Quello che resta del progetto delle dighe di CMC in Kenya
Lorenzo Bagnoli
Dauti Kahura
Il 22 luglio 2019 il ministro del Tesoro del Kenya, Henry Rotich, è stato arrestato con l’accusa di frode e corruzione. Secondo i magistrati del Kenya, insieme a un gruppo di funzionari ministeriali e di società pubbliche, avrebbe favorito l’assegnazione dell’appalto per la costruzione di due dighe al consorzio italiano tra la Cooperativa muratori e cementisti di Ravenna (CMC) e Itinera, società del gruppo Gavio, ancor prima che uno dei due progetti fosse approvato a livello governativo. Il prezzo delle due dighe nel progetto CMC sarebbe stato più alto del costo reale, di poco meno di 200 milioni di dollari. Il margine in più sarebbe andato a finanziare tangenti per Rotich e altri oltre che prestiti commerciali per un progetto che ancora non era stato approvato.
Secondo l’accusa, il contratto iniziale era stato discusso con un’autorità locale delle risorse idriche, poi si sarebbe intromesso il ministero guidato da Rotich, commettendo abuso d’ufficio in associazione con gli altri indagati: «Il Tesoro ha negoziato un accordo che ha aumentato il prezzo di circa 63 miliardi di scellini (circa 500 milioni di euro, ndr), 17 dei quali non necessari o da pagare in modo tempestivo, indipendentemente dalle prestazioni o dai lavori», si legge nel comunicato stampa della procura generale del Kenya con il quale è stato annunciato il mandato d’arresto per Rotich e altre 28 persone, compresi dei manager di CMC. Attraverso il suo avvocato Paul Ng’arua, Rotich ha fatto sapere al quotidiano locale Business Daily che la procura sta sbagliando a valutare la sua posizione, visto che non ha mai avuto voce in capitolo nel processo di assegnazione dell’appalto.
Se il processo si celebrasse in Italia, dentro l’accusa probabilmente ci sarebbe anche concussione, visto che Rotich e gli altri uomini del ministero hanno potuto esercitare pressione per assegnare i lavori proprio in virtù della loro veste da pubblico ufficiale. Nel diritto kenyota rientra dentro il concetto di corruzione.
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«Le indagini – prosegue il comunicato stampa – hanno stabilito che i funzionari governativi non hanno rispettato tutte le regole sugli appalti e hanno abusato del loro giuramento d’ufficio affinché il progetto andasse in porto. Sono state ignorate le procedure d’appalto previste dalla legge per assicurarsi che il contratto fosse ottenuto alla CMC di Ravenna». Fin dall’inizio, CMC e gli altri funzionari coinvolti in quest’indagine giudiziaria, incluso l’ex ministro Rotich, si sono dichiarati innocenti e hanno negato la ricostruzione dei fatti della procura.
L’azienda italiana non ha voluto rilasciare commenti, né rispondere alle domande in vista dell’uscita di questa serie di inchieste.
Le elezioni all’orizzonte
In Kenya si vota ad agosto di quest’anno e il processo per frode e corruzione, senza ombra di dubbio, ha una forte componente politica. Il principale accusato, l’ex ministro Rotich, è infatti un fedelissimo di William Ruto, l’attuale vicepresidente del Kenya. Con l’inizio dell’inchiesta è venuto a galla uno scontro sotterraneo che coinvolge i vertici dello Stato africano.
L’attuale presidente, Uhuru Kenyatta, è arrivato alla scadenza del secondo mandato consecutivo, il limite massimo stabilito dalla Costituzione del Paese, quindi dovrà lasciare il posto. Invece che sostenere la corsa del suo vice, però, Kenyatta a febbraio 2022 ha deciso di sostenere quello che è stato per anni il suo rivale, Raila Odinga.
Uhuru Kenyatta è il figlio del primo presidente del Kenya, Jomo Kenyatta; Raila Odinga invece è figlio di Oginga Odinga, che di Jomo Kenyatta fu il vicepresidente.
I Kenyatta e gli Odinga sono due delle famiglie più influenti del Kenya, esponenti di una sorta di aristocrazia del Paese, nata al momento della sua indipendenza nel 1964 (per quanto alle origini lo spirito del nuovo Kenya fosse anti-imperialista e Jomo Kenyatta avesse una formazione comunista, il sistema fino al 1990 è stato monopartitico). Dopo la morte dei genitori, Uhuru e Raila si sono trovati sempre su barricate opposte, a contendersi le sorti del Paese. Al contrario, William Ruto è un uomo di origini molto più umili ed è entrato in politica da militante “di strada”. L’allenza tra i due si è costituita per le elezioni del 2013.
