Bonanno e Genovese, gli affari di cosa nostra americana

28 Ottobre 2022 | di Edoardo Anziano

Ametà agosto 2022 nove fra membri e associati di cosa nostra americana sono stati incriminati a New York per traffici illeciti finalizzati all’esercizio abusivo di gioco d’azzardo, riciclaggio di denaro sporco e intralcio alla giustizia. Gli indagati, secondo quanto riportato dall’ufficio del Procuratore del distretto Est di New York appartengono a due delle cinque storiche famiglie della mafia siciliana nella Grande Mela, i Genovese e i Bonanno. Dei primi fanno parte Carmelo “Carmine” Polito, col grado di “capitano”, il “soldato” Joseph Macario e gli associati Salvatore Rubino e Joseph Rutigliano. Ai Bonanno invece appartengono i fratelli “Little Anthony” e Vito Pipitone, l’uno “capitano” e l’altro “soldato”, insieme all’affiliato Agostino Gabriele.

Tra gli arrestati c’è anche un detective del Dipartimento di polizia della Contea di Nassau, Hector Rosario, accusato di aver accettato soldi dai Bonanno per organizzare perquisizioni contro altri concorrenti nel settore delle scommesse.

Gli arresti, ha dichiarato il Procuratore distrettuale Breon Peace, «dimostrano che la mafia continua a inquinare le nostre comunità col gioco d’azzardo illegale, estorsioni e violenze». Gli accusati avrebbero nascosto sale da gioco senza autorizzazione in un bar, diversi circoli di tifosi di calcio e perfino un calzolaio. «Le nostre inchieste dimostrano che la mafia rifiuta di imparare dalla storia», commenta nel comunicato stampa Michael J. Driscoll, vicedirettore responsabile dell’Fbi di New York.

In effetti, i dettagli di questa indagine sembrano riportarci agli anni Cinquanta e Sessanta: poliziotti corrotti, bische clandestine e anonime attività commerciali usate per riciclare denaro. Con la differenza che La Cosa Nostra (LCN) – secondo la denominazione data alla mafia siculo-americana dall’Fbi dopo le rivelazioni del primo pentito, Joe Valachi – non è più quella di un tempo. Ricambio generazionale, cambiamenti culturali e la crescente efficacia nell’attività di contrasto al crimine organizzato, hanno reso l’organizzazione – secondo lo studioso James Jacobs – «il fantasma di se stessa». Le famiglie sono sempre più deboli, il numero di membri e associati in calo costante. Così, quelle che un tempo erano fazioni rivali, cercano nuove alleanze.

Vecchie conoscenze

Come emerge dall’atto d’accusa, infatti, a partire almeno da maggio 2012, i Genovese e i Bonanno avrebbero organizzato insieme la gestione del gioco d’azzardo illegale usando come facciata la gelateria Gran Caffe, nella città di Lynbrook, a un’ora di macchina da Manhattan. Le collaborazioni fra famiglie di mafia negli Stati Uniti non sono rare, ma il momento di crisi potrebbe averle ulteriormente incoraggiate. «È difficile pensare alle famiglie di Cosa Nostra come delle monadi che restano inchiodate a territori come il Bronx, Manhattan, Queens e Brooklyn», spiega Antonio Nicaso, professore alla Queen’s University in Canada ed esperto di criminalità organizzata. «Non penso che abbiano più quel potere che avevano un tempo, quindi l’idea di collaborare, che comunque c’è sempre stata, potrebbe essersi fatta più pressante. Non esiste un’organizzazione che può fare a meno della collaborazione con altri gruppi».

I profitti delle scommesse clandestine al Gran Caffe, così come in altri negozi, tra cui l’associazione non-profit La Nazionale Soccer Club nel distretto del Queens, venivano riciclati con trasferimenti multipli di contanti dai pesci piccoli alle gerarchie più alte delle famiglie.

«Si tratta semplicemente di gioco d’azzardo illegale in una stanza sul retro, una cosa di basso livello. La parte interessante di questo caso è che il motivo per cui l’hanno fatta franca così a lungo è stata la protezione dell’agente di polizia corrotto», sostiene Jay Albanese, professore di criminologia alla Virginia Commonwealth University e membro della Global Initiative against Transnational Organised Crime. «Probabilmente è questo il motivo per cui il sistema ha avuto un tale successo e per cui c’erano due gruppi coinvolti. La mia ipotesi è che uno dei due gruppi abbia iniziato l’operazione. L’altro gruppo era quello collegato all’agente di polizia corrotto e quindi hanno fatto un accordo. Il caso non è ancora arrivato in tribunale, ma questa sarebbe la mia ipotesi su come due gruppi siano stati coinvolti in una collaborazione, il che è piuttosto insolito».

La gerarchia de La Cosa Nostra

Seppur indipendenti fra di loro, le famiglie di cosa nostra statunitense, secondo l’Fbi, condividono la stessa gerarchia organizzativa:

  • boss o don: il vertice indiscusso dell’organizzazione
  • underboss: il secondo in comando, destinato a succedere al boss
  • consigliere: il numero tre, uomo fidato e amico del boss
  • captain, skipper o caporegime: controlla un certo numero di soldati, o made member, riuniti in una crew
  • soldier: la gerarchia più bassa, ma pur sempre soggetta al voto di omertà
  • associates: fanno parte della crew, ma non sono di origini italiane e quindi non sono stati affiliati alla famiglia

La collaborazione tra i Genovese e i Bonanno è una novità. Charles “Lucky” Luciano, tra i boss più potenti della famiglia Genovese negli anni Trenta e Quaranta, è stato infatti il mandante dell’omicidio dell’uomo che stava al vertice dei Bonanno, Salvatore Maranzano. L’episodio chiuse nel 1931 la Guerra Castellammarese, cominciata l’anno prima. Con l’indebolimento delle famiglie, però, la cooperazione fra rivali è diventata una necessità di sopravvivenza che fa superare anche i conti del passato.

Se la collaborazione tra famiglie è nuova, non lo sono molti degli arrestati di agosto. Vito e Anthony Pipitone erano stati arrestati nel 2009 in un’operazione che aveva portato alla sbarra l’intero «gruppo direttivo» dei Bonanno. Gli indagati dovevano rispondere, a vario titolo, di minacce, frode bancaria, gioco d’azzardo illegale, estorsione e falsa testimonianza. «Sei fortunato che non ti seghiamo in due e ti lasciamo nei boschi», aveva detto uno dei Pipitone, intercettato, a un debitore in ritardo coi pagamenti, secondo quanto ricostruito dal processo. I fratelli Pipitone si erano alla fine dichiarati colpevoli. Nel 2011 Vito, il più giovane, era stato condannato per aver accoltellato due giovani nel 2004.

