Messina Denaro, il “capo” che capo non è

27 Gennaio 2023 | di Lorenzo Bodrero, Simone Olivelli

L’arresto di Matteo Messina Denaro avvenuto il 16 gennaio 2023, dopo trent’anni di latitanza, ha generato più interrogativi che risposte. Queste ultime si spera arriveranno con il prosieguo delle indagini che si concentrano ora sui luoghi in cui l’ex primula rossa si nascondeva e sulle persone che per tre decenni gli hanno consentito di trasformarsi in un fantasma. Ma le domande abbondano, incentrate sia sui segreti di un passato che solo lui e pochissimi altri detengono sia sul futuro di Cosa nostra. La prima da porsi, non in ordine di importanza ma piuttosto in risposta all’esibizione di emotività che ha attraversato tutti i media all’indomani del suo arresto, è quanto Messina Denaro contasse davvero all’interno del sistema mafioso siciliano fino al giorno prima della cattura.

Il quesito è d’obbligo dal momento che sui principali giornali italiani a fianco del nome dell’ormai ex superlatitante sono comparse definizioni quali «capo di Cosa nostra», «l’ultimo padrino», «capo dei capi». Etichette che strizzano l’occhio alla narrazione da fiction ma che rischiano di falsare sia l’analisi di ciò che ha rappresentato negli anni il boss sia lo stato di salute dell’odierna mafia siciliana.

Un capo che capo non è?

«Messina Denaro non è stato super capo di niente». Le parole sono di Salvatore Lupo, studioso di mafia di lunga data e professore di Storia contemporanea all’Università di Palermo. «La definizione può anche essere stata usata dagli inquirenti qualche volta – aggiunge – ma loro stessi sanno che Cosa nostra ha sempre avuto il suo epicentro nel Palermitano e ciò esclude che un boss trapanese possa ricoprire questo ruolo». Essere stato delfino prima e successore poi di Totò Riina non hanno significato per Messina Denaro ereditarne automaticamente il ruolo. E ciò non perché il boss di Castelvetrano non abbia dato prova di carisma e intelligenza criminale, anzi, ma perché, dopo le stragi dei primi anni Novanta e la successiva repressione delle forze dell’ordine, la struttura verticistica di Cosa nostra, che aveva nella commissione interprovinciale il proprio apice, ha subito un pesante colpo. Tra arresti e necessità per l’associazione di inabissarsi, non c’era più alcun trono su cui sedere.

Nonostante ciò, sarebbe altrettanto errato non riconoscere il peso avuto da Messina Denaro all’interno di Cosa nostra. Infatti, se per un trapanese, secondo le regole e le tradizioni mafiose, sarebbe stato difficile riuscire a presiedere la Cupola, resta indubbio che lui – figlio di un boss e cresciuto alla “scuola” di Riina – abbia rappresentato l’elite mafiosa.

«Messina Denaro incarna la figura del mafioso corleonese ma al contempo è stato anche in grado di trasformare quell’ortodossia portandola verso nuove prospettive», commenta a IrpiMedia Nino Di Matteo, già magistrato a Palermo e prossimo al rientro nella Direzione nazionale antimafia, dopo l’esperienza al Consiglio superiore della magistratura. Tra gli elementi che dimostrano come Messina Denaro sia stato capace di ammodernare Cosa nostra, per Di Matteo sono da segnalare «la scelta di differenziare gli investimenti anche al di fuori della Sicilia, per riciclare il denaro, e l’utilizzo di strumenti tecnologici nelle comunicazioni». Un modus operandi ben diverso dai boss – Riina su tutti – che ha accompagnato la crescita di Messina Denaro all’interno di Cosa nostra.

Ricostruire la biografia di Messina Denaro, risalire all’origine della sua latitanza, significa immergersi nell’Italia delle bombe. Quelle del ‘92, che uccisero in Sicilia i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e quelle dell’estate ‘93 nel Centro e Nord Italia, quando Messina Denaro e i fratelli Graviano, con Riina da qualche mese in carcere, decisero – insieme probabilmente a soggetti esterni a Cosa nostra – di esportare la violenza al di là dello Stretto. È in quelle settimane che Messina Denaro, letteralmente, sparisce. Gli ultimi 30 anni, una latitanza lunga e trascorsa con la consapevolezza di essere già stato condannato all’ergastolo, non hanno fatto altro che mitizzare quel personaggio che con grande abilità lui stesso ha plasmato.

«L’arresto di Messina Denaro non rappresenta di certo la decapitazione di una cupola ma implica indubbiamente una modifica degli assetti di Cosa nostra», spiega a IrpiMedia Sebastiano Ardita, anche lui membro uscente del Consiglio superiore della magistratura e prossimo al ritorno alla Direzione distrettuale antimafia di Catania. Le cronache dell’arresto e la scoperta delle complicate condizioni di salute di Messina Denaro hanno fatto pensare a una possibile volontà dello stesso boss di mettere fine alla propria latitanza. «Così fosse significherebbe che lo stesso Messina Denaro potrebbe avere già previsto la necessità di un riassestamento dell’organizzazione, che adesso sarà chiamata a gestire ciò che lui gestiva dall’esterno (in quanto latitante, nda)». Insomma, una certa riorganizzazione delle gerarchie dovrà per forza avvenire.

Le incognite sulla collaborazione di Matteo Messina Denaro

Ma al di là del suo effettivo status dentro Cosa Nostra, la domanda che più preme dopo l’arresto di Messina Denaro è una: parlerà? Il boss, che ha sfidato lo Stato dimostrando però anche di saperci trattare, è custode di una memoria criminale che, per molti, potrebbe intrecciarsi con importanti passaggi della recente storia d’Italia. Pensare a una possibile collaborazione con la giustizia di Messina Denaro significa valutare di poter fare luce sull’esistenza di mandanti esterni alla mafia delle stragi del 1992 e 1993, ma anche su chi abbia reso possibile i suoi 30 anni di latitanza, e magari anche arrivare all’archivio di Totò Riina.

È ancora presto per dire se Messina Denaro deciderà di compiere questo passo. Farlo potrebbe consentirgli di evitare i rigori del carcere duro ma sono tanti anche i motivi che portano a pensare che il boss possa scegliere di trincerarsi dietro un rigoroso silenzio.

Il pm Nino Di Matteo durante un’udienza sulla trattativa Stato-mafia nel luglio 2014 – Foto: NurPhoto/Getty

«Guardando al passato sappiamo che gli uomini appartenenti alla stirpe di sangue di Cosa nostra normalmente non si sono mai pentiti», spiega il pm Ardita. «Pensiamo a Totò Riina, Leoluca Bagarella, Nitto Santapaola, o Giuseppe Madonia… sono figure – continua il magistrato – che hanno mantenuto nella condizione di detenuti di lungo corso la stessa linea, addirittura fino alla morte per alcuni di essi».

Di previsioni non ne fa neanche Di Matteo. Il magistrato palermitano aggiunge che la decisione è «sempre connessa a scelte di carattere personale, oserei dire intime», delle quali al momento non possiamo avere contezza. Messina Denaro ha pur sempre una reputazione da mafioso doc da difendere. E quindi «chissà se il boss non smentisca se stesso rinnegando tutta la sua esistenza e vuotando il sacco», ha auspicato il giornalista Attilio Bolzoni su Domani. Esistono infatti esempi di segno opposto: Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi e, più recentemente, Nino Giuffré e altri hanno saltato il fosso pur avendo ricoperto ruoli apicali in Cosa nostra.

Ma supponiamo per un attimo che l’ex primula rossa collabori. Se già questa è un’ipotesi tutt’altro che scontata, altrettanto incerta è la totale disponibilità delle istituzioni a perseguire, fino in fondo, eventuali piste offerte da Messina Denaro.

«Mi auguro che lo Stato in tutte le sue articolazioni – è l’auspicio del magistrato Nino Di Matteo – dimostri di volere la collaborazione ed eventualmente di saperla gestire con professionalità e coraggio, senza alcun timore di affrontare argomenti che potrebbero essere particolarmente delicati».

Il riferimento non è solo alla trattativa che Cosa nostra – di cui Messina Denaro era già un solido rappresentante mentre lo scettro era in mano a Riina – intavolò con taluni rappresentanti delle istituzioni (pur non costituendo reato, secondo la Corte di assise d’appello di Palermo) ma anche alla prolungata latitanza di u siccu, irrealizzabile senza l’ausilio di personaggi che vanno oltre la cerchia di fiancheggiatori dell’ex boss.

Ancora Di Matteo: «È chiaro dalle cronache di questi giorni che l’interessato è stato certamente protetto ad alto livello nella sua latitanza». E dunque chi dovrebbe temere la sua collaborazione? «Coloro che hanno interesse ad archiviare definitivamente la stagione stragista e a collegare quel periodo esclusivamente alle responsabilità dei mafiosi», aggiunge il magistrato. «Potrebbero essere in tanti – conclude Di Matteo – a temere una piena e completa collaborazione di Messina Denaro». Per ottenere la quale qualcuno sospetta ci sia in ballo un accordo con le istituzioni.

Il prezzo della collaborazione: fantasia o realtà?

In un’intervista rilasciata a Massimo Giletti nel novembre 2022, Salvatore Baiardo, l’uomo che agevolò la latitanza dei fratelli Graviano e che per questo è stato condannato per favoreggiamento, preannunciava la cattura di Messina Denaro. Baiardo, in quell’occasione, accennava alle gravi condizioni di salute del boss, ipotizzando che una possibile cattura sarebbe stata il frutto di un accordo con le istituzioni per l’abrogazione dell’ergastolo ostativo. Quelle dichiarazioni tornano prepotentemente attuali alla luce dell’arresto dell’ex boss.

