Una mappa dell’opacità societaria in Europa

12 Ottobre 2021 | a cura di Transcrime – Università Cattolica di Milano

Un’impresa su cento, in Europa, ha soci provenienti da Paesi inclusi in una blacklist o grey list in ambito antiriciclaggio e cooperazione fiscale. Un valore ben più alto si osserva in Paesi come il Lussemburgo (8,7% delle imprese), Cipro (8,5%) e Malta (5,1%). In molti casi, queste imprese presentano anche una struttura proprietaria particolarmente complessa, magari con la presenza di trust, fiduciarie o fondazioni che rendono ulteriormente difficile l’identificazione del titolare effettivo. Ma perché è importante studiare l’opacità societaria delle imprese? È presto detto: l’evidenza empirica dimostra che le imprese con queste caratteristiche hanno una probabilità oltre dieci volte maggiore di essere coinvolte in reati o di essere colpite da sanzioni.

Questi sono alcuni dei risultati che emergono da Datacros, un progetto europeo che ha studiato l’opacità societaria di 56 milioni di aziende in 29 Paesi europei, e sviluppato il primo software per le autorità pubbliche capace di identificare le aziende a rischio di coinvolgimento in casi di corruzione o riciclaggio di denaro.

Il progetto Datacros è stato coordinato dal centro di ricerca Transcrime – Università Cattolica del Sacro Cuore, co-finanziato dall’ Internal Security Fund – Police dell’Unione Europea, e realizzato con la partecipazione dei giornalisti di IrpiMedia, dell’Autorità anticorruzione francese (Agence Française Anticorruption), e della Polizia Spagnola (Cuerpo Nacional de la Policia). Il report con i risultati finali del progetto è disponibile sul sito di Transcrime.

Le imprese: un ruolo chiave nel crimine finanziario

Negli ultimi anni, diverse indagini su reati finanziari hanno dimostrato che sempre più spesso i gruppi criminali utilizzano imprese regolarmente registrate per nascondere schemi di riciclaggio, corruzione o frode fiscale. Le imprese vengono utilizzate per creare uno “schermo” che renda particolarmente difficile risalire alla reale identità degli individui che le controllano in ultima istanza – i cosiddetti titolari effettivi, o beneficial owner.

A livello europeo, si sta cercando di facilitare l’identificazione dei beneficial owner con la costituzione dei registri dei titolari effettivi, introdotti dalla quarta (e poi quinta) Direttiva antiriciclaggio. Ma per avere una panoramica completa dei possibili rischi, spesso non basta sapere chi controlla un’impresa: serve anche capire come avviene il controllo. Quale assetto di azionariato è utilizzato, quali veicoli societari sono coinvolti, quali giurisdizioni sono attraversate e con quale grado di complessità.

Nonostante gli sforzi in questo ambito, le autorità pubbliche faticano ancora a tenere il passo dei criminali: secondo le stime di Europol, in UE sono confiscati annualmente solo l’1,1% dei profitti illeciti. In particolare, le autorità pubbliche sembrano patire la mancanza di strumenti di screening del rischio delle imprese che siano specificamente progettati per il settore pubblico. Datacros ha rivelato che il 60% delle autorità pubbliche nell’UE non utilizza software per le indagini finanziarie, ma il 78% di esse vorrebbe disporre di strumenti per tracciare e valutare il rischio delle imprese.

Lo scarso utilizzo di strumenti per la valutazione dei rischi

Risultati di sintesi della survey sull’uso di software per il risk assessment di imprese da parte di autorità pubbliche. Rispondenti: 37 autorità in 19 Paesi europei

Per supportare le autorità pubbliche in questo ambito, Transcrime ha sviluppato una metodologia innovativa per misurare l’opacità societaria, sfruttando le informazioni fornite dai registri delle imprese e da altri fornitori di dati camerali (come la banca dati Orbis di Bureau van Dijk). Gli algoritmi sviluppati consentono di ricostruire l’intera catena azionaria di un’impresa (anche quando attraversa più volte i confini nazionali), individuando la presenza di potenziali red-flags o anomalie che possono segnalare il collegamento dell’impresa con schemi illeciti.

In Lussemburgo i maggiori legami con Paesi a rischio

Per esempio, aziende registrate in territori con bassi livelli di trasparenza finanziaria e societaria possono essere utilizzate per nascondere i proventi di reati finanziari. Per i criminali è conveniente – e spesso relativamente facile – registrare aziende in queste giurisdizioni, o fare uso di prestanome formalmente residenti in questi territori, per nascondere più agevolmente la loro reale identità.

Inchieste come Panama Papers, Paradise Papers e OpenLux hanno portato alla luce innumerevoli esempi di questo tipo.

I risultati di Datacros mostrano che l’1% delle imprese in 29 Paesi europei (UE27, Regno Unito e Svizzera) ha legami azionari con altre aziende o individui provenienti da Paesi inclusi in una blacklist o grey list in ambito antiriciclaggio o fiscale (dell’Unione Europea o del FATF/GAFI). Le più alte percentuali di imprese con soci da Paesi a rischio si osservano in Lussemburgo (8,7%), Cipro (8,5%), e Malta (5,1%). Concentrazioni significative si osservano poi in aree specifiche del Belgio (Bruxelles e Liegi), dei Paesi Bassi (Olanda settentrionale e Utrecht) e del Regno Unito (Londra).

Un software per identificare le aziende a rischio

Le analisi del progetto Datacros hanno posto la base per lo sviluppo di un prototipo di software che consente di identificare in tempo reale le aziende ad alto rischio di corruzione o riciclaggio. Lo strumento, che è stato progettato da Transcrime insieme alle autorità pubbliche coinvolte e ai giornalisti di IrpiMedia, combina informazioni da diverse banche dati per calcolare in tempo reale diversi indicatori di rischio a livello di impresa. Inoltre, il prototipo include visualizzazioni di rete che consentono agli utenti di ricostruire collegamenti azionari complessi ed identificare gruppi di imprese sospette.

Nei test effettuati, lo strumento si è dimostrato in grado di identificare correttamente oltre l’83% delle aziende soggette a sanzioni e fino all’ 88% delle aziende controllate da individui colpiti da sanzioni o provvedimenti giudiziari.

Ma non è che un punto di partenza: è essenziale far progredire le conoscenze sul tema dell’opacità societaria e aumentare l’efficacia degli strumenti analitici sviluppati, anche alla luce dei nuovi schemi fraudolenti emersi in seguito alla pandemia di Covid-19. La crisi economica generata dall’emergenza sanitaria ha infatti messo a dura prova la sopravvivenza di molte imprese su tutto il territorio europeo (e non solo), fornendo molte occasioni alla criminalità organizzata per investire i propri capitali in aziende in difficoltà, o mettere le mani sulle risorse pubbliche destinate alla ripresa economica.

Nella seconda fase del progetto (Datacros II), che inizierà a gennaio 2022, il software verrà potenziato e testato sul campo da oltre 15 autorità europee in 7 paesi europei, tra cui Europol ed ANAC, oltre a diverse forze di polizia, unità di informazione finanziaria, agenzie anticorruzione, e autorità garanti della concorrenza.

Questi progetti si inseriscono nella linea ricerca di TOM-The Ownership Monitor, l’iniziativa congiunta recentemente lanciata da Transcrime in collaborazione con il proprio spin-off Crime&tech. TOM è l’osservatorio di riferimento per lo studio della struttura proprietaria delle imprese, e si pone l’obiettivo di ampliare la conoscenza su chi controlla le aziende, come questo controllo si realizza ed evolve, e come si relaziona con le forme e gli attori criminali.

In Italia i valori osservati sono al di sotto della media europea (0,3%), ma alcune province come Modena (0,9%) Milano e Trieste (0,8%) presentano concentrazioni significative, soprattutto in alcuni settori come l’immobiliare, la ristorazione e il gioco d’azzardo. Inoltre, nel nostro Paese questo fattore di rischio è in aumento in seguito alla pandemia di Covid-19. Uno studio di Transcrime pubblicato a maggio 2021 aveva mostrato che le aziende che hanno registrato un cambio di titolare effettivo nei 6 mesi successivi al primo lockdown (aprile-settembre 2020), hanno anche molti più legami con giurisdizioni a rischio (oltre 5 volte superiori ai valori pre-pandemia), soprattutto attraverso soci registrati alle Isole Cayman e Panama.