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Sul fronte dei Genovese, invece, già noto alle forze dell’ordine è Joseph “Joe Box” Rutigliano, 63 anni, originario di Commack, vicino Long Island. Dopo l’emissione del mandato d’arresto il 16 agosto 2022, tuttavia, “Joe Box” Rutigliano risulta latitante. Era già stato arrestato nel 2005 insieme ad altri presunti membri della famiglia per aver gestito bische clandestine che riuscivano a incassare fino a 16.000 dollari a settimana. Lo schema era lo stesso utilizzato dalle due famiglie nella “collaborazione” al Gran Caffe: nel retrobottega di ristoranti, bar e club venivano installate le macchinette per il gioco d’azzardo illegale.

In un’intercettazione del 2003, Rutigliano parla al telefono, probabilmente con un cliente. «Sì, ciao John, Joe Box. Sono arrivate due macchine. Vogliamo provare a configurarle e consegnarle entro lunedì, ok?». Nel 2006 il giudice aveva rigettato il ricorso degli imputati, che avevano chiesto l’archiviazione. Non è chiaro se Rutigliano sia stato condannato. Anche il capitano Carmelo “Carmine” Polito è una vecchia conoscenza. Il 30 novembre 1994, mentre gioca a carte in un club, lo strozzino della famiglia Genovese Sabato Lombardi viene ucciso a colpi d’arma da fuoco da due uomini. Secondo le indagini, uno dei killer è proprio Carmine Polito, all’epoca proprietario di una pizzeria. Polito, descritto come uno scommettitore incallito, avrebbe dovuto a Lombardi 60.000 dollari. Pur di non pagare, secondo i procuratori, avrebbe pianificato di uccidere il suo strozzino. La corte federale di Brooklyn condanna Polito nel 2003, ma la sentenza viene annullata perché non si tratterebbe di crimine organizzato. Indagato di nuovo nel 2005, è stato assolto nel 2007.

Bische di ieri, bische di oggi

Nonostante le modalità da “vecchia scuola”, non bisogna pensare a La Cosa Nostra come un’organizzazione ancorata al passato. Lo dimostra il caso di Carmelo Polito, accusato di essere membro dei Genovese col grado di capitano, e arrestato ad agosto 2022 per aver gestito anche un sistema illecito di scommesse sportive online, attraverso il sito PGWLines.

Nel 2019, a uno scommettitore, che aveva perso centinaia di dollari su PGWLines, “Carmine” Polito fa recapitare un messaggio inequivocabile: «Digli che lo vado a mettere sotto quel cazzo di ponte».

«Una delle attività che vengono maggiormente utilizzate per far fronte alla mancanza di opportunità legata alla fine del proibizionismo è proprio il gioco d’azzardo, che diventa una fonte di ricchezza importantissima, anche perché i guadagni sono di gran lunga superiori ai rischi», spiega Nicaso. «Oggi noi assistiamo al passaggio dall’età dalle vecchie bische alle private rooms offerte tramite internet, dove è possibile giocare a poker, dove ci sono i casinò virtuali, dove i siti web sono registrati in paesi offshore, che difficilmente accettano di collaborare in caso di rogatorie internazionali».

Da quando, nel 1933, la vendita di alcolici è diventata legale, è stato calcolato che il gioco d’azzardo è stato il business illegale che ha generato i maggiori profitti per i gruppi criminali italo-americani. Già nel 1967, la task force presidenziale sul crimine organizzato stimava il gambling come la principale fonte di denaro per La Cosa Nostra.

Ormai da decenni LCN controlla le bische online. È il caso dell’operazione condotta dalla procura della Contea di Bergen, New Jersey, nel 2004. Quarantatré fra arresti e mandati di cattura, sequestro di 25 armi da fuoco, un milione di dollari in contanti e cocaina pronta alla distribuzione. Tutto parte dal Caffè Roma, a East Rutherford, New Jersey, usato come bisca clandestina e base dalla famiglia Genovese. Le scommesse illegali erano gestite in collaborazione con membri dei Bonanno e dei Lucchese, un’altra delle storiche famiglie di New York. L’inchiesta aveva rivelato l’esistenza di una sala scommesse virtuale in Costa Rica, dove le puntate venivano accettate. Agli scommettitori venivano addebitate commissioni fra i 20 e i 30 dollari a settimana, generando ricavi per le famiglie di centinaia di migliaia di dollari a settimana.

Caratteristiche simili si ritrovano in un’altra operazione condotta tra il 2008 e il 2012, in cui membri della “decina” dei Genovese in New Jersey utilizzavano un sito web, sempre con base in Costa Rica, per la gestione del gambling illegale.

Problemi di famiglia

I recenti arresti di agosto 2022 sono solo gli ultimi di una lunghissima serie di operazioni che hanno decimato tutte le famiglie di cosa nostra negli Stati Uniti. Solo tra aprile e maggio 2022, sono stati arrestati quattro membri e due associati dei Genovese, e, in un’altra indagine, un vecchio caporegime della famiglia, l’ottantaquattrenne Anthony “Rom” Romanello, accusato di aver picchiato un ristoratore di New York City che aveva debiti di gioco.

Come spiega Antonio Nicaso, «sia i Genovese che i Bonanno sono stati quelli che negli ultimi tempi hanno subito delle perdite notevoli. I Bonanno, ad esempio, negli ultimi tempi hanno avuto almeno sei-sette collaboratori di giustizia. La credibilità non è più quella dei tempi di John Bonanno», boss della famiglia fra il 1931 e il 1968. «Se paragoniamo la mafia americana quando gestiva i grandi flussi di eroina e in collaborazione con le famiglie di Palermo e di Trapani, quella era un’organizzazione forte, che si era infiltrata nel mondo cosiddetto “di sopra”. La strategia, da parte delle autorità, di colpire i vertici delle cinque famiglie contemporaneamente è stata vincente», conclude Nicaso.

Il declino di LCN non ha soltanto a che fare con l’efficace repressione giudiziaria. Secondo Jay Albanese, c’è stato un cambiamento generazionale. Praticamente tutte le figure apicali dell’organizzazione tra gli anni Ottanta e Novanta stanno scontando una condanna a vita o sono decedute.

