Il modello Lombardia dalla grandeur sanitaria alla débâcle Covid-19

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Il modello Lombardia dalla grandeur sanitaria alla débâcle Covid-19

Lorenzo Bagnoli
Luca Rinaldi

La Lombardia vanta un sistema sanitario definito, soprattutto dai suoi governanti, «eccellente». Compare sempre nei primi posti dell’Indice di performance sanitaria e nel 2019, secondo il report del think tank Demoskopika, 165 mila persone si sono spostate da altre regioni per farsi curare nei suoi ospedali. Eppure, dietro l’ “eccellenza”, ci sono anche dei problemi gestionali colossali, dovuti a precise scelte politiche. Da un lato, il sistema sanitario “alla lombarda” ha trasformato profondamente la sua rete di presidi sanitari di medicina generale a vantaggio dei grandi ospedali. Dall’altro, ha creato un sistema di accreditamento tra pubblico e privato che in passato ha dimostrato di essere permeabile a fenomeni corruttivi.

Non è possibile stabilire una causalità diretta tra la struttura del sistema sanitario e i numeri dell’emergenza Covid, più alti qui che nel resto d’Italia, ma si possono certamente indicare le responsabilità politiche che hanno prodotto il sistema odierno. Il processo ventennale è stato talmente pervasivo che, nonostante molte indagini e condanne, non è stato possibile scardinarlo. La trasformazione è cominciata nel 1997, quando la regione era governata da Roberto Formigoni, che al Pirellone, il grattacielo allora sede del governo regionale, ci è stato dal 1995 al 2013. Al suo regno è seguito quello della Lega, prima Roberto Maroni e ora Attilio Fontana, che hanno seguito pedissequamente il sentiero tracciato in passato.

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Il piano d’emergenza nel cassetto da dieci anni

Il governo regionale dal 2010, anno dell’esplosione del virus influenzale H1N1, meglio conosciuto come “influenza suina”, dovrebbe avere aggiornato un piano di emergenza per la gestione delle pandemie. Il piano però non è mai stato messo in atto, nonostante il 22 dicembre 2010, quasi dieci anni fa, una delibera regionale avesse indicato quali dovessero essere i suoi contenuti, dopo aver evidenziato tutte le criticità nella tenuta del sistema sanitario regionale durante l’emergenza H1N1.

La delibera aveva già individuato i punti deboli del sistema lombardo di fronte a una crisi, dalle mancate procedure per la gestione delle residenze sanitarie per anziani, che rappresentano una delle più importanti alternative all’ospedale che esistono in Lombardia, fino a stabilire quale dovesse essere il comportamento dei medici di medicina generale in una fase di pandemia acuta.

Tutto il sistema, per altro, non poteva prescindere dal coordinamento e dalla gestione dell’emergenza da parte delle Asl, le Aziende sanitarie locali, che oggi hanno cambiato pelle, diventando, di fatto, sportelli di accettazione e uffici amministrativi, più che presidi medici.

La delibera, infatti, indicava la mancata definizione di un «accordo-quadro con le residenze per anziani (Rsa) per l’aumento di assistenza medica e infermieristica» tra i principali nodi da sciogliere per realizzare un piano di emergenza lombardo. Oggi le Rsa sono i luoghi dove si sono verificati focolai sulle cui responsabilità la procura di Milano ha aperto otto inchieste, di cui la più importante riguarda il Pio Albergo Trivulzio, struttura che ospita circa 1.200 anziani.

Altro buco mai sanato è il capitolo riguardo la “Fase 6”, cioè il protocollo di comportamento da seguire quando ci si trova di fronte a una pandemia dilagata, che letto oggi è drammatico.

Era prevista infatti la definizione di accordi con i medici di medicina generale per «l’ampliamento dell’assistenza in fase 6». Anche qui la verifica è lapidaria: «Non sono stati siglati accordi». Come allora nei decenni successivi gli stessi medici sono rimasti senza linee guida su come trattare a domicilio i pazienti sospetti. Allo stesso modo nel documento si indica, proprio in virtù dell’isolamento dei casi, il necessario incremento dell’assistenza domiciliare. Risultato: «assenza di azioni».