I rapporti delle aziende con Paesi a rischio

Percentuale di aziende domestiche aventi legami con giurisdizioni a rischio in EU27, UK e Svizzera (2019)

Legami con veicoli societari opachi: spicca il caso dell’Olanda

Non sempre è possibile identificare un titolare effettivo (persona fisica) al vertice di una catena azionaria. Quando non si sa chi controlla un’impresa, diventa essenziale capire come è strutturata la catena di controllo. A volte, ripercorrendo i collegamenti azionari è possibile identificare un trust, una fiduciaria, una fondazione o un altro istituto giuridico che funge da “schermo” tra l’azienda e gli individui che la controllano. Nonostante questi veicoli societari siano generalmente utilizzati per scopi legittimi (come la protezione patrimoniale), numerose evidenze hanno dimostrato che possono anche essere utilizzati per nascondere attività sospette e schemi di corruzione e riciclaggio.

Reti di trust e fondazioni erano al centro dello scandalo finanziario 1MDB che ha visto coinvolto l’ex premier malese Najib Razak, condannato per corruzione, riciclaggio di denaro e appropriazione indebita dal fondo sovrano malese – dal quale sparirono 4,5 miliardi di dollari tra il 2009 e il 2015.

L’utilizzo di una serie di trust registrati alle Seychelles, alle Isole Vergini Britanniche e alle Bahamas permise invece al politico nigeriano Diepreye S. P. Alamieyeseigha di nascondere alle autorità decine di milioni di dollari ottenuti nel 2005 da aziende nigeriane in cambio di appalti pubblici.

Dai risultati di Datacros, emerge che in Europa l’1,2% delle imprese presenta come beneficiario ultimo un trust, una fiduciaria o una fondazione per il quale non è possibile risalire ad un individuo con titolarità effettiva. In alcuni Paesi, come Olanda (25,6%), Lussemburgo (8,7%), e Austria (7,2%), la percentuale è sensibilmente più alta della media europea. I valori anomali osservati in Olanda, in particolare, sono dovuti all’ampio uso domestico degli stichting, veicoli societari simili alle fondazioni che vengono utilizzati anche per controllare società di capitali. Come sottolineato in passato dall’OCSE (2019), gli stichting hanno caratteristiche che li rendono particolarmente appetibili per nascondere l’identità dei titolari effettivi a fini illeciti.

Aziende opache

Percentuale di aziende domestiche aventi legami con veicoli societari opachi che non permettono di identificare un titolare effettivo (2019)

I dati ci raccontano anche che in Italia anche il ricorso a trust, fiduciarie e fondi per il controllo di imprese è in aumento in seguito alla pandemia di Covid-19. L’1.3% delle aziende che hanno cambiato titolare effettivo in seguito alla prima ondata della pandemia presenta come beneficiario ultimo uno di questi veicoli societari – il doppio rispetto al periodo pre-pandemico.

Orientarsi nella complessità

Livelli multipli di partecipazione azionaria, “scatole cinesi” con più collegamenti ad incastro, schemi di azionariato circolare, quote azionarie appena al di sotto delle soglie di identificazione del titolare effettivo: questi sono alcuni degli espedienti utilizzati dai criminali per nascondere la propria identità come titolari di imprese.

Le “scatole cinesi” sono ampiamente utilizzate per una serie di schemi di frode realizzati tramite società cartiere. Per esempio, nel 2017 l’inchiesta Security della DDA di Milano ha rivelato l’infiltrazione di un clan di cosa nostra in alcune imprese in Sicilia e Piemonte utilizzate per emettere fatture false ed evadere l’IVA. Il clan si serviva di una complessa rete di prestanome e società cartiere, caratterizzate da legami azionari interconnessi, frequenti cambiamenti di forma legale, denominazione e sede.

Schemi azionari complessi possono anche essere usati per nascondere legami fra imprese e falsare la concorrenza in gare d’appalti. Per esempio, nel 2018 l’operazione Comune Accordo ha scoperto nel comune di Corigliano Calabro un cartello di imprese formalmente indipendenti ma di fatto facenti capo allo stesso individuo, in grado di manipolare sistematicamente appalti pubblici per un valore totale di circa 9 milioni di euro.

Anche qui, capire come avviene il controllo di un’azienda può diventare importante tanto quando capire chi esercita il controllo.
A questo scopo, Datacros ha ricostruito la struttura societaria di 56 milioni di imprese europee, e il record di complessità rilevato va ad una (piccola) impresa di costruzioni a Bucarest, controllata dal titolare effettivo attraverso 28 livelli intermedi di azionariato. In Italia, lo schema di azionariato più complesso si osserva per un’azienda registrata nel centro di Milano, che riporta 27 livelli di azionariato consecutivi in 4 Paesi diversi (Olanda, Francia, Stati Uniti e l’Isola di Jersey, paradiso fiscale del Regno Unito).

Foto: Only_NewPhoto/Shutterstock | Infografiche: Lorenzo Bodrero | Editing: Luca Rinaldi

Corruzione, porfido e sfruttamento: ecco come la ‘ndrangheta si è presa il Trentino

Corruzione, porfido e sfruttamento: ecco come la ‘ndrangheta si è presa il Trentino

Cecilia Anesi
Margherita Bettoni

Sono le 18.18 del due dicembre 2014. L’operaio cinese Hu Xupai entra nel cantiere della “Balkan Porfidi e Costruzioni Srl” a Lona Lases, un piccolo comune montano della Val di Cembra, 12 chilometri a Nord di Trento. Gli ha dato appuntamento lì il suo datore di lavoro, il macedone Durmishi Bardul: Xupai insisteva nel riscattare ciò che gli spettava di diritto, 34.843,04 euro di stipendi arretrati. Non trovando nessuno, Xupai ha un moto di rabbia. Inizia a danneggiare un macchinario, pensando di essere stato nuovamente preso in giro, ma la realtà è ben peggiore. Ad attenderlo nascosti ci sono Hasani Selman e Mustafa Arafat, titolari di un’altra ditta che opera sul cantiere. Spuntano fuori di colpo, minacciandolo con una pistola a tamburo. Non può scappare. Viene colpito al volto con una torcia, più e più volte, fino a svenire. Poi calci, morsi. E una punta metallica che gli trafigge una gamba. Una secchiata d’acqua lo riporta nell’incubo: è legato e adesso di fronte a sé c’è il suo capo, Durmishi, che inizia a picchiarlo selvaggiamente.

Dopo un’ora di violenze, i macedoni se ne vanno, ma prima avvisano i carabinieri che rinverranno Xupai ancora legato. Questa però, non è una storia di litigi tra operaio e caporale: i macedoni agiscono su ordine di una locale di ‘ndrangheta radicata in Val di Cembra, il cui business principale è proprio l’estrazione e la lavorazione del porfido. É questo ciò che sostiene l’indagine “Perfido” dei Carabinieri del Ros di Trento, guidati dal maggiore Alexander Platzgummer e coordinati dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Trento. Il porfido è un settore chiave per l’economia trentina, reso ancora più redditizio dallo sfruttamento del lavoro e della manodopera dei dipendenti che venivano vessati e tenuti alla fame in modo assolutamente deliberato. E quando osavano ribellarsi, come Hu Xupai, si dava l’esempio con una inaudita violenza. Perché era bene che anche in Val di Cembra si sapesse che a mettersi contro la ‘ndrangheta si finiva male.

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A pochi mesi dall’operazione “Freeland” che aveva ipotizzato il radicamento della ‘ndrangheta di Platì a Bolzano, il 15 ottobre scorso la Direzione distrettuale antimafia di Trento ha lanciato l’operazione “Perfido” che rivela come il Trentino sia da trent’anni terra di conquista per la mafia calabrese. Rispetto a Bolzano però, stando alle indagini, la ‘ndrangheta in Val di Cembra si veste da imprenditrice del porfido e si mischia, in modo sinergico, all’imprenditoria locale e alla politica, entrando in modo sotterraneo ma costante nella pubblica amministrazione. Le segnalazioni di cittadini onesti si susseguono negli anni. Il sospetto che il settore sia una zona grigia, dove non si rispettano diritti e in cui entrano capitali sporchi, non c’è solo tra i lavoratori delle cave, ma anche tra giornalisti locali e comitati civici.

Solo adesso arriva la conferma, con un’indagine che mette nero su bianco ciò che prima si poteva solo bisbigliare. Vige la presunzione d’innocenza, e solo il processo potrà definire realmente le responsabilità penali, ma l’immagine è quella di un territorio assoggettato, che ha perso la propria libertà e la propria innocenza. Dove i giudici vanno a cena con gli emissari dei clan, sindaci si fanno sudditi per la sete di potere e imprenditori concorrenti si piegano di fronte alla forza dell’intimidazione.

