Boris, il lord e la spia russa

Boris, il lord e la spia russa

Cecilia Anesi
Ludovico Tallarita

La brezza di fine di aprile iniziava a farsi sentire anche tra i tavolini e gli ombrelloni bianchi, disposti ordinatamente sul pratino all’inglese. Tirava dal bosco, che avvolge la magione in una buia morsa ovattante. Dalla lontana strada in fondo alla vallata, a guardare lungo quell’imbuto naturale, si distinguevano le lucine di una festa, il clamore degli ospiti mischiato ai bassi della musica. Un mondo distante in tutti i sensi, quello contenuto da Palazzo Terranova, rispetto alla manciata di edifici che sorgono nella frazione di Ronti, quaranta anime appena, strette tra i campi e i boschi a dieci chilometri dal comune umbro di Città di Castello. Nella lussuosa residenza invece, un palazzo di tre piani ispirato alle ricche tenute medicee, l’elegante cena aveva ormai lasciato posto a una festa, anzi un festino. Escort tra le più belle al mondo, vassoi di sostanze stupefacenti e travestimenti – almeno così riferiscono a IrpiMedia persone presenti all’evento. Dietro le maschere, vip del mondo dello spettacolo e del cinema inglese, ma anche un politico di peso: l’allora ministro degli Esteri del Regno Unito, Boris Johnson.

Qui, all’ombra del monte di Santa Maria Tiberina, tra le isolate campagne umbre di Ronti dove nulla fa presagire la presenza di sfarzo e potere, i servizi segreti italiani hanno monitorato per anni ogni movimento. È il 28 aprile 2018, ed è la data che dà inizio a uno scandalo internazionale. Quella mattina, l’allora Ministro degli Esteri inglese Boris Johnson stava partecipando a un summit della Nato a Bruxelles. All’ordine del giorno c’era l’avvelenamento di due cittadini russi sul suolo britannico: uno di loro è una ex spia doppiogiochista al servizio degli inglesi. Johnson, però, abbandona la riunione Nato prima del termine e, senza scorta, raggiunge palazzo Terranova per il party organizzato dai padroni di casa: una famiglia di oligarchi russi, i Lebedev. 

È già qualche anno che a Palazzo Terranova vengono ospitate quelle che l’intelligence italiana definisce «feste a luci rosse». Ma attenzione a classificarle come frivoli eventi goderecci: secondo il Copasir – il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica – il pater familias, Alexander Lebedev, è in Italia per partecipare a «operazioni di spionaggio e interferenza» volte ad acquisire influenza e avviare affari nel settore immobiliare, finanziario ed energetico.

Adesso, una collaborazione internazionale di IrpiMedia, Occrp e Channel4 – coordinata dalla casa di produzione cinematografica True North e andata in onda con il documentario “Boris, the Lord and the Russian Spy” su Channel4 – svela i retroscena dell’ingerenza russa in Inghilterra, portata avanti da Alexander Lebedev e arrivata fino ai vertici del potere. IrpiMedia ha ricostruito inoltre come le relazioni intessute in Umbria siano servite a curare interessi anche in Italia, compresi quelli rivolti al settore energetico.

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L'inchiesta in breve
  • Nel 2018 a Palazzo Terranova, in Umbria, ha origine uno scandalo internazionale. L’allora ministro degli Esteri inglese Boris Johnson lascia un summit NATO dove si discute delle crescenti ostilità russe e, senza scorta, raggiunge un party organizzato da una famiglia di oligarchi russi, i Lebedev. 
  • I Lebedev in Inghilterra sono imprenditori rispettati, ma non tutti credono alle dimissioni di Alexander dal Kgb nel 1992. Tra chi solleva dubbi c’è l’intelligence italiana, che monitora i Lebedev da quando acquistano proprietà in Umbria. Per gli 007, Alexander è in Italia per partecipare a «operazioni di spionaggio e interferenza».
  • Tra le attività imprenditoriali dei Lebedev c’è l’acquisto di giornali: Novaya Gazeta, The Independent e Evening Standard. È con quest’ultimo, sopravvissuto soltanto grazie alle donazioni dell’ex spia del Kgb, che i Lebedev sostengono la scalata politica di Boris Johnson.
  • Johnson ha visitato frequentemente le ville umbre dei Lebedev, dove secondo l’intelligence italiana avvenivano «feste a luci rosse» e dove si teme che i russi abbiano raccolto materiale compromettente e spiato le conversazioni degli ospiti. 
  • Una collaborazione tra Channel4, True North, OCCRP e IrpiMedia è in grado di svelare la portata dell’operazione di ingerenza russa dei Lebedev. 
  • IrpiMedia ha inoltre ricostruito come l’Umbria abbia ospitato relazioni fondamentali per la gestione di interessi commerciali che includono il settore energetico e l’allora Console onorario di Grecia a Perugia.

Vizi di famiglia: la ex spia e il barone degli Hampton e della Siberia

Il 63enne moscovita Alexander Lebedev è stato a lungo incluso nella lista dei 400 uomini più ricchi al mondo stilata dalla rivista statunitense Forbes, anche se dal 2008 in poi la sua fortuna ha subito un forte ridimensionamento. D’altronde Lebedev raramente perde l’occasione per rimarcare come in Russia venga trattato alla stregua di un dissidente politico. È vero, detiene un quantitativo importante di asset strategici disseminati tra Aeroflot, Gazprom e Sberbank, ma insegue una passione apparentemente scomoda, legata al mondo dell’editoria: insieme all’ex presidente dell’Unione Sovietica Michail Gorbaciov aveva rilevato metà della proprietà del quotidiano Novaya Gazeta – la testata giornalistica nota per aver pubblicato le inchieste anti-Putin della giornalista Anna Politkovskaja, assassinata nell’ascensore del suo condominio nel 2006. Lebedev ha smesso di finanziare attivamente la testata nel 2015 ma viene ricordato come un buon editore dai giornalisti della Gazeta, che durante la sua permanenza non hanno segnalato ingerenze riguardanti la linea editoriale. 

Il suo approccio alla stampa in Inghilterra, invece, è stato diverso. Insieme a suo figlio Evgeny, Alexander Lebedev ha rilevato la proprietà di due quotidiani: l’Independent e l’Evening Standard. Di quest’ultimo, in particolare, ha stralciato il prezzo di vendita, provvedendo a distribuirlo gratuitamente nei pressi delle fermate della metro di Londra e aumentando vertiginosamente la circolazione del quotidiano in breve tempo. I Lebedev nel Regno Unito sono talmente rispettati che Evgeny prende parte regolarmente a eventi di beneficenza insieme a profili politici di spessore, come quando nel 2015 ha dormito in sacco a pelo insieme all’allora sindaco di Londra Boris Johnson per raccogliere fondi destinati ai veterani di guerra senza fissa dimora. Proprio per i suoi meriti filantropici, qualche anno più tardi, Evgeny verrà nominato membro a vita della Camera dei Lord inglese con il titolo di Barone degli Hampton e della Siberia. 

L’ingresso nella società inglese dei Lebedev, tuttavia, è stato accompagnato sin dall’inizio da critiche. Per sua stessa ammissione, Alexander ha lavorato come spia del Kgb – i servizi segreti sovietici – sfruttando un impiego fittizio come terzo segretario dell’ambasciata sovietica a Londra tra il 1988 e il 1992, anno in cui sarebbe stato obbligato a rassegnare le dimissioni dai servizi segreti russi dopo aver avviato un percorso imprenditoriale indipendente. 

È allora che inizia la sua scalata nella finanza russa che lo porterà a diventare uno degli uomini più ricchi al mondo. Insieme a collaboratori provenienti, come lui, dal mondo dello spionaggio russo in Inghilterra, apre la Russian Investment Finance Company (Rifc) e nel ‘95 rileva la National Reserve Bank (Neb), all’epoca un piccolo istituto bancario in grave difficoltà e oggi annoverata dal Copasir «tra le principali banche russe e che nel tempo avrebbe avuto consolidati rapporti con l’Fsb» – il nome acquisito dai servizi segreti dopo la proclamazione della Federazione Russa. 

L’ascesa di Lebedev ben rappresenta un fenomeno tipico degli anni ‘90, quando in Russia gli asset strategici della nuova economia privatizzata erano un boccone appetitoso per le ex spie del Kgb e sono stati depredati: gli ex sodali dell’intelligence sovietica erano legati tra loro a doppio filo e insieme puntavano all’alta finanza. 

Alexander Lebedev, editore dell’Evening Standard e dell’Independent, parla alla cerimonia Journalists Memorial Rededication al Newseum, Washington D.C. – Foto: AFP PHOTO/MIKE THEILER (Photo credit should read MIKE THEILER/AFP via Getty Images)

Quelle dimissioni “Poco chiare” dal Kgb

Tra le istituzioni che sollevano dubbi sul fatto che Alexander Lebedev abbia dismesso del tutto i panni da spia nel 1992 c’è anche l’intelligence italiana, che monitora la sua presenza in Italia a partire dal 2008, anno in cui compie operazioni immobiliari in Umbria per decine di milioni di euro

Secondo i nostri apparati di sicurezza, Lebedev avrebbe preso parte a «operazioni di spionaggio e di ingerenza» volte a «condizionare le scelte societarie e governative» dei Paesi in cui l’oligarca svolge affari, tra cui anche l’Italia. Una valutazione che avrebbe dovuto preoccupare non solo il governo italiano, ma anche gli apparati di sicurezza inglesi, visto che gli immobili dei Lebedev in Umbria sono stati visitati da figure di spicco della politica britannica, tra cui due ex primi ministri come Tony Blair e il già citato Boris Johnson.

Il rapporto stilato dagli 007 è parte di un resoconto più ampio sulle ingerenze russe in Italia. La deputata parlamentare e vicepresidente della Commissione Esteri Lia Quartapelle, che ha potuto consultare il rapporto, ritiene che le proprietà umbre dei Lebedev possano essere «parte integrante di una rete di contatti» e di una «strategia di influenza» attiva in Italia. Motivo per cui la nostra intelligence monitorava con attenzione sia le personalità presenti nelle dimore umbre che la frequenza delle visite, ha riferito la parlamentare.

Stando al dossier, che nel 2019 è arrivato fin sulla scrivania dell’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il percorso imprenditoriale avviato da Lebedev nel 1992 non fu motivo di conflitto con il Kgb, anzi: l’ex tenente colonnello avrebbe avviato la sua carriera «sfruttando le entrature acquisite grazie al lavoro da agente».