«Il risultato – dice Albanese, è che ci sono persone più giovani a cui spesso mancano le tradizioni familiari italiane, la segretezza. Non sentono quella lealtà verso il gruppo che i più anziani sentivano». Oltre al fattore culturale, la comunità italo-americana si è ridotta in numero, rendendo difficile il reclutamento. Accade persino che membri di spicco dell’organizzazione mettano in discussione anche i loro parenti più prossimi . Emblematica è la frase pronunciata da John Angelo Gotti, omonimo figlio del boss dei Gambino morto nel 2002, intercettato in carcere: «Voglio dire, so che mio padre mi voleva bene, ma devo chiedermi quanto. Lui mi ha messo con tutti questi lupi». A processo nel 2006, il figlio del padrino aveva dichiarato di non appartenere più alla famiglia.

Non sono solo le dichiarazioni, ma anche i numeri a testimoniare la perdita di potere della mafia siculo-americana. Secondo il rapporto dell’Fbi sul crimine organizzato, nel 2011 solo nel 4,27% dei casi erano presenti rapporti fra gang di strada e La Cosa Nostra. Oggi sono le organizzazioni messicane a comandare, seguite dalle mafie asiatiche, dai colombiani e dai russi, cresciuti negli anni Novanta a scapito di cosa nostra.

Anche il numero di membri è diminuito drasticamente: se nei primi anni Settanta si parlava di circa 3.000 “uomini d’onore”, gli ultimi dati – secondo l’Agi – parlano di poco più di 800 membri. In soli tre anni, fra il 1983 e il 1986, più di 2.500 membri e associati a LCN sono stati incriminati e dagli anni Ottanta 17 boss di tutte le famiglie sono stati condannati, fra cui Tony Salerno dei Genovese, Tony Corallo dei Lucchese, Carmine Persico dei Colombo, Phillip Rastelli dei Bonanno e John Gotti dei Gambino.

Gli affiliati a La Cosa Nostra dal 1970 a oggi

Come riconosciuto anche dall’Fbi, il carattere iniziatico dell’organizzazione rende difficile una stima precisa dei suoi membri. I numeri qui riportati provengono da varie fonti: Fbi, Onu, Albanese (2012), Agi, Paoli (2003), US General Accounting Office, ESISC

L’organizzazione non è morta

Sotto i colpi delle inchieste giudiziarie, a partire dalla metà degli anni Novanta il vincolo dell’omertà inizia a indebolirsi. Agli inizi del 2000, il numero di membri di alcune delle 25 famiglie mafiose presenti in tutti gli Stati Uniti si era ridotto del 50%, in qualche caso anche del 90%, rispetto a 30 anni prima. In quelli che in passato erano fortini di cosa nostra, come Cleveland, Detroit, Kansas City, Las Vegas, Los Angeles, New Orleans e Pittsburgh, le famiglie sono deboli o scomparse.

Nel 2004, il boss della famiglia Bonanno, Joseph Massino, viene condannato per vari omicidi, usura, incendio doloso, gioco d’azzardo, riciclaggio di denaro ed estorsione. Nel 2011 diventa il primo boss di una delle storiche cinque famiglie di New York a collaborare col governo. Svelerà i nomi di centinaia di associati e membri dei Bonanno, entrando – dopo aver scontato una condanna a 10 anni – nel programma di protezione dei testimoni. Alla guida della famiglia Bonanno c’è oggi Michael “The Nose” Mancuso, 67 anni, condannato a dieci anni per l’omicidio della moglie nel 1984 e a 15 per aver aiutato l’ex boss Vincent Basciano a uccidere un altro mafioso. Uscito di prigione tre anni fa, è stato recentemente accusato di aver violato i termini della libertà condizionale per essersi riunito con altri mafiosi. Rilasciato su cauzione, è sotto il programma di protezione testimoni.

La legislazione antimafia statunitense

L’efficacia della risposta giudiziaria si deve, fra le altre cose, al passaggio nel 1970 del Racketeer Influenced and Corrupt Organizations (RICO) Act. Si tratta di una legge federale, emanata sotto la presidenza di Richard Nixon, con l’obiettivo specifico di combattere la criminalità mafiosa. Secondo il RICO, chi compie almeno due atti classificati come “racket”, in dieci anni può essere condannato fino a vent’anni di carcere per ogni capo d’accusa e vedere confiscati tutti i profitti illeciti. Gli inizi sono lenti e i procuratori utilizzano il nuovo strumento con cautela. La prima causa civile RICO risale a oltre 10 anni dopo il passaggio della legge. Negli anni Ottanta il ricorso alla legge si intensifica, così come l’utilizzo di intercettazioni e microspie e i membri di cosa nostra americana iniziano ad essere colpiti. Il primo boss condannato grazie al RICO è Frank Tieri, della famiglia Genovese.

Il processo Commissione e il caso Pizza Connection sono gli esempi, entrambi durante gli anni ‘80, dell’efficacia del RICO Act. Il primo, conosciuto come il caso “U.S. vs. Salerno”, ha portato alla sbarra nel 1985 – sotto la guida dell’allora Procuratore Generale Rudy Giuliani, successivamente sindaco di New York e avvocato di Donald Trump – undici membri di alto livello delle famiglie di New York, otto dei quali condannati. L’inchiesta, che aveva coinvolto oltre 200 agenti dell’Fbi, si basava sull’assunto che le famiglie avevano costituito un’impresa criminale, la Commissione appunto, i cui membri erano coinvolti in estorsioni, omicidi e usura. La pena per ciascuno dei condannati era stata di 100 anni di prigione.

Con l’operazione Pizza Connection (1985-1987), alla quale ha lavorato anche Giovanni Falcone, 17 mafiosi sono stati condannati per traffico di eroina dalla Sicilia agli Stati Uniti e riciclaggio dei profitti (25 milioni di dollari). Sul lato americano, il traffico vedeva coinvolta principalmente la famiglia Bonanno. Con il passare dei decenni, Il RICO Act ha reso l’affiliazione a La Cosa Nostra sempre più pericolosa, contribuendo sensibilmente alla perdita di uomini e mezzi finanziari da parte delle famiglie.

Se La Cosa Nostra sembra aver perso il prestigio criminale che aveva ai tempi della Pizza Connection, è comunque presto per dichiararne la fine.

«Se dovessi valutare lo stato di salute di cosa nostra americana oggi, rispetto a vent’anni fa, è chiaro che, come diceva James, è l’ombra di se stessa» spiega Antonio Nicaso. Però, conclude, «io sono sempre dell’avviso che non bisogna mai pubblicare il necrologio di organizzazione criminale, perché organizzazioni come cosa nostra americana hanno una grande capacità di adattamento. Spesso si fa un’indagine e magari si pensa che tutto sia stato risolto. Nel frattempo le famiglie riescono a riorganizzarsi, lo hanno sempre fatto».