Ergastolo ostativo e 41-bis: le differenze

Sono due espressioni divenute centrali nel dibattito sulla giustizia in Italia e che spesso vengono confuse l’una con l’altra. Entrambe fanno riferimento a due distinti articoli dell’Ordinamento penitenziario.

L’ergastolo ostativo è regolamentato all’articolo 4-bis dell’Ordinamento. Consiste in un regime che esclude l’applicabilità di alcuni benefici (lavoro all’esterno, permessi premio, misure alternative alla detenzione) ai condannati per reati particolarmente gravi, quali terrorismo, eversione, mafia. Reati che “ostano” all’accesso dei benefici. Questi sono applicabili solo a patto che il detenuto collabori con la giustizia. Le critiche a questo regime ruotano intorno al fatto che rimuove per il detenuto la funzione “rieducativa” e il “reinserimento”, creando una discriminazione tra chi vi è sottoposto e il resto dei detenuti. Nel 2021 la Corte costituzionale ha giudicato l’ergastolo ostativo contrario ai principi costituzionali, secondo i quali le pene «devono tendere alla rieducazione del condannato». La riforma è arrivata a fine 2022 e prevede la possibilità di accesso ai benefici, a patto che vengano rispettati alcuni requisiti, tra cui l’ottenimento del parere favorevole da parte del pubblico ministero.

Con 41-bis si fa invece riferimento all’articolo dell’Ordinamento penitenziario che tratta il carcere duro. Introdotto dopo la strage di Capaci, prevede forti restrizioni per il detenuto, con l’obiettivo di impedire che mantenga i contatti con l’associazione criminale di cui ricopre un ruolo di vertice. Viene applicato ai condannati per gli stessi reati del 4-bis anche se i dati dicono che al carcere duro sono sottoposti prevalentemente detenuti condannati per mafia, a prescindere dalla durata della pena comminata. Prevede lo sconto della pena presso istituti appositi oppure in sezioni separate all’interno di un carcere.

«Le informazioni date da Baiardo si sono rivelate precise e puntualmente si verificano», riflette Sebastiano Ardita. «Significa che la persona (Baiardo, ndr) che le ha riferite era informata in modo diretto, oppure da qualcuno che sapeva ciò che sarebbe successo». La domanda da porsi è perché Baiardo abbia rilasciato queste dichiarazioni. Ardita si sofferma sul fatto che in genere «si è portati a credere a coloro che riferiscono un fatto che poi si realizza, anche quando riferiscono qualcosa che deve ancora accadere». Elementi, dunque, che possono portare ad accreditare un soggetto di affidabilità ad ampio raggio. Con i rischi che ne possono conseguire: non è infatti detto che l’anticipazione dell’arresto fatta da Baiardo significhi che tutto ciò che dica quest’ultimo sul tema sia fondato.

È la stessa cautela utilizzata dagli inquirenti per valutare l’attendibilità dei collaboratori di giustizia, uno dei pilastri nel contrasto alle organizzazioni mafiose: ogni dichiarazione va verificata.

Oltre alla capacità predittiva, ciò che ha colpito di più nelle parole di Baiardo è stato il riferimento a una possibile contropartita nella presunta resa di Messina Denaro. Cosi fosse significherebbe che anche in questi mesi esiste una trattativa tra Cosa nostra e pezzi dello Stato. Secondo Baiardo la moneta di scambio starebbe nell’abrogazione dell’ergastolo ostativo. L’ipotesi, però, non convince il magistrato Ardita.

«Dire pubblicamente e far sapere che da una certa azione – cioè la consegna o la cattura di un latitante – possa derivare una scelta politica di attenuazione del 41-bis o dell’ergastolo ostativo significa mettere in allarme il quadro istituzionale e politico e di fatto impedire che questo avvenga». Stando così le cose è difficile dire perché e per conto di chi Baiardo abbia parlato. «Ci deve essere dunque una ragione che sfugge, un pezzo del ragionamento che riguarda fatti o circostanze che, al momento, non possiamo comprendere».

Dubbi che forse solo l’ex boss può fugare, l’uomo che ha sventrato autostrade e ucciso bambini e che in uno dei suoi covi teneva il poster di Marlon Brando nei panni di Vito Corleone, lui sì «capo dei capi» di un mondo immaginario.

Foto di copertina: Giornali in edicola all’indomani dell’arresto di Matteo Messina Denaro – Donato Fasano/Getty
Editing: Giulio Rubino

Mafiosi in trasferta: gli anni del soggiorno obbligato in Emilia-Romagna

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Mafiosi in trasferta: gli anni del soggiorno obbligato in Emilia-Romagna

Sofia Nardacchione

Èla sera del 13 aprile del 1978. Filippo Melodia esce dalla sua casa, a Modena, dopo essere stato avvisato che un maresciallo di pubblica sicurezza vuole parlare con lui. Appena varca la soglia di casa viene colpito da un pallettone sparato da un fucile a canne mozze: Melodia, trentotto anni, si accascia e viene freddato da altri colpi. Il nome della vittima dell’agguato è conosciuto: forse non a Modena, sicuramente ad Alcamo, in Sicilia, dove è nato. E dove è salito agli onori delle cronache per un fatto che rimarrà nella storia: Filippo Melodia è l’uomo che – nel 1965, dopo che la ragazza aveva sciolto il fidanzamento – ha rapito Franca Viola, l’ha tenuta segregata per otto giorni, l’ha stuprata, contando poi sul matrimonio riparatore.

Un matrimonio che non arriverà mai: Franca Viola è infatti la prima donna a rifiutare le nozze con il suo stupratore. Melodia va quindi in carcere e, nel frattempo, cresce di rango: fa parte di cosa nostra e diventa il nuovo capomafia della Sicilia Occidentale, si macchia di vari reati tra cui sequestri di persona e scompare dalle cronache. Per poi ricomparire con la sua morte, centinaia di chilometri più lontano dalla Sicilia, ma non per scelta: Filippo Melodia era a Modena in soggiorno obbligato, come altre centinaia di persone negli anni Settanta.

L’Unità del 14 aprile 1978: la notizia dell’assassinio di Filippo Madonia

L’epoca del soggiorno obbligato

Il soggiorno obbligato è una misura cautelare di epoca fascista reintrodotta nel 1956 nei confronti di chi è ritenuto pericoloso per la pubblica sicurezza e, dal 1965, contro gli indiziati di associazione mafiosa. Una misura che nelle intenzioni del legislatore sarebbe servita ad allontanare i mafiosi dal loro territorio di origine, per spezzare i legami criminali che avevano creato. Così non è stato, perché, semplicemente, i legami si sono ricreati nei territori di arrivo dei soggiornanti obbligati: un caso emblematico è quello di Antonio Dragone, boss di ‘ndrangheta che da Cutro si trasferisce in provincia di Reggio Emilia all’inizio degli anni Ottanta, facendo così nascere una delle proiezioni extra-regionali della ‘ndrangheta, che più di trent’anni dopo, finirà al centro del maxiprocesso Aemilia.

Ma, già negli anni Settanta, i casi sono tanti: nella sola Emilia-Romagna ci sono le famiglie mafiose dei Commendatore, dei Riina, dei Leggio, oltre a una serie di personaggi che gravitano intorno ai nuclei mafiosi. All’apparenza si occupano tutti di attività legali: chi fabbrica e commercia materassi, chi commercia in vino, chi, ancora, piastrelle. Ma quello che emerge dai documenti desecrati nel giugno 2020 dagli atti di indagine sul caso Sindona è ben altro: un vero e proprio intreccio di storie mafiose, molte delle quali dai contorni ancora poco chiari, come l’omicidio di Filippo Melodia.

Tra materassi e sequestri di persona

Anni Sessanta. I fratelli Carmelo e Francesco Commendatore si trasferiscono, spediti in soggiorno obbligato, da Catania a Budrio, comune ai confini della città metropolitana di Bologna, nelle terre di pianura che vanno verso Ferrara. Insieme a loro ci sono i cugini Felice e Alfio. La famiglia decide di entrare nel business di materassi, cuscini e carta igienica, tra fabbricazione e vendita ambulante. Dopo qualche anno decidono di dividersi. Carmelo e Francesco Commendatore nel 1971 costituiscono una fabbrica di cuscini e materassi di gommapiuma a Budrio: il nome è “Centroflex”. I cugini Felice e Alfio, invece, costituiscono altre ditte operanti negli stessi mercati tra Forlì, Budrio e Bologna.

Le attività della Centroflex vengono però fermate poco dopo: Francesco e Carmelo Commendatore vengono arrestati nel 1979. I fratelli sono ritenuti responsabili di un sequestro di persona, avvenuto proprio in Emilia-Romagna: quello di Angelo Fava, un industriale di Cento, comune tra Ferrara e Bologna, sequestrato il 4 febbraio del 1979 dai catanesi Angelo Pavone, che poi verrà assassinato, e Santo Mazzei, appartenente – scrive la Criminalpol – «alla pericolosissima famiglia di altissimo livello delinquenziale dei “carcagnusi”», collegati entrambi ai Commendatore. Anche perché il furgone sul quale Fava è stato portato a Catania è della ditta Commendatore, così come il capannone di Budrio dove è stato tenuto il sequestrato la mattina del rapimento.

Il business dei materassi finisce così, almeno per Carmelo Commendatore, che viene condannato a tredici anni di carcere per il sequestro. Francesco viene invece assolto, ma le inchieste sui Commendatore continuano: nello stesso anno i due vengono denunciati dalla Questura di Bologna per associazione a delinquere di stampo mafioso, insieme ad altre 80 persone.