Secondo il Copasir, Lebedev sarebbe ancora oggi un asset del governo russo e godrebbe «del favore dell’amicizia di Vladimir Putin». L’amicizia è sicuramente di lunga data, e abbastanza stretta da permettere a Lebedev padre di cercare un ruolo di primo piano. Nel corso di questa inchiesta sono state infatti rinvenute diverse lettere scritte da Lebedev senior e indirizzate a Vladislav Surkov, uno dei consiglieri più fidati di Vladimir Putin e una delle menti dietro l’occupazione della Crimea. Si tratta di lettere scritte poche settimane dopo l’invasione del 2014, in cui Lebedev invita i leader mondiali a prendere parte a una conferenza di pace in una struttura di sua proprietà in Crimea. 

E mentre Lebedev padre cercava di ritagliarsi uno spazio come mediatore in ambito internazionale, suo figlio Evgeny partecipava a un talk-show televisivo inglese, spiegando agli spettatori che «la Crimea è da molti, molti anni, molti secoli, parte della Russia e soltanto recentemente è diventata Ucraina».

Evgeny Lebedev ha dichiarato a IrpiMedia che «le accuse mosse ad Alexander Lebedev, che lo descrivono come coinvolto in attività di spionaggio e interferenza negli affari italiani, sono insensate».

Alexander Lebedev e Evgeny Lebedev all’Animal Ball 2016 presentato dalla Elephant Family a Victoria House, November 22, 2016 a London, Inghilterra – Foto: David M. Benett/Dave Benett/Getty Images per la Elephant Family

Amicizie consolari e accordi energetici

Dalla diplomazia all’energia, il passo è breve. Secondo il rapporto del Copasir Lebedev sarebbe stato coinvolto anche «in tentativi di Gazprom (e del governo russo, suo principale azionista) di acquisire una posizione di controllo sulla filiera mondiale della distribuzione delle risorse energetiche». L’oligarca avrebbe lavorato per aprire nuove relazioni energetiche in Italia, in particolar modo per quanto riguarda il progetto – ormai abbandonato – del gasdotto South Stream.

Nello specifico, per perpetrare gli interessi russi in Italia, Lebedev si sarebbe avvalso dell’allora console onorario di Grecia, Nikolaos Christoyannis, all’epoca di stanza a Perugia. Un uomo che conosce bene il panorama italiano: la sua attività consolare in Italia è attestata sin dal 1986. Secondo il Copasir, Christoyannis avrebbe accompagnato Alexander Lebedev in molti dei suoi viaggi italiani e sarebbe stato «all’uopo indottrinato» dai russi. Ma c’è di più: la nostra intelligence pone in diretta relazione l’arrivo dei Lebedev in Umbria nel 2008 con la nomina di Christoyannis a direttore del ramo aziendale greco della Ghizzoni Spa, una società con sede a Ferrandina, in provincia di Matera, specializzata nella produzione di condotti ad alta pressione per il trasporto di petrolio e gas naturale liquefatto oltre che nella costruzione di stazioni di pompaggio e compressione del gas stesso.  

La Ghizzoni avrebbe dovuto contribuire alla realizzazione del gasdotto South Stream, un progetto controverso anche perché prevedeva una joint-venture tra Eni e Gazprom. L’avvicinamento tra il gigante energetico italiano e il suo omologo russo non veniva visto di buon occhio dai partner internazionali. In quegli anni, infatti, era in corso un braccio di ferro tra l’Unione Europea e la Russia per la realizzazione di un gasdotto che permettesse al Vecchio Continente di far fronte al suo crescente fabbisogno energetico. I due progetti in competizione erano il Nabucco, sostenuto da diversi Paesi UE, e il South Stream, sponsorizzato da Gazprom, e che avrebbe coinvolto diverse multinazionali europee tra Eni, Wintershall, Edf.

La preferenza di Eni accordata a Gazprom e al South Stream preoccupava anche i funzionari dell’Ambasciata statunitense a Roma. In seguito a un incontro avvenuto il 18 marzo del 2008 tra il consigliere economico dell’Ambasciata e Marco Alverà, all’epoca Head of Gas Supply & Portfolio Development, l’Ambasciata Usa mandò il seguente cablogramma a Washington, emerso grazie a Wikileaks: «Il briefing di Eni ricordava il linguaggio ambiguo di tipico stampo sovietico. Secondo Eni, la sicurezza energetica europea verrebbe rafforzata – non indebolita – attraverso nuovi gasdotti verso la Russia. Secondo Eni, nel confronto energetico tra Russia e Ucraina, i cattivi sono gli Ucraini – non i Russi. Parlando con Eni a volte si ha l’impressione di parlare con Gazprom».

In questo complesso scacchiere internazionale, Christoyannis agiva come responsabile legale del ramo d’azienda greco della Ghizzoni SpA, come ha potuto verificare IrpiMedia. È un ruolo importante, poiché il ramo basso del South Stream sarebbe dovuto passare proprio dalla Grecia prima di arrivare in Puglia. Gli investimenti non trovarono mai un riscontro effettivo in quanto il progetto South Stream non venne realizzato. La Nuova Ghizzoni SpA (nuova forma della società) non ha risposto alle domande di IrpiMedia, ma i suoi vertici manageriali sono comunque risultati del tutto estranei ai rapporti, sui quali si è concentrata l’attenzione dei nostri apparati di intelligence, autonomamente coltivati da Christoyannis con i propri referenti russi. 

Ad oggi la Ghizzoni SpA Greek Branch risulta essere chiusa, ma dall’elenco incarichi della Ghizzoni Spa emerge un compenso di 50mila euro a Nikolaos Christoyannis in virtù di un contratto stipulato nel 2017 come consulente legale per aiutare il ramo aziendale greco della Ghizzoni a smaltire le pratiche con clienti e fornitori.

Il legame tra la Russia e la famiglia Christoyannis coinvolge anche Konstantinos, figlio di Nikolaos, succeduto al padre come console onorario di Grecia a Perugia nel 2013. Konstantinos, oltre a partecipare a eventi in Umbria che promuovevano interessi convergenti tra Italia, Grecia e Russia, è stato supervisor legale delle elezioni presidenziali in Russia nel 2018, oltre che della privatizzazione del porto di Salonicco, acquistato dall’oligarca greco-russo Ivan Savvidis.

Contattato per un commento, Konstantinos Christoyannis ha detto: «Né io né mio padre abbiamo informazioni alcune né tantomeno conosciamo direttamente o indirettamente la famiglia Lebedev, o persone riconducibili alla stessa». Non è stato invece possibile raggiungere il padre, Nikolaos Christoyannis.   

Oggi a Perugia, il Consolato di Grecia è chiuso. Nikolaos Christoyannis sembra aver lasciato l’Italia, mentre Konstantinos Christoyannis si è trasferito a Roma per lavorare nel settore della governance ambientale, sociale e aziendale.

La montagna dei russi nel cuore d’Italia

I Lebedev arrivano in Italia in punta di piedi. Entrano a Palazzo Terranova prima come turisti di lusso, e poi fanno un’offerta irrinunciabile. I vecchi proprietari inglesi – che avevano costruito il palazzo sopra i resti di una vecchia porcilaia – vengono convinti dall’affabilità di Alexander, e nel 2006 vendono l’attività ricettiva di country house, compresi i contratti con il personale, l’arredamento, macchinari agricoli e parco auto per 729 mila euro. Poco meno di un milione, a cui poi si aggiunge un pagamento aggiuntivo per l’immobile. 

In nome della discrezione i Lebedev acquistano anche le proprietà intorno al Palazzo: boschi, terreni, dei ruderi che tagliano la strada e un casale sul versante opposto, proteggendo la proprietà con telecamere e filo spinato. Tutto sembra voler scoraggiare le incursioni dei curiosi: in auto ci si arriva inerpicandosi sul crinale, sempre più scosceso, costeggiando una valle a imbuto, fino al cancello della villa. La strada lì si blocca, prosegue sulla destra ma diventa inagibile. La riservatezza è totale, e a raccontare cosa avvenisse davvero nel Palazzo, non si trova nessuno. «I dipendenti ed ex dipendenti hanno degli accordi di riservatezza (Nda) pazzeschi, con richieste di danni milionari in caso di rivelazioni», ha spiegato a IrpiMedia un giornalista della zona. Anche lui non è stato autorizzato a rilasciare commenti ufficiali da parte del direttore della testata per cui lavora. Ma qualcosa ha visto: c’era «un servizio d’ordine pubblico rafforzato in certe date estive, con numerosi agenti di polizia dispiegati. Come si fa quando viaggiano i primi ministri. Dubito che sia stato ordinato dal commissariato di Città di Castello, è chiaro che gli ordini arrivavano da più in alto», spiega il giornalista. Per le istituzioni della zona, la presenza è stata «invisibile». Il sindaco dell’epoca (2018), Luciano Bacchetta, sostiene di non avere mai incontrato né i Lebedev, né Boris Johnson. «Se la loro presenza c’è stata, è stata una presenza fantasma».

Una veduta di Palazzo Terranova – Foto: True North

E un fantasma, si sa, non può che trovarsi un castello. Lord Lebedev lo troverà a 40 chilometri da Palazzo Terranova, più a sud, appena dietro Perugia. Due anni dopo l’acquisto di Palazzo Terranova, nel 2008, Lebedev acquista anche il castello di Procopio: un rudere sulla cima del Monte Tezio, uno dei monti più mistici dell’Umbria, avvolto da foreste millenarie e da una vista mozzafiato sui Sibillini. 

Il rudere era stato acquistato a marzo 2008 da un piccolo imprenditore di Gubbio che ha uno dei più grandi negozi fantasy del centro Italia e un sogno: a Procopio voleva costruire il primo villaggio medievale dell’Umbria, castello e ponte levatoio inclusi, dove organizzare giochi di ruolo e vita secondo lo stile dell’epoca. Quello che non aveva calcolato è che di lì a poco «un ricco imprenditore inglese» gli avrebbe fatto un’offerta irrinunciabile: due milioni di euro per un rudere che lui aveva pagato meno di un terzo.