«Il progressivo ridimensionamento del ruolo dei medici di famiglia ha portato a una progressiva perdita di cura del territorio»

Roberto Carlo Rossi

Presidente dell'Ordine dei medici di Milano

«Negli ultimi 15 anni in Lombardia – dice a IrpiMedia il presidente dell’Ordine dei medici di Milano, Roberto Carlo Rossi – si è di fatto depauperato il patrimonio della medicina generale sul territorio. I medici di famiglia hanno rivestito, purtroppo, un ruolo sempre più marginale. La messa al centro degli ospedali in quanto tali e il progressivo ridimensionamento del ruolo dei medici di famiglia – conclude Rossi – ha portato a una progressiva perdita di cura del territorio».

Proprio lo sviluppo della medicina del territorio avrebbe potuto essere uno strumento importante per l’isolamento dei casi e il trattamento a domicilio senza ricovero, come ha sottolineato l’8 aprile su RaiTre, ad Agorà, il dottor Massimo Galli, responsabile del reparto malattie infettive all’Ospedale Sacco di Milano: «C’è stato un clamoroso fallimento, e di questo ne dovremo prendere atto per il futuro, della medicina territoriale, ammettiamolo e riconosciamo questo aspetto».

L’inizio dello smantellamento combacia con la riforma formigoniana del 1997, completata 18 anni dopo con quella voluta dal governo regionale della Lega guidato da Roberto Maroni.

Il regno di Roberto Formigoni

Tra il 1995 e il 2013 Roberto Formigoni è stato presidente regionale e ha tirato le fila del potere in una delle regioni più produttive d’Europa. La sanità è sempre stata uno dei suoi cavalli di battaglia, grazie soprattutto ai legami con organizzazione religiose con la vocazione per la politica e gli affari come Comunione e Liberazione e il suo braccio economico, la Compagnia delle Opere.

Parola chiave: spoils system

Pratica politica secondo cui gli alti dirigenti della pubblica amministrazione cambiano con il cambiare del governo

Formigoni inizia da giovanissimo la sua attività politica nella Democrazia cristiana. Prima di sedere sullo scranno più alto della regione Lombardia passa dall’Europarlamento alle elezioni del 1984, diventando nel 1987 vice presidente del Parlamento europeo. Eletto deputato in Italia nel 1987, otto anni dopo arriva il primo mandato da presidente della regione Lombardia e la militanza nel progetto politico di Silvio Berlusconi.

Lo chiamavano il Celeste, al Pirellone. Rispetto agli “azzurri”, i neomilitanti della rampante Forza Italia, in maggioranza nuovi arrivati nel mondo della politica, Formigoni era un politico navigato, con anni di militanza democristiana. Il suo azzurro, perciò, era meno acceso: celeste, appunto.

È proprio nel corso di questi vent’anni che il sistema della sanità lombardo spinge l’acceleratore sul settore privato, con il contributo decisivo dei grossi gruppi imprenditoriali, che in Lombardia hanno visto un nuovo mercato, e le organizzazione religiose.

La sua riforma del 1997 è una rivoluzione copernicana nel sistema sanitario italiano: equipara sistema pubblico e sistema privato seguendo i modelli di privatizzazione dei Paesi anglosassoni. In un convegno del novembre 1997 diceva che il suo modello avrebbe permesso il «superamento della crisi del welfare, ovvero della solidarietà sociale di matrice statalista».

«E noi – si legge nel resoconto di AdnKronos Salute – crediamo che questo episodio possa contagiare le altre regioni e avviare un confronto che aiuti a trovare risposte adeguate alle grandi questioni dibattute anche in questo convegno». L’ambizione non gli è mai mancata. Non ha contagiato altre regioni, ma ha pervaso nel profondo la Lombardia: la stessa filosofia formigoniana è stata perseguita anche dalla giunta leghista che ha preso il suo posto, con un’ulteriore riforma promossa nel 2015.

L'unicità del sistema sanitario lombardo
Spiega Alberto Ricci, coordinatore dell’Osservatorio OASI dell’università Bocconi, che il servizio sanitario lombardo si differenzia principalmente in due aspetti da quello delle altre regioni italiane: il primo è il ruolo delle Asl, le Aziende sanitarie locali, le cui funzioni in Lombardia sono state attribuite a due diverse tipologie di enti, il secondo riguarda il peso nell’offerta sanitaria del settore privato.