I collegamenti, infatti, rimangono sempre vivi. Lo testimonia la relazione del primo semestre 2020 della Dia, ricordando come una delle cinque storiche famiglie, i Bonanno, sia originaria di Castellammare del Golfo, in provincia di Trapani. Le indagini hanno trovato traccia di contatti proprio tra esponenti dei Bonanno e il boss della cosca di Castellammare, documentando «diversi incontri avuti dal boss con soggetti italoamericani di origine castellammarese, inseriti nel contesto mafioso statunitense». Il boss siciliano avrebbe esclamato, probabilmente a un suo emissario: «In America ti mando, in un posto a lavorare e guadagnare soldi, assai però!!». In perfetta continuità con la tradizione.

Gli avvocati dei nove membri accusati di essere legati alle famiglie Bonanno e Genovese arrestati ad agosto 2022 non hanno risposto alla richiesta di commento di IrpiMedia. Joseph di Benedetto, legale di Vito Pipitone, ha fatto sapere di non avere alcun commento in merito al caso. Gerald McMahon, avvocato di Carmelo Polito, ha dichiarato via email: «L’accusa è uno scherzo. Praticamente ogni stato degli Stati Uniti raccoglie entrate fiscali dal gioco d’azzardo legalizzato. Accusare un gruppo di anziani italiani di gioco d’azzardo illegale è il massimo dell’ipocrisia».

Foto: Una lavagna mostra l’organizzazione gerarchica delle cinque famiglie mafiose di New York – Marianne Barcellona/Getty
Infografiche: Lorenzo Bodrero
Editing: Lorenzo Bagnoli

Danny Greene, l’Irlandese che volle sfidare la mafia di Cleveland

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Danny Greene, l’Irlandese che volle sfidare la mafia di Cleveland

Monica Zornetta

Era un tiepido pomeriggio di sole a Lyndhurst, a una ventina di minuti da Cleveland, Ohio. Danny era appena uscito dallo studio del dentista e si stava dirigendo senza fretta verso la Lincoln che aveva parcheggiato poco lontano. Ora che il dente non lo tormentava più – pensava, guardando il sole che splendeva alle spalle del Brainard Place –  aveva diverse cose da finire una volta tornato in città. Ma un istante dopo, nel momento esatto in cui stava per inserire la chiave nella serratura dell’auto, una spaventosa esplosione lo investì di colpo, in pieno, scaraventandolo sull’asfalto e sfracellandone le spalle e il torace.

Fu uno scoppio così rabbioso che frantumò anche i vetri delle case e degli uffici di Lyndhurst e sbriciolò la carrozzeria di alcune vetture parcheggiate accanto alla Lincoln, avvolgendo di fumo il vasto piazzale. Quando i soccorritori estrassero il suo cadavere da sotto il pianale dell’auto vicina – gli abiti erano a brandelli, la pelle bruciata in più parti – si accorsero con raccapriccio che non aveva più il braccio sinistro. Vicino a lui notarono, inoltre, un borsone verde in pelle chiuso con una cerniera che custodiva, come videro quando la aprirono, armi e munizioni. Il braccio, ma anche la collana con il pendaglio celtico da cui non si separava mai, furono invece ritrovati poco dopo a circa trenta metri dal punto in cui era saltato in aria.

Il 6 ottobre 1977, nella periferia della grande Cleveland, morì così Danny Greene, da tutti conosciuto come The Irishman, uno dei più feroci e carismatici criminali di origini irlandesi che la storia americana ricordi. Ad ucciderlo, dopo svariati tentativi andati a vuoto, fu quella mafia italo-americana che egli voleva sconfiggere per prenderne il posto.

Aveva 44 anni, praticava la violenza fin da ragazzo e aveva sulle robuste spalle molti morti e molte bombe. Nei primi anni Settanta aveva messo a ferro e a fuoco la sua città ingaggiando una guerra spietata per il potere: da una parte c’era il suo Celtic Club, un’organizzazione che riuniva giovani e ambiziosi gangsters irish-americans; dall’altra, la famiglia mafiosa associata a La Cosa Nostra che fin dagli anni Venti controllava le attività illegali di tutto l’Ohio settentrionale.

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Una foto segnaletica di Danny Greene scattata nel 1959 | Foto: Polizia di Cleveland

A quel tempo l’odore del sangue e del fumo che fuoriusciva, tetro, dalle ciminiere, riempiva le narici di chi viveva e lavorava a Cleveland, Ohio, Stati Uniti d’America. Immaginando sé stesso come un guerriero celtico, Greene si era posto l’obiettivo di combattere i discendenti degli antichi nemici del suo popolo eroico, e per farlo si serviva delle autobombe: delle “armi perfette”, come egli le considerava, poichè permettevano di eliminare chiunque senza lasciare tracce. Sapeva che le auto imbottite di esplosivo al plastico, come il C-4, molto difficilmente avrebbero fornito elementi utili alla polizia visto che con l’esplosione tutto si disintegrava. E sapeva che quando, per qualsiasi ragione, un congegno non detonava, i suoi componenti non avrebbero affatto portato all’identificazione degli autori. D’altro canto, era un fear na héireann, un uomo d’Irlanda, e nella lontana Belfast, a quasi seimila chilometri da lì, da anni l’IRA utilizzava le bombe.

Nella città bagnata dal lago Erie, nel 1976 le azioni di questo tipo erano talmente frequenti che i media nazionali avevano coniato per lei l’appellativo di Bomb city d’America mentre l’ATF, la sezione alcolici, tabacco e armi da fuoco dell’Agenzia che fa capo al Dipartimento di Giustizia, sempre più preoccupata per le brutalità che si succedevano e per il pericolo costante in cui vivevano i cittadini, aveva deciso di istituire proprio nella New American City il suo quartier generale.

Egli stesso era scampato alla morte diverse volte: era successo, ad esempio, nella primavera del 1975 quando un ordigno costruito con Tetrytol, un esplosivo militare usato anche nell’edilizia, scoppiò alle quattro del mattino ferendolo alle costole e distruggendo la sua casa-ufficio nel sobborgo di Collinwood. Solo per un caso le porte e le finestre delle altre abitazioni non saltarono in aria.