I carcagnusi

Negli anni Settanta a Catania si forma un gruppo criminale, nato con lo scopo di contrastare il potere del boss di Cosa Nostra Nitto Santapaola e della sua famiglia: la nuova organizzazione si chiama “clan dei Cursoti”. Tra i mafiosi che ne fanno parte c’è Santo Mazzei, detto “U Carcagnusu”, diventato uomo d’onore di Cosa Nostra per volere di Leoluca Bagarella. All’inizio degli anni Ottanta, dopo l’omicidio del boss Corrado Manfredi, alla guida dei Cursoti, e la conseguente nascita di tensioni dovute alla scelta del nuovo capomafia, il clan si sgretola e si formano così tre gruppi: i “Cursoti catanesi”, i “Milanesi” e i “Carcagnusi”, con a capo Santo Mazzei. I “Carcagnusi”, oggi come allora, si muovono tra Catania e il Nord Italia, ma gli interessi di Mazzei e dei suoi sodali si erano già allora spostati anche sull’Emilia-Romagna, dove viveva il fratello Francesco, in soggiorno obbligato tra Casalfiumanese, provincia di Bologna, e Carpi, provincia di Modena.

Ma il commercio dei materassi non si è mai fermato, arriva fino ad oggi: dalla tradizione di famiglia è nata la Eminflex, una delle più grandi aziende di materassi in tutta Italia, con sede sempre a Budrio ma con punti vendita in tutto il Paese. Il collegamento è trasparente: «La storia di Eminflex – si legge sul sito – inizia nel 1973 a Budrio di Bologna per merito della famiglia Commendatore che decide di intraprendere una nuova attività entrando nel mercato dei rivenditori di materassi» . Un’azienda che, vent’anni dopo, nel 1993, farà un salto grazie alla televendita sulle reti del gruppo Finivest di Silvio Berlusconi, continuando l’ascesa fino ad oggi.

Da Corleone all’Emilia-Romagna

Quella dei Commendatore non è l’unica famiglia legata all’ambiente criminale a Budrio: nel comune vive anche Giacomo Riina. Corleonese, classe 1908, Giacomo Riina è lo zio di Salvatore Riina, detto Totò. E non è a Budrio per caso: si è trasferito nel 1969, dopo anni di presenza sul territorio della famiglia dei Commendatore ma anche di un’altra famiglia, quella di Luciano Leggio, meglio conosciuto come “Liggio”, la primula rossa di Corleone. Cosa hanno in comune? Appartengono alle cosche mafiose più attive, dice la Criminalpol nei documenti desecretati, «fra quelle che in questi ultimi anni (quindi prima del 1979, ndr) si sono dedicate a molti sequestri di persona». Ma i collegamenti sono molti di più. Giacomo Riina così come Luciano Leggio vengono arrestati nel 1964 per la prima guerra di mafia – combattuta all’inizio degli anni Sessanta a Palermo con più di cento omicidi – e processati prima nel capoluogo siciliano e poi a Bari: vengono assolti nel 1969, quando vengono tutti mandati in soggiorno obbligato. Riina, appunto, a Budrio.

Qui viene considerato il “cervello” delle attività dei Commendatore: sovrintende le società dei fratelli che, scrive sempre la Criminalpol, «non prendono mai iniziative senza il suo consenso». I rapporti tra le famiglie mafiose emergono chiaramente qualche anno dopo il suo arrivo: la casa dello zio del più famoso boss viene perquisita alla ricerca dei catturandi Salvatore Riina e Salvatore Bagarella, ritenuti allora responsabili dell’omicidio del colonello dei carabinieri Giuseppe Russo, ucciso a Ficuzza, in provincia di Corleone, nel 1977. Dei ricercati non c’è traccia, ma viene sequestrato vario carteggio, dal quale emergono i collegamenti con noti esponenti della mafia siciliana, tra cui i Leggio.

Luciano Leggio

Nel 1979 gli stessi Paolo Borsellino, allora sostituto procuratore della Repubblica, ed Emanuele Basile, comandante dei carabinieri di Monreale, arrivano a Budrio per portare a Palermo e interrogare Giacomo Riina, che farà poi ritorno nel territorio emiliano-romagnolo dove ormai porta avanti le sue attività. Non solo con i Commendatore, ma anche con la famiglia dei Leggio con cui non c’è solo una storia criminale comune e un legame familiare (è sposato con Maria Concetta Leggio): Riina gestisce anche l’azienda agricola di famiglia tra i confini di Budrio e Medicina, nel bolognese, nata dopo l’arrivo dei Leggio in Emilia-Romagna e, in particolare, a Castel San Pietro Terme, tra Bologna e la Romagna. Un’azienda che negli anni Settanta valeva tra i 600 e i 700 milioni di lire.

Una geografia mafiosa

Intorno a Giacomo Riina gravitano una serie di personaggi legati ai clan mafiosi: c’è il noto contrabbandiere di sigarette Gerardo Cuomo, campano che si è trasferito a Bologna, dove nel 1992 gli verranno confiscati diversi beni. C’è Francesco Scaglione, in soggiorno obbligato a Massa Lombarda, «capace di commettere qualsiasi reato» – come si legge negli appunti dell’allora questore di Bologna Italo Ferrante – e arrestato nel 1978 perché indiziato di associazione a delinquere e gestore di case da gioco. E ancora, Francesco Minarda, che arriva a Bologna nel 1978 con la scusa di dover effettuare delle cure di fisioterapia all’ospedale Rizzoli di Bologna, ma poi allontanato perché chiaramente il suo scopo era quello di mantenere contatti con clan mafiosi.

C’è Francesco Scordato, che vive a Formigine, in provincia di Modena. Scordato è proprietario di una società di trasporti con cui tiene collegamenti con il mercato ortofrutticolo di Bologna e il palermitano, e lavora anche nel commercio di piastrelle insieme a Tommaso Scaduto, mandato in soggiorno obbligato dall’Asinara a Castel Maggiore, appena fuori Bologna, sulla strada che porta a Ferrara: se Scordato, dice la Criminalpol, è un «ottimo luogotenente», Scaduto è un vero e proprio boss, «anche se dietro quest’ultimi – scrive ancora il questore Ferrante – si intravede la figura di Badalamenti Gaetano». Badalamenti, il boss di Cinisi che verrà condannato nel 1987 negli Stati Uniti a 45 anni di reclusione per un traffico di droga dal valore di 1,65 miliardi di dollari, ma anche all’ergastolo per aver ordinato l’omicidio di Giuseppe Impastato. E che prima di essere condannato vive per due anni in Emilia-Romagna: a Sassuolo, provincia di Modena, dal 1974 al 1976.

È intorno a questi personaggi che ruotano omicidi e sequestri di persona, ma anche business che arricchiscono le casse delle famiglie mafiose: la base operativa è l’Emilia-Romagna, ma i collegamenti sono nazionali e internazionali. C’è, ad esempio, il contrabbando di tabacco lavorato, che porta alcuni boss, tra i quali Tommaso Scaduto, a gravitare vicino alla riviera romagnola, dove attraccano mezzi carichi di sigarette provenienti dalla Jugoslavia. C’è una rete di trasporti utilizzata per attività lecite e illecite: a comporla sono i camion delle società di materassi dei Commendatore e la “Linea S” di Sassuolo, la società di Scaduto, per il recapito di piastrelle.

Entrambe vengono utilizzate per i sequestri di persona. Non solo quello dell’imprenditore Angelo Fava, ma anche un altro: quello di Armando Montanari. Anche lui industriale, viene rapito a Guastalla, in provincia di Reggio Emilia, da Tommaso Scaduto e dal suo clan che gravita tra Modena e Monreale, provincia di Palermo: è uno degli stessi automezzi della “Linea S” che viene utilizzato per trasportare il riscatto pagato per la liberazione di Montanari. E poi ci sono gli omicidi, quello di Filippo Melodia e quello di Baldassarre Garda: in soggiorno obbligato a Castel Maggiore, è il figlio di Giuseppe, vecchio boss della mafia di Monreale, Palermo. Una mafia figlia del boss e medico Michele Navarra, che rinnega quella di nuovo corso, guidata da Luciano Leggio e dagli uomini a lui vicini. Baldassarre Garda viene ucciso il 19 febbraio del 1978 a Santa Maria Codifiume, piccola frazione di Argenta che affaccia sul fiume Reno.

Filippo Melodia

A ucciderlo a colpi di pistola sono dei killer, nella casa colonica della sua azienda agricola. Sul fatto che sia un delitto di mafia gli investigatori sembrano non avere dubbi, i motivi invece sono meno chiari: probabilmente l’omicidio di Baldassarre Garda è legato a contrasti familiari di ordine ereditario, forse legati al sequestro del nipote Francesco Madonia, che nel 1974 era stato rapito e rilasciato dopo sette mesi in cambio di un riscatto di un miliardo di lire. I contorni però non sono definiti: «Non si può escludere – si legge nei documenti della Criminalpol – che il sequestro Madonia sia stato commissionato da Baldassare allo stesso Scaduto e che il Baldassare poi insoddisfatto della somma percepita abbia minacciato lo Scaduto di vendetta».

Ma la violenza non si ferma: nello stesso periodo Salvatore Truglio, siciliano residente a Baricella, provincia di Bologna, finisce sotto un trattore guidato da Vincenzo Maenza, unico testimone ed ex dipendente di Giuseppe Garda. Una morte che viene catalogata come decesso per infortunio sul lavoro e mai più indagata.

Così, tra materassi, cuscini e piastrelle, negli anni Settanta gli equilibri mafiosi si giocano anche in Emilia-Romagna. Sulla lunga scia di sangue della prima guerra di mafia palermitana, gli interessi criminali arrivano tra Bologna, Modena, Ferrara e la Romagna, ma il laccio che lega i soggiornanti obbligati alla terra d’origine non viene allentato: è in Sicilia che vengono portate le vittime dei sequestri di persona, nell’isola arrivano i soldi dei riscatti. Ed è dalla Sicilia che viene fatto arrivare pesce fresco di qualità, come facevano il boss Gaetano Badalamenti prima e Tommaso Scaduto poi, grazie alle conoscenze negli aeroporti di Palermo e Bologna.