Il procedimento giudiziario contro Rotich ha esacerbato la contrapposizione esistente: da un lato le famiglie “tradizionali”, dall’altro l’outsider che è entrato (ormai da anni) nell’establishment politico del Paese. Entrambi i poli si accusano reciprocamente di corruzione e l’indagine sulle dighe di CMC è il principale guaio giudiziario con il quale Ruto e i suoi hanno a che fare in questo momento.
Le tensioni etniche in Kenya
Le elezioni del 2007 ebbero un esito incerto: i contendenti, Raila Odinga (lo stesso che corre nel 2022) e Mwai Mbeki, sostenevano entrambi di avere vinto. Durante gli scontri tra gruppi etnici a sostegno dell’uno e dell’altro candidato che si verificarono dopo le diverse proclamazioni, morirono circa 1.200 persone. Gli sfollati furono 600 mila. Alla fine a vincere fu Mbeki, candidato di etnia kikuyu. Nell’altro schieramento, invece, stava William Ruto, sostenitore del perdente Raila Odinga. I due finirono imputati in un processo della Corte penale internazionale dell’Aja per crimini contro l’umanità (ne uscirono entrambi assolti, Kenyatta nel 2014 e Ruto nel 2016).
Erano entrambi accusati di aver organizzato dei raid per colpire i gruppi etnici rivali: Kenyatta i luo, Ruto i kikuyu. Per Kenyatta c’era anche l’accusa di essersi messo in contatto con un’organizzazione criminale kikuyu, i Mungiki, affinché colpissero i sostenitori di Odinga. Nel governo di “unità nazionale” che ne uscì in seguito, sia Kenyatta sia Ruto ebbero un ruolo: Ruto ministro, Kenyatta vice di Mbeki.
L’esasperazione degli aspetti etnici è sempre stata una delle fonti delle crisi politiche del Kenya. Diventa l’alternativa a sostanziali differenze di programma e l’adesione al partito corrisponde a un’affermazione della propria identità. In particolare da dopo il 2007, a ogni elezione si ripresenta il tema delle rivendicazioni sulla base del proprio gruppo di appartenenza, che spesso sono sfociate in episodi di violenza (mai brutali quanto nel 2007). L’alleanza tra Ruto e Kenyatta è stata funzionale per quest’ultimo a conquistarsi il sostegno dei kalenjin, gruppo etnico a cui appartiene Ruto.
La base elettorale più forte dei kalenjin sta proprio nella zona della Rift Valley, luogo dove era prevista la costruzione delle dighe.
L’indagine è arrivata a confezionare il mandato d’arresto in meno di un anno, ma, dopo Rotich, non ha più colpito altri nomi eccellenti della politica kenyota. Sul fronte degli imputati italiani, Paolo Porcelli, confermato nel luglio 2020 quale direttore generale di CMC, a luglio 2019 è stato dichiarato «latitante» dalla Direzione della pubblica accusa (Dpp), una sorta di procura generale del Kenya. Pandemia e interessi politici hanno rallentato il procedimento penale, che è arrivato in aula solo a marzo 2022. Nonostante le richieste di scarcerazione, il ministro Rotich resta in carcere, mentre CMC in Italia sta gestendo un concordato con il tribunale di Ravenna.
L’azienda – che conta oltre 5.400 dipendenti – si trova da anni in una difficile situazione economica che ha allungato la lista dei suoi creditori. Per evitare di finire in bancarotta, ha chiesto al tribunale di Ravenna di poter ottenere il riconoscimento di questo strumento giudiziale che serve a tutelare sia l’azienda, sia i suoi creditori (lavoratori in primis) evitando il fallimento. Attraverso il concordato preventivo, l’azienda s’impegna a restituire quanto dovuto perché ritiene che ci siano le condizioni per incassare a sufficienza. Nel caso di CMC, però, causa pandemia il piano è già in ritardo di cinque mesi.