«Il mio vicino mi ha detto che c’era un suo amico interessato, che era una persona seria. Io non volevo vendere, volevo costruire il mio sogno. Ma chi può permettersi di rifiutare una tale offerta?», spiega l’uomo circondato da antiche spade e con la certezza di essersi fatto soffiare il castello dei sogni. Lebedev non lo guarderà mai negli occhi. A firmare per la Santa Eurasia srl (la società con cui l’oligarca possiede entrambi gli immobili in Umbria) è Roger Ingold, un intermediario svizzero di fiducia.

«Il vicino di casa», invece, sarebbe stato Alessio Carabba Tettamanti, un avvocato italiano di nobili origini. Tramite una società di famiglia, i Carabba Tettamanti posseggono una gigantesca porzione del Monte Tezio: tenute, borghi, un castello e una strada attraversa il monte fino al versante opposto. 

I media inglesi chiamano il Monte Tezio la “Montagna dei russi” perché sulle sue pendici oltre alla dimora dei Lebedev, c’è anche la tenuta di un’altra ricchissima famiglia russa, gli Yakunin. Si tratta di un golf club, l’Antognolla Golf, che contiene anche un castello in ristrutturazione: è di proprietà di Andrei Yakunin, figlio anche lui di un ex agente del Kgb, Vladimir Yakunin, che è stato anche presidente delle ferrovie russe dal 2005 al 2015. 

«Non ho mai incontrato Yakunin», ha dichiarato Evgeny Lebedev a IrpiMedia. I due, che non risulta abbiano investimenti assieme in Umbria, si sono affidati a un comune contatto: sempre Alessio Carabba Tettamanti. Quest’ultimo è infatti azionista di minoranza sia in Santa Eurasia, società di Evgeny Lebedev, sia in Antognolla spa, di Andrei Yakunin.

Come riferisce lui stesso a IrpiMedia, conosce Lebedev da oltre 15 anni e Yakunin dal 2013 «quando ha investito nella Antognolla SpA e nel suo progetto turistico», del quale Carabba Tettamanti è socio «sin dal 2010». Per quanto riguarda il suo coinvolgimento nella Santa Eurasia Srl – la compagnia di Evgeny Lebedev – Carabba Tettamanti afferma: «L’1% è a me intestato in via esclusivamente fiduciaria, quale avvocato di Evgeny Lebedev, al fine di mantenere la pluralità formale dei soci».

È una legale del suo studio, e amministratrice unica della Santa Eurasia, a firmare l’opposizione alla richiesta di accesso agli atti inviata da IrpiMedia ai comuni di Città di Castello e di Perugia per poter visionare le pratiche edilizie del Castello di Procopio e di Palazzo Terranova. Arrecano pregiudizio alla tutela dei dati personali e all’attività economica, scrive l’avvocata. La pubblica amministrazione, dal canto suo, ha scelto di privilegiare l’interesse commerciale di un oligarca russo, invece che assicurare trasparenza, negando l’accesso ai documenti.

Una veduta del Castello di Procopio – Foto: True North

Londongrad e il Kompromat

Il viavai di politici di spessore, tra cui Tony Blair e Boris Johnson, che caratterizza le proprietà umbre dei Lebedev è un dato che desta preoccupazione all’interno degli apparati di sicurezza oltremanica. Matthew Dunn, ex agente dell’Mi6 – l’equivalente inglese dell’Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna – ha ricordato che «i politici non sono addestrati a gestire situazioni del genere. Si mettono immediatamente in una posizione estremamente vulnerabile – ha affermato Dunn – approcciarsi in modo ingenuo o indifferente significa mostrare il fianco alla possibilità di diventare vittima di ricatto». 

È anche per questo che i servizi di intelligence inglesi erano particolarmente preoccupati dalle visite di Johnson a Palazzo Terranova quando ricopriva la carica di ministro degli Esteri. Sia perché viaggiava senza scorta, e non aveva avvisato il gabinetto, sia perché le conversazioni dei presenti erano di fatto vulnerabili. «A quelle feste poteva succedere qualsiasi cosa. Anche i numeri di telefono e il traffico telefonico dei presenti potevano essere intercettati facilmente», ha dichiarato l’ex capo del dipartimento russo dell’Mi6 Christopher Steele. 

La totale rottura di protocollo da parte di Boris Johnson nel 2018 sancì l’inizio dei lavori di una Commissione parlamentare inglese a causa del timore che il politico fosse stato vittima di un vero e proprio Kompromat. All’epoca Johnson tentò di affermare che Lebedev padre non fosse presente all’evento che si è tenuto il 28 aprile 2018, salvo essere smentito dallo stesso Alexander qualche mese dopo.

Boris Johnson, Evgeny Lebedev e Rachel Johnson alla celebrazione dell’evento “Evening Standard’s 1000 Most Influential Londoners” ospitato dal giornale inglese al Burberry Regent Street il sette novembre 2012 a Londra, Inghilterra – Foto: Dave M. Benett/Getty Images

Tra Johnson e i Lebedev c’è un’amicizia di lunga data, frutto anche del sostegno alle sue campagne politiche sposate dai quotidiani inglesi dei Lebedev. Grazie all’inchiesta di IrpiMedia, True North e OCCRP è stato possibile dimostrare come la gestione di entrambi i giornali inglesi Evening Standard e Independent, generasse una continua emorragia di denaro. Inoltre, i conti della società attraverso cui i Lebedev controllavano i quotidiani – la Lebedev Holdings Limited – dimostrano come la sopravvivenza delle testate dipendesse esclusivamente dalla generosità dell’ex spia Alexander, che tra il 2009 e il 2015 ha prestato almeno 115 milioni di sterline al progetto editoriale. In altre parole, i Lebedev hanno finanziato una gestione aziendale a perdere sostenendo, tra le altre cose, le battaglie politiche di Johnson

La vicinanza di Boris Johnson a un oligarca, tuttavia, non è l’unico elemento attenzionato dagli apparati di sicurezza inglesi, che da anni monitorano la crescente presenza russa a Londra e in tutta la Gran Bretagna. Nel novembre 2017 ha inizio un’indagine formale, il cui risultato è contenuto in un dossier – il cosiddetto “Russia Report” – che arriva sulla scrivania del primo ministro inglese il 17 ottobre 2019. La carica è già ricoperta da Boris Johnson, subentrato a fine luglio alla premier dimissionaria Theresa May, grazie al sostegno del partito conservatore. Per legittimare la sua posizione nei confronti dell’elettorato vengono indette nuove elezioni per il 12 dicembre 2019. Johnson, in attesa del voto, non ritiene opportuno pubblicare il dossier sulle ingerenze russe.

Quando Johnson viene confermato primo ministro, decide di festeggiare la vittoria proprio a casa dei Lebedev, a Londra. Tra le personalità di spicco presenti per l’occasione ci sono altri esponenti di punta del partito conservatore, come George Osborne, all’epoca redattore dell’Evening Standard di proprietà di Lebedev ed ex ministro delle finanze.

Non passa molto tempo prima che Boris Johnson ripaghi i Lebedev per il sostegno ricevuto durante la sua carriera politica. A marzo 2020, poco più di tre mesi dopo aver vinto le elezioni, Johnson propone Evgeny come membro a vita della House of Lords, rigettando il parere del comitato per la selezione dei lord (Holac) e addirittura ignorando quello dell’Mi6. Stando alle testimonianze raccolte a margine dell’inchiesta, due agenti dei servizi segreti inglesi si sarebbero recati di persona a Downing Street per illustrare al neo primo ministro le ragioni che rendevano Evgeny Lebedev inadatto alla nomina. Ma Johnson, furioso, avrebbe definito la richiesta «russofobica», proseguendo per la sua strada. 

Secondo Christopher Steele, ex capo del dipartimento russo dell’Mi6, si trattò del primo caso nella storia inglese in cui una nomina al parlamento ha costituito un rischio per la sicurezza nazionale. In quei giorni poi – riferiscono fonti informate sui fatti – ha avuto luogo un evento senza precedenti: alcune cariche istituzionali, seriamente preoccupate dalla possibilità che Evgeny Lebedev diventasse Barone, si rivolsero direttamente alla Regina Elisabetta, l’unica persona con il potere formale di bloccare la nomina. Buckingham Palace, però, rifiutò di intervenire per paura di politicizzare la figura della monarca. 

Boris Johnson ha dichiarato a Channel4 di rimanere un sostenitore della nomina di Evgeny Lebedev alla House of Lords e che è stata rispettata la normale procedura, negando di avere ignorato i consigli dei reparti di sicurezza. Mentre Evgeny Lebedev ha dichiarato che «Johnson è cosciente del consiglio dei reparti di sicurezza, e non ritiene che alcun tentativo sia stato fatto dai reparti per persuadere il primo ministro a ritirare la candidatura». 

Il famigerato Russia Report venne diffuso soltanto il 20 luglio del 2020. Ovvero, una decina di giorni prima che Evgeny diventasse Barone. In uno dei passaggi divenuti più noti afferma che la «penetrazione russa è la nuova normalità».

Oggi a Palazzo Terranova fervono i preparativi per la nuova stagione estiva. D’altronde, la ricca tenuta non è congelata perché né Alexander né Evgeny sono stati toccati dalle sanzioni europee contro gli oligarchi russi considerati vicini a Putin. Sono solo due i Paesi che la pensano diversamente, l’Ucraina e il Canada.

Dennis Molinaro, ex analista dei servizi segreti canadesi, ritiene preoccupante come a livello politico, sia in Inghilterra che in Europa, non si sia fatto nulla per limitare l’influenza di Lebedev. «Il rischio è che lui sia nelle condizioni di porre fine alla carriera politica di alcuni personaggi – ha spiegato l’analista – non credo sia possibile per una persona come Alexander, in passato così legato al Kgb, semplicemente terminare quella carriera. In particolar modo se il governo russo riconosce la sua rete di contatti all’infuori del Kgb come potenzialmente utile. Ritengo che il rapporto con le agenzie di intelligence dello Stato russo sia ancora attivo».