CREDITI

Autori

Sofia Nardacchione

Illustrazioni

Editing

Luca Rinaldi

Da Delianuova a Hamilton, Canada: la parabola della “mafia italiana”

Da Delianuova a Hamilton, Canada: la parabola della “mafia italiana”

Alessandro Boldrini

Il viaggio in auto da Buffalo ad Hamilton dura poco più di un’ora. Si attraversano due Paesi e si passa per uno degli scenari naturalistici più famosi al mondo, le cascate del Niagara. Nel mezzo una differenza abissale, da tutti i punti di vista: ambientale, culturale, di tradizioni. Ma anche, e soprattutto, di milieu criminale. Lì lo chiamano l’«underworld», il mondo di sotto. La traduzione italiana più appropriata è «malavita». Perché la mafia in quell’area del Nordamerica è quanto di più liquido possa esistere. Il confine è talmente labile che perfino la storica divisione fra cosa nostra siciliana e la ’ndrangheta calabrese a volte viene meno, specie se di mezzo ci sono gli affari. Inquirenti e investigatori faticano infatti, a volte, a inquadrare il fenomeno nel giusto perimetro.

L’ultima relazione semestrale della Direzione investigativa antimafia (Dia), riferita al periodo luglio-dicembre 2020, ad esempio, nel descrivere la situazione canadese cita uno dei numerosi episodi della lunga epidemia di violenza che negli ultimi anni ha imperversato nella regione dell’Ontario. Si tratta dell’omicidio di Pasquale Musitano, detto «Fat Pat», rimasto vittima di un agguato appena sceso dal suo fuoristrada blindato nel parcheggio di un centro commerciale a Burlington, centro di oltre duecentomila abitanti sulla sponda Ovest del lago Ontario.

La relazione della Dia

di Giacomo Pirrone

È stata pubblicata lo scorso 22 settembre la relazione del Ministero dell’Interno al Parlamento sulle attività della Direzione investigativa antimafia per il secondo semestre del 2020. Il periodo preso in esame è quindi quello immediatamente successivo al primo e più esteso lockdown per contrastare gli effetti della pandemia da Covid-19. Una fase caratterizzata da un contesto di crisi economica generalizzata, particolarmente grave soprattutto per il settore terziario, colpito da lunghe chiusure e riaperture a intermittenza.

In questo contesto, riporta la Dia, le varie organizzazioni criminali di stampo mafioso hanno confermato una tendenza alla sommersione che si osserva da anni: un ricorso sempre meno frequente alla violenza, sostituito da strategie più subdole che puntano all’infiltrazione nel tessuto socio-economico dei territori di appartenenza e alla creazione di un welfare parallelo a quello statale che approfitta delle situazioni di crisi economica. Inoltre, i gruppi criminali dimostrano una grande velocità e flessibilità nel cambiare le proprie strategie per adattarle alle nuove tendenze sociali e tecnologiche; lo dimostrano l’uso sempre più frequente di criptovalute per le proprie transazioni e la diversificazione dei propri affari per approfittare dei finanziamenti pubblici stanziati per l’emergenza.

La ‘ndrangheta calabrese, scrivono gli uomini della Dia, mostra una forte vocazione imprenditoriale, che si avvale dei fondi ricavati dal narcotraffico – in primis cocaina – e dell’aiuto di una cosiddetta “area grigia” di professionisti, imprenditori e amministratori corrotti che collaborano con le cosche senza farne parte attivamente. Gli affari delle ‘ndrine si spingono su tutto il territorio nazionale, in particolare in Emilia-Romagna, Liguria e Lombardia. Pur conservando una struttura unitaria e molto organizzata, la mafia calabrese sembra meno impermeabile che in passato con diversi casi di collaboratori di giustizia. In Sicilia, cosa nostra conserva il proprio ruolo preminente nella regione convivendo e talvolta collaborando con la Stidda, associazione di gruppi organizzati orizzontalmente presente soprattutto nell’area centro-orientale. Anche qui si cerca di infiltrarsi nei settori più coinvolti dai contributi pubblici, come quello delle energie rinnovabili. C’è inoltre un interesse crescente verso il gioco d’azzardo, usato come mezzo di riciclaggio.

Anche i clan della Camorra mostrano una spiccata attitudine all’imprenditorialità, con casi di coincidenza tra leadership criminale e management imprenditoriale. Questi gruppi sono molto eterogenei fra loro per strutture e modalità operative; questa eterogeneità porta a una forte flessibilità e capacità rigenerativa, ma causa anche rapporti instabili tra i clan che alternano periodi di conflittualità e alleanza in funzione degli interessi del momento. Anche la Puglia conferma tendenze già viste in precedenza: in particolare, la mafia pugliese è quella più incline a conflittualità interne. Ciò – chiude il rapporto della Dia – sarebbe causato dal perdurare delle condizioni detentive di molti leader storici e dal conseguente tentativo delle nuove leve di scalare le gerarchie. Particolarmente rilevante è il contesto foggiano, dove le consorterie mostrano una grande duttilità nei contesti economico-finanziari. Sul territorio nazionale sono inoltre presenti gruppi criminali etnici, eterogenei per origini e interessi. Se al centro-nord questi gruppi riescono a costruirsi una propria autonomia e talvolta un’egemonia in settori specifici, nelle regioni meridionali agiscono con l’assenso delle mafie locali, quando non direttamente in subordine.

Il 52enne, scrive la Dia, è «un soggetto ritenuto esponente di spicco di una famiglia di ’ndrangheta originaria di Delianuova e trapiantata in Canada». Eppure gli studi e le inchieste sembrano suggerire tutt’altro. Tanto che la dottoressa Anna Sergi, criminologa dell’Università dell’Essex, nel commentare il paragrafo dedicato all’omicidio di Fat Pat ha segnalato l’«errore nell’ultima relazione della Direzione Investigativa Antimafia», dove «si indica la famiglia (Musitano, ndr) come clan di ’ndrangheta. Questi errori confondono ancora di più il panorama confuso della mobilità mafiosa». Sergi fa infatti riferimento all’estrema mobilità dei clan della zona, in particolare della città di Hamilton, dove tutti confluiscono sotto il generico cappello della «mafia italiana».

Lo sbarco in «Canadà»

Un milieu criminale dove regna l’ibridismo, tanto che i confini tra ’ndrangheta e cosa nostra sembrano quasi fondersi fra loro. Ne è un esempio la storia del clan Musitano, che – insieme ad altre due famiglie calabresi, i Papalia e i Luppino-Violi – per decenni ha dominato su un’area della quarta città più popolosa di tutto l’Ontario. Per comandare a lungo, però, bisogna scendere a compromessi. Che in alcuni casi significa perfino mettere da parte le proprie «ingombranti» origini e schierarsi al fianco di chi di volta in volta ha il potere in mano. La presenza dei Musitano ad Hamilton è documentata fin dagli anni Trenta. Il capostipite del casato è Angelo Musitano, «la bestia di Delianuova», che nel 1938 fugge dalla provincia di Reggio Calabria alla volta di quel Paese lontano che i giornali dell’epoca chiamano ancora «Canadà».

L’evento scatenante è l’omicidio della sorella Rosa, commesso un anno prima: Musitano, appena uscito dal carcere, scopre che la donna – da poco vedova – è rimasta incinta di un altro uomo. Una macchia per l’onore della famiglia che va ripulita con il sangue. Musitano uccide infatti la sorella e poi trascina il cadavere per le vie del paese fino alla casa dell’amante. Ancora in attesa di processo l’uomo fa perdere le proprie tracce e ripara ad Hamilton. Qui vive per quasi trent’anni sotto falso nome, Jim D’Augustino, e per sopravvivere si dedica ai mestieri più disparati: sarto, meccanico, imbianchino.

Nel 1940 Musitano viene condannato in contumacia a 30 anni di carcere e iniziano così le ricerche anche in campo internazionale. La svolta arriva soltanto nel 1963, quando anche l’Interpol si mette sulle sue tracce dopo aver ricevuto una segnalazione e una vecchia fotografia di trent’anni prima. Sarà proprio quello scatto in bianco e nero e dai contorni ingialliti a farlo finire in trappola. Il 3 marzo 1965, infatti, gli agenti che da mesi lo stavano pedinando riescono ad arrestarlo. Al momento dell’arresto Musitano non nega le accuse, ma stenta a riconoscersi nella foto che gli investigatori gli mostrano. Per lui arriva quindi il momento del ritorno in patria con l’estradizione.

La dinastia criminale

Ormai, però, la stirpe criminale ha già messo radici. Nei ventisette anni di vita trascorsi ad Hamilton, Musitano riesce a metter su famiglia e dà una mano a crescere i figli del fratello. A portare avanti la dinastia ci pensano infatti i nipoti, Anthony e Dominic Musitano. È grazie a loro che a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta il nome dei Musitano si fa largo nel panorama criminale canadese assumendo un ruolo di primo piano, sapendo al contempo esercitare quel «fascino» mafioso che ha sempre tanto appeal sui giovani. Tony è uno di quei personaggi che fa parlare di sé con estrema facilità: a colpire è soprattutto il suo senso dello humor nero come la pece, capace di spezzare le smorfie del viso a metà tra un sorriso e un velo di timore.

La dinastia dei Musitano

Nel gennaio del 1983 viene condannato a 15 anni di carcere per una serie di attentati esplosivi contro alcune attività commerciali per la gestione del racket ad Hamilton, che in quel periodo viene ribattezzata “Bomb City”.