A pochi mesi dall’operazione “Freeland” che aveva ipotizzato il radicamento della ‘ndrangheta di Platì a Bolzano, il 15 ottobre scorso la Direzione distrettuale antimafia di Trento ha lanciato l’operazione “Perfido” che rivela come il Trentino sia da trent’anni terra di conquista per la mafia calabrese

Le denunce inascoltate

A novembre 2019 i due trentini Marco Galvagni e Vigilio Valentini compaiono davanti alla Commissione parlamentare antimafia per parlare delle infiltrazioni della criminalità organizzata e delle anomalie del mondo del porfido trentino. Galvagni ai tempi è segretario comunale e responsabile per la prevenzione della corruzione del Comune di Lona Lases.

Ai membri della Commissione Galvagni racconta di come già al suo ingresso in Comune nel 2001 tutti i fascicoli riguardanti le cave avessero dei sigilli perchè sequestrati dalla Guardia di Finanza. Galvagni parla di un settore «il cui controllo economico sfugge totalmente e i lavoratori sono sfruttati.»

Valentini, che è stato sindaco di Lona-Lases a cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90, compare invece davanti alla Commissione in veste di membro del Coordinamento lavoro porfido. Racconta di un clima di omertà e della «paura di amministratori comunali in conflitto di interessi, collusi con personaggi in odore di mafia.» Si sofferma anche sulle minacce ed intimidazioni vissute dalla sua Amministrazione a fine degli anni ‘80 dopo che erano stati raddoppiati i canoni delle cave: ad aprile del 1986 venne dato fuoco alla macchina dell’assessore alle cave durante una seduta della giunta comunale, un mese dopo vennero fatti esplodere 12 chilogrammi di tritolo a 100 metri dalla sua abitazione.

Già nel piano anticorruzione del Comune di Lona Lases del 2014, Galvagni aveva sottolineato i rischi nel settore del porfido. Nel 2017 aveva poi redatto una relazione dove denunciava infiltrazioni della ‘ndrangheta. L’anno prima, il Coordinamento Lavoro Porfido aveva presentato due esposti in Procura. Nel 2019 il mensile Questotrentino pubblica una serie di inchieste, tra cui “Infiltrazioni mafiose in Trentino”.

A capo della locale di Lona Lases – tratteggiano i carabinieri – siede Innocenzio Macheda, esponente della cosca Serraino. Viene da Cardeto, un paesino dell’Aspromonte, e in Val di Cembra fa da padrone: vestito da imprenditore in realtà non si fa problemi ad uscire armato di bastoni per intimidire direttamente i lavoratori e percuoterli «come i Santi di Reggio». Il suo braccio destro è Domenico Morello, che cura i rapporti con i clan in Calabria, interessati alle attività del porfido in Trentino che vedono come occasione per il reinvestimento di capitali sporchi.

Alleati e concittadini di Macheda, sono i fratelli Giuseppe e Pietro Battaglia, importanti imprenditori del porfido in Val di Cembra. Negli anni ‘80 si trasferiscono in Trentino e acquistano le prime imprese e, non molti anni dopo, anche la prima cava. Con che soldi? La Procura di Trento ipotizza che «le costosissime acquisizioni di imprese siano avvenute con il riciclaggio di denaro della ‘ndrangheta». D’altronde è la stessa madre di Macheda a dirlo in un’intercettazione: quando Macheda si è trasferito in Trentino per aprire una ditta di porfido lei a Battaglia ha inviato «tantissimo denaro, nell’ordine di milioni».

Eppure in Trentino, il cui capoluogo viene definito nelle intercettazioni una «città bianca senza malizia», tutto tace. Perchè, come scrive la Procura, «peculiarità dell’infiltrazione trentina è quella di esser stata inizialmente cautamente silente». I fratelli Battaglia si inseriscono poco alla volta in un mondo, quello delle cave di porfido, già caratterizzato da diverse anomalie, andando ad individuare un settore molto redditizio, poco controllato e, dunque, attaccabile.

I Battaglia sono i precursori, li seguirà Macheda (e i suoi milioni) e, piano piano, uomini più giovani con contatti strategici tanto con le cosche che con le istituzioni. La strategia fondamentale è una: non dare nell’occhio. Si inizia con l’acquistare le cave, con il fare girare soldi puliti, ed è in questa fase che Battaglia si sposa con una trentina, Giovanna Casagranda. Questo lo rende a tutti gli effetti inserito nella società della Val di Cembra, e infatti nel 2001 diventa consigliere comunale mentre dal 2005 al 2010 è assessore alle cave del comune di Lona Lases. Il fratello Pietro da gennaio 2011 è divenuto consigliere del demanio civico di Lases, strategico per il rilascio delle concessioni necessarie alla estrazione e lavorazione del porfido.

«La Provincia di Trento è una sorta di principato e non può abbandonare un piccolo comune nella gestione dei rapporti con i grandi concessionari».

Filippo Degasperi

Consigliere provinciale della Provincia di Trento

L’oro rosso e il mondo di mezzo

I circa 10 chilometri quadrati che includono parte del territorio dei comuni cembrani di Albiano, Lona Lases, Fornace e Baselga di Pinè sono noti come il “quadrilatero del porfido”. In questo fazzoletto di terra caratterizzato da piccoli comuni a bassa densità abitativa nel 2016 erano attive circa 85 cave e 300 ditte. In Val di Cembra “l’oro rosso”, come viene chiamato il porfido, viene estratto già a partire dal periodo tra le due guerre mondiali. È un settore di primaria importanza economica per il Trentino, ma non immune da problematiche.

Il consigliere provinciale Filippo Degasperi, che nel 2016 aveva presentato degli esposti in Procura su questa realtà, lo definisce «un Far West, dove i prepotenti e i delinquenti vanno ad occupare uno spazio poco presidiato». Le aziende ottengono concessioni pubbliche, affidate da almeno cinquant’anni alle stesse famiglie. I veri padroni sono dunque i concessionari.

«La Provincia di Trento è una sorta di principato e non può abbandonare un piccolo comune nella gestione dei rapporti con i grandi concessionari», dice Degasperi, che sottolinea come si tratti di un rapporto impari, che ha fatto sì che i controlli siano stati «pochi ed inefficaci, talvolta anche comunicati prima per salvaguardare le imprese».

Walter Ferrari, ex-cavatore dalla barba lunga e i modi gentili, è il portavoce del Coordinamento Lavoro Porfido, un comitato di cittadini e lavoratori del porfido che si è formato nel 2014 per tutelare i lavoratori e gli interessi delle comunità locali.

Per Ferrari l’anomalia principale è l’esternalizzazione della forza lavoro. Negli anni ‘90 una vertenza cambia radicalmente uno degli aspetti del mondo del porfido. La magistratura sequestra le trance con maglio a caduta, ritenute fuori norma in materia di sicurezza del lavoro. Anche per questo, racconta Ferrari, una parte delle imprese operanti nel settore del porfido adottò un escamotage: fare pressione sui lavoratori, molti dei quali all’epoca stranieri, affinché aprissero partita iva. Figurando artigiani, i lavoratori potevano continuare a lavorare sulle vecchie trance e i padroni non erano costretti a sostituirle. Quando più tardi la legge 626 sulla sicurezza del lavoro costringe alla definitiva sostituzione dei macchinari, si cerca un altro espediente: l’esternalizzazione della forza lavoro a piccole aziende artigiane. Si forma così quello che il Coordinamento Lavoro Porfido chiama “mondo di mezzo”.

È a questo mondo di mezzo che appartengono i tre macedoni che hanno picchiato l’operaio Hu Xupai. È un sistema, racconta Ferrari, che non si accontenta più di sfruttare manodopera in nero non pagando contributi assicurativi o premi Inail, ma che finisce per privare i lavoratori addirittura dei soldi effettivamente guadagnati durante il lavoro in nero. Il mancato rispetto contrattuale dal punto di vista della regolarità retributiva e contributiva, sottolinea Ferrari, non sarebbe stato adottato solo dai calabresi ma anche in altre aziende gestite da concessionari locali.

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È in questa zona grigia che si inseriscono i fratelli Battaglia. Ferrari ricorda a posteriori l’arrivo a Lona-Lases di Pietro e Giuseppe Battaglia come qualcosa di anomalo: «Quei ragazzi calabresi arrivati a metà degli anni ottanta ci sembravano gli ultimi di un’ondata di migrazione lavorativa in realtà già esaurita.» Negli anni sessanta le cave avevano attirato molti lavoratori, tanti dei quali meridionali, che nel corso degli anni settanta avevano però iniziato a lasciare la Valle.