CREDITI

Autori

Cecilia Anesi
Ludovico Tallarita

Editing

Giulio Rubino

In partnership con

True North
Channel4
OCCRP

Foto di copertina

Dave M. Benett/Getty Images

Gli agenti della propaganda russa

#OperazioneMatrioska

Gli agenti della propaganda russa

Cecilia Anesi
Lorenzo Bagnoli
Martin Lane

«Non so a che ora sia la cena», scrive Marina. «Non importa, gli italiani amano mangiare e bere – sempre!!», replica Robert. «Dimenticavo. I regali sono importanti per i giornalisti, visto che ce ne sarà una folla. Molti fotografi», ricorda Marina. «Certamente. Porteremo un sacco di bei regali e i vini migliori, vetri di Murano, dobbiamo solo sapere per quante persone», replica Robert entusiasta. “Marina” è Marina Klebanovich, attivista russo-polacca con un’ampia rete di contatti nell’ambiente delle destre europee. Si sta scambiando messaggi con Robert Stelzl, noto attivista pro Russia austriaco. Nonostante il tono molto informale, la comunicazione ha uno scopo ufficiale: Klebanovich è la segretaria di Sargis Mirzakhanian, un lobbista russo esperto di comunicazione che ha superato da poco la trentina, dal volto pulito e paffuto, spesso sorridente nelle foto che appaiono sui social.

Lavorando per Mirzakhanian, Marina da due mesi è impegnatissima nell’organizzazione, a ottobre 2016, di una visita di una delegazione di politici e imprenditori italiani in Crimea, all’epoca già sotto sanzioni. Obiettivo ufficiale del viaggio era aumentare gli scambi commerciali, nonostante le disposizioni europee. Non è l’unico evento del genere a cui lavora Klebanovich: ce n’era stato in precedenza uno a maggio 2016 e ce ne sarà un altro ad aprile 2017. Gli italiani sono spesso presenti: politici per lo più di Consigli regionali accompagnano delegazioni di imprenditori.

Oltre alla ricerca di nuovi business, si creano anche alleanze politiche che mirano a ostacolare il piano europeo di sanzionare la Russia. La regia unica di questi incontri è rimasta un segreto fino a quando un gruppo di attivisti ucraini ha hackerato la casella di posta di Sargis Mirzakhanian.

L’inchiesta
L’inchiesta – che IrpiMedia pubblica insieme a Eesti Ekspress (Estonia), Occrp, iStories (Russia) e Profil (Austria) – analizza la campagna di propaganda del think tank russo diretto da Sargis Mirzakhanian, l’International Agency for Current Policy (IACP). Bersaglio delle attività dell’organizzazione non è stata solo l’Italia, ma anche l’Austria, la Germania, la Bulgaria, la Grecia, Cipro, la Lettonia, la Romania e la Turchia.

Le informazioni di cui diamo conto provengono da un corpo di circa 20 mila email hackerate da attivisti ucraini, risalenti al periodo tra il 2007 e il 2017. Alcune di queste comunicazioni, sono già apparse su alcuni media internazionali.

Qui l’inchiesta in inglese su Occrp e il capitolo in inglese sui politici italiani.

Sargis Mirzakhanian, il megafono della propaganda

Le e-mail – oltre 20 mila – dimostrano che Mirzakhanian era in contatto con diversi alti papaveri del Cremlino. L’organizzazione del lobbista, che non risulta sul registro imprese russo, si chiama International Agency for Current Policy, IACP. Non si conoscono le sue fonti di finanziamento, eppure, come scrive Marina Klebanovich nella mail, il think tank si è prodigato per finanziare incontri, conferenze, viaggi di osservatori internazionali. In alcune presentazioni interne, si legge che l’organizzazione si definisce «un ristretto gruppo di professionisti» che si riunisce con lo scopo di «cooperare con i principali partiti e politici europei».

A partire da dicembre 2020, alcune email di Mirzakhanian sono apparse in diverse testate in lingua russa e ucraina. Ukraïns’ka pravda, giornale ucraino filo-europeista, in un articolo di Tatiana Popova – ex vice ministra dell’Informazione tra il 2015 e il 2016 – parla di campagne d’informazione tese a fomentare i movimenti di separatisti russi in città come Odessa o Dnipro, due delle città oggi fortemente coinvolte nel conflitto in Ucraina. Il portale di notizie My.Ua riferisce di contatti tra Mirzakhanian e Aram Petrosyan, uno dei principali leader della controrivoluzione che ha fatto seguito a piazza Maidan (vedi il box L’annessione della Crimea e la guerra in Donbass) negli anni più caldi, tra il 2014 e il 2015.

Sargis Mirzakhanian, fino al 2021, è stato una sorta di agente della propaganda russa, che ha iniziato la gavetta facendo l’assistente parlamentare di Igor Zotov. Sul curriculum si descrive come esperto di media e di relazioni internazionali, oltre che nell’organizzazione di eventi. Oggi, stando al profilo di VKontante, il Facebook russo, si dedica ad altro.

Tra le email si trovano circa un migliaio di messaggi scambiati con Inal Arnzinba, classe 1990, che nel 2021 è stato nominato ministro degli Esteri del governo della Repubblica autonoma filo-russa dell’Abkhazia, regione della Georgia invasa nel 2008 da Vladimir Putin. All’inizio della carriera, nel 2014, è stato assistente di Vladislav Surkov, l’uomo che nei primi del Duemila ha creato il partito di Putin, Russia Unita. Surkov ancora oggi è considerato uno dei consiglieri di Vladimir Putin che più ha influito nella decisione di invadere l’Ucraina.

A conferma del coinvolgimento di politici di primo piano nei piani di Mirzakhanian, nel leak si trova un inoltro di email in cui sono coinvolti Zotov, Mirzakhanian, Arnzinba e Petrosyan: attivisti filorussi scrivono di avere bisogno di «supporto informativo, organizzativo e finanziario» per poter ricostituire una formazione politica. Questo è stato il lavoro dello IACP.

Obiettivo Ucraina

L’inizio della guerra di Vladimir Putin all’Ucraina, come abbiamo già scritto, scatta con la destituzione – promossa dal movimento di piazza Maidan – di Viktor Yanukovich, presidente vicino allo stesso Putin. Era il febbraio del 2014. Un mese dopo, a seguito di un finto referendum imposto da Mosca, la Crimea si è dichiarata indipendente dall’Ucraina e ha dichiarato la volontà di annettersi alla Russia con lo status di “Repubblica autonoma”. Nessuno, a parte gli alleati di Vladimir Putin, l’ha mai riconosciuta come tale.

A seguito dell’annessione, l’Unione europea ha cominciato a mettere sotto sanzione persone fisiche e persone giuridiche che hanno favorito l’annessione della Crimea. Accadrà lo stesso a partire dal febbraio 2022, all’inizio dell’invasione dell’Ucraina: da allora la lista dei sanzionati si è molto allungata. Ancora oggi gli effetti reali delle sanzioni sulla Russia sono molto discussi, però fin da subito diverse associazioni di imprenditori che hanno relazioni con Mosca e diversi politici hanno lamentato gli effetti economici interni della scelta dell’Europa. Alcune formazioni di estrema destra – identitarie e sovraniste, contrarie all’idea di un’Europa sempre più unita e integrata – hanno sfruttato questa tensione per costruire consenso, facendo propria la campagna anti-sanzioni.

La definizione: Guerra ibrida

Con “guerra ibrida” s’intende quella strategia militare che unisce alla guerra convenzionale anche attacchi hacker, strumenti di disinformazione, condizionamento politico nel Paese avversario. La Russia è tra i Paesi più noti per adottare questa serie di tecniche.

Le attività di IACP si sono concentrate nel promuovere un atteggiamento più morbido sulle sanzioni, uno dei principali obiettivi diplomatici della Russia in questi anni. Sono andate molto al di là di organizzare i viaggi per convegni e pagare le spese dei partecipanti. Il think tank ha anche reclutato osservatori internazionali per le elezioni amministrative locali del 2017 in Russia insieme alla Fondazione russa per la pace, organizzazione di Leonid Slutsky, a lungo deputato di primo piano della Duma.

Il codice di condotta degli osservatori internazionali prevede che non «accettino finanziamenti o supporto logistico dal governo di cui osservano le elezioni, dato che questo potrebbe far sorgere un conflitto di interessi e minare la credibilità e la qualità dei risultati della missione». Nel database invece c’è un elenco di undici osservatori europei – tra cui gli eurodeputati Jaromir Kohlicek della Repubblica ceca, Dominique Bilde (Francia) e Andre Elissen (Paesi Bassi), insieme al deputato belga Aldo Carcaci – in una tabella con in calce la voce «Stima: 68 mila euro», presumibilmente riferibile al costo del loro viaggio.

«Le false missioni di osservazione elettorale sono spesso la porta d’ingresso per altre attività che potrebbero concludersi in relazioni di tipo economico o corruzione», afferma in un’intervista a Occrp Stefanie Schiffer, presidentessa del board della European Platform for Democratic Elections (EDPE), organizzazione che monitora le attività degli osservatori elettorali internazionali. Un articolo dell’Economist del 2017 riprende una stima secondo cui oggi circa l’80% delle elezioni mondiali è monitorata, contro il 30% degli anni Ottanta. La figura dell’osservatore è stata istituita dai Paesi europei nel 1857 per osservare le condizioni in cui votavano gli elettori di due regioni dell’odierna Romania. In pratica, quindi, farne uso significa adattarsi a uno standard internazionale.

Le inchieste di IrpiMedia sulla propaganda russa

#OperazioneMatrioska è l’inchiesta che IrpiMedia ha condotto tra il 2019 e il 2022 sul modo in cui la Russia ha cercato di condizionare l’opinione pubblica europea e su come i partiti di estrema destra in Europa abbiano cercato di costruirsi una nuova narrazione attraverso l’immagine della Russia come paladini dei valori tradizionali contro l’Unione europea “mondialista”. L’abbiamo definita Operazione Matrioska perché i suoi protagonisti, come delle matrioske, appaiono in un modo all’esterno, ma all’interno contengono altri legami, altri interessi.

#DisegnoNero è l’inchiesta che IrpiMedia ha condotto nel 2022 insieme alla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli sulle nuove destre europee. È stato un viaggio tra Italia, Francia, Germania e Polonia alla ricerca degli elementi che hanno contraddistinto la crescita nei consensi delle destre europee, tanto alleate quanto difformi le une dalle altre.

Vladegamberi, l’uomo di IACP in Veneto

In Italia, l’uomo di IACP è Stefano Valdegamberi. Consigliere regionale del Veneto, nel 2020 è stato eletto nella lista a sostegno del presidente leghista Luca Zaia, seppur non tesserato con la Lega. Quando il 28 ottobre 2020 si sono costituiti i gruppi consiliari, Valdegamberi ha scelto di presiedere il Gruppo Misto.