In quel momento Greene dormiva al secondo piano accanto alla giovane Denise Schmidt, la studentessa con cui aveva allacciato una relazione dopo la separazione dalla moglie, che non riportò nemmeno un graffio. «Sono un cattolico irlandese con la grazia di Dio sulle spalle», aveva detto poco dopo ad un reporter televisivo, mostrandosi, con le possenti braccia conserte e il petto nudo, di fronte a quel che restava della casa, «sono convinto che chi tira i fili da lassù abbia deciso che il mio tempo non è arrivato […] Io sono nel mezzo di due mondi: il mondo della piazza e quello della strada, e ho fiducia in entrambi. Non ho conti in sospeso», aveva aggiunto, guardando con collera l’obiettivo, «ma se qualcuno volesse venire dopo di me, io sono qui, al Celtic Club. Non sono difficile da trovare».

Un frame dell’intervista a Danny Greene | Fonte: News 5 Cleveland

Per tutta l’intervista era rimasto in piedi, con i muscoli bene in vista, davanti a uno striscione della sua gang, in un chiaro segno di sfida. Era suppergiù dai tempi di Dean O’ Banion, il boss-contrabbandiere-fiorista della North Side Gang di Chicago che aveva in odio Johnny Torrio e Al Capone, che un gangster irlandese-americano non godeva di tanta fama nel Midwest.

Alto, biondo, massiccio, Daniel John Patrick Greene non aveva paura di niente, o così voleva mostrarsi al mondo. Quando era nato, il 14 novembre 1933, i suoi genitori, Irene Cecilia Fallon e John Henry Greene – entrambi ventenni e figli di immigrati irlandesi – erano sposati da appena cinque giorni e mai avrebbero immaginato che quella giovane famiglia sarebbe rimasta unita solo per poco: cinque giorni dopo la nascita di Danny, infatti, un attacco cardiaco si portò via Irene. John, scioccato dalla tragedia, battezzò “il piccolo Greene” solo dopo i funerali della donna e scelse per lui i primi due nomi del proprio padre seguiti da quello del vecchio suocero Fallon: poi, precipitato in un tunnel di alcool e depressione, lo affidò ad un orfanotrofio cattolico molto frequentato dai figli dei tanti e poverissimi immigrati di Cleveland.

Quando, qualche anno dopo, il giovane Danny venne riaccolto in casa dal padre, nel frattempo risposatosi, cominciarono le sue fughe di casa: in qualche occasione il ragazzino trascorreva fuori persino la notte. Dopo l’ennesima fuga, il padre e la nuova moglie decisero di portarlo dal nonno, Daniel John, un irlandese solitario e taciturno che lavorava come stampatore del Cleveland Plain Dealer tutte le notti.

Danny crebbe da solo, in casa e sulla strada: solo a scuola c’era chi si prendeva cura di lui. Era intelligente, sveglio, bravo con il baseball ma non studiava affatto ed era totalmente incapace di rispettare le regole. Era un ribelle, insomma, e a mano a mano che passava il tempo trascorreva sempre più pomeriggi e sere in giro, a fare la lotta e a picchiare persino i ragazzi del quartiere più grandi e grossi di lui. Anche nei primi anni Cinquanta, quando entrò nel corpo dei Marines, riuscì a farsi notare dai suoi superiori più per le sue doti di boxeur che di soldato.

Gli inizi al porto di Cleveland

La sua storia criminale cominciò quando fu assunto come scaricatore al grande porto di Cleveland ma, soprattutto, quando fu eletto presidente di uno dei sindacati più attivi e spregiudicati di quel porto.

Fin dall’inizio del secolo le unioni sindacali dei lavoratori esercitavano un grande potere all’interno delle imprese; nella città attraversata dall’inquinatissimo fiume Cuyahoga ne operavano un centinaio, quasi tutte affiliate con l’AFL, la Federazione americana dei Lavoratori, a cui, negli anni Trenta, si oppose il CIO, il Congresso delle Organizzazioni Industriali, che riuniva i salariati di categoria degli Stati Uniti e del Canada. Vent’anni dopo le due sigle si fusero nella AFL-CIO. Danny Greene fu nominato presidente dell’ILA, l’aggressiva union che tutelava i portuali, e nel giro di poco allacciò oscuri rapporti con personaggi assai conosciuti in città e nella contea. Faceva di tutto per mettersi in mostra con chi, secondo lui, poteva favorirne l’ascesa: negli uffici del sindacato organizzava feste esclusive a cui invitava poliziotti, giudici, amministratori comunali, politici e criminali.

L’Irish Republican Army (IRA)

Nata nei primi decenni del Novecento dall’Irish Volunteers Force, l’Irish Republican Army, conosciuta come IRA, è la più grande e nota organizzazione paramilitare nazionalista irlandese. Nata clandestinamente per contrapporsi al trattato anglo-irlandese, è considerata il braccio armato di quei gruppi di cattolici repubblicani che si opponevano ai sostenitori (protestanti) dell’appartenenza al Regno Unito.

Fin dal principio il suo obiettivo è stato, infatti, la riunificazione e l’indipendenza dell’Isola di Smeraldo dal controllo britannico: per questo aveva a lungo ingaggiato feroci campagne militari e organizzato atti di guerriglia armata soprattutto contro la polizia della provincia settentrionale dell’Ulster (a maggioranza protestante) e della Gran Bretagna.

La lunghissima stagione di sangue, caratterizzata da attentati dinamitardi contro obiettivi prevalentemente economici – ma a seguito dei quali furono uccisi anche molti civili – da scontri cruenti con le forze dell’ordine, con l’esercito britannico e con gruppi di estremisti e paramilitari, ha avuto il suo apice tra la fine degli anni Sessanta e i Settanta del Novecento con i cosiddetti Troubles e la conseguente scissione del movimento repubblicano in due distinte organizzazioni, tra loro sovente antagoniste. Alla metà degli anni Settanta, con l’ennesima metamorfosi dell’IRA, la cui parte armata prese il nome di Provisional IRA, e con la scelta del governo inglese di non riconoscere più ai detenuti lo status di “prigioniero politico”, molti militanti, imprigionati senza processo nel carcere di Long Kesh, misero in atto numerose proteste che culminarono con una serie di scioperi della fame ad oltranza a seguito dei quali morirono decine di membri dell’organizzazione: tra questi, anche Bobby Sands. Alla fine degli anni Novanta l’annuncio da parte dell’IRA di una tregua ha permesso di rendere possibile un accordo di pace (il Belfast Agreement). Nel 2005 l’IRA ha proclamato la fine definitiva della lotta armata.