Mentre è in carcere pianifica – insieme al fratello Dominic e altri – l’omicidio di Domenic Racco, uno dei boss più in vista del Siderno Group, avamposto ’ndranghetista attivo nella GTA, la Great Toronto Area. In ballo ci sono gli affari con il traffico di droga e un debito da circa mezzo milione non onorato da Racco. Tanto basta per attirarlo in una trappola e farlo fuori, senza paura di mettersi contro altri compari calabresi.

Con Tony dietro le sbarre, il ruolo di comando spetta a Dominic, che indirizza il business di famiglia verso il gioco d’azzardo illegale. Nel 1992, un rapporto del dipartimento di polizia di Hamilton-Wentworth stima che i guadagni dei Musitano si aggirino attorno ai 14 milioni di dollari all’anno. Dominic Musitano fa del carisma la sua arma vincente e contribuisce a costruire un immaginario. Così le cronache raccontano delle oltre mille persone che il giorno del suo funerale popolavano le strade di Hamilton per seguire la veglia funebre.

Dominic muore per un arresto cardiaco all’età di 56 anni, mentre Tony morirà molti anni più tardi, nell’aprile 2019, dopo aver trascorso l’ultimo periodo della sua vita da boss in pensione.

Il Siderno Group

Per Siderno Group, o Crimine di Siderno, s’intende il gruppo di famiglie calabresi affiliate alla ’ndrangheta presente nella GTA, la Great Toronto Area, in Canada. Insieme alle camere di controllo della Lombardia, della Liguria e ai tre mandamenti calabresi (Ionica, Tirrenica e Città), rappresenta la sovrastruttura che coordina le attività delle ’ndrine canadesi e risponde direttamente al Crimine reggino. Il nome del Siderno Group si deve a un’intuizione investigativa degli inquirenti italiani, i quali – nell’omonima operazione del 1992 – hanno ricostruito le attività di una serie di famiglie trapiantate da decenni in Canada ma originarie di Siderno e di città della Locride come Gioiosa Ionica e Marina di Gioiosa Ionica.

I clan attivi nella regione canadese dell’Ontario, secondo gli esperti, non hanno di fatto mai reciso i legami con la «madre patria» calabrese e, come rivelano le inchieste giudiziarie, sono impegnati principalmente in attività illecite come il narcotraffico e il riciclaggio di denaro sporco. La ’ndrina di riferimento all’interno del Siderno Group è quella dei Commisso, detti «quagghia», che già negli anni ’80 gestivano alcune fra le principali rotte del traffico di eroina prima, e di cocaina poi, sull’asse New York-Toronto-Calabria.

Le redini passano così in mano ai figli di Dominic, Angelo «Ang» e Pasquale, detto «Fat Pat». Gli ordini partono da Pat, il fratello maggiore, colui che meglio incarna l’immagine del gangster lasciata dal padre. A dimostrazione della liquidità mafiosa della famiglia Musitano troviamo due episodi specifici. Il primo, nel 1997, l’omicidio di uno dei boss più importanti dell’epoca: Johnny «Pops» Papalia, fatto fuori insieme al suo braccio destro Carmine Barillaro proprio su ordine dei Musitano. A dispetto dalle sue origini calabresi (di Delianuova) Papalia – dopo la collaborazione con il contrabbandiere platiese Rocco Perri – si afferma a partire dagli anni Cinquanta come esponente di spicco del braccio canadese della famiglia di Buffalo, guidata da Stefano Maggadino.

I Musitano hanno un debito con Papalia di 250 mila dollari per un giro di scommesse in cui sono coinvolti. E decidono che piuttosto che estinguere il debito è meglio risolvere il problema alla radice, eliminando Pops e preparandosi ad affrontare una faida da cui difficilmente potranno uscire vincitori. Ma i Musitano ci riescono, grazie a uno strano gioco di alleanze che li porta a cercare e trovare la sponda delle principali famiglie di cosa nostra a Montréal, i Cuntrera Caruana e i potentissimi Rizzuto. L’appiattimento dei calabresi sui siciliani è ormai definitivo. Nel 2000, incastrati dal killer da loro stessi ingaggiato, i fratelli Musitano patteggiano 10 anni per l’omicidio Barillaro e in cambio vengono fatte cadere le accuse per altri due casi, compreso quello di Papalia.

La scia di sangue

L’omicidio di Johnny Papalia segna però uno spartiacque nella storia criminale di Hamilton, della quale non mancano strascichi ancora oggi. Come raccontano alcune fonti qualificate, capita infatti che durante gli intervalli a scuola tra i ragazzini emerga quella vecchia storiaccia della guerra fra i Musitano e i Papalia e, anche se le parentele con i protagonisti degli eventi siano distanti anni luce, le discussioni finiscano in rissa. Oppure succede che, per «sbeffeggiare» i rivali, su alcuni canali YouTube vengano caricati dei gameplay di un popolare videogioco, Grand Theft Auto, in cui si simulano spedizioni punitive e agguati mortali ai danni di esponenti della famiglia Musitano.

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Il messaggio è inequivocabile: «Questa è la fine che meritate». Negli ambienti giudiziari canadesi si vocifera anche che lo spettro della vendetta per l’omicidio Papalia aleggi sui più recenti fatti di cronaca che hanno riguardato (e di fatto sterminato) la famiglia Musitano. Il 2 maggio 2017 viene ammazzato sul vialetto di casa Ang Musitano, 39 anni. Due componenti del commando di fuoco – Michael Graham Cudmore e Daniele Ranieri – sono stati ritrovati morti nel deserto del Messico. E le autorità sospettano che sempre in Messico trascorra la sua latitanza l’ultimo dei sospettati, Daniel Mario Tomassetti, a cui dà la caccia anche l’Interpol.

Poco più di tre anni dopo, il 10 luglio 2020, come ricorda la Dia, tocca invece a Fat Pat. Scrupoloso in ogni azione, viaggia sempre a bordo del suo suv blindato. Non è mai solo, ma i killer riescono a freddarlo in uno dei rarissimi momenti in cui abbassa la guardia. L’omicidio di Pasquale Musitano ha un’eco che arriva perfino oltreoceano, soprattutto per la caratura del personaggio. «Era Tony Soprano prima ancora che Tony Soprano fosse in televisione», dirà un ex sergente della polizia di Hamilton commentando la morte del gangster-boss amante dei cappotti di pelle e degli occhiali scuri. Per il suo omicidio i sospettati sono cinque, tutti apparentemente lontani dall’«underworld».

Quasi certamente, però, l’inchiesta della polizia canadese non porterà mai alla scoperta dei mandanti né del movente: a gestirla è infatti la squadra omicidi, che punta ad assicurare quanto prima i killer alla giustizia, mentre gli investigatori specializzati in criminalità organizzata premono affinché si allarghi il raggio d’azione proprio come avviene nelle più complesse indagini italiane. Ma il caso non è di loro competenza.

Tra le voci che girano c’è quella di un coinvolgimento di una famiglia emergente, gli Iavarone, forse stanchi della vita da «portaborse» dei Musitano e capaci di sfruttare a proprio vantaggio il momento di massimo declino degli storici alleati. Una sorta di gioco al massacro tra clan fragili dove chi la spunta ne esce moribondo. Negli ambienti della malavita e tra i ben informati si dice che prima di vestire il doppiopetto per buttarsi nel business, gli Iavarone stiano aspettando l’uscita dal carcere di Domenico «Dom» Violi, reggente dell’ultimo dei tre storici gruppi rimasto ad Hamilton, il clan calabrese Luppino-Violi, nonché sospettato di essere il primo canadese con la dote di «underboss» per conto di una famiglia di cosa nostra americana, i Todaro di Buffalo. Ma questa è tutta un’altra storia.

CREDITI

Autori

Alessandro Boldrini

Infografiche & Mappe

Lorenzo Bodrero

Editing

Luca Rinaldi

Foto

Una veduta di Hamilton, Ontario – Harold Stiver/Shutterstock

Joe Valachi, storia del “ratto” di cosa nostra

#ArchiviCriminali

Joe Valachi, storia del “ratto” di cosa nostra
Luca Rinaldi

«Naturalmente a poter ricominciare la mia vita daccapo la ricomincerei. Chi non lo farebbe? Ora sono completamente solo al mondo. Come sai, non scrivo a mia moglie e a mio figlio perché loro non vogliono avere più niente a che fare con me, e chi gli dà torto? Vito Genovese è responsabile di tutto. I ragazzi gli raccontarono tutte quelle storie sul mio conto, e lui ci credette. Ma quando si preparò a colpirmi, io lo colpii. In ogni modo, ha scoperto che non può fare, stando dentro, quello che faceva stando fuori. Ad Atlanta non ho fatto altro che cercare di proteggermi. Spero che gli americani traggano vantaggio dal fatto di conoscere che cos’è la mafia. Se m’uccidevano ad Atlanta, morivo marchiato come un infame senza aver fatto niente. Perciò, che cosa ho perduto?».

A parlare è Joseph Michael Valachi, primo collaboratore di giustizia dalle colonie della mafia italo-americana, che tramite una lettera risponde al giornalista Peter Maas che gli domandava il motivo per cui avesse deciso di parlare dell’organizzazione criminale. Fu lui a far conoscere agli Stati Uniti e al mondo il termine “cosa nostra”, con cui da lì in avanti si è identificata la criminalità organizzata di stampo mafioso originaria della Sicilia.