Le Asl, da legge nazionale del 1992, «si occupano della committenza e dell’erogazione delle prestazioni sanitarie», spiega Ricci. In pratica, a seconda dell’esigenza del paziente, possono fornire direttamente un servizio da ambulatorio, prescrivere farmaci, oppure ricoverare il paziente nella struttura idonea per ricevere cure «ad alta intensità», fino a un ricovero; ma allo stesso tempo, le Asl hanno la possibilità di commissionare prestazioni sanitarie ad altre aziende pubbliche (come le aziende ospedaliere) o private accreditate. In Lombardia queste due funzioni sono divise tra Ats, Agenzie di tutela della salute (otto per le undici province lombarde) che «allocano le risorse e decidono le prestazioni sanitarie» e le Asst, Aziende socio sanitarie territoriali, che «hanno sostituito le precedenti aziende ospedaliere e inglobato i poli ambulatoriali» e si occupano di erogare materialmente le prestazioni. Le Asst, in larga parte, hanno sede in strutture ospedaliere. La nomenclatura nuova arriva nel 2015, ma il cambiamento era cominciato con il Celeste, con la riforma del 1997. Mentre in regioni come Emilia Romagna, Toscana e Veneto si investiva in «strutture intermedie» per la medicina generale, dei poliambulatori più attrezzati, in Lombardia non c’è stato grande coordinamento. «Una buona medicina del territorio è quella che è in grado di schermare l’ospedale, di scegliere chi può essere curato a domicilio e chi no. Dove questa rete non c’è, si va tutti al pronto soccorso», aggiunge Ricci. È quanto è successo in Lombardia e qui sta il suo fallimento.

Il forte ruolo delle strutture ospedaliere in Lombardia, aggiunge Ricci, è principalmente dovuta alla conformazione geografica e sociale della Lombardia, tra le regioni più densamente popolate d’Italia. La rilevante presenza del privato, si giustifica invece a partire dalla realtà economica della Lombardia, da sempre contraddistinta da una vivace imprenditoria, e con la seconda specificità del “modello Formigoni”: una visione favorevole all’integrazione tra sistema sanitario pubblico ed erogatori privati. Infatti la Regione spende circa il 30% del budget sanitario per accreditare ospedali e ambulatori privati nel sistema pubblico (contro una media nazionale del 20,3%). In pratica, un utente del servizio sanitario lombardo può ricevere una prestazione pagata in tutto o in parte dal pubblico anche nelle strutture private. Nell’ottica dei promotori del modello, lo scopo è promuovere un’assistenza di altissima qualità e ampliare l’offerta. Secondo i detrattori, invece, il sistema ha sì garantito una qualità alta delle prestazioni sanitaria ma arrivando a “privatizzarsi” nei fatti, mettendo in competizione per la stessa torta di risorse, circa 19 miliardi di euro all’anno, il sistema pubblico e privato. Questo slittamento può essere dannoso perché i sistemi, per quanto integrati sul piano teorico, non hanno sempre lo stesso obiettivo. I privati concentrano la loro offerta su reparti ad altissima specializzazione oppure su residenze assistenziali, perché rappresentano la fetta di mercato dove i margini sono più alti. Restano con maggiore frequenza sulle spalle del pubblico i servizi di base, come i pronto soccorso.

Il privato è un universo composito, dove ci sono diversi interessi: dalle fondazioni religiose, agli enti no profit fino al mondo del profit. a convivenza per essere positiva deve essere coordinata e programmata dal pubblico, sostiene Ricci: «La presenza del privato accreditato nella sanità pubblica ha spesso significato, come accaduto anche in Lombardia, maggiore disponibilità di investimenti e in definitiva di offerta di servizi per l’intero sistema pubblico. A patto che la regia regionale sia efficace nella programmazione e nel monitoraggio, i privati mettono a disposizione del Sistema sanitario nazionale alcune competenze altamente specialistiche: si pensi al ruolo di molti grandi ospedali privati accreditati nella ricerca, ma anche nel corso dell’emergenza Covid19».