Se la Lega dopo l’invasione russa ha cercato di minimizzare le sue attuali relazioni con la Russia, Valdegamberi invece non ha mai fatto nulla per nasconderle: «La Risoluzione che indica la Russia come stato terroristico è un grave errore dell’Unione europea che fomenta il conflitto, falsando la verità storica. L’Europa ha perso una grande occasione per promuovere la pace», scriveva pochi giorni dopo che il Parlamento europeo ha votato quel provvedimento. Le dichiarazioni sono state ospitate dal sito dell’associazione Amici della Crimea, di cui Valdegamberi fa parte.

Ad Amici della Crimea appartengono anche osservatori internazionali che hanno partecipato a referendum promossi dalla Russia in regioni poi annesse con la forza: in Donbass, l’ultimo in ordine di tempo, Crimea, Ossezia del Sud e Abkhazia. Osservatori quindi che hanno certificato annessioni mai riconosciute dalla comunità internazionale. Lo stesso Valdegamberi è stato osservatore internazionale in Catalogna nel 2014, (IrpiMedia e Occrp hanno raccontato una strana operazione con cui degli emissari russi hanno cercato di rifornire di armi e criptovalute gli indipendentisti catalani), in Crimea nel 2018 e in Russia nel 2021. Ma torniamo al 2016, per capire quanto Valdegamberi sia vicino a IACP.

Il 19 aprile tra i collaboratori di Mirzakhanian circola la bozza del testo di una mozione in un file chiamato, in italiano, “risoluzione embargo”. È la bozza della mozione che verrà presentata da Valdegamberi e altri consiglieri leghisti al Consiglio regionale del Veneto il giorno dopo, per essere poi votata il mese successivo. «È una bomba! – è il commento che si legge in uno scambio di mail tra persone dell’entourage dello IACP che avviene il 24 aprile – Nella risoluzione: 1) riconoscimento della Crimea; 2) revoca delle sanzioni; 3) colpire Mogherini! (inteso come Federica, allora Alta rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, ndr)», sintetizza il messaggio. «Dal punto di vista dei media – conclude – questo sarà molto probabilmente il nostro lancio di informazioni più rumoroso!». Il giorno dopo sarà presentata da Valdegamberi al Consiglio regionale e messa in agenda per la sua approvazione dopo un mese.

La risoluzione è un atto di indirizzo politico, indica cioè un impegno della Giunta ad affrontare un certo argomento. In questo caso, erano previsti due modi concreti di farlo: da un lato, spingere il governo nazionale a più miti consigli sul piano delle sanzioni; dall’altro, istituire un comitato che si occupasse degli effetti economici delle sanzioni.

Il cerchio magico dello IACP

Il 18 maggio 2016, con una deliberazione, la Giunta regionale del Veneto recepisce la mozione. Il testo impegna il Consiglio regionale veneto a: primo, fare pressioni sul Governo nazionale al fine di ottenere «la revisione dei rapporti tra l’Unione europea e la Federazione Russa, evidenziando i danni irreversibili alla nostra economia provocati dalle loro scelte scellerate ed irresponsabili anche alla luce della sicurezza internazionale»; secondo, «promuovere la costituzione di un comitato allo scopo di raccogliere le sottoscrizioni al fine di revocare le sanzioni alla Russia». In più, la mozione chiedeva al governo di Roma di «condannare la politica internazionale dell’Unione europea nei confronti della Crimea, fortemente discriminante ed ingiusta sotto il profilo dei principi del Diritto internazionale, chiedendo di riconoscere la volontà espressa dal Parlamento di Crimea e dal popolo mediante un referendum». Il Comitato si è poi insediato a settembre 2016 ma non ci sono documenti disponibili sul lavoro che avrebbe svolto.

Il giorno del voto al Consiglio regionale, quando la notizia è stata riportata su tutti i media nazionali, Valdegamberi ha invitato anche la stampa russa a seguire l’evento. “Vladegamberi” lo ha chiamato un collega consigliere sui social: il soprannome è diventato subito virale e da allora tutti lo conoscono come un politico vicino alla Russia. «Stop alle sanzioni contro la Russia dalla Regione Veneto – scrive il consigliere in un comunicato in inglese -. L’Europa ha sbagliato!».

«È molto importante per la Russia infiltrarsi in Paesi stranieri a qualunque livello, comprese le amministrazioni locali – ragiona Olga Lautman, ricercatrice del Center for European Policy Analysis (CEPA) specializzata in campagne di disinformazione e tecniche di guerra ibrida del Cremlino -. La Russia usa queste risoluzioni per propaganda domestica e per infiltrarsi in amministrazioni locali allo scopo di condizionare l’opinione pubblica e reclutare politici locali».

Risoluzioni simili sono state adottate anche in Liguria, Toscana e Lombardia. Veneto, Lombardia e Liguria hanno poi fatto un passo indietro istituzionale dopo l’invasione dell’Ucraina, riporta Italia Oggi ad aprile 2022.

Tra le email si trova anche una tabella in cui si indicano diversi parlamentari e consiglieri regionali tra Austria e Italia che avrebbero dovuto portare avanti mozioni simili. Per l’Italia si legge il nome di Paolo Tosato, senatore leghista veneto, come sponsor della mozione. È segnato anche un prezziario: avrebbe ricevuto 20 mila euro per proporre la mozione, altri 15 mila euro nel caso in cui fosse in grado di farla passare. La mozione, purtroppo per Tosato, è stata bocciata a fine giugno 2016. Il senatore ha dichiarato di voler querelare l’Espresso, il giornale che lo scorso marzo ha dato per primo la notizia che mozioni “su ordinazione” potevano essere comprate a poche decine di migliaia di euro.

Italiani di Crimea

Alla fine la delegazione di politici e imprenditori italiani di cui discutevano a settembre 2016 Marina Klebanovich e Robert Stelzl si è effettivamente recata in Crimea per tre giorni, dal 14 al 16 ottobre 2016. I media russi ne hanno parlato come di un possibile rilancio turistico ed economico della Crimea. A Sebastopoli, il presidente del Consiglio regionale veneto Roberto Ciambetti, tutt’oggi in carica, ha firmato un accordo di collaborazione con il presidente del Consiglio statale della Crimea, Vladimir Andreyevich Konstantinov.

Stefano Valdegamberi in una foto del 15 ottobre 2016 in cui mostra un certificato bilingue che lo indica quale proprietario di un appartamento nell’Italian Village, resort esclusivo da poco inaugurato a Chernomorskaya, in Crimea – Foto: Ria Novosti

Valdegamberi è stato la guida della delegazione. In una foto del 15 ottobre 2016, lo si vede tenere in mano un certificato in cirillico e in italiano, in piedi in una piazza con dietro degli edifici in mattoncini rossi appena costruiti. Il documento attesta che è diventato proprietario di un appartamento nell’Italian Village, resort esclusivo appena inaugurato – seppur tutt’oggi incompleto – a Chernomorskaya, sulla costa della Crimea. All’evento di inaugurazione ha partecipato anche la Scandiuzzi Steel Construction Spa, società veneta che produce materiali per costruzioni in acciaio. Dalla bozza del programma della tre giorni si legge: «Visita in elicottero sul sito dell’Italian Village per Flavio Scandiuzzi».

«È stato un viaggio che ha avuto un intento promozionale, almeno per il sottoscritto», ricorda il diretto interessato in una risposta via email fornita a IrpiMedia.

Tra i documenti, c’è anche una bozza di contratto preparato da Scandiuzzi per vendere materiali in Crimea e Russia tramite un agente crimeo che sarebbe stato presentato dal gruppo di Mirzakhanian. Scandiuzzi però precisa che di fatto quel piano «non si è mai sviluppato» e che «pertanto ahimè, nessun beneficio ottenuto dalla ns. azienda, nonostante l’impegno degli organizzatori». «Probabilmente – chiosa l’imprenditore – la visita della delegazione è servita più ai locali per pubblicizzare le loro attività che alle società italiane che vi hanno partecipato». Tra il 2019 e il 2020, il principale azionista della società russa incaricata dello sviluppo immobiliare dell’Italian Village, Nikolai Shalimov, è stato arrestato con l’accusa di aver frodato gli investitori. Come abbiamo già scritto, in Russia non è raro che a seguito di un cambio di orientamento, qualche uomo d’affari un tempo anche molto vicino a Putin venga arrestato.

Oltre a Scandiuzzi, alla visita ha preso parte anche la Veronesi Spa, famosa azienda che produce wurstel e altri prodotti a base di carne a marchio Aia e Negroni. Uno scambio di email tra Stelzl e la Klebanovich porta in luce l’intenzione di Veronesi Spa di ottenere una cancellazione delle restrizioni doganali russe rispettivamente ai propri prodotti a base di carne. Il 7 ottobre 2016, pochi giorni prima di partire per la Crimea con la delegazione di italiani, l’amministratore delegato Marcello Veronesi manda una mail a Valdegamberi con una cospicua lista di prodotti a base di carne di pollo e maiale da inoltrare al gruppo di Mirzakhanian come richiesta da girare alle dogane russe per avere le «restrizioni temporanee» revocate.

Non è chiaro se il risultato sia stato ottenuto o meno. Dalle mail si legge anche di altri progetti che Veronesi aveva intenzione di lanciare, che non si sono mai concretizzati. L’azienda non ha risposto alle nostre richieste di commento.

Per Veronesi e Scandiuzzi, quindi, il viaggio in Crimea sarebbe stato un buco nell’acqua. In un’email scritta il 25 ottobre 2016 a Sargis Mirzakhanian, Marina Klebanovich ha riportato che «Stefano», ossia Stefano Valdegamberi, «ha tenuto a bada le preoccupazioni», riferendosi probabilmente alle lagnanze dei rappresentanti delle imprese, per i quali il business sperato non si era poi concretizzato. Invece, per il consigliere regionale, «il risultato del viaggio non consiste solo nelle pubbliche relazioni, ma nell’organizzazione di promettenti contatti per affari finalizzati a pagare le sue campagne elettorali e a sostenere la sua attività politica». «È stato avvicinato – prosegue la missiva – da persone di Russia Today, legate all’organizzazione Forum Euroasiatico di Verona, l’Eurasian Communication Center, con la proposta di stabilire relazioni commerciali», fa presente la segretaria di IACP a Mirzakhanian.