Ferrari ricorda di aver conosciuto i Battaglia presso la sede del PCI locale, in quanto Giuseppe Battaglia frequentava la figlia del segretario della sezione locale, quella stessa Giovanna Casagranda che sarebbe poi diventata sua moglie. Battaglia e gli altri giovani calabresi arrivati in Val di Cembra a metà degli anni ottanta, racconta Ferrari, non sembravano persone disperate alla ricerca di un lavoro: «ricordo che uno di loro raccontava di avere un posto di lavoro nella forestale al sud, ma diceva di voler girare il mondo».

Il salto di qualità dei fratelli Battaglia nel mondo del porfido locale avviene a cavallo tra gli anni 1999 e 2000, con l’acquisto della grande cava di Camparta, oggi il più grande sito estrattivo di porfido del mondo. Per l’acquisto, scrive il Gip nelle carte dell’operazione “Perfido”, i Battaglia fanno un’offerta pari a 12 miliardi delle vecchie lire. Un’offerta che stride con l’effettivo valore della cava, che si aggirava sui sei miliardi di lire, tanto che all’epoca l’affare finì nel mirino della Guardia di Finanza. Alcuni dei dialoghi intercettati dai carabinieri del Ros sollevano dubbi sui soldi utilizzati dai Battaglia per l’acquisto della cava. Pietro Battaglia, riferendosi all’acquisto della cava, parla di una persona non meglio specificata che «arrivò con una valigetta piena di soldi», mettendoli sul tavolo e invitando i presenti a contarli.

I fratelli Battaglia sarebbero quindi inseriti sia nel mondo dei grandi concessionari – attraverso la partecipazione, diretta o occulta ad aziende come la Anesi Srl e la Cava Porfidi Saltori srl – che nel cosiddetto mondo di mezzo, arrivando di fatto a creare quello che gli investigatori definiscono «un cartello monopolistico nel campo del porfido».

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Vista aerea di una cava di porfido – Foto: Carabinieri Trento

L’accusa sostiene che per trarne massimo profitto, i coniugi Giuseppe Battaglia e Giovanna Casagranda sfruttavano i dipendenti, in gran parte stranieri. Ma non basta. Stando agli inquirenti i Battaglia avevano una gestione finanziaria allegra, che prevedeva vendere porfido in nero e falsificare fatture.

Una pratica che avrebbe toccato anche la Marmirolo Porfidi Srl, di cui Battaglia è socio di minoranza. Secondo la nota indagine “Aemilia” sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta di Cutro in Emilia Romagna, Antonio Muto, socio di maggioranza della Marmirolo, – azienda che operava nelle cave della Val di Cembra – è intraneo alla ‘ndrangheta cutrese e colpevole di bancarotta fraudolenta della Marmirolo. Battaglia non viene indagato e per qualche anno di Muto, ormai in carcere, non si sentirà più parlare.

Poi alle 3:20 di mattina del 29 agosto 2018 la Nissan Navara di Innocenzio Macheda viene incendiata. Un segnale forte, contro l’uomo ritenuto alla guida della ‘ndrina della Val di Cembra. Il sospetto è che l’atto incendiario sia un messaggio per il suo socio Battaglia, il quale, all’epoca di “Aemilia”, non avrebbe fornito le fatture false per scagionare Muto.

un sistema, racconta Ferrari, che non si accontenta più di sfruttare manodopera in nero non pagando contributi assicurativi o premi Inail, ma che finisce per privare i lavoratori addirittura dei soldi effettivamente guadagnati durante il lavoro in nero

La politica è cosa loro

Il quadro che emerge dalle intercettazioni è anche quello di una politica locale asservita agli imprenditori calabresi delle cave. Pietro Battaglia viene descritto come «fautore» dell’elezione a sindaco di Lases di Roberto Dalmonego avvenuta il 27 maggio 2018, in cui Battaglia diventa consigliere rimanendo sullo scranno fino alle elezioni del 21 settembre scorso. È lo stesso Battaglia in un’intercettazione a chiarire come lo scopo del sostegno politico al candidato sindaco sia solo un modo per curare i propri interessi. Per questo si prodiga facendo campagna elettorale casa per casa.

Nel 2015, nell’ambito di una diversa indagine di polizia, era già emerso l’impegno della ‘ndrina della Val di Cembra nel cercare di influenzare e indirizzare le votazioni per l’unificazione dei Comuni di Albiano e Lona Lases. Il tutto solo per mantenere immutate le concessioni delle cave di porfido nei due comuni.

L’appoggio alla politica locale, stando agli inquirenti, passava anche dall’associazione “Magna Grecia”, registrata a Trento da Giuseppe Paviglianiti che sosteneva la candidatura di un esponente del centro sinistra a Trento per le elezioni politiche alla Camera dei Deputati.

È febbraio 2018 e Paviglianiti invita Morello, il braccio destro del capo locale Macheda, ad un aperitivo per la candidata del PD Franzoi. «Una mano ve la diamo, però vedi che noi, siamo tutti persone che hanno delle aziende, che possono avere delle necessità. Vedi che se poi, quando noi bussiamo, voi ci voltate le spalle, vedi che non va bene», chiarisce però Morello.

É un do ut des. Le intercettazioni documentano un altro incontro di sostegno elettorale in cui Macheda incontra Mauro Ottobre, ex deputato del Basso Sarca trentino, che si rivolge a lui per avere il sostegno elettorale alle elezioni provinciali del 2018. Parlando con la stampa locale Mauro Ottobre si è detto “tranquillo” e disposto a chiarire con i magistrati le accuse che gli sono contestate. Anche Paviglianiti, comparso davanti al gip, si è difeso spiegando che l’associazione Magna Grecia ha un semplice ruolo di promozione di cultura e tradizioni calabresi. Paviglianiti ha inoltre sottolineato di essere persona incensurata e ha respinto le accuse, dichiarandosi assolutamente estraneo alla ‘ndrangheta.

Sanpietrini e lavatrici

Per la locale di ‘ndrangheta della Val di Cembra, agganciarsi all’imprenditoria e alle istituzioni che contano è fondamentale, ben oltre il Trentino. Così Morello – il braccio destro del presunto boss Macheda – si attiva per espandersi fino a Roma, sfruttando i legami che ha nella Capitale con un commercialista, Fabrizio Cipolloni, un carabiniere, Fabrizio De Santis, e un imprenditore, Alessandro Schina. Sarà Schina a connetterli tanto alla politica quanto alla malavita capitolina, tramite Marco Vecchioni, pluripregiudicato romano in contatto col noto Massimo Carminati. Vecchioni presenterà loro Fortunato Mangiola, politico romano di origini calabresi, con cui riusciranno a presentare al Presidente della Regione Lazio, Zingaretti, un non meglio specificato progetto. «Un incontro dove c’era la politica, c’era la malavita e c’era l’imprenditore» – lo descriverà Schina.

Le indagini dei carabinieri fanno emergere anche altri progetti tra Morello e il commercialista Cipollini, tra i quali l’organizzazione di un canale di import-export con la Cina che avrebbe dovuto coinvolgere la GLS di Trento e il porto di Gioia Tauro, grazie all’alleanza con le locali cosche di ‘ndrangheta.

D’altronde i contatti con le cosche in Calabria non si interrompono mai, come testimoniano vari episodi monitorati dai carabinieri. Il più significativo è sicuramente l’incontro del 13 aprile 2018 a Roma: Morello viene invitato dagli ‘ndranghetisti Antonino Paviglianiti e Giuseppe Crea al bar “Sole e Luna” sulla Nomentana (accanto al quartiere San Basilio, fortemente infiltrato dalla ‘ndrangheta della Locride). Crea e Paviglianiti gli propongono di diventare il terminale di un’operazione di riciclaggio, serve che certi capitali spariscano verso Nord, là in Trentino dove si sospetta e controlla meno.

Morello però alla fine dell’incontro è preoccupato: si è accorto che i carabinieri erano appostati nelle vicinanze. Il guardaspalle di Morello conferma, «se ne sarebbe accorto pure un bambino che stavamo facendo cose losche…». Ma è soprattutto l’origine dei soldi a preoccuparli. Morello si sfoga: «Hanno soldi da pulire e hanno bisogno di chi li tira fuori puliti…non vogliono la banca che li controlla». E svela così anche qualcosa sull’origine del denaro: «Ha detto servizi segreti… Quelli di Gheddafi… glieli hanno dati in mano a loro… poi, tra un anno, che cosa succede, succede che poi loro ti chiedono i soldi.. dove sono?»

Le indagini non appurano se Morello si sia poi prestato a questa operazione di riciclaggio o meno, ma solo tre giorni dopo a Trento incontra il commercialista Cipolloni per una diversa proposta di riciclaggio. Questa volta si parla di riciclare per conto di un cliente di Napoli che vende la benzina per tutto il nord italia. Morello risponde che lui ci sta a fare l’operazione, ma deve dire all’interlocutore che vuole un milione di euro in anticipo.