Critici più radicali come Maria Elisa Sartor, docente a contratto di Programmazione, organizzazione, controllo nelle aziende sanitarie all’Università degli Studi di Milano, sostengono che la riforma di Formigoni abbia costruito uno spazio che definisce il “quasi-mercato”: le aziende ospedaliere vendono alla Regione dei servizi e competono tra loro, senza però offrire necessariamente quello che serve al sistema sanitario, ma quello che conviene di più all’azienda sanitaria. Se privato e pubblico fossero davvero paritari e complementari questo problema non si porrebbe. Invece, secondo Sartor, le differenze esistono. Lo dimostra, ad esempio, il caso dell’emergenza coronavirus. In un articolo pubblicato su Gli Asini, la professoressa ricorda che le prime strutture ospedaliere intervenute fino al 9 marzo sono state solo pubbliche.

Dopo la deliberazione regionale dell’8 marzo che seguiva il lockdown imposto dal governo nazionale, la Lombardia ha chiesto che i privati liberassero posti letto per l’emergenza. Ora strutture pubbliche e strutture private sono parimenti impegnate nel contrasto al coronavirus, ma il vantaggio “negoziale” delle strutture private ha permesso loro, in molti casi, di organizzarsi e prepararsi meglio, mentre il pubblico è andato immediatamente in affanno, senza possibilità di organizzarsi.

Il tramonto del “Celeste”

La Corte dei conti nel 2011 ha sottolineato come nel settore sanitario «si intrecciano con sorprendente facilità veri e propri episodi di malaffare con aspetti di cattiva gestione, talvolta favoriti dalla carenza dei sistemi di controllo». Casi di questo genere non sono di certo mancati nemmeno nell’eccellenza Lombardia: il colpo decisivo per Formigoni arriva proprio con le indagini sui fondi neri dell’ospedale San Raffaele di Milano e sulla Fondazione Maugeri di Pavia che gestisce l’omonimo ospedale, due aziende sanitarie private.

Gli inquirenti hanno ricostruito come dal 2002 al 2011 siano partiti dai conti del San Raffaele nove milioni di euro diretti all’imprenditore del settore sanitario Pierangelo Daccò, che informalmente curava gli interessi di Regione Lombardia e, all’interno della stessa fondazione, di don Luigi Verzè, il prelato ex vicepresidente della fondazione San Raffaele. Quei nove milioni sono un tesoretto frutto delle sovrafatturazioni imposte dal braccio destro di don Verzè ai fornitori: la “cresta” retrocessa in contanti è servita a corrompere i vertici di Regione Lombardia così da avere provvedimenti favorevoli alla fondazione. Da questo primo tassello l’inchiesta si è allargata fino a sbattere poi contro la Fondazione Maugeri di Pavia.

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Il mercato parallelo dei vaccini

Vero o presunto che sia, è oggetto di indagini in Italia ed Ue. Lo popolano truffatori ed esiste perché il sistema di distribuzione globale, soprattutto verso i Paesi poveri, arranca

Nell’aprile 2012, con l’accusa di aver distratto 56 milioni di euro alla fondazione, sono stati arrestati l’ex assessore Antonio Simone e il direttore amministrativo del polo sanitario Costantino Passerino. Il presidente della Fondazione Umberto Maugeri è finito ai domiciliari. Tra gli indagati compariva anche Pierangelo Daccò, accusato di riciclaggio, appropriazione indebita, associazione per delinquere, frode fiscale e false fatture. E poi c’era Formigoni in persona, indagato per corruzione aggravata transnazionale: per gli inquirenti avrebbe favorito con 15 delibere regionali la Fondazione Maugeri in cambio di alcune utilità, come vacanze pagate e cene in ristoranti di lusso.

Le indagini tra San Raffaele e Maugeri si sono concluse con una sentenza a quattordici anni per i protagonisti della vicenda, tra cui il segretario generale della regione e il direttore generale dell’assessorato alla sanità in Lombardia.

Quattro anni dopo l’accusa ha chiesto altri nove anni di carcere per Formigoni: «È stata una gravissima corruzione sistemica durata dieci anni che ha assunto le forme dell’associazione a delinquere con importi enormi messi in gioco», hanno spiegato in aula i pm. «Questo processo ha dimostrato quanto la corruzione possa essere devastante per il sistema economico: settanta milioni sono usciti dalle casse dello Stato per essere usati in una serie di benefit. Il modo di operare dei componenti dell’associazione a delinquere è stato un cancro».