Era lui il boss: a nessun altro, se non all’Irlandese, spettava prendere decisioni sulla gestione del lavoro, e lui soltanto sceglieva i lavoratori da assumere e quelli da licenziare, quali compiti assegnare e a chi, fissava le ore di lavoro e i compensi, obbligava a straordinari non pagati (intascandosi il denaro che convogliava, molto probabilmente, in un fondo edilizio segreto controllato dallo stesso Greene, come aveva tra l’altro svelato l’inchiesta di un giornalista del Plain Dealer che finì per incriminarlo per appropriazione indebita, peculato, malversazione e falsificazione dei registri del sindacato) e a partecipare a scioperi che indiceva al solo scopo di dimostrare ai proprietari della compagnia chi comandava davvero su quei moli.

Se qualcuno si rifiutava di obbedirgli avrebbe dovuto fare i conti con il suo “Comitato di reclamo”, come egli stesso aveva soprannominato la squadra di ex boxeurs e di delinquenti con cui riuscì ad acquisire una forza sempre maggiore nel «mondo di mezzo di Cleveland», abitato da politici, sindacalisti e, naturalmente, da gangsters.

Le connivenze con le autorità

Avvenne probabilmente in questo periodo l’abboccamento con l’FBI, che lo assoldò come informatore confidenziale di alto livello con il nome in codice “Mr. Patrick”: ad avvicinarlo fu un certo Marty Mc Cann Jr., un poliziotto della Divisione Crimine Organizzato, anch’egli di origine irlandese. Proprio in questo periodo Greene cominciò ad intrattenere rapporti anche con Edward Kovacic, capo dell’ufficio dello Sceriffo della contea di Cuyahoga. Dopo i primi attentati, Kovacic voleva metterlo sotto protezione ma il gangster rifiutò, convinto che non esistesse una bomba abbastanza potente per ucciderlo.

Le armi erano inscindibili da lui. Girava regolarmente con una calibro 22 nascosta nella giacca o nel cappotto (in ufficio custodiva un fucile a canne mozze sempre pronto all’uso) e passava quasi ogni notte nei nightclubs, negli stripjoint e nei ristoranti lungo la “Short Vincent” Avenue. Era un habitué del Theatrical Bar and Grill, un celebre luogo di ritrovo di stelle del musical e del cinema ma anche di criminali efferati come il vecchio Alex “Shondor” Birns, che proprio qui l’Irlandese conobbe. In quegli anni era ancora sposato con Nancy Hegler e viveva con lei e le loro due figlie in un quartiere dalle case affacciate sul lago Erie.

Nonostante già frequentasse il mondo dello strozzinaggio, dei traffici illeciti e del controllo del gioco d’azzardo, tra i vicini di casa Greene godeva di un’ottima reputazione. Era visto come una specie di moderno Robin Hood per via degli aiuti che dava alle persone meno abbienti e non erano affatto pochi i residenti che gli chiedevano favori e sostegno economico. Per esempio, aveva pagato per quattro anni le rette al college ad una ragazzina figlia di disoccupati e provveduto alle spese scolastiche di alcuni bambini rimasti orfani. Ogni anno per il Thanksgiving, e poi per Natale, era inoltre solito comprare un grosso tacchino che donava ai residenti più poveri.

L’ossessione per l’Irlanda mai vista e i business criminali

Pur se nato nell’iper-industrializzata città americana, il suo cuore batteva per il luogo remoto e leggendario da cui provenivano i Greene e i Kelley, i Fallon e i Taffen, le famiglie dei nonni materni e paterni, ma era soprattutto il luogo da dove i bisnonni Filby e Gallagher erano partiti per sfuggire alla grande carestia. Leggeva tutto ciò che trovava sulla “sua” Irlanda, sognava di andarci, un giorno, di attraversare l’Atlantico e di toccare con le proprie mani quella terra epica, e di calpestare quell’erba che – ne era convinto – parlava di lui e del suo destino.

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I misteri intorno alla scomparsa di Mauro De Mauro

Battitore libero, geloso di fonti e del suo metodo d’inchiesta, il giornalista de L’Ora non è mai stato ritrovato. La campagna contro L’Ora e le piste che portano ai suoi nemici

Per quel Paese dove da secoli fischia il vento del nazionalismo, provava un’adorazione che sfociava nell’ossessione: non solo vedeva se stesso come la reincarnazione di un valoroso guerriero celtico ma aveva adottato il verde smeraldo come proprio colore. Di frequente vestiva un cappotto tipo plaid verde, usava solo penne a sfera con inchiostro verde e scriveva su carta della stessa tinta, aveva dipinto le pareti dell’ufficio di quella nuance e guidava un’auto in tono. L’essere irlandese, e sentirsi tale, era divenuta la sua forza: era il suo modo per riavvicinarsi, in un certo senso, alle proprie origini, e sopravvivere in un mondo difficile popolato di ebrei, italiani, afroamericani, ispanici. Un mondo dove l’unico vero irlandese era lui.

I primi contatti con la mafia li ebbe all’alba degli anni Settanta, quando, già a capo del Celtic Club, era stato coinvolto nel business dei rifiuti dal viceboss della famiglia di Cleveland, “Little” Frank Brancato, un palermitano della “vecchia scuola” mafiosa, allo scopo di sedare i bollenti spiriti che si agitavano all’interno della Cleveland Solid Waste Trade Guild, la corporazione che controllava il trasporto dell’immondizia, ne fissava i prezzi e si spartiva i profitti. Spettava a Greene e alla sua squadra di picchiatori scelti, prendere a botte, incendiare e far saltare in aria con qualche bomba i piccoli trasportatori indipendenti che non accettavano di sottostare al loro strapotere. Tra i suoi collaboratori aveva anche due soggetti, inseriti più o meno profondamente nel mondo criminale, che ad un certo punto egli stesso toglierà di mezzo: il giovane esperto di esplosivi Arthur “Art” Sneperger – a detta di Greene colpevole di delazione – e Michael “Big Mike” Frato, un imprenditore del settore e suo strettissimo amico che si era firmato la propria condanna a morte abbandonando la Cleveland Solid Waste Trade Guild per fondare una propria impresa concorrente, la Cuyahoga County Refuse Handlers Association.