La corte della ‘ndrangheta a Trento

«Come ogni associazione di stampo mafioso, quella calabro-trentina provvede a darsi anche una facciata di rispettabilità», scrive la Procura nella misura. E questa facciata passerebbe tanto dall’Associazione Magna Grecia a Trento quanto da un «faccendiere, in grado, anche per livello professionale e culturale, di attrarre nella sua ragnatela personaggi di spicco, che possono tornare utili ai bisogni dell’associazione.» Giulio Carini, classe ’48, è nato a Reggio Calabria ma è in Trentino che opera nel settore dell’edilizia. Ed è sempre qui che ha importanti contatti con soggetti delle istituzioni, tra i quali – stando alle evidenze dell’indagine del Ros – un ex prefetto di Trento, un vicequestore della Polizia, un Capitano dei Carabinieri, giudici del Tribunale di Trento, personalità della politica, un primario dell’ospedale Santa Chiara.

Oggi Carini deve rispondere di associazione mafiosa per avere favorito la locale di ‘ndrangheta guidata da Macheda e avere aiutato nella risoluzione di vari problemi grazie appunto alle sue conoscenze sul territorio trentino. Per Carini è stata scelta la misura dell’obbligo di firma. Comparso davanti al gip, raccontano i quotidiani locali, Carini si è difeso rifiutando la contestazione di appartenere alla ‘ndrangheta, depositando una memoria che spiega l’incompatibilità con un’organizzazione criminale. Ha respinto anche l’accusa di essere un “faccendiere”, dicendo di poter fornire una spiegazione a tutte le intercettazioni.

Il 12 dicembre 2019 veniva erroneamente notificato un avviso di proroga delle indagini preliminari relative al reato di associazione mafiosa (ex art. 416 bis) ad alcuni degli indagati.

Il 7 febbraio di quest’anno parlando con l’avvocato Claudio Tezzele, Giulio Carini fa riferimento ad un invito indirizzato ai magistrati del Tribunale di Trento: «Carini Giulio dice che l’altra sera ha sentito il capo (il presidente del Tribunale Guglielmo Avolio, secondo i carabinieri del Ros) in quanto lo invita a cena, dice che se vengono quelli che lui gli ha detto, che saranno in cinque sei …». In effetti alcuni giorni dopo, l’11 febbraio, Carini – assieme al suo avvocato – ha cenato con il giudice Guglielmo Avolio, il giudice della Procura Generale Giuseppe De Benedetto, un ex ufficiale giudiziario e Michele Dalla Piccola, consigliere provinciale. In quell’occasione, monitorata dal Ros, Carini fa allusioni ad un suo possibile arresto dicendo che se dovesse finire dentro vuole reclusione notturna e isolamento diurno.

Domenico Morello, dal canto suo, ha richieste più forti da fare alla magistratura. Morello incontra il generale valsuganotto Dario Buffa il 19 dicembre 2019 e «esprime chiaramente che avranno bisogno del giudice Avolio Guglielmo del Tribunale di Trento», si legge nell’ incartamento dell’indagine. Descritto come «quello che beve tanta birra», Buffa mostra di comprendere perfettamente a chi Morello si stia riferendo, «va bene ok, sono in contatto, mi manda ogni giorno le sue cazzate Willy Guglielmo». Già l’anno prima Morello parlava di Avolio come se fosse al suo servizio, spiegando ad un sodale che presto sarebbe stato a cena col presidente del Tribunale e gli avrebbe intimato di porre fine alla sua vicenda giudiziaria in quanto si è «rotto i coglioni», altrimenti loro finiranno per parlare di altro.

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CREDITI

Autori

Cecilia Anesi
Margherita Bettoni

Editing

Giulio Rubino

Foto

Valle di Cembra/lorenza62/Shutterstock

Quando l’economia del petrolio finisce alla sbarra

24 Luglio 2020 | di Antonio Tricarico*

E alla fine sono arrivate le richieste di condanna della pubblica accusa nel “processo del secolo” contro Eni e Shell e i suoi top manager per l’acquisizione della lucrosa licenza del blocco petrolifero Opl245 nelle acque profonde nigeriane del Golfo di Guinea nel lontano 2011. Operazione conclusa, sostengono i pm, con il pagamento di una presunta maxi tangente di 1,1 miliardi di dollari ai politici del paese africano. Il computo totale ammonta a 91 anni di reclusione e la confisca di quasi 2,2 miliardi di dollari di beni equivalenti ai 13 imputati e alle due società. A settembre si potrebbero aggiungere richieste di ingenti danni da parte della Nigeria, per la prima volta parte civile in un processo di tale portata. La giustizia farà il suo corso, ed è giusto rispettarlo, ma dopo la requisitoria in due giornate della pubblica accusa si possono trarre delle conclusioni politiche e lezioni più ampie dalle numerose prove emerse e dibattute al tribunale di Milano negli ultimi due anni.

Le implicazioni internazionali

In primis a diversi analisti potrebbe sembrare che ci sia un accanimento della Procura di Milano nei confronti di Eni, la più grande multinazionale italiana, definita da alcuni “lo Stato parallelo” e la bandiera italiana nel mondo nella sua proiezione economica e politica internazionale. La Snamprogetti, allora del gruppo Eni, ha patteggiato nel 2010 negli Usa una condanna condizionale per quasi 400 milioni di dollari per la corruzione nel progetto di gas di Bonny Island, sempre in Nigeria, più noto come l’affaire Hulliburton-Dick Cheney. Oltre il patteggiamento in Nigeria per poche decine di milioni, nel 2016 è arrivata la condanna in Cassazione anche in Italia, ma allora la Snamprogetti era diventata di Saipem, formalmente società scorporata dal gruppo Eni. E per la pubblica accusa Eni avrebbe corrotto ed ancora di più insieme a Shell nel 2011 e sempre in Nigeria per avere l’Opl245, proprio quando era sotto condanna condizionale dalle autorità americane.

Difficile accusare i pm Sergio Spadaro e Fabio De Pasquale di accanimento, o criticare l’obbligatorietà dell’azione penale tout court, a fronte di una tale presunta ma macroscopica recidiva per una tangente ipotizzata superiore al miliardo di dollari. Ne deriva che una condanna per Eni – per quanto siamo solo al primo grado – sarebbe una schiaffo senza precedenti per la multinazionale italiana anche a livello internazionale. Si ricordi che un procedimento penale è pendente in Nigeria, dove accordi bilaterali non applicano il principio di ne bis in idem, sempre sullo stesso caso con accuse anche più corpose, ed un’indagine si sta concludendo in Olanda ai danni di Shell con altri capi di imputazione. Il management di San Donato sbandiera ai quattro venti che le autorità Usa su Opl245 hanno chiuso le indagini, ma in realtà la procedura americana prevede che queste possano essere riaperte in qualsiasi momento, e una possibile sanzione per recidiva negli Usa, dove Eni è quotata, metterebbe in ginocchio il Cane a sei zampe, già provato dalla crisi economica post-Covid e dal crollo del prezzo del greggio.

Per approfondire

#TheNigerian Cartel

In Nigeria, da anni, comanda la stessa élite politico-finanziaria. Politici e imprenditori che controllano le due filiere storicamente più redditizie del Paese: costruzioni e petrolio

Si aggiunga però che a prescindere dall’esito processuale a Milano e in giro per il mondo, la vicenda Opl245 e le centinaia di migliaia di pagine del fascicolo processuale hanno svelato uno spaccato inquietante su come funziona il mondo del petrolio. La due diligence anti-corruzione di giganti quali Shell o Eni fa sorridere per le sue approssimazioni e inadeguatezze, là dove tutti sanno che si sta di fatto comprando una licenza rubata da un ex ministro del Petrolio di uno dei Paesi più corrotti al mondo. Sembra quasi che le procedure formali non possano estinguere il cancro della corruzione, o la sua tentazione, e che anche chi nelle società solleva dubbi sulle operazioni di fatto non ha voce in capitolo nelle decisioni finali, come ben messo in luce dalla pubblica accusa. Anche se assolte, le due società dovranno rispondere al tribunale dell’opinione pubblica di un tale fallimento e riguadagnare la fiducia di investitori e cittadini – che nel caso di Eni sono anche di fatto azionisti tramite lo Stato italiano.