«Questo processo – hanno sostenuto in aula i pm di Milano – ha dimostrato quanto la corruzione possa essere devastante per il sistema economico: settanta milioni sono usciti dalle casse dello Stato per essere usati in una serie di benefit. Il modo di operare dei componenti dell’associazione a delinquere è stato un cancro»

Il tribunale, alla fine, ha condannato il Celeste a 6 anni per corruzione. La condanna diventa definitiva nel 2019 con una condanna a 5 anni e 10 mesi.

Corruzione, mafia e politica, la sanità lombarda scricchiola anche dopo Formigoni

Già prima del caso San Raffaele e Maugeri la sanità lombarda aveva mostrato segni di malattia. In occasione dell’inchiesta Infinito che nel 2010 scoperchiò il vaso di Pandora sulle cosche della ‘ndrangheta al nord si sono potuti leggere i rapporti perversi tra mafia e sanità in Lombardia.

Agli arresti finì il direttore sanitario dell’azienda sanitaria locale di Pavia Carlo Chiriaco. Condannato in via definitiva a 12 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, è ritenuto uno dei referenti della ‘ndrangheta a Pavia e in Lombardia.

In quegli stessi anni a Pavia accadono tra l’altro due fatti rilevanti: l’arresto di Ciccio Pelle detto Pakistan che da latitante viene ricoverato in una clinica pavese sotto falso nome e con una falsa cartella clinica, mentre una perizia oculistica sempre di un nosocomio pavese certificherà la quasi cecità del boss camorrista Giuseppe Setola, che sarà però in grado di lasciare gli arresti domiciliari e portare a compimento la strage di Castelvolturno.

Pochi giorni prima degli arresti dell’operazione Infinito all’ospedale San Paolo di Milano muore gettandosi dalla tromba delle scale Pasquale Libri, funzionario della divisione appalti dell’ospedale. Libri e lo stesso Chiriaco si conoscevano da tempo e se nel corso dell’inchiesta del 2010 è emersa l’influenza delle cosche sulla sanità, successivamente a venire a galla sarà il sistema di corruzione e tangenti tra la politica lombarda e i suoi colletti bianchi.

Partendo dal suicidio di Libri e dalle carte trovate all’interno del suo ufficio gli investigatori, quattro anni dopo, hanno ricostruito un sistema di nomine, voti e favori che ha determinato l’assegnazione di alcune gare d’appalto relative alle forniture elettromedicali. Il regno di Formigoni è finito ma l’avvicendamento con l’allora uomo forte della Lega Nord, Roberto Maroni, ha cambiato le tessere del puzzle, sempre legate al potere politico, ma non ha fermato il virus della corruzione. La Lega non è stata in grado di immunizzare il sistema dall’intreccio tra sanità, politica e corruzione. 

Lo dimostra una inchiesta della procura di Monza che ha portato in carcere Fabio Rizzi, fedelissimo dello stesso Maroni, che ha patteggiato una pena a 2 anni e 6 mesi per corruzione.

Rizzi è il padre della riforma del 2015 che ha riorganizzato per la seconda volta la sanità in Lombardia. Con Rizzi nei guai era finito un gruppo di imprenditori accusato di aver versato bustarelle ai funzionari ai quali erano affidate una serie di gare di appalto: le operazioni coinvolgevano anche appalti di società private accreditate con il sistema sanitario nazionale, tutte per la gestione esterna di servizi odontoiatrici. Dieci gli episodi di corruzione ricostruiti nel corso delle indagini che hanno permesso di scoprire che da oltre 10 anni numerose aziende ospedaliere avevano esternalizzato il servizio di odontoiatria ricorrendo a gare di appalto per circa 400 milioni. L’ennesimo spreco di denaro pubblico.

Così come è stato inutile – parola dello stesso assessore al Welfare di Regione Lombardia Giulio Gallera – la costruzione dell’ospedale di emergenza alla Fiera di Milano. Lo ha detto in una conferenza stampa via Facebook in cui ha dimostrato ancora una volte le difficoltà del governo regionale a gestire la crisi.