A complicare ulteriormente la situazione, a marzo 2021 la procura di Ravenna ha aperto un fascicolo per falso in bilancio contro CMC: l’ipotesi è che la dirigenza della cooperativa abbia aggiustato i conti 2016 e 2017 vantando crediti inesistenti o quasi e prevedendo introiti che non c’erano allo scopo di preparare la richiesta di concordato depositata nel 2018.
Anche su questo CMC ha preferito non commentare.
In Kenya, il processo sulle dighe avrà certamente un effetto diretto sullo scenario politico locale (per quanto sia difficile stabilire se una sentenza arriverà prima del voto di agosto). Altra conseguenza probabile sarà la cancellazione, almeno temporanea, dei progetti per realizzare i due impianti.
Alle origini della saga delle dighe
Arror significa «il fiume che scorre rumorosamente» in lingua markweta, uno degli idiomi parlati dalla comunità kalenjin, tra le più numerose in Kenya. La parola dà il nome a un paese che sorge vicino al letto del fiume Kerio, in una delle zone più verdi e ricche di acqua dell’intero Kenya. Insieme a Kimwarer, un’ottantina di chilometri più a sud lungo il corso del fiume, è il luogo sul quale avrebbe dovuto sorgere la diga di CMC. Entrambe le dighe da un lato avrebbero dovuto produrre energia idroelettrica, dall’altro contribuire a irrigare i campi. CMC si è aggiudicata le gare d’appalto nel marzo 2015. Ad Arror e Kimwarer, però, sono rimasti solo i resti di cantieri ormai dismessi e nessuna diga, nonostante per anni si sia cercato di costruire impianti per l’energia idroelettrica lungo la valle del Kerio.
La prima volta che il fiume Arror è stato identificato come potenziale fonte di energia idroelettrica era il 1983. Se ne trova traccia in una nota a piè di pagina di un rapporto della Banca Mondiale che riguardava un’altra serie di lavori del genere, lungo il fiume Tana. Tra anni dopo, nel 1986, il quotidiano kenyota The Nation riportava la notizia di un progetto ad Arror da circa 3,5 milioni di dollari. Una cifra incomparabilmente più bassa di quella attuale, eppure i fondi non sono mai arrivati è quel progetto è rimasto lettera morta. È stato il primo di una serie.
Più del 50% dell’elettricità del Kenya proviene da centrali idroelettriche, fonte primaria di energia seguita dal fossile. La Rift Valley, l’area geografica dove si trovano Arror e Kimwarer, è il secondo bacino produttivo del Paese. Secondo il think tank Energy for Growth Hub, «il Kenya ora può produrre significativamente più energia di quella che consuma». Nel 2019 la popolazione che ha accesso all’elettricità è quasi il 70%, una quota raddoppiata rispetto al 2014. Dal 2012 in avanti la Banca Mondiale, per risolvere la situazione, ha cominciato a proporre strumenti di finanziamento con capitale pubblico-privato per avviare progetti che rinforzassero l’infrastruttura energetica del Paese. Questo stesso sistema avrebbe dovuto finanziare anche le due dighe di Arror e di Kimwarer.
In quel contesto nasceva anche il piano di sviluppo del Kenya Vision 2030, ancora oggi il libro dei sogni che contiene i progetti di sviluppo del Paese immaginati da un board di funzionari pubblici e attori privati designato inizialmente da Mwai Kibaki, il predecessore di Uhuru Kenyatta alla presidenza del Kenya. Sia Kibaki, sia Kenyatta hanno investito molto in opere infrastrutturali (strade prima di tutto).
Nonostante la sovrapproduzione di energia odierna, in Kenya persistono enormi problemi di approvvigionamento. Secondo le stime riportate dallo studio del 2021 A comprehensive review of energy scenario and sustainable energy in Kenya di tre ricercatori dell’Università di Cape Coast, in Ghana, l’interruzione nel flusso della corrente elettrica costa alle aziende kenyote circa 54 mila dollari al mese. Tanto per i fatturati delle aziende del Kenya.
Proprio per far fronte alla crisi di allora, nel 2009, il Parlamento del Kenya aveva ripreso in mano l’ipotesi di una diga ad Arror il cui studio di fattibilità era stato assegnato a una società italiana. Dall 1986, secondo quanto ha riportato al parlamento il ministro delle Risorse idriche di allora, il costo del progetto era aumentato di 29 volte. A partire dal 1994 sono state aggiunte alla lista dei progetti per la valle del Kerio altre undici dighe di piccole dimensioni. Di quella di Kimwarer, però, ancora non si faceva menzione. È entrata nel novero dei progetti per la produzione idroelettrica solo anni dopo: nel 2012 è stato condotto un primo studio di fattibilità e nel 2014 il progetto è stato inserito nel “National Water Master Plan 2030“, capitolo delle risorse idriche di Kenya Vision 2030.