Lo Stato parallelo e la politica

Lo spaccato che ci hanno dato le decine di udienze passa sotto la lente un’intera classe dirigente che per più un decennio ha gestito il lucroso sistema delle aziende italiane partecipate – quali Eni, Enel e Leonardo – che rimangono l’ossatura dei grandi numeri del sistema economico italiano e della capitalizzazione della borsa di Milano. Top manager di bandiera, quali Paolo Scaroni, intermediari sempre verdi vicini alle stanze più alte della politica, quali il pluripregiudicato Luigi Bisignani, pezzi della diplomazia, quali Gianfranco Falcioni, console onorario italiano a Port Harcourt, e personaggi vicini ai servizi segreti, come Vincenzo Armanna. Tutti sodali in un blocco di potere che ha mosso profitti, interferito nella politica in Italia ed all’estero, costruito narrazioni sulle magnifiche sorti dell’Italia nel mondo, e soprattutto guidato la politica energetica, estera e di sicurezza nostrana. Lo Stato parallelo denunciato dai più coraggiosi, che la vicenda Opl245 ha mostrato essere non solo italiano, ma anche olandese, nigeriano e probabilmente di altri paesi. Se si vuole è quella classe dirigente dagli anni 2000 fino alla metà dello scorso decennio oggi a processo, almeno nell’opinione pubblica.

Le tappe del processo sulla presunta maxi-tangente da 1,1 miliardi di euro per l’aggiudicazione del blocco petrolifero Opl245 in Nigeria

Sul versante della politica italiana, in caso di condanna le conseguenze non sarebbero trascurabili. Appena lo scorso maggio, dopo un lungo tira e molla, il governo Conte ha confermato Claudio Descalzi alla guida dell’Eni per altri tre anni. Se condannato, Descalzi ha già annunciato dalle colonne del Wall Street Journal che si dimetterebbe – ma davvero? – e in ogni caso una bufera politica si abbatterebbe contro il governo o tra il governo e la magistratura, come se non bastasse l’affaire Palamara-Csm.

Ma anche in caso di assoluzione, la saga Opl245, degna di una serie TV avvincente e infinita da Netflix, è già destinata a continuare nelle aule processuali di Milano. Rimane aperta l’indagine sul presunto “finto complotto” orchestrato dall’ex avvocato di Eni, Piero Amara, e diversi suoi sodali anche interni all’azienda, che avrebbe cercato con la corruzione di un pm a Siracusa e altre torbide manovre di affossare senza successo l’indagine della Procura di Milano sull’Opl245. La stessa Procura che ha neutralizzato l’attacco e ha a sua volta iniziato ad indagare sui responsabili di questo.

Una saga destinata a continuare, anche dopo questo processo

Probabile che si arriverà a processo, visto che Piero Amara, già condannato a 3 anni e 8 mesi a Roma e Messina, nell’alveo dello scandalo più ampio delle sentenze truccate al Consiglio di Stato e le nomine guidate al Csm, lo scorso dicembre ha iniziato a rivelare molti fatti alla Procura di Milano. Numerosi verbali, pur se omissati in larga parte, sono finiti nel fascicolo del processo Opl245, ma Amara non è stato accettato come teste dal tribunale. Però è emerso che secondo questi l’attuale numero due di Eni, Claudio Granata, avrebbe fatto pedinare ed intercettare addirittura i pm di Milano e diversi giornalisti. Lo stesso Granata filmato in un incontro con Armanna – ora agli atti del processo Nigeria – orchestrato da Amara per convincere questi a ritrattare le sue accuse a Descalzi nell’indagine Opl245. Nel pieno della pandemia Covid il procuratore capo di Milano, Franceso Greco, ha portato i verbali degli interrogatori di Amara alla Procura di Brescia chiedendo di indagare su quanto detto ed i presunti danni causati ai Pm di Milano. Ed anche qui potrebbe nascere un nuovo processo.

La stessa saga Opl245 sembra agitare in questi giorni anche il sistema politico nigeriano con la rimozione come un fulmine a ciel sereno del capo dell’anti-corruzione di Abuja, Ibrahim Magu, determinato a processare ex ministri per l’Opl245 ed ora attaccato apertamente dall’attuale ministro della giustizia – perché anch’egli a rischio di indagini. Insomma perseguire i presunti reati dell’Opl245 avvicina un po’ ovunque ai gangli del potere e non c’è da meravigliarsi se la risposta sia questa, ad Abuja come a Milano. E non mancheranno colpi di scena e conflitti nei prossimi mesi e anni.

Nel frattempo i due giacimenti del blocco Opl245 non sono più stati esplorati vista l’incertezza legata alle battaglie legali in mezzo mondo. Con il collasso del prezzo del petrolio, difficilmente questi giacimenti saranno sfruttabili economicamente in futuro. Una buona notizia per il clima del pianeta, meno buona per il governo nigeriano oggi in ginocchio per la crisi economica legata alla pandemia da Covid e di nuovo con il cappello in mano dal Fondo monetario internazionale e dai creditori internazionali. È la maledizione del petrolio, e in questo caso dell’Opl245, che porta solo miseria e conflitti per di più con poche speranze per il futuro. Che intanto i responsabili, se condannati, paghino per un volta per quello che hanno fatto nella vicenda Opl245 e magari le risorse recuperate, se lo saranno, d’ora in poi non siano più usate per sviluppare l’economia corrotta e senza futuro del petrolio.

*Re:Common | Foto: Il quartier generale Eni a Roma – Paolo Grassi/Shutterstock

Eni: processo a Milano, riflessi internazionali per Opl 245

#TheNigerianCartel

Eni: processo a Milano, riflessi internazionali per Opl 245

Lorenzo Bagnoli
Luca Rinaldi

Il processo “Opl 245” si avvia alla fase finale del primo grado. Dopo quarantacinque udienze in due anni, i pubblici ministeri Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro inizieranno la requisitoria che dovrebbe occupare due date piene nel corso del mese di luglio. Alla sbarra, fra gli altri, l’allora amministratore delegato di Eni Paolo Scaroni e l’allora Direttore generale della divisione esplorazione e produzione Claudio Descalzi, poi successore dello stesso Scaroni alla guida del Cane a sei zampe. Capo d’imputazione principale è concorso in corruzione internazionale aggravata: Eni, insieme a Shell, si sarebbe aggiudicata la licenza di esplorazione petrolifera Opl 245, un giacimento offshore in Nigeria dal valore stimato di 9 miliardi di barili, a seguito del pagamento di una tangente da 1,1 miliardi di dollari. Secondo l’ipotesi dell’accusa, smentita dalla società, gli allora manager di Eni avrebbero incassato “retrocessioni” per 50 milioni di euro.

Il procedimento italiano si intreccia con altri in corso in diversi Paesi del mondo. Il verdetto della corte di Milano potrebbe dare forza o invece affossare, a seconda dell’esito, gli altri processi collegati alla saga giudiziaria in cui sono imputate Eni e Shell. Il valore della tangente è tra i più alti della storia. Il governo nigeriano, che in Italia si è costituito parte civile, sta cercando, per vie giudiziarie, di recuperare il denaro pubblico portato in casseforti di mezzo mondo da uomini di spicco locali che si sono succeduti al potere dagli anni Novanta in avanti.

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MILANO – La diretta della requisitoria

Il personaggio - Dan Etete

Dan Etete è stato ministro del Petrolio della Nigeria sotto la dittatura di Sani Abacha, fino al 1998. Prima di lasciare il ministero, ha affidato una delle più ricche licenze esplorative del Paese, identificata con il codice Opl 245, a una società di cui lui stesso era beneficiario ultimo: Malabu Oil & Gas. In Nigeria si è scatenato un contenzioso su chi fosse proprietario di Malabu. Oltre Etete, anche il figlio di Sani Abacha, Mohammed, la reclama. Da questo primo procedimento sono iniziate le indagini nigeriane. Grazie a promesse di laute ricompense, Etete sarebbe infatti riuscito a mantenere la proprietà di Opl 245, in virtù soprattutto delle intercessioni dei ministri del Petrolio Alison Diezani e della Giustizia Mohammed Adoke Bello con il presidente Goodluck Jonathan. Etete a quel punto avrebbe massimizzato i profitti vendendo la licenza a Eni e Shell, in cambio di una tangente da condividere con gli altri uomini del governo nigeriano.

Un primo filone dell’inchiesta, il cui processo è stato celebrato con rito abbreviato, ha visto la condanna di Emeka Obi e Gianluca Di Nardo. Entrambi sono ritenuti dalla procura intermediari sia di Dan Etete sia di Eni.