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Autori

Lorenzo Bagnoli
Luca Rinaldi

Editing

Giulio Rubino

Covid-19, due vincitori della gara per le mascherine sono sotto inchiesta

2 aprile 2020 | di Matteo Civillini

Procedure straordinarie, deroghe e commissari. Lo stato di emergenza sta caratterizzando l’aggiudicazione degli appalti della Consip, la centrale acquisti della pubblica amministrazione italiana. E come spesso accade nella gestione emergenziale tra le maglie più larghe dei controlli passano società con conti più o meno aperti con la giustizia o che poco hanno a che fare col mercato di riferimento. È il caso della gara indetta per la fornitura dei dispositivi di protezione sanitaria, in particolare mascherine, e aggiudicata lo scorso 27 marzo. Base d’asta 123 milioni di euro per nove lotti e aggiudicata per poco meno di 64, con un ribasso dunque che sfiora il 50%.

Le procedure straordinarie

Tra gli aggiudicatari delle gare indette da Consip per far fronte all’emergenza Covid-19 ci sono anche una cooperativa di Taranto a cui la Prefettura ha revocato la gestione di un centro d’accoglienza e una società immobiliare guidata da un imprenditore indagato per frode.

I bandi della centrale degli appalti italiana sono assegnati con una procedura straordinaria dopo che il decreto Cura Italia del 17 marzo ha previsto la deroga al Codice Appalti: per accorciare i tempi delle aggiudicazioni, i controlli sulle aziende che partecipano si fanno ex post, cioè ad appalto aggiudicato. In pratica, spiega un funzionario Consip a IrpiMedia, «prima avviene la scelta delle aziende e poi si effettuano i controlli sulla loro integrità e gli eventuali ordini di materiale». E come spesso accade durante le gestioni commissariali e in regime d’emergenza, come è stato per il terremoto de L’Aquila, per il G8 a La Maddalena, o più recentemente con Expo2015, il curriculum degli aggiudicatari pone qualche interrogativo.

La Procedura negoziata d’urgenza per mascherine chirurgiche e dispositivi di protezione individuale per l’emergenza sanitaria “Covid-19”, è stata indetta da Consip lo scorso 19 marzo. La base d’asta della gara, suddivisa in 9 lotti era fissata a 123 milioni di euro. La procedura è stata aggiudicata per 63,8 milioni di euro col criterio del minor prezzo.

La coop dell’accoglienza finita nel mirino della Prefettura di Taranto

Il primo caso riguarda la tarantina Indaco Service Cooperativa Sociale che ad oggi risulta tra i vincitori di due lotti per la fornitura di oltre 16,5 milioni di mascherine chirurgiche e 5,4 milioni di FFP3. La società è abilitata dal Ministero delle finanze alle gare d’appalto per i servizi socio-assistenziali come la fornitura di mascherine e per questo motivo si è presentata come capofila di un consorzio insieme ad altre due società. Se l’aggiudicazione sarà confermata, Indaco Service si spartirà con le altre società vincitrici una torta da oltre 34 milioni di euro.

A Taranto Indaco Service è nota tra le altre cose per aver perso nel giugno 2017 la concessione per il centro d’accoglienza straordinaria Indaco-S. Maria del Galeso a causa di «gravi carenze di carattere gestionale, strutturale e igienico-sanitarie», si legge nel decreto di revoca firmato dalla Prefettura. Nel centro, poco prima del provvedimento, era scoppiata una rivolta: «Per la disperazione i richiedenti asilo si sono barricati dentro al centro insieme al personale, costringendo la polizia ad intervenire – ricorda Enzo Pilò dell’Associazione Babele, gruppo che tutela i diritti dei richiedenti asilo -. C’erano inadempienze di ogni genere, questa cooperativa non ha mai svolto alcun servizio». L’amministratore della cooperativa Salvatore Micelli sostiene però che la causa del disservizio fosse il sovraffollamento del centro in seguito all’invio dei migranti stabilito dalla stessa Prefettura.