L’impegno dell’Italia
A luglio 2015 Matteo Renzi, allora primo ministro, si trovava in Kenya in visita ufficiale. Era il suo secondo viaggio in Africa, in due anni. Gli sbarchi dei migranti in Europa e la minaccia del terrorismo su scala globale erano i principali argomenti dell’agenda internazionale. Per l’Italia rendere più stretti i legami con le potenze regionali africane, come il Kenya, era una priorità.
In cambio di una maggiore impegno a garantire la stabilità del continente, Renzi portava sul tavolo investimenti italiani in Kenya. Investimenti in cambio di maggiore attenzione al tema dei migranti e del terrorismo internazionale è stato un genere di scambio molto in voga a partire dal 2015. Il quadro di Kenya Vision 2030 e la carenza di centrali idroelettriche presentavano il contesto favorevole per uno scambio del genere.
Il progetto annunciato in quel contesto, però, non è né quello di Kimwarer, né quello di Arror. È un terzo progetto, la diga di Itare, da realizzarsi non allo scopo di produrre energia elettrica, ma di garantire l’accesso all’acqua alla popolazione della provincia di Nakuru, nel cuore del Kenya. Non è toccato dall’indagine del Dpp, ma rientra nella logica di penetrazione nel Paese di CMC. Un accordo per la realizzazione del progetto già esisteva dall’agosto dell’anno precedente, ma dopo la visita di Renzi si è trovato anche un sistema per finanziarlo: «In occasione della missione del premier Matteo Renzi in Kenya, SACE, Intesa Sanpaolo e BNP Paribas annunciano la finalizzazione dell’operazione di finanziamento del progetto della diga di Itare, del valore complessivo di 306 milioni di euro, realizzato da CMC-Ravenna per conto del National Treasury keniota», scriveva in un comunicato stampa la SACE, la società controllata dal Ministero delle Finanze che assicura le aziende italiane all’estero. È la benedizione italiana per l’ingresso di CMC nella costruzione delle dighe in Kenya.
Un tratto del fiume Kerio, in Kenia – Foto: idfied/Shutterstock
Oggi anche il progetto di Itare è fermo. A ottobre 2021, 40 mezzi che erano stati acquistati da CMC sono stati messi all’asta. La cooperativa di Ravenna si lascia poi alle spalle altri contenziosi aperti con dei subappaltatori locali. L’azienda di costruzioni italiane non ha però voluto rispondere alle domande sul perché anche quel progetto sia stato abbandonato.
CMC, dal canto suo, già in una nota del 2019 per il ministero degli Esteri italiano lamentava «carenze progettuali dei documenti di contratto», «una diversa e più sfavorevole e imprevista conformazione geologica» e «il sistematico pagamento in ritardo delle fatture emesse che è culminato in settembre 2018 in ritardi di portata tale da avviare la sospensione dei lavori sulla diga di Itare». La società chiedeva alle autorità del Kenya di garantire un flusso di cassa adeguato per riprendere con i lavori, ma questa situazione non si è mai verificata. Attraverso i due progetti la cooperativa italiana in tutto ha incassato circa 67 milioni di euro, una cifra insufficiente a coprire i lavori, anche a causa del buco di bilancio provocato soprattutto da commesse mai liquidate del tutto in Italia.
La situazione dei suoi conti ricorda quella di Condotte o Astaldi, due gruppi di costruzione di primo livello finiti in amministrazione controllata. Vista la crisi in Italia, CMC nel bilancio 2018 indicava il 73% degli appalti in lavorazione all’estero. Nel bilancio 2020 CMC indica anche un arbitrato internazionale in corso alla Camera di commercio internazionale con il Kenya, provocato proprio dal contenzioso sulle dighe. CMC chiede la restituzione di 124 milioni di dollari alla Kerio Valley Development Authority (KVDA), l’autorità che le ha assegnato la realizzazione delle dighe. «L’arbitrato è in fase di avvio e si presume possa finire nell’ultimo trimestre 2022 o primo semestre 2023», si legge nel bilancio consolidato del 2020.
