati sui sequestri: «Solo tra marzo e aprile le autorità spagnole hanno fermato oltre 14 tonnellate di cocaina, una cifra sei volte più alta di quella dell’anno precedente», dichiara a Occrp Manuel Montesinos, vicedirettore dell’intelligence delle dogane dell’autorità fiscale spagnola. «Siamo stupiti dal ritmo frenetico dei carichi – spiega Montesinos – ogni giorno riceviamo segnalazioni di sequestri o di operazioni sospette». E i carichi intercettati sono molto più grossi del passato. Tra la fine di marzo e la fine di aprile in Spagna ne sono stati sequestrati quattro importanti: 3 tonnellate il 28 marzo, 1.5 il 20 aprile, 1 il 21 aprile e ben 4 il 27 aprile.

17 aprile 2020, le unità della Marina colombiana intercettano e sequestrano nel Pacifico, nelle vicinanze del dipartimento di Cauca, 1,2 tonnellate di cocaina – Foto: Armada Nacional Colombia

Quest’ultimo carico era trasportato da un’imbarcazione di servizio, che di solito navigava nei pressi del porto di Colon, a Panama. Poi improvvisamente ha cambiato lavoro: dalla Colombia è partita dritta per le coste portoghesi attraversando l’Atlantico con quattro tonnellate a bordo. Un’operazione rischiosa che dimostra come per le consegne si tenti il tutto per tutto: di norma il carico sarebbe passato ad altre imbarcazioni più grandi, ma non questa volta. La barca è stata intercettata dalle dogane spagnole al largo delle coste della Galizia, regione del nordovest spagnolo. Almeno altri sette sequestri da oltre 100 chili sono avvenuti in Spagna nello stesso periodo.

«Non potendo fare entrare i carichi via mare a causa dei controlli intensi, le mafie italiane hanno concentrato le loro operazioni sulla Spagna, che da sempre trattano come una loro colonia», analizza Marco Sorrentino, comandante del GICO (antimafia) della Guardia di Finanza di Roma. I carichi sono stati inviati principalmente ad Algeciras (Spagna) o Barcellona, e da lì spostati su gomma nel resto d’Europa, nascosti tra frutta o farina di soia, che ha un aspetto molto simile alla cocaina.

«Non potendo fare entrare i carichi via mare a causa dei controlli intensi, le mafie italiane hanno concentrato le loro operazioni sulla Spagna, che da sempre trattano come una loro colonia»

Marco Sorrentino

Comandante del GICO della Guardia di finanza di Roma

Lavoratori nelle piantagioni di coca nelle aree rurali di La Paz. Uno di loro si protegge le mani dalle punture di zanzara con un tessuto apposito / © Juan Manuel Barrero. Scorri le immagini

I grandi porti del nord Europa continuano comunque a ricevere significativi carichi di cocaina, sempre nascosta nei container che vengono sbarcati a migliaia ogni giorno. «Non ci facciamo illusioni, i criminali continueranno a lavorare senza sosta», dice Fred Westerberke capo della polizia di Rotterdam. «Osserviamo sempre più attività al porto. Nelle scorse settimane abbiamo fermato moltissimi “raccoglitori”, persone incaricate dai narcos di svuotare i container di droga prima che li possiamo individuare» spiega, aggiungendo che dall’inizio del lockdown hanno arrestato oltre 40 raccoglitori”.

L’ultimo tratto per arrivare in Italia da Spagna o Olanda avviene su strada. Trenta chili sono arrivati dall’Olanda anche a Prato, in Toscana. Sono stati scoperti nell’auto di un uomo albanese che, fermato ad posto di blocco in seguito alle misure per l’emergenza Covid-19, si è lanciato in una folle corsa per la città. Messo alle strette, il narcos ha provato anche a investire degli agenti a piedi, che però hanno risposto sparando ai pneumatici della sua auto che ha così finito la corsa, svelando nel bagagliaio 26 panetti di cocaina e 140mila euro.

Per quanto efficaci siano stati i vari gruppi criminali nell’adattarsi alla situazione attuale, le difficoltà sono riflesse nei prezzi. Il comandante della DCSA, Riccardo Sciuto, spiega che i prezzi «sono cresciuti fra il 20 e il 30%». Un dettaglio confermato anche dalle autorità spagnole: un chilo di cocaina scambiato fra diversi gruppi criminali a 27mila euro l’anno scorso, oggi vale fra i 35 e i 37mila.

CREDITI

Autori

Cecilia Anesi
Antonio Baquero
Nathan Jaccard
Giulio Rubino

In partnership con

Editing

Lorenzo Bagnoli

Foto

Casadaphoto/Shutterstock
Juan Manuel Barrero

Hanno collaborato

Luis Adorno
Raffaele Angius
Aubrey Belford
Koen Voskuil

Illustrazioni

OCCRP

La cocaina non si ferma: 500 chili sotto terra a Gioia Tauro

31 marzo 2020 | di Cecilia Anesi

I controlli sul territorio delle forze dell’ordine dovuti al contenimento del contagio del coronavirus Covid19 stanno creando ben più di un grattacapo alle cosche calabresi. Lo scorso mercoledì la squadra mobile di Reggio Calabria ha rintracciato un grande carico di cocaina nelle campagne di Gioia Tauro. La scoperta è avvenuta nel corso della perquisizione di un capannone di Rocco Molè, 25 anni, figlio del boss ergastolano Girolamo Molè capo dell’omonima famiglia di ‘ndrangheta di Gioia Tauro.