Il Forum euroasiatico di Verona è l’evento che ogni anno l’associazione Conoscere Eurasia – di cui IrpiMedia si è già occupata in passato – organizza con alcune delle principali aziende italiane e russe a Verona e a San Pietroburgo (con la guerra, ora la sede si è spostata a Baku e gli affari non sono più direttamente con Mosca ma con l’Azerbaijan). L’Eurasian Communication Center è una struttura che fino al 2021 ha organizzato l’altra grande opportunità di interscambio con i Paesi euroasiatici, l’Eurasian Economic Congress, con il contributo del Dipartimento per le attività economiche e gli affari esteri della Città di Mosca.

Il crinale tra business e sostegno politico

Per chiunque voglia fare affari all’estero, i forum sono i principali appuntamenti da frequentare. Il più importante in Crimea è lo Yalta International Economic Forum (YIEF), che fino a prima della guerra si teneva ogni anno presso il resort di lusso Mriya Resort and Spa, progettato a Yalta dall’archistar Norman Foster, di proprietà di una società controllata dalla più grande banca russa, Sberbank, che lo ha finanziato con 300 milioni di dollari. La struttura è stata messa sotto sanzione dagli Stati Uniti nel 2018.

C’è una stretta connessione tra le attività dello IACP e il Forum di Yalta: a pagare le spese di viaggio alle varie delegazioni italiane è Granel, conglomerato russo che si occupa di costruzioni di cui è presidente Andrey Nazarov, il quale è anche vice presidente dello YIEF.

Le regioni con minoranze filo-russe. Sono le aree attraversate anche dal conflitto e dove campagne come quelle di IACP hanno avuto effetti più importanti
Le città della Crimea frequentate dalle delegazioni italiane

Alla delegazione che ha partecipato al Forum nell’aprile 2017 c’era anche Luis Durnwalder, dal 1989 al 2014 presidente della provincia autonoma di Bolzano, in Alto Adige. Esponente del partito di destra Volkspartei, nel 2012 è stato accusato dalla Corte dei conti di appropriazione indebita di oltre un milione di euro di denaro pubblico per viaggi privati. Nel 2018 è stato condannato a pagare oltre 400 mila euro di penale per aver approvato una legge locale che consente la caccia alle specie protette e nel 2022 è stato nuovamente condannato per appropriazione indebita e ha dovuto scontare la pena svolgendo servizi sociali per aiutare i migranti.

A Yalta è stato invitato a parlare come relatore all’evento dal titolo Esperienza di singolare autonomia politica e ripresa dell’espansione economica della provincia di Bolzano (Alto Adige). Insieme al presidente Durnwalder, ha partecipato alla missione anche Andrey Pruss, direttore del centro russo Borodina di Bolzano, aperto nel 2009 dalla Provincia Autonoma di Bolzano. Il centro Borodina è stato finanziato da enti pubblici, come il Comune di Merano e la Camera di Commercio di Bolzano, ma anche da finanziatori russi come il Consolato Generale della Russia a Milano e da un gruppo di associazioni tra cui il Centro della gloria nazionale, guidato da Vladimir Ivanovich Yakunin, ex ministro delle Ferrovie in Russia e promotore del Congresso Mondiale della Famiglia in Russia, altro evento chiave nella campagna di reclutamento di politici pro Russia. Nessuno dei politici citati ha risposto alle nostre richieste di commento inviate via email.

Sono tanti gli esponenti di organizzazioni italiane pro Russia che hanno partecipato all’evento dell’aprile del 2017. La più famosa è l’Associazione Lombardia-Russia, una delle tante associazioni regionali, nate con il sostegno di politici, molti dei quali di area leghista, per promuovere attività culturali e imprenditoriali a favore della Russia. Presidente di Lombardia-Russia è Gianluca Savoini, ex capo ufficio stampa di Matteo Salvini e da sempre tra i fedelissimi del leader della Lega. A gennaio 2023 la procura di Milano ha chiesto l’archiviazione dell’indagine a suo carico nell’ambito del caso dell’hotel Metropol.

L’episodio risale al 18 ottobre 2018: Savoini si trovava a Mosca insieme a due uomini d’affari, Gianluca Meranda e il suo assistente Francesco Vannucci. Dovevano incontrare tre delegati russi per discutere della vendita tra Eni e Rosneft di prodotti petroliferi. Una percentuale del pagamento, secondo quanto ricostruiscono le indagini, sarebbe dovuto andare alla Lega per finanziare la campagna elettorale. I magistrati scrivono di non avere abbastanza elementi per poter identificare dei pubblici ufficiali russi coinvolti nella corruzione e questo rende impossibile perseguire il reato. L’affare, inoltre, secondo loro è saltato solo perché due giornalisti, Stefano Vergine e Giovanni Tizian, ne hanno dato notizia su l’Espresso.

Scrivono anche che Matteo Salvini ne era al corrente e che lo stesso vale per Dmitry Kozak, vice primo ministro della Russia. La fondazione statunitense Jamestown (nata in piena Guerra fredda per dare sostegno ai disertori sovietici) nel 2020 scriveva di Kozak come l’uomo che negli ultimi anni avrebbe sostituito Vladislav Surkov nel cerchio magico dei consiglieri di Putin sull’Ucraina. Sono cambiati i nomi, ma almeno fino a prima dell’invasione la strategia di intromissione negli affari europei è sempre rimasta la stessa.

CREDITI

Autori

Cecilia Anesi
Lorenzo Bagnoli
Martin Lane

Ha collaborato

Rita Martone

In partnership con

Occrp
Eesti Ekspress (Estonia)
iStories (Russia)
Profil (Austria)

Infografiche & Mappe

Lorenzo Bodrero

Editing

Giulio Rubino

Foto di copertina

James O’Brien/Occrp

Le armi tedesche alla Russia

#EuArms

Le armi tedesche alla Russia
Frederik Richter

A lla fine del 2011, negli uffici di Dusseldorf di Rheinmetall, il colosso tedesco degli armamenti, c’era di che festeggiare. Una tanto attesa commessa era finalmente arrivata da Mosca, ed era stata accolta con grande entusiasmo. Era la conferma dell’ordine per la costruzione di un centro di addestramento per l’esercito russo nella città di Mulino, a circa trecento chilometri a est di Mosca, del valore di cento milioni di euro.
Una volta ultimato, il centro avrebbe potuto ospitare fino a 30mila soldati ogni anno, che avrebbero potuto addestrarsi, fra le altre cose, alla guerriglia urbana casa per casa.

Secondo la stessa Rheinmetall, in un comunicato stampa del novembre 2011, la commessa era di «particolare importanza strategica» perché era il primo passo per entrare nel mercato russo, il primo di molti, speravano i dirigenti.

In quel periodo il governo federale tedesco era particolarmente focalizzato sul sostenere le esportazioni e le forze armate tedesche stavano ancora cercando di metter su una specie di partnership con quelle russe. Dieci anni dopo, nell’autunno del 2021, l’armata rossa si stava allenando proprio in quello stesso centro per preparare la brutale invasione dell’Ucraina e per apprendere le tattiche adatte al tipo di guerriglia urbana che ha preso forma in città come Mariupol.

Purtroppo per Rheinmetall, le cose non sono andate come speravano. Dopo l’annessione della Crimea nel 2014, il gruppo di Dusseldorf ha dovuto rinunciare alle sue ambizioni, ma fino ad allora l’ingresso nel mercato russo era talmente importante per l’azienda tedesca che, secondo le ricerche fatte da Correctiv e Welt, potrebbero aver preso in considerazione di facilitare la firma del contratto con delle tangenti.

Un’indagine ufficiale infatti, condotta dalla procura di Brema, aveva messo sotto inchiesta due manager del gruppo Rheinmetall per il pagamento, tramite un’azienda “di carta”, di 5,38 milioni di euro diretti verso soggetti russi non meglio identificati.
I due sono stati imputati per malversazione, o uso illecito di fondi dell’azienda, nel luglio 2019.

A Brema, Rheinmetall ha una presenza importante, e costruisce componenti elettroniche per i centri di addestramento, oltre che simulatori per equipaggi di sottomarini e molto altro.

Il procedimento penale però si è fermato l’anno successivo senza riuscire a provare l’effettivo pagamento di tangenti, e i due manager hanno patteggiato l’accusa di uso improprio di fondi, costretti al pagamento di un’ammenda da 12mila euro a testa.
Rheinmetall non ha risposto per ora alle domande di Correctiv, spiegando che troppi impiegati erano assenti per via delle vacanze di Pasqua.

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Esercitazioni russe nel campo di addestramento di Mulino – Foto: Ministero difesa russo
In Italia, la costola di Rheinmetall più importante è la fabbrica RWM Italia di Domusnovas, in provincia di Cagliari, azienda con sede legale a Brescia. Fino alla revoca della licenza per le esportazioni avvenuta a gennaio 2021, RWM ha venduto munizioni che le forze aeree saudite hanno usato contro i ribelli Houthi in Yemen. La guerra, ormai in corso da otto anni, è diventata un affare personale per il controverso principe Mohammed Bin Salman, erede al trono dell’Arabia Saudita. A guadagnare terreno però sono i suoi avversari, sostenuti dall’Iran.

RWM Italia è coinvolta in almeno due procedimenti penali. A Cagliari, il 25 marzo la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio dei vertici di RWM Italia e dei tecnici che hanno lavorato a un piano di ampliamento della fabbrica che secondo le accuse sarebbe irregolare. L’indagine è scaturita da un esposto di diverse organizzazioni del mondo pacifista ed ecologista e il 29 giugno ci sarà l’udienza preliminare davanti al giudice Manuela Anzani. A Roma invece la Procura ha aperto da tempo un fascicolo a carico dei vertici di RWM Italia e dell’Autorità nazionale per l’esportazione di armamenti (Uama), unità che appartiene al Ministero degli Esteri. Secondo diverse organizzazioni non governative internazionali, ci sono elementi che farebbero ipotizzare l’uso di armi prodotte dalla fabbrica di Domusnovas nell’attacco aereo al villaggio di Deir al-Hajari, nel 2016. La Procura di Roma è stata incaricata di accertare le eventuali responsabilità dell’azienda in questo episodio ma poi per due volte ha chiesto l’archiviazione. La Giudice delle indagini preliminari Roberta Conforti a febbraio 2021 ha accolto il ricorso delle organizzazioni pacifiste a che entro sei mesi fossero raccolti gli elementi di prova per completare il rinvio a giudizio. A marzo 2022 però la Procura di Roma ha per una seconda volta chiesto che il procedimento venisse archiviato.