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Qui, però, siamo al termine di questa vicenda. Una storia quasi dimenticata e ripercorsa nel libro di memorie di Peter Mass e al cinema da Charles Bronson, che interpreta proprio Valachi, nella pellicola di Terence Young del 1972 Joe Valachi – i segreti di Cosa Nostra. Quei segreti Valachi non li conosce tutti, ma in trent’anni di carriera nel crimine una certa cultura se l’è fatta, tanto da meritarsi una volta individuato come collaboratore di giustizia una taglia da 100mila dollari sulla sua testa, fissata dal suo vecchio “datore di lavoro”, il boss don Vito Genovese.

Dai “minute men” alla famiglia di Don Vito Genovese

È il 1960 quando Joseph “Joe Cargo” Valachi, scagnozzo della stessa famiglia di Don “Vitone” Genovese, costola di cosa nostra in quel di New York decide di vuotare il sacco sugli organigrammi e sui traffici delle più potenti famiglie criminali operanti negli Stati Uniti in quegli anni. Prima di arrivare a quel punto, però, Valachi, detto anche “il ratto” (nomignolo conquistato nel corso degli anni ’20 mentre faceva appunto parte di una banda detta “i ratti”), è un fedele soldato del “sindacato del crimine” statunitense.

La banda dei ratti

La “banda dei ratti” era la gang in cui operava Joseph Valachi prima dell’ingresso in cosa nostra. Agivano dalle parti della 107a strada di Est Harlem e si erano guadagnati il nomignolo per la velocità con cui agivano nello svaligiare i negozi. Valachi ha sempre avuto un debole per le auto e così si ritrovò a essere l’autista della gang, da qui il nomignolo di Joe “cargo”.

Tra il 1919 e il 1923, racconta Valachi nelle sue memorie, quella banda fece centinaia di furti. Il metodo adoperato era abbastanza semplice. Sfondata la vetrina di un negozio con un bidone dell’immondizia, arraffavano tutto ciò che c’era dentro, in genere pellicce e gioielli, vendendo tutto poi a un ricettatore. Al tempo la polizia non era dotata delle radio e c’era tutto il tempo per svignarsela.

Tuttavia Valachi deve il nomignolo di “ratto” non tanto a quella esperienza quanto alla scelta di collaborare con la giustizia. Il nomignolo di “ratto” era quello affibiato ai collaboratori e agli informatori della giustizia dalla cosca del boss Vito Genovese.

Nato ad Harlem da genitori italiani nel 1903, dopo le prime scorribande di strada tra il 1919 e il 1923 compie furti con i “minute man” prima e la “banda dei ratti”, una gang che operava, ricorda lo stesso Valachi nelle sue memorie manoscritte e custodite alla John Fitzgerald Kennedy Library di Boston, «dalle parti della 107a strada di Est Harlem. I Ratti erano la favola del mondo della Mala, anche se sembrerà che esagero. Eravamo dei veri cowboy, voglio dire che andavamo come pazzi e quando incontravamo altri falchi nei cabaret sparsi per la città devo dire che tutti volevano sapere chi era il capo. I ragazzi indicavano me e quelli mi offrivano sempre da bere».

Il boss Vito Genovese – Foto: Wikimedia

«Perché strillano? Io non parlo degli italiani, parlo dei delinquenti»

Joe Valachi

Nel racconto che Valachi consegna al giornalista Peter Maas (ampiamente osteggiato dalle comunità italiane, in particolare dal giornale italo-americano Il Progresso. A tal proposito Valachi disse: «Perché strillano? Io non parlo degli italiani, parlo dei delinquenti») non mancano anche episodi comici legati al periodo delle gang e dei furti. Uscito dalla “banda dei ratti” Joe “Cargo” si unisce a quella che lui chiama “la banda irlandese” che impazzava a New York sulla 116a strada: una compagnia cosmopolita composta da un primo gruppo di irlandesi, due ebrei e tre italiani, Valachi incluso. «Avevano i nervi saldi – ricorda – ma nessun senso degli affari. Capii che a restare con loro mi accorciavo la vita».

Una conferma arriva quando Valachi cerca di convincere la banda, dedita a furti e rapine in pieno giorno, ad operare di notte andando a saccheggiare un negozio d’abbigliamento. Gli irlandesi accettano: arrivati alla fabbrica, Valachi lascia fuori due della gang a fare da palo, mentre gli altri entrarono nel deposito del negozio. Pochi minuti dopo, all’uscita, con i vestiti sottobraccio, i due che avrebbero dovuto guardare le spalle alla banda, stufi di stare impalati a fare la guardia, stanno alleggerendo del portafogli una dozzina di persone fatte allineare contro il muro.

Valachi lascia gli irlandesi e ormai, dopo il secondo transito nella prigione di Sing Sing (dove avrebbe dovuto scontare una condanna a tre anni e otto mesi per furto e rapina), la strada verso cosa nostra è già tracciata. In prigione ritrova un vecchio compagno di sortite: Nick Petrilli detto “Lo Squarcio”, che una volta fuori, insieme a un certo Alessandro Vollero lo avvicina a quel “sindacato del crimine” conosciuto genericamente con il nome “The Mob”, la paranza, come tradotto negli stessi documenti americani. Vollero è in quel momento uno dei gangster più celebri di Brooklyn. È da lui che Valachi sente nominare per la prima volta la “guerra” tra napoletani e siciliani in seno al mondo della malavita italiana negli Stati Uniti. La faida si risolverà dopo la morte del boss Joe Masseria e la presa di potere prima di Salvatore Maranzano, poi di Lucky Luciano e don Vito Genovese, a spese dello stesso Maranzano.

L’organigramma della famiglia Genovese agli atti della commissione McClellan / National Criminal Justice Reference Service (NCJRS)

“Alla scuola della prigione di Sing Sing impara a leggere e a scrivere, oltre a beccarsi una coltellata da un altro mafioso newyorchese, Peter La Tempa, che per paura della ritorsione di Valachi si costituisce alla direzione del penitenziario e viene spostato. La Tempa anni dopo verrà avvelenato in carcere per aver attribuito a Vito Genovese un omicidio.

Dentro “l’onorata società”

Fuori da Sing Sing, Valachi fa il suo ingresso nella “onorata società”, dopo anni passati più in prigione che per le strade. Nick Petrilli lo accompagnerà al rito di affiliazione, che lui ricorda così: «Quando mi siedo si siede tutta la tavolata. Qualcuno mi mette davanti sul tavolo una pistola e un coltello. Ricordo che la pistola era una calibro 38 e il coltello era un pugnale. Dopodiché Maranzano (all’epoca reggente delle famiglie della mafia italo-americana, ndr) fa segno d’alzarci di nuovo e tutti noi ci prendiamo le mani e lui dice qualcosa in italiano. Poi ci sediamo e lui si volta dalla mia parte e, sempre in italiano, parla del coltello e della pistola. “Questo significa che tu campi di pistola e coltello e che muori di pistola e coltello”. Poi mi chiede: “Con quale dito spari?”. Dico: “Questo qui”, e muovo l’indice destro. Mi stavo ancora chiedendo che cosa volesse significare quando lui mi dice di fare una coppa con le mani. Poi ci mette dentro un pezzo di carta e l’accende con un fiammifero e mi dice di ripetere con lui, mentre muovo il pezzo di carta su e giù: “È così che morirò se tradisco il segreto di cosa nostra”».

Valachi non finisce di appuntare particolari dal rito, ma riporta altre parole pronunciate successivamente da Maranzano: «Ecco le due cose più importanti che voi tutti vi dovete ricordare. Ficcatevele bene in testa. La prima è che tradire il segreto di cosa nostra significa morte senza processo. Secondo, che prendersi la moglie di qualsiasi altro membro significa morte senza processo. Guardatele, ammiratele e comportatevi bene con loro».

La prigione di Sing Sing
Sing Sing (in inglese Sing Sing Correctional Facility) è un carcere statunitense di massima sicurezza situato ad Ossining, nello stato di New York. Si trova a circa 48 km a nord di New York, sulle rive del fiume Hudson. Il nome del carcere deriva dalla tribù indiana dei Sinck Sinck, che abitava la zona fino a quando fu acquistata dagli europei nel 1685.

Oggi il carcere di Sing Sing ospita circa 1.700 prigionieri ed è entrato nell’immaginario collettivo grazie soprattutto al cinema. Da pellicole come Quarto Potere, alla serie Law & Order, passando per Colazione da Tiffany e Terapia e Pallottole con Robert De niro, solo per citarne alcuni, spesso i criminali finiscono proprio a Sing Sing. Dove dal 1891 al 1963 è stata in uso la sedia elettrica, applicata a 614 condannati.

Da quest’anno è inoltre aperto il museo che ospita la storia della prigione. Il progetto negli anni è stato accompagnato da grosse critiche sui giornali statunitensi. Tuttavia, assicurano i curatori, sarà anche un modo per fare i conti con gli strumenti utilizzati nella storia del sistema giudiziario americano.

Dagli atti della Commissione McClellan / National Criminal Justice Reference Service (NCJRS)

Tra il 1930 e il 1931 la “Guerra Castellammarese” tra i clan lascia per le strade degli Stati Uniti più di sessanta cadaveri e alla fine Maranzano ne esce vincitore, riorganizzando le famiglie americane e dotandosi anche di una facciata legale tramite una società immobiliare. Maranzano percepisce come ingombranti le figure di Luciano e Genovese e prova a “fargli la festa”, ma loro, grazie a una banda vestita da finti poliziotti arrivano prima e il “boss of the bosses” Salvatore Maranzano il 10 settembre del 1931 viene fatto fuori. Stessa sorte, lo stesso giorno, per altri quaranta uomini di origine italiana veterani dell’organizzazione. Luciano, dal capello untuoso e dall’occhio di ghiaccio, aveva pianificato tutto nel dettaglio. Valachi finisce così nella famiglia di Vito Genovese e Lucky Luciano e prende ordini da Tony Bender, al secolo Anthony Strollo.