Il processo italiano ha subito, com’era inevitabile, diverse pressioni esterne. L’ombra più scura che s’allunga sul tribunale di Milano è quella dei depistaggi del cosiddetto “Sistema Siracusa”, meccanismo di corruzione di giudici e magistrati al cui vertice, secondo l’ipotesi investigativa, starebbe Piero Amara, avvocato che ha lavorato per Eni in passato, arrestato a febbraio per cumulo di pene in via definitiva. Amara è poi stato scarcerato, per scontare una pena alternativa.
Il Sistema Siracusa
Con Sistema Siracusa si definisce il meccanismo attraverso il quale gli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore, insieme al procuratore capo di Siracusa Giuseppe Longo, avrebbero “venduto” i verdetti dei processi. Questa è l’accusa principale su cui vertono i diversi procedimenti in corso in diversi tribunali d’Italia. A Roma, ad esempio, i due legali e l’ex magistrato hanno ottenuto il patteggiamento (Amara tre anni, Calafiore due anni e nove mesi e Longo cinque anni). Attraverso il falso dossier su Descalzi, gli uomini del Sistema Siracusa avrebbero dovuto creare un nuovo procedimento con cui bloccare quello in corso a Milano.

Proprio da questo sistema sarebbe partito il presunto “complotto” teso a colpire l’indagine della procura su Opl 245. Complotto che in realtà, stando ai riscontri investigativi, sembra essere una messinscena per dirottare il processo sulla maxitangente per il giacimento.

Il falso intrigo internazionale indicava, infatti, l’amministratore delegato del cane a sei zampe Claudio Descalzi come bersaglio di un gruppo di politici e imprenditori (tra cui spicca il nome di Gabriele Volpi) che avrebbero voluto metterlo da parte per guadagnare spazio in Eni. L’inchiesta fondata sul falso dossier è stata aperta al tribunale di Siracusa con la complicità di figure della dirigenza Eni e del pm siracusano Giancarlo Longo, altro pilastro del sistema di Amara. Il depistaggio è poi fallito perché scoperto dalla stessa procura meneghina che ha in seguito aperto un fascicolo sul tema, affidato ai magistrati Laura Pedio e Paolo Storari.

Visto il quadro e il legame indissolubile tra i due procedimenti incardinati a Milano, il pm De Pasquale aveva chiesto lo scorso 5 febbraio di ascoltare l’avvocato Amara: l’ex consulente di Eni avrebbe rivelato, durante gli interrogatori depositati nel fascicolo sul complotto a gennaio 2020, che «Eni in relazione al procedimento Opl 245 (o altri procedimenti che coinvolgono Eni) ha svolto attività di raccolta informazioni nei confronti dei membri del Consiglio di amministrazione tese ad acquisire notizie utili per screditare le persone o sfruttare a proprio vantaggio quanto acquisito». Oltre a ex membri del cda di Eni, Amara include tra le vittime dei dossier anche i pm milanesi Fabio De Pasquale e Sergi Spadaro, titolari dell’inchiesta Opl 245, e Paolo Storari, uno dei due magistrati che lavorano sul complotto. De Pasquale e Spadaro hanno chiesto di interrogare Amara ma il collegio giudicante presieduto da Marco Tremolada ha ritenuto di non far testimoniare l’avvocato e dare avvio alla requisitoria dei pm, che è slittata a luglio a causa della pausa imposta dal lockdown.

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La “mappa giudiziaria” della vicenda legata all’assegnazione di Opl 245

A condizionare l’andamento del processo è stato l’imputato-accusatore Vincenzo Armanna, all’epoca della presunta maxi tangente uno dei manager Eni in Nigeria. Sentito dai giudici a luglio del 2019, Armanna aveva ribadito le accuse alla dirigenza di Eni e aveva garantito di poter fornire ulteriore prova delle sue parole attraverso la testimonianza di Isaac Eke, ex capo della sicurezza di Goodluck Jonathan. Su questa figura si è consumata una delle fasi più convulse del processo: il capo della sicurezza di Jonathan, infatti, era stato inizialmente identificato come Victor Nwafor, persona già sentita a Milano nel corso delle udienze. L’accusa ha però ottenuto che la corte giudicante ascoltasse anche l’uomo indicato da Armanna come colui che aveva visto le valigette con i contanti della tangente entrare in Nigeria. Sentito lo scorso 30 gennaio, Isaac Eke ha però negato di essere a conoscenza della maxi-tangente ed è stato immediatamente indagato dalla procura milanese per falsa testimonianza. Mentre a Milano il corso giudiziario si è dovuto fermare a causa dell’emergenza Covid, l’affaire Opl 245 non è uscito dalle cronache. Tra Olanda, Gran Bretagna, Nigeria, Canada e Stati Uniti sono successi una serie di fatti che inevitabilmente rientrano nell’infinita saga del procedimento milanese. In attesa della prima sentenza che possa innescare o far morire i processi correlati a questa storia, aperti in tutto il mondo.

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Opl 245, fine dei processi per Eni e Shell

Assolte in via definitiva a Milano, incassano verdetti favorevoli anche altrove. Non è stata corruzione internazionale. E la procura generale di Milano dice che «portano ricchezza» alla Nigeria

Opl245Papers: il fascicolo della discordia

È uno dei casi più importanti degli ultimi anni, finito in primo grado con una piena assoluzione degli imputati. Non una revisione giudiziaria, ma un racconto necessario del sistema

La posizione di Eni

Sul sito di Eni è presente una pagina di fact-checking in cui l’azienda espone la sua posizione in merito al procedimento in corso, partendo dal presupposto che finora il colosso petrolifero ha sempre smentito ogni coinvolgimento in attività illecite. Eni aggiunge di aver fatto svolgere due indagini a società indipendenti americane che hanno dato esito negativo rispetto a violazioni in materia anticorruzione.

Cosa succede in Olanda – Le rivelazioni dell’ambasciatore a favore di Shell

L’11 dicembre 2017 alcuni investigatori del Fiod, il servizio d’indagini fiscali e finanziarie olandese, si sono recati ad Abuja, capitale della Nigeria, per incontrare i loro corrispettivi nigeriani, gli agenti dell’Efcc. Era un incontro riservato per discutere delle accuse di corruzione internazionale a Shell, il colosso anglo-olandese dell’industria petrolifera. L’azienda, insieme a Eni, si sarebbe aggiudicata la licenza petrolifera Opl 245 grazie al pagamento di una tangente da 1,1 miliardi di dollari. A organizzare il meeting è stato l’ambasciatore olandese ad Abuja, Robert Petri. Ma il diplomatico a inizio 2019 è stato rispedito anzitempo in Olanda, a seguito di un’indagine condotta dal dipartimento ministeriale olandese Sicurezza, gestione del rischio e integrità, conclusasi pochi mesi prima. Il filone principale riguardava un viaggio «potenzialmente inappropriato» con un jet di Shell.

Il 28 maggio 2018 Petri è volato a Bonny Island, snodo petrolifero dove ha sede Nigerian Liquid Natural Gas (Nlng), compagnia del gas Lng di proprietà per il 50% dello Stato nigeriano e per il restante 50% di Shell, Eni e Total. Insieme a lui c’era la moglie, che non ricopre alcun ruolo ufficiale. La coppia ha ricevuto diversi omaggi dall’azienda nigeriana, di cui Shell è azionista. In seguito, l’indagine ministeriale ha approfondito altri due aspetti: primo, le tensioni interne all’ambasciata procurate dagli atteggiamenti colonialisti e vessatori che Petri manteneva nei confronti del personale e, secondo, le accuse rivolte a Petri di aver rivelato notizie riservate a Shell sulle indagini in corso. Nei giorni immediatamente precedenti l’arrivo del Fiod, infatti, l’ambasciatore ha avuto un incontro con il numero uno dell’azienda in Nigeria a casa dell’ambasciatore. Durante l’incontro, di cui nessuno – ancora una volta – era al corrente, l’ambasciatore ha rivelato l’esistenza dell’indagine su Shell, come ammesso dallo stesso Petri.

Lo scoop, pubblicato a inizio giugno, è opera del quotidiano olandese Nrc. Il ministero degli Esteri olandese ha specificato che l’esito della procedura interna su Petri e le sue conseguenze sul piano disciplinare «sono confidenziali». Si attende però di capire se ci sarà un vero e proprio processo nei confronti dell’ex diplomatico. Nel frattempo, Shell ha confermato a Nrc di aver appreso dall’ambasciatore della visita in Nigeria del Fiod ma di non aver fatto ulteriori domande, né aver approfittato di tale informazione. Il 1 marzo 2019 Shell ha comunicato di aver ricevuto l’avviso di conclusione delle indagini per il caso Opl 245 dalla procure generale olandese. A prescindere da come finirà il caso Petri, va ancora chiarito se i procuratori de L’Aja vogliano rinviare a giudizio l’azienda anglo-olandese oppure no. In nessun Paese come in Olanda l’esito del processo milanese può significare la definitiva chiusura oppure un incentivo a proseguire le indagini, anche perché Shell si è opposta all’utilizzo delle prove raccolte dagli investigatori.