La cosca Molè e i grandi traffici internazionali

I Molè sono una delle cosche di ‘ndrangheta più potenti, con migliaia di affiliati, in grado di organizzare grandi traffici di cocaina dall’America Latina da fare arrivare sia presso il porto di Gioia Tauro sia in porti del nord Europa, come Rotterdam. Alleati con la cosca Piromalli, i Molè di fatto controllano il porto di Gioia Tauro e anche in tempi difficili riescono a garantire un ingresso.

Un momento della perquisizione nell’agrumeto di Rocco Molè – Foto: Polizia di Stato

Tuttavia, visto il periodo, sembrano avere avuto delle difficoltà logistiche. Come consegnare 537 chili di cocaina senza essere scoperti, in un momento in cui il traffico veicolare è quasi sospeso e la distribuzione al dettaglio di stupefacenti è indubbiamente rallentata?

Per una parte del carico si può rischiare, ma la maggior parte meglio metterla sotto terra aspettando tempi migliori. Ecco quello che sembra essere successo nelle campagne di Sovereto, una località di Gioia Tauro.

Quando la polizia è entrata nel capannone, ha trovato delle ceste di plastica che nascondevano 150 panetti di cocaina sistemati, due per ogni busta di cellophane termosaldata, in 75 pacchi. Centosessantacinque chili pronti per una consegna, e che probabilmente i Molè sarebbero riusciti a trasportare nonostante le restrizioni da Covid19 nascosti in tir e furgoni di beni di prima necessità, come la frutta. Mezzi che sono autorizzati a muoversi lo stesso.

La strada verso Nord

I carichi che arrivano a Gioia Tauro prendono sempre la strada del nord, verso le piazze di spaccio delle grandi città italiane ed europee. Per questo anello della catena di distribuzione della droga, i grandi mercati dell’ortofrutta – da Fondi in provincia di Roma all’Ortomercato di Milano – diventano centri di smistamento fondamentali per i carichi di cocaina. In questo periodo però anche gli ortomercati soffrono la stretta anti-contagio.

Si può quindi presumere che alle cosche di ‘ndrangheta convenga muovere carichi piccoli, probabilmente da appoggiare in magazzini privati, grazie ad aziende ortofrutticole conniventi o addirittura controllate direttamente dai clan. È anche possibile che questo carico non si fermasse ai confini nazionali, ma andasse oltre. I Molè e i Piromalli hanno infatti una forte presenza in Germania, e una rete di trasporti che – seppure colpita dall’epidemia – non è ancora del tutto affondata.

La cocaina confezionata e pronta a partire verso nord dalle campagne di Gioia Tauro – Foto: Polizia di Stato

Nel controllare gli agrumeti attorno al magazzino, gli agenti della Mobile sono stati insospettiti da del terreno smosso di recente. Scavando un buon metro sotto terra con le pale, i poliziotti hanno scoperto la parte grossa del carico: 340 panetti divisi in pacchi sigillati con cellophane e poi ulteriormente coperti da un telo di plastica verde. I panetti erano marchiati alcuni con il logo “Tim”, altri con quello della nota squadra di calcio spagnola “Real Madrid”.

Un carico che avrebbe potutto fruttare 15 milioni alle cosche

Rocco Molè è stato arrestato in flagrante, e ha confessato che la cocaina fosse di sua proprietà. Ci sono accertamenti in corso per determinare la provenienza del carico, da quanto tempo stesse sotto terra, e a chi e dove fosse destinata. Raramente un carico così grande è di una sola persona, ma fa capo a un consorzio di compratori.

Stando ai prezzi riscontrati in precedenti operazioni antidroga internazionali, la ‘ndrangheta riesce ad acquistare direttamente in Colombia un carico come questo, da 500 chili, pagando fra i tremila e i cinquemila euro al chilo. Se Molè fosse però davvero l’unico proprietario di questa cocaina, significherebbe un investimento di una cifra vicina ai due milioni di euro. Nel venderla ad altri clan, stando ai “prezziari” più recenti, avrebbe potuto metterla a 30mila euro al chilo, incassando 15 milioni di euro.

Rocco Molè non è stato l’unico a fare le spese dell’isolamento forzato: lo scorso 13 marzo è stato Cesare Antonio Cordì, 42enne personaggio di spicco dell’omonima cosca di Locri. Sfuggito alla giustizia nell’agosto scorso nell’ambito dell’operazione “Riscatto” è stato rintracciato dai carabinieri in una zona isolata di Bruzzano Zeffirio quasi del tutto disabitata. La necessità di farsi recapitare beni di prima necessità e una sigaretta accesa alla finestra hanno messo i militari sulle tracce di Cordì che hanno messo fine alla sua fuga.

Foto: Vista del porto di Gioia Tauro – Vincenzo Fondacaro/Shutterstock

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