«Quando mi siedo si siede tutta la tavolata. Qualcuno mi mette davanti sul tavolo una pistola e un coltello. Ricordo che la pistola era una calibro 38 e il coltello era un pugnale. Dopodiché Maranzano (all’epoca reggente delle famiglie della mafia italo-americana, ndr) fa segno d’alzarci di nuovo e tutti noi ci prendiamo le mani e lui dice qualcosa in italiano. Poi ci sediamo e lui si volta dalla mia parte e, sempre in italiano, parla del coltello e della pistola: “Questo significa che tu campi di pistola e coltello e che muori di pistola e coltello”»

Charles ”Lucky“ Luciano – Foto: Wikimedia

Genovese e Luciano tengono buono Valachi e gli assegnano il giro delle slot machine e un banco scommesse. Il 18 settembre del 1932 Joseph Valachi sposa Mildred Reina, figlia del defunto luogotenente di Maranzano, Gaetano Reina. Testimone di nozze d’eccezione: don Vito Genovese in persona. La mafia intanto fa affari col racket, con la “protezione” data ai commercianti dalle altre bande criminali, con le scommesse, il gioco d’azzardo e si maschera di business legale con le società di costruzioni e riuscendo anche a infiltrarsi nel sindacato dei lavoratori. Gli investigatori però iniziano a tirare le fila di quello che accade nel sottobosco della mafia e nel 1936 arrestano Lucky Luciano, mentre Vito Genovese decide di trascorrere gli anni della Seconda guerra mondiale in Italia. Un ritorno in madrepatria per Genovese dopo una permanenza di tre mesi nel 1933. Sul finire della guerra Genovese verrà rintracciato in Italia e si scoprirà una sua donazione di 250mila dollari per la costruzione di una casa del fascio.

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In quegli anni Valachi se la cava diventando socio di un ristorante e acquistando un cavallo che faceva correre all’ippodromo. Alla fine della guerra Genovese torna negli Stati Uniti e riorganizza cosa nostra rimasta in mano a Joseph Anastasia («un pazzo» lo descrive Valachi) e Frank Costello. La riorganizzazione avviene nel 1957 al summit di Apalachin, nello Stato di New York, che si rivelerà teatro di un blitz della polizia. Durante l’operazione, le forze dell’ordine fermeranno parte dei presenti, ma non don Vito Genovese che riesce a farla franca per un anno: l’arresto arriva nel 1958 per traffico di stupefacenti, sia per don Vitone, sia per Joseph Valachi. 

Nei giorni trascorsi nel carcere federale di Atlanta con Vito Genovese, Valachi matura l’idea di essere sotto il tiro degli uomini del capomafia. Lo stesso Genovese avrebbe dato a Valachi anche il cosiddetto “bacio della morte”. Dopo essere scampato per tre volte ai tentativi di ucciderlo in carcere, Joe incontra don Vito: «Sai – attacca a parlare Genovese quando incontra Valachi – teniamo un barile di mele e in questo barile c’è una mela marcia. Questa mela deve essere tolta di mezzo, perché se non viene tolta di mezzo finisce che infetta tutte le altre mele».

Don Vito Genovese a Joe Valachi nel carcere federale di Atlanta: «Sai teniamo un barile di mele e in questo barile c’è una mela marcia. Questa mela deve essere tolta di mezzo, perché se non viene tolta di mezzo finisce che infetta tutte le altre mele»

Joe Valachi descrive al senatore McClellan il momento del “bacio della morte” di Vito Genovese al carcere di Atlanta / National Criminal Justice Reference Service (NCJRS)

Nelle settimane precedenti quel colloquio, Valachi è stato accusato di aver “smicciato”, quindi di aver aperto bocca su cosa nostra con gli agenti dell’FBI. La mattina del 22 giugno 1962 un Valachi inquieto e sempre più convinto di essere bersaglio degli uomini di Genovese in carcere uccide un altro detenuto, scambiandolo per Joe Beck Di Palermo, uomo di Genovese. Viene portato in isolamento e non ha più contatti con gli altri inquilini della prigione.

Il rapporto degli agenti del carcere di Atlanta dopo l’aggressione di Joe Valachi a un altro detenuto scambiato per un uomo di Vito Genovese / Estratto dalla documentazione detenuta dal Federal Bureau of Investigations (FBI) su Joseph Valachi, e collezionata tra il 1962 e il 1978

Per l’omicidio in carcere, Valachi rischia la condanna a morte, così in cambio della clemenza decide di svelare i segreti della mafia negli Stati Uniti, almeno quelli da lui conosciuti. A capo del Dipartimento di Giustizia a Washington c’è dal 1961 Robert Kennedy, che dal suo insediamento sta concentrando parte delle forze dell’FBI nello svelare i meccanismi mafiosi impiegando uomini e mezzi come mai era successo prima nei confronti di cosa nostra. Nel frattempo, fonti interne al sistema carcerario statunitense apprendono che Vito Genovese ha fissato sulla testa di Joe Valachi una taglia da 100mila dollari per ucciderlo: i timori del pentito di non sfuggire al sanguinario boss sono fondati.

Per l’omicidio in carcere Valachi rischia la condanna a morte, così in cambio della clemenza decide di svelare i segreti della mafia negli Stati Uniti, almeno quelli da lui conosciuti

La collaborazione con la giustizia e l’avvio della Commissione McClellan

Nel 1962 Joe Valachi viene trasferito prima nel carcere di Worchester, e successivamente, nel 1963, nella prigione di massima sicurezza di Forth Monmouth, nel New Jersey. É nel 1963 che per tre mesi, tre ore al giorno per quattro volte a settimana l’investigatore dell’FBI James P. Flynn, raccoglie le testimonianze di Joe Valachi con cui ricostruì organigrammi, traffici e business sporchi e puliti di cosa nostra negli Stati Uniti. Valachi è poi comparso davanti alla Commissione McClellan, costituita e presieduta dal senatore dell’Arkansas per indagare il crimine organizzato negli Usa negli anni Sessanta, confermando tutto quello che aveva raccontato a James P. Flynn.

Quelle sedute sono state trasmesse in televisione, senza molto successo, anche perché, ricorda il giornalista Peter Maas, per molti esponenti della politica statunitense sono state solo un ghiotto momento di campagna elettorale. Tuttavia gli atti di quella commissione, a cui hanno preso parte anche gli investigatori e lo stesso Robert Kennedy rimangono un tesoro prezioso.

Valachi richiama nei suoi memoriali anche dure accuse di corruzione nei confronti del Bureau of Prisons (l’amministrazione penitenziaria), del Bureau of Narcotics (il dipartimento antidroga) e dello stesso ministero della giustizia, oltre che della politica locale statunitense. Valachi racconta in seguito al giornalista Peter Maas, autore de Il Dossier Valachi, che lo stesso McClellan si è recato a trovarlo in forma privata prima delle audizioni, pregandolo di evitare di menzionare ciò di cui era a conoscenza su Hot Springs, collegio elettorale del senatore.

L’eco del nome di Valachi arriva anche in Italia: nel 1965 il giudice istruttore di Palermo Aldo Vigneri riesce a ottenere il visto per andare a interrogare il pentito e visionare i documenti riservati in possesso dell’FBI. Fa di più riuscendo a farsi trasmettere le sentenze dei tribunali americani e le relazioni di polizia che provano il coinvolgimento della mafia siciliana nel traffico di stupefacenti con i boss dall’altra parte dell’oceano. A Palermo però l’intuizione e il viaggio di Vigneri, che prova a mettere nero su bianco come i fili del narcotraffico vengano tirati in realtà in Sicilia, vengono bollate come una “americanata”: si ritenne insomma che, in virtù del fantomatico “codice d’onore” dei boss, cosa nostra non si sporchi le mani con la droga.

Lo stop più pesante per Vigneri arriva dalla stessa procura di Palermo, che respinge la richiesta di rinvio a giudizio per il capomafia Genco Russo. Rinvio a giudizio che avrebbe dato peso a quella riunione all’Hotel delle Palme di Palermo in cui i quadri di Cosa Nostra, siciliana e americana, si trovano nel 1957 per organizzare al meglio il traffico di droga. Su quell’incontro però le relazioni di polizia sono fumose e non ne sono mai esistite di ufficiali, così come mai sono state disposte indagini suppletive. Come ha dichiarato più volte lo storico italiano Alfio Caruso «in quel momento sono stati regalati alla mafia trent’anni di vantaggio».

A Palermo l’intuizione e il viaggio di Vigneri, che prova a mettere nero su bianco come i fili del narcotraffico vengano tirati in realtà in Sicilia, vengono bollate come una “americanata“: si ritiene insomma che in virtù del fantomatico “codice d’onore“ dei boss, cosa nostra non si sporchi le mani con la droga.

«Prima di Valachi non c’era alcuna concreta evidenza che una realtà come cosa nostra potesse anche solo esistere. Valachi ha dato un nome ad ogni cosa. Ha svelato la struttura e il modo di agire. In poche parole, ha dato un volto al nemico»

William Hundley

Ex capo del dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti

Joe Valachi dopo le audizioni viene trasferito nel supercarcere di La Tuna, ad Anthony, Texas, in una cella di massima sicurezza che verrà soprannominata “The Valachi Suite”. Nel 1971 il primo pentito della storia della mafia «colui che ruppe il muro dell’omertà», lo ricordano negli Stati Uniti, muore d’infarto in cella. Due anni dopo la dipartita di quel Vito Genovese che su Valachi aveva fissato la taglia da 100mila dollari.