A seguito dell’estromissione dal nuovo bando per il centro d’accoglienza è partita una guerra di ricorsi tra Indaco Service e amministrazione pubblica che doveva chiudersi a marzo con il giudizio del Consiglio di Stato, che invece ha rinviato la seduta. Micelli, molto attivo nella politica tarantina, nel dicembre 2018 è stato accusato di aver partecipato a una maxi-truffa da oltre tre milioni di euro ai danni dello Stato. La vicenda risale al 2012, quando la Regione Puglia doveva gestire la partita dei fondi europei a sostegno dell’occupazione femminile. Micelli e soci avrebbero costituito una decina di imprese fittizie per mettersi in tasca i sussidi senza svolgere alcuna attività lavorativa concreta.

Micelli è stato accusato anche di aver presentato false fideiussioni a garanzia dei finanziamenti statali, falsificando le firme dei procuratori di agenzie di assicurazione. Per farsi liquidare i fondi il gruppo avrebbe poi inviato agli enti regionali finte lettere di assunzione e buste paga in realtà mai versate. L’imprenditore è ora fuori dal carcere perché, dice la Cassazione, gli elementi indiziari non sono sufficienti a definire il suo ruolo nella presunta truffa. La procura ha chiesto il rinvio a giudizio e l’udienza preliminare è stata fissata per maggio. È accusato di associazione a delinquere finalizzata alla truffa aggravata.

Sentito da IrpiMedia, Salvatore Micelli sostiene di essere vittima di un attacco da parte del mondo politico e giudiziario tarantino allo scopo di gettare fango su di lui. «Il sottoscritto – spiega – non ha preso neanche un euro illecitamente. Io non conosco neanche chi sono la maggior parte delle persone coinvolte nell’indagine. Avevo solo svolto attività di consulenza per alcune di queste imprese». Anzi, sostiene di essere stato il primo a denunciare un sistema di corruzione in città.

L’imprenditore sotto indagine per truffa

Insieme a Indaco Service, tra gli aggiudicatari del lotto per la fornitura di mascherine chirurgiche c’è anche la Italian Properties Srl: una holding bresciana che dichiara di avere partecipazioni per oltre 20 milioni di euro in società industriali, commerciali, agricole e immobiliari. Il suo proprietario Marco Melega, 47 anni, è stato arrestato lo scorso luglio per una presunta maxi-truffa online in cui sono caduti migliaia di consumatori. Secondo le accuse della procura di Cremona, il gruppo di Melega avrebbe creato diversi siti per l’acquisto di vini, buoni carburante e prodotti elettronici a prezzi stracciati. Le vendite erano riservate ai titolari di partita Iva e prevedevano un acquisto minimo di mille euro di merce.

Secondo l’accusa, la società non sarebbe stata in possesso di alcun prodotto e quindi i compratori sarebbero rimasti a mani vuote. Quando le lamentele e le denunce montavano le società venivano liquidate, i siti internet chiusi per poi ripartire nuovamente sotto altre spoglie. Le somme di denaro venivano poi trasferite ad altre società, simulando il pagamento di operazioni fittizie, e infine monetizzate sotto forma di stipendi. Definito come dominus e principale beneficiario della frode, Marco Melega è accusato di associazione a delinquere finalizzata alle truffe online, frode fiscale, bancarotta fraudolenta e riciclaggio. L’11 marzo ha lanciato Barter For Good, una piattaforma online dove le aziende possono donare «merci difettose, beni invenduti e cespiti in disuso» da distribuire tra gli enti no-profit impegnati nella lotta al Covid-19. Il sito dichiara di aver raccolto al 26 marzo oltre 1,298 milioni di euro.

Marco Melega spiega a IrpiMedia che Italian Properties realizzerà la fornitura di dispositivi medici tramite la propria piattaforma online di scambi multilaterali tra imprese. «Abbiamo centinaia di contatti che ci stanno favorendo nelle interlocuzioni con i vari fornitori italiani ed esteri».

In merito alle vicende personali, Melega dice di esserne «stato profondamente turbato». «Sto affrontando la situazione con determinazione precisando agli inquirenti la mia estraneità ai fatti», aggiunge.