Cosa succede in Canada – Il sequestro dell’aereo di Dan Etete

L’ex ministro del Petrolio nigeriano Dan Etete avrebbe investito parte della tangente che avrebbe intascato dall’affare Opl 245 a Dubai. Qui, secondo quanto scoperto dalla piattaforma britannica di giornalismo investigativo Finance Uncovered, Etete avrebbe acquistato una casa a Emirates Hills, la Beverly Hills dell’emirato. E sempre a Dubai Etete ha tenuto in un hangar un aereo che, secondo quanto ricostruito dagli investigatori di Milano e dell’Fbi, sarebbe stato acquistato con i soldi della tangente. Etete, infatti, avrebbe ricevuto, secondo gli inquirenti, 800 milioni di dollari, poi spartiti con gli altri partner dell’affare. Tra i conti dai quali sono passati questi soldi, uno è intestato alla RockyTop Services Ltd. Con i denari ricevuti in due tranches di pagamento, una nel 2011 e una nel 2013, l’ex politico oggi uomo d’affari si sarebbe poi comprato un Bombardier Global 6000. Lo possiederebbe attraverso una società con sede alle Isole Vergini Britanniche, la Tiblit Ltd.

Per anni il mezzo è stato sotto tiro degli avvocati nigeriani incaricati di recuperare i soldi della tangente. Poi, il 29 maggio, l’aereo è atterrato a Montreal, in Canada, dove le autorità locali hanno fatto scattare il sequestro per riciclaggio. Nel provvedimento di sequestro canadese si fa il nome di Giuseppina Russo, avvocato di uno studio legale canadese, che figura come direttrice della società. A maggio un giudice della Corte dei Caraibi orientali, che ha giurisdizione sulle Isole Vergini Britanniche, ha congelato i conti della Tiblit.

Sentita da Finance Uncovered, la donna ha negato di essere coinvolta in attività illecite e ha spiegato di non rappresentare più la società dal 2013, anno in cui ha acquisito il Bombardier che gli inquirenti ritengono di Etete. La società attraverso cui Etete ordina l’acquisto dell’aeromobile ha sede in Oklahoma e si chiama Insured Aircraft Title Services. Compare nell’inchiesta svolta nel 2010 dalla commissione permanente del Senato degli Stati Uniti, di cui IrpiMedia ha già parlato per raccontare i rapporti tra Gabriele Volpi e Abubakar Atiku. La stessa società compare nel database del Laundromat, la lavanderia di denaro sporco scoperta da Occrp, come beneficiaria di due pagamenti per un totale di 11,5 milioni di euro nel gennaio 2008 da un conto della Ukio Bankas. La società non è mai stata indagata.

Cosa succede in Gran Bretagna – Non luogo a procedere per un nuovo processo

Il 22 maggio il giudice Christopher John Butcher dell’Alta Corte di Londra ha stabilito di non avere giurisdizione per esprimersi sul caso Opl 245. Nel 2018 il governo nigeriano aveva fatto una richiesta di risarcimento per chiedere l’apertura di un’inchiesta anche in Gran Bretagna, visto che Shell ha sede legale a Londra. La Corte ha però stabilito che i capi d’imputazione proposti sono identici a quelli attualmente a giudizio in Italia, quindi – in base all’articolo 29 della Regolamentazione di Bruxelles, ossia il documento che norma la collaborazione giudiziaria tra Paesi membri dell’Unione Europea – è previsto che la nuova Corte chiamata in giudizio rinunci alla propria giurisdizione. Secondo quanto riporta la Reuters, un portavoce del governo nigeriano ha annunciato ricorso alla decisione della Corte britannica.

Per il governo nigeriano resta aperto a Londra il procedimento contro JP Morgan, la banca da cui sono transitati i soldi della presunta tangente. È la succursale londinese dell’istituto di credito americano ad aver ricevuto su un deposito a garanzia (escrow account) intestato al governo di Abuja i soldi di Eni e Shell (1, 3 miliardi di dollari). Per due volte, a febbraio e ottobre 2019, due tribunali inglesi hanno stabilito la legittimità della richiesta di risarcimento della Nigeria.

Escrow account: la definizione

Escrow account è il termine inglese con cui si definisce il deposito di garanzia. Questo contratto stipulato tra un acquirente e un compratore di solito per l’acquisto di beni mobili o immobili oppure partecipazioni aziendali prevede il deposito della somma pattuita a una parte terza del bene e del controvalore in denaro, fino al momento in cui la vendita non verrà conclusa.

JP Morgan è accusata di aver favorito la distrazione di fondi pubblici della Nigeria nelle mani di Dan Etete, ovvero un personaggio con già una condanna per riciclaggio passata in giudicato. In altri termini, la banca non ha fatto scattare i meccanismi d’allerta per reati finanziari come corruzione o riciclaggio. Il sistema messo in piedi attraverso gli escrow account prevede che il trasferimento di denaro sul conto della JP Morgan avvenga una volta firmato un accordo che risolva le controversie esistenti sulla titolarità del blocco 245. In questo caso gli accordi erano tre, volti, in pratica, a garantire che 800 milioni di dollari arrivino al’ex ministro del petrolio nigeriano Dan Etete. Secondo il governo della Nigeria, JP Morgan, per ragioni di antiriciclaggio, avrebbe dovuto impedire che i soldi finissero in ultima istanza all’ex ministro del petrolio, precedentemente condannato per riciclaggio in Francia nel 2007. Prima del passaggio via JP Morgan, le parti in causa avevano tentato di siglare un accordo di garanzia attraverso una società terza, tra le varie intermediarie della transazione, con un conto presso la Banca svizzera italiana di Lugano. L’operazione è stata fermata dall’istituto elvetico perché ritenuta sospetta. La segnalazione da parte della banca svizzera stupisce, visto che lo stesso istituto nel 2017 è fallito a seguito di un’inchiesta di riciclaggio a Singapore.

Cosa succede negli Stati Uniti – La Sec chiude le indagini

Il 22 aprile scorso la Securities and exchange commission (Sec), l’autorità di vigilanza della Borsa americana, «ha concluso l’inchiesta sulla società, che include anche le indagini legate all’operazione Opl 245 e le altre indagini legate alle attività di Eni in Congo, senza intraprendere azioni o procedimenti», ha annunciato Eni in un comunicato. La Sec indagava sulla vicenda Opl in quanto l’azienda di San Donato milanese è quotata in Borsa a New York.

 La stessa autorità di vigilanza potrebbe comunque in futuro, anche sulla base dell’esito del processo in Italia, valutare di aprire un procedimento contro Eni perché quotata a Wall Street.

Cosa succede in Nigeria – Adoke Bello

In Nigeria il processo è arrivato ai vertici del potere. C’è stata un’accelerazione da quando, a dicembre 2019, è rientrato da Dubai e immediatamente arrestato in Nigeria Mohammed Adoke Bello, all’epoca dei fatti ministro della Giustizia. Sarebbe lui, secondo l’inchiesta dell’Efcc, la polizia che si occupa di reati fiscali in Nigeria, ad aver garantito che nel 2010 il governo nigeriano non ritirasse la licenza alla Malabu Oil&Gas, la società di Dan Etete al centro dell’inchiesta. Adoke avrebbe incassato per aver protetto gli interessi dell’ex ministro Etete 830 mila dollari, arrivati a un suo conto nel febbraio del 2012. Il 17 giugno 2020 la posizione giudiziaria di Adoke Bello è stata ridefinita dalle autorità nigeriane con sette nuovi capi d’imputazione per riciclaggio.

Secondo quanto risulta dall’inchiesta italiana, Adoke Bello si è mosso nella trattativa Opl 245 insieme alla ministra del Petrolio del governo Jonathan, Alison Diezani Madeuke. Secondo Ibrahim Magu, il numero uno dell’Efcc, Diezani si è appropriata di almeno 2,5 miliardi di dollari provenienti dall’erario nigeriano. L’ex ministra vive a Londra da anni e il governo nigeriano ne chiede l’estradizione ormai dal novembre 2019. L’ultima istanza è stata presentata a febbraio 2020. Nel 2017 nei confronti dell’ex ministra sono cominciati i sequestri ordinati dai tribunali nigeriani, a cominciare da 56 ville tra Lagos, Abuja e Port Harcourt.

CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli
Luca Rinaldi

Editing

Giulio Rubino

Infografiche

Lorenzo Bodrero

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