Il quadro sulle spese militare e i numeri di RWM Italia

Il fatturato di RWM Italia tra il 2019 e il 2020, secondo i dati dell’osservatorio Top Aziende del Quotidiano nazionale, è passato da 116 a 140,7 milioni di euro. Anche la produzione ha registrato un aumento. La tendenza del mercato degli armamenti è a livello globale in crescita. Lo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), il più importante centro di ricerca che si occupa di spese militari a livello globale, osserva che la spesa mondiale ha raggiunto nel 2021 la cifra complessiva di 2.113 miliardi, ossia lo 0,7% in più del 2021 e il 12% in più del 2011. Quindici paesi totalizzano l’81% delle spese militari. Tra questi compare anche l’Italia, che si trova all’undicesimo posto della classifica con 32 miliardi di euro (+4,6% contro una media dell’Europa occidentale del +3,1%).

Il 31 marzo è stato licenziato e convertito in legge quello che i giornali hanno chiamato “il Decreto Ucraina”, un pacchetto di misure attraverso cui il governo italiano incrementerà le spese militari fino al 2% del Pil allo scopo di aiutare l’Ucraina a opporsi all’invasione della Russia. «Il decreto legge prevede la partecipazione, fino al 30 settembre 2022, di personale militare alle iniziative della NATO per l’impiego della forza ad elevata prontezza, denominata Very High Readiness Joint Task Force (VJTF)», si legge nella scheda con le Disposizioni urgenti sulla crisi in Ucraina pubblicata sul sito della Camera. «Si prevede, inoltre, fino al al 31 dicembre 2022 la prosecuzione della partecipazione di personale militare al potenziamento dei seguenti dispositivi della NATO: a) dispositivo per la sorveglianza dello spazio aereo dell’Alleanza; b) dispositivo per la sorveglianza navale nell’area sud dell’Alleanza; c) presenza in Lettonia (Enhanced Forward Presence); d) Air Policing per la sorveglianza dello spazio aereo dell’Alleanza». Tra gli altri punti chiave del Decreto legge c’è «la cessione di mezzi ed equipaggiamenti militare all’Ucraina, a titolo gratuito non letali di protezione».

Non è raro che in Germania, come anche in Italia, le indagini per corruzione internazionale arrivino a un punto morto, con conseguenze minime o nulle per i soggetti indagati. Lo conferma anche un’ulteriore analisi fatta da Correctiv, assieme Die Welt e Ippen Investigativ, su tutti i casi di questo tipo finiti nelle corti tedesche fra il 2015 e il 2020.

Mascherare il pagamento di tangenti nel caso di contratti internazionali è infatti una prassi molto ben “testata”, e dimostrare che i fondi trasferiti siano effettivamente finiti in mano a un pubblico ufficiale straniero è estremamente complesso e difficile da investigare, anche nella piena collaborazione fra forze di polizia di diversi Paesi. È per questo che spesso i procuratori preferiscono procedere per uso improprio di fondi, per poter almeno sanzionare i flussi di denaro diretti verso destinatari non identificabili con chiarezza all’estero. Purtroppo molte di queste indagini finiscono archiviate con il pagamento di ammende relativamente basse.

I casi giudiziari analizzati contengono oltre 80 casi di sospetta corruzione internazionale, incluso quello di Brema contro Rheinmetall. Negli ultimi anni, la procura di Brema è infatti fra quelle che più di tutte le altre in Germania si è impegnata a indagare casi di questo tipo.

Dimostrare che i fondi trasferiti siano effettivamente finiti in mano a un pubblico ufficiale straniero è estremamente complesso e difficile da investigare, anche nella piena collaborazione fra forze di polizia di diversi Paesi.

Sospetti di corruzione a Rheinmetall

Gli investigatori di Brema avevano avuto maggior successo in un altro caso, precedente, che non era arrivato all’attenzione della stampa: nel 2013 e nel 2014 impiegati di Rheinmetall nelle Filippine avrebbero corrotto il capo dell’accademia navale del paese per ottenere una commessa per un simulatore per il centro di addestramento degli equipaggi navali.
A dicembre 2018, Rheinmetall ha negoziato in merito un’ammenda di circa tre milioni di euro, più o meno equivalente all’intero profitto che avrebbe ottenuto illegalmente tramite questo accordo sottobanco.

Nel 2014, la procura di Brema aveva già multato il colosso degli armamenti tedesco per ben 37 milioni di euro, in connessione a una commessa da parte della Grecia, che nel 2000 aveva comprato da Rheinmetall 134 milioni di euro di armamenti antiaerei. Nonostante ci siano voluti ben 14 anni, alla fine i magistrati sono riusciti a dimostrare che l’azienda non aveva fatto abbastanza per prevenire la corruzione dei funzionari greci che hanno gestito il contratto.
All’epoca, l’azienda ha dovuto promettere di aggiornare il suo sistema di compliance interno e, in un’intervista di fine 2014, l’amministratore delegato di Rheinmetall Armin Papperger, aveva dichiarato che «infrazioni sistematiche non avverranno più in futuro»

Ma nonostante le promesse, Rheinmetall ha continuato a contare su transazioni opache nella gestione delle sue commesse, come Correctiv e Stern avevano già scoperto nel 2018. Il gruppo aveva infatti pagato al businessman libanese Ahmad El Husseini la sconcertante cifra di 15 milioni di dollari come “consulenza” per appianare un problema sorto riguardo il funzionamento dei cannoni per le navi della marina militare degli Emirati Arabi. El Husseini avrebbe usato i suoi agganci politici negli Emirati per trovare un accordo, e forse anche il denaro di Rheinmetall?
L’azienda nega con forza questa ricostruzione e anzi sostiene di essersi dotata di un moderno ed efficace sistema di “compliance”. Ogni sospetto è immediatamente analizzato, sostengono.

Un’industria bellica a rischio corruzione

Rheinmetall non è un caso isolato nel mondo dell’industria della difesa tedesca. Nel 2018 ad esempio, Airbus ha pagato 81,25 milioni di euro in connessione alla vendita di aerei da guerra Eurofighter all’Austria. Gli inquirenti di Monaco hanno a lungo indagato il caso, sospettando che si trattasse di una tangente, ma non sono riusciti a chiarire i movimenti precisi della somma di denaro in questione. Anche molti dei contratti del reparto navale di ThyssenKrupp sono stati indagati, fra cui una vendita di sottomarini a Israele e una di fregate all’Algeria.

Con la guerra in Ucraina inoltre, l’export di armi tedesche vedrà probabilmente un notevole incremento. I paesi dell’Est-Europa in particolare si stanno armando, e dovranno presto ricomprare quei materiali e mezzi che sono stati inviati in Ucraina. Anche prima della guerra in corso comunque, Rheinmetall aveva già ricevuto un ordine dall’Ungheria per mezzi di trasporto truppe “Lynx”, del valore di oltre due miliardi di euro. In futuro, questi stessi mezzi saranno prodotti direttamente in Ungheria, per altri clienti del gruppo tedesco.

In Germania, il governo federale riserva relativamente pochi fondi al suo stesso esercito, eppure ha sempre supportato con i suoi canali diplomatici l’esportazione di armamenti. L’allora ministro della difesa Thomas de Maizière nel 2011 andò a Mosca proprio per offrire all’esercito russo il know-how tedesco sugli armamenti. Poco più tardi, a Rheinmetall è arrivata la famosa commessa per il centro d’addestramento da 500 chilometri quadrati costruito a Mulino, che a sua volta è modellato su quello costruito per l’esercito tedesco in Sassonia.

«Abbiamo un interesse di sicurezza ad avere un esercito russo moderno e ben gestito» ha dichiarato De Maizière all’epoca. Raggiunto da Correctiv oggi, ha invece dichiarato che già allora era in realtà piuttosto scettico rispetto al contratto di Rheinmetall. «Il gruppo però voleva moltissimo quella commessa», ha dichiarato.

Nel 2013, cinque anni dopo l’invasione della Georgia da parte della Russia, a nove soldati russi era stato permesso di addestrarsi per alcuni mesi nel centro di addestramento Rheinmetall in Sassonia, a spese del Bundeswehr, l’esercito tedesco. Ufficialmente, la mossa doveva, secondo il ministero della difesa tedesco, rappresentare uno «scambio di esperienze e di valori». Come molte delle speranze un po’ ingenue di Berlino, anche questa sembra essere stata disattesa, almeno a guardare le immagini che arrivano da Bucha e da altri teatri di guerra in Ucraina.

Esercitazioni russe nel campo di addestramento di Mulino – Foto: Ministero difesa russo
Anche le speranze di Rheinmetall però, che arrivassero molte altre commesse dal Cremlino, non si sono avverate. Dopo l’annessione della Crimea nel 2014, il governo federale ha bloccato il contratto con la Russia, impedendo il continuamento della costruzione del centro di addestramento. Da allora, la Russia ha dovuto completarlo con le sue forze.

È molto probabile che le truppe di Vladimir Putin si siano addestrate all’invasione dell’Ucraina proprio in quel centro di addestramento, inizialmente venduto alla Russia dalla Germania. Lo scorso settembre, il presidente russo l’ha visitato di persona, per partecipare agli addestramenti congiunti degli eserciti russo e bielorusso. Un programma di addestramento chiamato “Zapad 2021”, cioè “Ovest 2021”, un nome che già allora indicava la direzione in cui Putin voleva spingersi.

E Rheinmetall, dal canto suo, ancora non ha del tutto interrotto i rapporti con la Russia. Secondo l’ultima relazione annuale del gruppo, una joint venture messa in piedi dall’azienda di Dusseldorf a Mosca per la gestione del centro di addestramento sarebbe ancora attiva, registrando un profitto di 35mila euro nel 2020.

CREDITI

Autori

Frederik Richter

Traduzione ed editing

Giulio Rubino

In partnership con

CORRECTIV, Welt am Sonntag

Guerra in Ucraina, la fine dell’Operazione Matrioska?