I contatti e i contrasti con cosa nostra americana

In una città dalle acque ormai avvelenate dallo sversamento di oli industriali, di rifiuti chimici e tossici, di detriti e scarichi (tanto che per tredici volte nell’arco di un secolo il Cuyahoga si incendiò) l’irlandese continuava a costruire pezzo per pezzo il suo sistema criminale. Lasciata l’ILA tra le tensioni, le accuse e un paio di indagini interne, si mise in società con Alex Birns, un gangster ebreo molto noto e temuto nel sottomondo di Cleveland fin dai tempi del Proibizionismo. Da decenni Birns controllava il racket della prostituzione, dei furti, delle lotterie illegali, delle scommesse, delle lavanderie e dei prestiti a tassi usurai. Aveva ventisei anni più di Danny, amava far saltare in aria i suoi nemici (tenterà di farlo anche con Greene, che un freddo Sabato Santo del 1975 si vendicherà uccidendolo nell’esplosione della sua Cadillac Eldorado), collaborava con La Cosa Nostra attraverso il clan Gambino e con la cosca che aveva le mani sulla “bomb city” e su tutto l’Ohio settentrionale: la Cleveland Crime Family.

Questa organizzazione criminale aveva cominciato a prendere vita negli anni Venti con Giuseppe “Joseph” Lonardo e un gruppo di giovani licatesi arrivati nel Nuovo Mondo per sfuggire ad una vita grama nelle zolfare: con il corpulento “Big Joe”, chiamato anche u baruni dai poveri connazionali del suo quartiere, c’erano anche i suoi tre fratelli. Con loro, i fratelli Porrello.

Gli esordi criminali di “Big Joe” avvennero durante il Proibizionismo e si concentrarono sul prestito di denaro a strozzo e sulla fornitura degli alambicchi per la produzione clandestina del moonshine, il liquore illegale: a queste prime attività seguirono rapine, furti, estorsioni e l’avvio del redditizio business dello zucchero di mais, ingrediente essenziale per la fermentazione dei liquori, con i contrabbandieri di Cleveland. Ufficialmente il loro lavoro consisteva nella vendita ambulante di frutta e verdura e nella gestione di negozi di barberia e di dolci.

La loro storia ebbe una svolta con la scissione degli antichi amici e compaesani, i Porrello, che ad un certo punto decisero di dare vita ad un proprio clan diventandone, in questo modo, gli antagonisti. La cronaca racconta che quando Joe Lonardo rientrò per un breve periodo in Sicilia, lasciando provvisoriamente il comando dell’organizzazione a uno dei fratelli e a Salvatore “Black Sam” Todaro, un altro licatese, la faida era già esplosa. Nel 1927, tornato negli Stati Uniti, Joe e un fratello vennero massacrati nella sala giochi dei Porrello per mano anche di “Black Sam”, passato nel frattempo nelle loro file: i Porrello, a quel punto, divennero i nuovi capi.

Poiché Joseph Porrello ambiva all’investitura ufficiale, nel 1928 promosse un celebre quanto sfortunato summit di mafia nello sfarzoso Grand Hotel Statler. Tra gli obiettivi della riunione, a cui parteciparono i boss delle più importanti Famiglie americane, c’erano infatti l’accordo sulla presidenza dell’Unione Siciliana, dalla quale arrivavano generosi finanziamenti, e il riconoscimento di Porrello quale boss del crimine organizzato di Cleveland. Ad ogni modo, quello che venne definito il primo incontro della storia tra vertici della mafia, si concluse con una pioggia di arresti.

Nonostante la statura criminale, due anni più tardi toccò proprio a Joseph soccombere. Tre settimane dopo, al fratello Vincenzo. Il primo fu assassinato insieme alla sua guardia del corpo al Venetian, il ristorante di Francesco “Frank” Milano, calabrese, boss della gang di Cleveland, Mayfield Road Mob (dal nome della strada dove sorgeva la locale Little Italy); il secondo, in un negozio di alimentari nella roccaforte della Famiglia.

Ormai rafforzata dal passaggio di diversi gangsters nelle sue file, la Mayfield Road Mob si fuse con quel che restava del clan trasformandosi, così, nella più forte organizzazione dell’Ohio settentrionale. Dal canto suo Frank Milano, considerati i suoi forti contatti con Lucky Luciano e Meyer Lansky, divenne uno dei più autorevoli padrini americani, un ascoltato componente della Commissione e il nuovo boss della Cleveland Crime Family.

Quando, alla metà degli anni Trenta, fu costretto a lasciare gli Stati Uniti per sfuggire ad una incriminazione per evasione fiscale, Milano – che da quel momento mise la propria esperienza al servizio di vari business criminali in Messico e nel Nevada dove, tra le varie cose, cofinanziò con altri mobsters la costruzione del Desert Inn Casinò – scelse come successore il siciliano Alfred Polizzi. Nella metà degli anni Quaranta, a seguito dell’arresto di Polizzi, al comando della Family salì invece il pacato capomafia John T. Scalish, altro membro storico della Commissione, che vi rimase per oltre trent’anni.

Scalish era molto rispettato ed era amico di politici e di giudici dello Stato: nel 1957 fu tra i partecipanti del famoso meeting nella residenza di Joseph Barbara, ad Apalachin, a nord di New York. Poco prima di morire, nella primavera del 1976, designò come suo sostituto il riluttante settantaduenne James T. Licavoli, considerato l’ultimo esponente della vecchia “scuola mafiosa” di Cleveland.

James T. Licavoli | Foto: Cleveland Magazine

Nato nel 1904 a St. Louis da genitori arrivati negli Stati Uniti dalla palermitana Terrasini Favarotta, Vincenzo “James” Licavoli, questo il suo vero nome, era conosciuto dai suoi con i soprannomi di “Blackie” e “Jack White” per via della carnagione olivastra, da tipico uomo del Sud Italia. La sua supremazia criminale, condotta in collaborazione con i cugini Moceri di Detroit, vale a dire Leonardo Calogero detto “Leo Lips”, poi nominato suo consigliere, e Giuseppe “Joe Misery” – entrambi collegati, secondo alcuni rapporti dell’FBI, all’omicidio di JFK insieme con Salvatore “Sam” Giancana – fu in un certo momento messa in discussione da un affiliato, il sessantunenne John Nardi, che lasciò l’organizzazione italo-americana per passare con gli irlandesi di Greene.

Tutto ciò avvenne in un momento storico in cui a cambiare erano diversi assetti mafiosi, in cui la polizia decise di potenziare le proprie azioni repressive (come l’entrata in vigore, nel 1970, della legge federale che perseguiva racket e contrabbando: il Rico Act, di cui Licavoli fu una delle prime “vittime”) e in cui una escalation mai vista prima di violenza e di morte si stava per abbattere, inarrestabile, sulla città.