Consip contattata da IrpiMedia spiega che le società risultano effettivamente aggiudicatarie dei lotti, ma che si procederà agli ordini solo dopo le verifiche. «In caso di esito positivo dei controlli, per ogni lotto – aggiunge Consip – sarà stipulato un accordo quadro con tutti i fornitori aggiudicatari. Gli ordini di fornitura verranno emessi a partire dal fornitore primo classificato, fino all’esaurimento della disponibilità dei prodotti di quest’ultimo, proseguendo poi con un meccanismo “a cascata” verso quelli successivi in graduatoria». Così lo schema dell’emergenza, ancora una volta, rischia di premiare i più furbi.

Come è andata a finire

Dopo l’inchiesta che avete appena finito di leggere l’8 aprile Consip ha risolto il contratto con la Indaco Service emettendo gli ordini di fornitura agli altri aggiudicatari dello stesso lotto.

In partnership con: La Stampa | Editing: Lorenzo Bagnoli, Luca Rinaldi | Foto: Mika Baumeister/Unsplash

Con l’epidemia Covid in aumento le truffe online

27 marzo 2020 | di Cecilia Anesi

Mail con loghi contraffatti di banche invitavano i malcapitati a visitare siti web di online banking del tutto simili a quelle delle reali home banking degli istituti di credito, per poi rubargli le credenziali d’accesso, e poco dopo, i risparmi. Una pesca a strascico, in gergo tecnico phishing, portata avanti con successo da un’organizzazione criminale fino a quando la Procura di Reggio Calabria, guidata dal procuratore Giovanni Bombardieri, non l’ha fermata.

Nell’avviso di conclusione indagini, sono 117 le persone accusate a vario titolo di accesso abusivo a sistema informatico, detenzione e diffusione abusiva di codici d’accesso a sistemi telematici, frode informatica e riciclaggio.

La truffa dell’home banking

«La mente della truffa era un gruppo di truffatori residenti a Reggio Calabria, che per mettere a segno il colpo si era alleata con tecnici in grado di fare phishing, ovvero procurarsi illecitamente i codici di accesso dei correntisti grazie a delle “maschere” (schermate in cui immettere i dati, ndr) del tutto simili a quelle realmente in uso alle pagine home banking dei loro istituti di credito», ha spiegato Bombardieri a IrpiMedia. «In un secondo momento effettuavano bonifici in favore di conti correnti o prepagate intestati a persone residente a Reggio Calabria».

Ecco perchè da luglio 2017, dopo segnalazioni e denunce a diverse caserme dei carabinieri in tutta Italia che facevano emergere uno stesso modus operandi e un chiaro collegamento con Reggio Calabria, la locale Procura aveva avviato le indagini e, con intercettazioni e pedinamenti, aveva scoperchiato la truffa da oltre 170mila euro.

Mentre questa organizzazione criminale è stata fermata, le truffe purtroppo continuano, anche e soprattutto in tempo di pandemia. Gli inquirenti invitano «a prestare la massima attenzione a tentativi di truffe on-line finalizzate a finte operazioni benefiche nell’ambito dell’epidemia Covid19».

Cresce l’adescamento dei minori online

Il rischio è reale e in crescita anche secondo la Polizia Postale e non confinato al solo phishing ma a tutto l’ambiente della Rete. È cresciuto l’adescamento di minori online, con 13 denunce nel solo mese di marzo. «I pedofili sfruttano l’attitudine dei più giovani a postare larga parte della loro vita pubblica e privati, i social e le app come Whatsapp, Snapchat, Telegram vengono scelti come “territori di caccia” dove agganciare potenziali vittime», commentano gli investigatori. Un dato preoccupante, che si aggiunge alle classiche truffe online che sfruttano la vulnerabilità emotiva delle persone in questi giorni. La Polizia Postale segnala infatti «false raccolta fondi, siti civetta per la vendita di mascherine e prodotti igienizzanti per le mani con prezzi aumentati anche del 5000%».

Riporta ancora la Postale che dall’inizio del lockdown sono state denunciate 184 persone per truffa e 190 per cybercrime o reati online contro la persona. Il consiglio? Stare attenti alle e-mail che offrono servizi connessi all’emergenza Covid-19 (c’è una mappa della diffusione del coronavirus nel mondo e che in realtà nasconde un malware, un virus informatico) o che presentano prescrizioni mediche dell’Oms: l’allegato è un malware in grado di cifrare e rendere non utilizzabili i computer.

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