La valle del Kerio
The Elephant, giornale online partner di IrpiMedia in questa inchiesta, ha visitato la valle del Kerio nell’ottobre 2020. La valle si distende tra due gruppi gli altipiani per circa 80 chilometri. È un paradiso verdeggiante, dove si coltivano avocado, mango, papaya, miglio, sorgo e altre graminacee. Il suo centro più famoso è Iten, città che ha dato i natali a diversi maratoneti del Kenya.
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La diga di Arror sarebbe dovuta sorgere tra i villaggi di Hossen e Kipsaiya. La Kerio Valley Development Authority (KVDA), l’autorità che gestisce le risorse idriche della regione, aveva promesso a 900 famiglie della regione, a cui aveva sottratto terreni per realizzare l’impianto, una compensazione di 52 milioni di dollari. Secondo un articolo del quotidiano Business Daily di gennaio 2022, ancora nessuno ha ricevuto quanto promesso. «Non è stata costruita alcuna diga – racconta a The Elephant Salome Chebet, una residente -. È stata una truffa: l’unica opera realizzata è stato un container trasformato in ufficio». Nemmeno di quello c’è più traccia. «Con il senno di poi – prosegue – è un bene che la diga non sia mai stata costruita. Nessuno la vuole più, è il risultato di una presa in giro, una truffa politica di persone che abbiamo eletto e che dicevano di rappresentare i nostri interessi».
Tutti gli esponenti della KVDA sono stati indagati. Tra loro ci sono anche senatori, governatori e politici locali. Chebet li ricorda quando venivano a vendere la diga immaginaria, un progetto avveniristico che avrebbe dovuto risolvere sia il tema dell’irrigazione, sia quello dell’elettricità. Tracce di queste dichiarazioni si trovano anche in discorsi pubblici: «Prima di tutto, permettetemi di dire che i progetti di sviluppo della diga di Arror e Kimwarer sono progetti faro della Kenya Vision 2030», ha dichiarato un senatore, Kipchumba Murkomen, durante una seduta parlamentare in cui aggiornava l’aula dello stato di avanzamento del progetto, nel febbraio 2019. «Nell’ambito dei progetti Arror e Kimwarer, si prevede che oltre quattromila ettari di terra nella valle di Kerio saranno adeguatamente irrigati. Attraverso il progetto, ci sarà la generazione di 80 megawatt di energia idroelettrica per la produzione, la fornitura di acqua pulita per 80.000 famiglie e bestiame; e il sostegno alle iniziative di conservazione dei fiumi Arror e Kimwarer», ha aggiunto.
A Kimwarer è difficile anche trovare le tracce del cantiere oramai scomparso. Gli unici segni sono dei fori di perforazione di piccolo diametro conficcati nel terreno dove si sarebbe dovuto allestire il campo base dei lavoratori. Vincent Kiprop, del vicino villaggio di Tulwobei, ricorda come le delegazioni di pubblici ufficiali venissero spesso da quelle parti prima del lancio del progetto per rincuorare la popolazione. «Poi hanno smesso improvvisamente – aggiunge – e lo scandalo che ne è seguito ha spaventato la gente del posto. Ci si chiedeva: com’è possibile che nostri stessi leader possano cospirare per fregarci?».
Le conversazioni con gli altri locali seguono lo stesso spartito. Arror o Kimwarer, non fa differenza: con i progetti ormai abbandonati, resta solo una grande rabbia. Il clima è quello dell’antipolitica che conosciamo in Europa: non c’è alcuna fiducia nei confronti dei propri rappresentanti, né nella possibilità di investire sul territorio. Il loro sospetto è che i soldi delle dighe serviranno in realtà a pagare la campagna elettorale dei politici che correranno nella regione della Rift Valley e in particolare nella provincia di Elgeyo Marakwet. Eppure dal 2007 la lotta alla corruzione è uno degli argomenti cardine delle campagne elettorali, soprattutto nelle aree rurali.
CREDITI
Autori
Lorenzo Bagnoli
Dauti Kahura
In partnership con
Mappe
Editing
Giulio Rubino (IrpiMedia)
Patrick Gathara (The Elephant)
Foto di copertina
Un tratto del fiume Kerio
(idfied/Shutterstock)