04 Marzo 2022 | di Lorenzo Bagnoli

Forse questa guerra segna la fine di quella che abbiamo chiamato Operazione Matrioska, l’operazione attraverso cui Vladimir Putin ha ottenuto consensi in Europa e Stati Uniti. Ne abbiamo scritto fin dal 2018, prima come IRPI e poi come IrpiMedia. Più che un’operazione coordinata, si è trattato di una serie di strategie adottate da diversi personaggi politici, tra cui i leader identitari come Matteo Salvini in Italia o Donald Trump negli Stati Uniti, aventi come obiettivo finale indebolire l’Unione europea. Abbiamo definito i personaggi coinvolti in questa vicenda “matrioske” perché nascondono al loro interno diverse affiliazioni, spesso all’apparenza del tutto contrastanti. Questo sistema così fluido e ambiguo sembrava perfetto per adattarsi al momento politico.

Questa strategia però è in declino negli ultimi due anni e forse anche per questo Putin ha scelto di muovere i carri armati. Ovviamente non pretendiamo di identificare con chiarezza né l’obiettivo finale della strategia del presidente russo, né la partecipazione consapevole ad un piano unico da parte dei protagonisti dell’Operazione Matrioska. Resta però indubbio che, specialmente sul piano politico e culturale durante gli anni della pandemia, gli alleati vecchi e nuovi di Putin hanno perso terreno, e l’Europa ha trovato forme di rilancio del suo progetto politico.

Insieme alle armi in Ucraina è stato rispolverato un arsenale anche ideologico di schemi e termini che pensavamo tramontati assieme agli anni Ottanta. La guerra combattuta rivela il persistere, almeno fra i leader mondiali, tutti abbondantemente sopra i sessant’anni, di una visione del mondo ancorata alla logica dei blocchi contrapposti e al concetto di guerra fredda basata sulla “Distruzione Mutua Assicurata”. Il ritorno a questa dinamica appare come un deciso allontanamento dalle forme di “guerra di propaganda” e “guerra economica” a cui eravamo abituati in questi anni. È il ritorno della guerra nella forma più tragica e brutale.

I tre fronti dell’Operazione Matrioska oggi

Nel 2020 abbiamo individuato tre fronti dell’Operazione Matrioska: quello politico, quello culturale e quello finanziario. Il fronte politico era rappresentato da quella strana convergenza tra Putin e Donald Trump. Negli Stati Uniti è stata oggetto del Russiagate, l’indagine di Robert Mueller (che ha ottenuto solo qualche condanna. A luglio 2021 il Guardian ha pubblicato un leak proveniente dal Cremlino in cui si parlerebbe della decisione nel 2016 di sostenere Trump per fomentare «disordini sociali» negli Stati Uniti). Quella parentesi però si è chiusa con l’elezione di Joe Biden che è tornato alla tradizionale contrapposizione Mosca-Washington.

Il fronte culturale è quello che ha coinvolto partiti politici come la Lega, il Front National (oggi Rassemblement National) o l’FPO austriaco, formazioni alla ricerca di una nuova identità ideologica e una nuova galassia di alleanze internazionali. L’adesione allo schema della matrioska è stata la causa del repentino avvicinarsi alla Russia da parte di questi movimenti della destra identitaria. Putin ha rappresentato un modello a cui ispirarsi di leader forte, autarchico, capace di sfidare la linea dell’Europa anche in termini di diritti civili. In ottica russa, questi partiti “vicini” dovevano contenere l’espansione dell’Europa, sia a livello geografico, sia a livello culturale. Tra scandali finanziari (come il caso Metropol o lo «scandalo Ibiza») e incapacità politiche, l’avanzata dei partiti europei ritenuti più vicini a Russia Unita, il partito di Putin, si è notevolmente rallentata, anche a favore di altri attori a destra (come Fratelli d’Italia in Italia o Eric Zemmour in Francia).

Per approfondire

Operazione Matrioska

Una serie di inchieste su come Putin sia diventato una figura di riferimento per le destre di tutto il mondo. Un’operazione in tre fasi: economica (il Laundromat), culturale (l’ascesa degli identitari) e politica (il Russiagate)

 Poromodificl’articolIl fronte economico è quello della lavanderia russa, il sistema di società offshore con conti correnti bancari nelle repubbliche baltiche attraverso cui gli oligarchi (si veda la nostra definizione qui) sono riusciti a investire e ripulire denaro sporco all’estero e a garantirsi un flusso di denaro da investire fuori dalla Russia. Questo sistema inizialmente è stato appannaggio solo di un ristretto gruppo di persone. In una prima fase, dalle ricostruzioni giornalistiche che sono state possibili ad oggi, nella lavanderia russa si è individuato un disegno per condizionare la vita economica europea, anche attraverso il soft power dello sport (un esempio per tutti: il patron del Chelsea Roman Abramovich e la sponsorship di Gazprom della Champions League di calcio). Il sistema, però, è prettamente finanziario e come tale, una volta congegnato, può essere impiegato anche da altri attori. Oggi sembra essere scappato di mano dai proprietari originari; sembra che il gruppo di oligarchi che ne fa uso non sia più monolitico come appariva un tempo (qui abbiamo raccontato il caso di Boris Mints e qui dei fratelli Magomedov). La data spartiacque sembra essere il 2014. E non è un caso.

La causa profonda: l’Ucraina

Per Putin un’Unione europea sempre più integrata e allineata con gli Stati Uniti equivale a un accerchiamento, fisico, economico e ideologico della sua Russia. La minaccia, ai suoi occhi, si è palesata proprio nel 2014 (si veda la nostra timeline qui), quando Viktor Yanukovich, presidente ucraino naturalizzato russo molto vicino al Cremlino, è stato defenestrato dal movimento di Euromaidan (in questa intervista all’Ansa la ricercatrice dell’Ispi Eleonora Tafuro Ambrosetti definisce l’invasione una «vendetta» per quei fatti di otto anni fa). Post Yanukovich, però, il movimento filoeuropeista era spaccato tra Yulia Tymoshenko, la ex prima ministra di nuovo in corsa per le elezioni del 2019, e Petro Poroshenko, il presidente, e la transizione a un’Ucraina pienamente democratica e libera dalla corruzione è stata impossibile. Basti dire che Poroshenko (salito al potere dopo una brevissima parentesi di Oleksandr Turčynov) è poi finito sotto indagine per alto tradimento con l’accusa di aver finanziato i separatisti filorussi.

L’indagine ha preso piede dopo la sua sconfitta politica per mano di Volodymyr Zelensky, l’ex comico oggi leader molto popolare dell’Ucraina. Zelensky si è presentato tre anni fa come un outsider pronto a rivoltare la politica ucraina ed eliminare la corruzione. Però nel 2019 Trump lo ha avvicinato nella speranza di ottenere qualche favore nella sua campagna contro Biden, secondo la ricostruzione del Russiagate. È una storia antica, forse oggi del tutto archiviata.

In contemporanea con i problemi interni, dal 2014 in avanti ci sono state pressioni crescenti sui confini del Paese con le prime operazioni militari di Mosca: dopo Maidan, Putin ha immediatamente invaso la Crimea (annessa poi con un referendum-farsa) e la febbre dell’indipendentismo da Kiev ha contagiato anche il Donbass, dove non si è mai smesso di combattere. Il conflitto si è svolto soprattutto tra formazioni paramilitari filorusse sostenute dal Cremlino in vari modi e altre milizie filoucraine. Queste ultime sono finanziate in modo consistente da Ilhor Kolomoisky, potentissimo oligarca ucraino che ha sostenuto Zelensky e che è finito sotto sanzioni negli Stati Uniti nel 2021. All’epoca le relazioni Washington-Kiev erano più problematiche di oggi e gli americani volevano contribuire a una «campagna contro la corruzione» nel Paese, colpendo l’uomo più potente del Paese (nonché primo sostenitore di Zelensky, sia come comico, sia come politico). Kolomoisky in passato ha mantenuto però attive le sue relazioni con la Russia tanto da dire nel 2019 di essere pronto ad abbandonare la guerra contro Mosca per il Donbass.

Al di là della questione dell’ingresso nella Nato e degli avvicinamenti all’Unione europea dell’Ucraina di cui giustamente si legge su ogni giornale, uno dei fattori che ha ulteriormente accelerato la crisi Mosca-Kiev sembra essere stata la «legge contro gli oligarchi». Annunciata a novembre 2021, dovrebbe da programma entrare in vigore questo maggio. Zelensky ne ha parlato come di uno strumento per disinnescare un imminente «colpo di Stato» degli uomini più ricchi del Paese sostenuti dalla Russia. Come ricorda la BBC, però, «la corruzione rimane profondamente radicata in Ucraina e ci sono timori che la nuova legge anti-oligarchi possa essere usata per limitare le attività di alcuni e non di altri».

La guerra in diretta

In questi giorni di frenetiche negoziazioni al confine, centinaia di giornalisti sul campo cercano di raccontare la guerra in diretta: le operazioni militari, le vittime, i profughi. La ferocia e la brutalità dell’attacco erano imprevedibili per molti analisti. Non ci sono dubbi che in questa guerra ci sono una vittima, la popolazione dell’Ucraina, e un aggressore, la Russia guidata da Vladimir Putin. Non ci sono dubbi che quella ucraina sia una resistenza a un’aggressione senza precedenti, oscena, terrificante, ingiustificabile. È fuori di dubbio che la guerra, quando avviene, è talmente gigantesca da mandare in subordine tutto il resto. Però c’è stata una forma molto meno cruenta di conflitto che dura da molto più tempo e che ha altri fronti oltre quello ucraino.

Le nostre colleghe di Re:Baltica – un centro di giornalismo investigativo che raccoglie Lituania, Lettonia ed Estonia – scrivono spesso di magnati dei media filorussi che intossicano l’ambiente dei media per fomentare un riavvicinamento alla Russia. I fronti aperti – seppur nessuno sanguinoso come quello ucraino – sono tanti, purtroppo.

PRECISAZIONE: Il 28 marzo l’articolo è stato modificato per precisare che Yulia Tymoshenko è stata prima ministra dell’Ucraina (2005; 2007-2010) e ha corso contro l’altro presidente filoeruopesista Poroshenkho nel 2019.   

 

Foto: Vladimir Putin in un ricevimento al Cremlino nel febbraio 2019 – Mikhail Svetlov/Getty
Editing: Giulio Rubino