Era il 1976. Nei territori di Cleveland e di buona parte dell’Ohio «la gente si era come assuefatta alla violenza sulle strade», scrisse un giornalista del Cleveland Press, «nonostante tutto questo causasse morte, distruzione, e avesse, alla base, l’indifferenza verso la vita delle persone».

L’odio di Jack White verso il “traditore” Nardi e lo sfrontato Irlandese, si fece cieco dopo l’omicidio di “Lips” Moceri e lo condusse a coinvolgere nella guerra alcune Famiglie appartenenti a La Cosa Nostra. Aveva in mente una vendetta che non contemplava né feriti, né prigionieri, e non era il solo a voler togliere di mezzo i due: vista la rabbia e l’imbarazzo seguiti all’uccisione di Moceri, i mafiosi “italiani” erano consapevoli che chiunque li avesse uccisi avrebbe guadagnato molta considerazione all’interno dell’organizzazione e tra gli alleati.

Nel 1977 Greene, sfuggito ormai a diversi attentati e uscito indenne anche da una inchiesta della Dea su un traffico di acido fenilacetico per la produzione di metanfetamine, aveva creato insieme con Nardi una joint venture in Texas a cui avrebbe dovuto partecipare finanziariamente anche Paul Castellano, boss dei Gambino e amico del fratello di Frank Milano, quell’Anthony conosciuto come “Tony” che era anche zio di Nardi, padrino di Angelo Lonardo e vicecapo occulto di Scalish fino alla sua morte. Ma il loro progetto naufragò.

Una scia di bombe e attentati

La bomba che uccise il braccio destro di Greene, John Nardi, detonò il 17 maggio 1977 nei pressi dell’ingresso del Consiglio del Sindacato degli Autotrasportatori. Era il 37esimo ordigno che esplodeva in un anno nella sola contea di Cuyahoga. Un’automobile rubata qualche mese prima a Toledo, imbottita con candelotti di dinamite e posizionata accanto alla sua Oldsmobile 98, saltò in aria non appena il gangster si avvicinò. L’onda d’urto fu così impetuosa che il suo corpo fu scaraventato a parecchi metri di distanza – dove lo trovarono alcuni passanti, mutilato delle braccia – e il tettuccio dell’autobomba finì al secondo piano dell’edificio in mattoni del sindacato.

Il giorno dopo, sui giornali, Greene lanciò un furibondo avvertimento agli autori: «Ho un messaggio per quei vermi gialli, e mi riferisco a chi ha ordinato, pagato e compiuto l’omicidio. Queste persone dovranno essere eliminate perché chi le ha pagate non può permettersi di tenerle in vita. Coloro che hanno commissionato e pagato il delitto si sentiranno presto riscaldati dall’FBI e dalle autorità locali». Fatto fuori Nardi, ora toccava a lui.

Il killer fu trovato, grazie all’intervento della famiglia Genovese. Si trattava dell’ex Marine Raymond “Ray” Ferritto, associato alla Los Angeles Crime Family. Per settimane il mafioso italo-americano, coadiuvato da Aladena “Jimmy” Fratianno, un malavitoso napoletano con collegamenti internazionali che nel 1980 testimonierà contro la stessa organizzazione mafiosa ed entrerà per qualche anno nel programma federale di protezione, studiò i movimenti di Greene e, grazie ad una cimice piazzata nel telefono della sua fidanzata, scoprì che il 6 ottobre, alle tre del pomeriggio, si sarebbe dovuto presentare dal dentista, a Lyndhurst. Capì, a quel punto, che il dannato topo era finalmente in trappola.

Il 5 ottobre insieme ad un soldato della Cleveland Crime Family già coinvolto in altre azioni contro Greene, Ferritto confezionò la bomba e il giorno seguente, alle 14, arrivò con altri mafiosi al parcheggio del palazzo Brainard, dove si trovava lo studio dentistico. Al sicuro, a bordo di un paio di automobili, si misero pazientemente ad aspettare.

Greene comparve alle 15:25: parcheggiò in fretta la Lincoln, afferrò dal sedile posteriore l’inseparabile borsa verde in pelle contenente armi e munizioni, mise nella tasca dei jeans un’immaginetta sacra della Madre del Perpetuo Soccorso e cercò di contattare un suo uomo con il cerca-persone. Quindi entrò nel grande palazzo pieno di uffici e di ambulatori medici in Brainard Place. I sicari a quel punto parcheggiarono l’autobomba a fianco della Lincoln e si allontanarono. Il killer, nascosto in auto con il telecomando in mano, era pronto ad azionarlo.

Ci volle un’ora prima che il cadavere dell’Irlandese fosse estratto da sotto l’auto. Nonostante le condizioni penose in cui versava, aveva ancora l’anello di smeraldo al dito. «Lui conosceva perfettamente le regole: sapeva che chi vive con le bombe, muore a causa delle bombe», dichiarò quel giorno il tenente Andrew S. Vanyo dell’unità di Intelligence criminale di Cleveland, «e mi diceva sempre che quando sarebbe successo, sarebbe morto per una bomba, non in una sparatoria».

Il luogo dell’esplosione che ha ucciso Danny Greene | Foto:  Clevelandmemory.org/Cleveland Press Collection

A seguito del delitto, Ferritto divenne il braccio destro di James Licavoli e, dopo aver confessato di aver ucciso anche un altro gangster della Los Angeles Crime Family, si accordò con la polizia per farsi meno di quattro anni di carcere: fu una sorta di premio per aver aiutato le autorità a distruggere la mafia dell’Ohio. Morì a Sarasota, Florida, nel 2004.

L’anziano Licavoli – l’ultimo godfather, secondo il suo avvocato: «Jack White era uno che aderiva a tutti i codici che abbiamo conosciuto nei film sulla mafia: era un uomo d’onore» – finì a processo per la morte di Greene insieme ad altri sodali e fu condannato a 17 anni di carcere con la legge federale Rico. Si spense, per un infarto, in un penitenziario del Wisconsin nel novembre 1985.

La Cleveland Crime Family passò nelle mani di “Big Angie” Lonardo, il quale, una volta finito in manette, scelse anche lui di diventare un informatore del governo e demolì, con le sue dichiarazioni, lo spietato sottomondo criminale di Cleveland. La Family riuscì a riorganizzarsi una decina di anni dopo mentre “Big Angie” chiuse gli occhi per sempre, nel sonno, nel 2006.

CREDITI

Autori

Monica Zornetta

Editing

Luca Rinaldi

Illustrazioni