La relazione di Robert Kennedy

Dei giorni delle audizioni di Valachi, oltre al libro del giornalista Peter Maas The Valachi Papers  – la cui uscita negli Stati Uniti è stata osteggiata da alcuni esponenti delle comunità italiane e dal periodico italo-americano Il Progresso in quanto avrebbe dato stereotipi “razzisti“ sugli italiani – rimane la lucida relazione del 25 settembre del 1963 stilata da Robert Kennedy, allora ministro della Giustizia del governo guidato da suo fratello John Fitzgerald. Nel documento, Kennedy evidenzia i rischi derivanti dall’ingresso della mafia nella corruzione dei pubblici ufficiali e nel circuito del lavoro e dell’economia legale, oltre agli immancabili mercati della droga, prostituzione, racket, e gioco d’azzardo illegale.

«L’attenzione dell’opinione pubblica – dirà Kennedy davanti alla commissione McClellan prima delle audizioni di Valachi – non è sufficiente. Diventa sempre più un urgenza nazionale». Un’urgenza che si ripercuote sull’economia legale anche grazie alle frodi bancarie, e sul mondo del lavoro, notava Kennedy, che sulle dichiarazioni di Valachi era convinto: «Le rivelazioni di Joseph Valachi ci hanno aiutato, come mai in precedenza, a capire come funzionano le operazioni» della mafia, senza escludere quelle riguardanti la «corruzione politica».

«È chiaro – spiega nelle battute conclusive Robert Kennedy – che la criminalità organizzata sia un problema nazionale. In breve il crimine organizzato tocca tutti. L’unica preoccupazione non può essere solo trovare soluzioni legislative. Deve essere una urgenza che interessi attivamente ogni cittadino».

Leggi la relazione integrale dell’allora ministro della giustizia statunitense Robert Kennedy

Gli stessi Flynn e Maas sono sempre stati convinti di una cosa: Valachi non era un pentito, semplicemente non aveva nulla da perdere e ha raccontato tutto. William Hundley, ex capo della sezione crimini e racket del Dipartimento di giustizia americano, dirà: «Prima di lui non c’era alcuna concreta evidenza che una realtà come cosa nostra potesse anche solo esistere. Valachi ha dato un nome ad ogni cosa. Ha svelato la struttura e il modo di agire. In poche parole, ha dato un volto al nemico».

CREDITI

Autori

Luca Rinaldi

Editing

Lorenzo Bagnoli

Illustrazioni

Foto

JFK National Library
Wikimedia

Il misterioso Kin e i narcos dell’eroina

#ArchiviCriminali

Il misterioso Kin e i narcos dell’eroina
Luca Rinaldi
«Questo è il processo all’organizzazione mafiosa denominata “Cosa Nostra”, una pericolosissima associazione criminosa che, con la violenza e l’intimidazione, ha seminato e semina morte e terrore. Fino a tempi non molto lontani le conoscenze dell’apparato strutturale-funzionale di “Cosa Nostra” sono state frammentarie e parziale, correlativamente, episodica e discontinua è stata l’azione repressiva dello Stato diretta prevalentemente a colpire, con risultati ovviamente deludenti le singole manifestazioni criminose, viste in un’ottica parcellizzata e disancorata dalla considerazione unitaria del fenomeno mafioso».

Si apre con queste dieci righe l’ordinanza-sentenza del maxiprocesso a cosa nostra depositata l’8 novembre del 1985. Prima di allora i meccanismi interni della mafia siciliana erano qualcosa di insondabile, figurarsi l’inquadramento al suo interno del grande gioco del narcotraffico internazionale. In quest’ottica il merito dei magistrati del pool antimafia (Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello, coordinati dal giudice Antonino Caponnetto) è stato quello di aver ricostruito, partendo da episodi e da indagini apparentemente lontane e slegate tra loro, l’intera filiera e la rete di corrieri, fornitori, trafficanti, broker e “uomini d’onore” che hanno organizzato la moderna multinazionale della droga.

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Il frontespizio dell’ordinanza-sentenza del maxiprocesso di Palermo emessa l’8 novembre del 1985 | IrpiMedia

Il corriere della droga – Bangkok-Orly solo andata

Aeroporto di Orly, Francia, 10 novembre 1981. Francesco Gasparini, noto trafficante di droga pregiudicato, viene fermato mentre fa scalo in Francia per tornare in Italia da Bangkok. In valigia 4 chili e mezzo di eroina e due documenti di identità falsi intestati a tali Pier Luigi Pavoni ed Ernesto Ciceroni. Con quest’ultima identità l’uomo si è recato appena due mesi prima nella capitale della Thailandia. «Da tale arresto – si legge nei 40 faldoni che compongono l’atto d’accusa del maxi processo – prendevano avvio complesse indagini che hanno consentito l’acquisizione di prove molto importanti sul traffico internazionale di eroina e sulle organizzazioni che lo gestiscono».

Un momento cruciale che permetterà ai giudici di Palermo e alle forze di polizia di mezzo mondo ricostruire rotte, uomini e maniere del grande narcotraffico mondiale dell’epoca. Dal paradiso mondiale dell’oppio del cosiddetto “triangolo d’oro” tra Birmania, Laos e Thailandia agli Stati Uniti, passando per la Turchia, la Grecia, Palermo e Milano. Risalendo la catena i magistrati del pool antimafia ricostruiranno e individueranno momenti, circostanze e nomi che hanno segnato il mondo moderno del narcotraffico.

I personaggi

Koh Bak Kin – Classe 1944, trafficante di Singapore, detto “il cinese”, è uno dei nomi di maggior spessore nella rete del narcotraffico dell’epoca e punto di riferimento per il traffico di eroina di cosa nostra. Si rifornisce direttamente al “triangolo d’oro” thailandese. Ha contatti in Italia grazie a un periodo di detenzione nel 1976 in cui conosce, tra gli altri, Gaspare Mutolo

Gaspare Mutolo – Braccio destro di Totò Riina (i due si conoscono in carcere nel 1963), diventerà poi un collaboratore di giustizia all’inizio degli anni ‘90. Prima uomo dei Riccobono, poi passato tra le fila dei corleonesi di Riina.

Vito Roberto Palazzolo – Considerato “cassiere di cosa nostra” e riciclatore delle cosche, ha sempre smentito con forza la propria appartenenza all’organizzazione criminale. Le autorità svizzere lo condannano per riciclaggio nel 1985. Durante un permesso premio fugge in Sud Africa dove avvierà svariate attività economiche. Arrestato nuovamente a Bangkok nel 2012, torna in carcere in Italia nel 2013. Dal marzo 2019 è affidato in prova ai servizi sociali.

Paul Edward Waridel – Svizzero di origine turca è uno degli artefici dell’adattamento delle rotte illegali del tabacco al traffico di droga. Processato in Svizzera insieme a Vito Roberto Palazzolo per il riciclaggio dei proventi dell’eroina verrà condannato a tredici anni.

Il trafficante – Le cartoline del misterioso Kin

Gasparini quando viene fermato a Orly è in libertà provvisoria in seguito a un’indagine per truffa aggravata, ma qualche tempo prima aveva fatto conoscenza al carcere dell’Ucciardone di alcuni uomini delle cosche palermitane. Lo stesso Gasparini aveva in precedenza confidato a un’amica, poi interrogata dai magistrati, di essere un corriere di valuta e di aver fatto la conoscenza di Tommaso Buscetta in persona. Tra documenti e appunti che Gasparini ha con sé al momento dell’arresto investigatori e magistrati trovano contatti con Gaspare Mutolo, il più stretto collaboratore di Totò Riina, e una cartolina conservata da Gasparini e inviata dalla Thailandia da «un non meglio identificato “Kin”». E quel Kin sarà uno dei nomi fondamentali per riannodare i fili del narcotraffico fino ai vertici della “cupola” di cosa nostra.

Le dichiarazioni di Tommaso Buscetta sul narcotraffico contenute nell’ordinanza-sentenza del maxiprocesso di Palermo

Una seconda cartolina rinvenuta nell’abitazione palermitana di Mutolo durante una perquisizione della polizia avvenuta il 22 aprile del 1982 riporta gli inquirenti sulla pista del misterioso Kin. Il mittente il 27 febbraio avvertiva Mutolo che da lì a poco sarebbe partito per Bangkok dopo un periodo in Cina. Quando la polizia entra in casa oltre allo stesso Mutolo si trova davanti un marcantonio di un metro e ottantacinque per 90 chili. Si tratta di Fioravante Palestini, un marinaio di Giulianova che pochi anni prima era stato protagonista dello spot della Plasmon: l’uomo che scolpiva la colonna. Cosa ci facesse l’uomo Plasmon in casa Mutolo lo scopriremo più avanti.

In seguito alla perquisizione partono le intercettazioni telefoniche sull’utenza di Gaspare Mutolo. Ulteriori indagini dimostrano anche contatti tra Mutolo e il clan Santapaola: è un dettaglio importante perché dimostra come colui che diventerà uno dei più stretti collaboratore del boss dei corleonesi, Totò Riina, si relazionasse anche con il capomafia di Catania . «Le intercettazioni sull’utenza del Mutolo – si legge agli atti – consentivano di accertare, inoltre, che il medesimo era in contatto con un individuo dall’accento straniero – e più precisamente orientale – per motivi sicuramente attinenti al traffico di stupefacenti e che il nipote di Mutolo si recava in Roma per incontrarsi con lo straniero». L’eroina sequestrata a Gasparini, quindi, è di pertinenza di cosa nostra palermitana.

Il pentito – L’eroina è cosa nostra

In seguito i magistrati tornano a interrogare Gasparini, rinchiuso nel carcere francese di Creteil. Quando Giovanni Falcone si reca in Francia nell’aprile del 1983, Gasparini decide di collaborare: si sente abbandonato dall’organizzazione mafiosa, che fino a quel momento, ritiene l’uomo, ha fatto poco per tirarlo fuori dai guai. Fa due importanti rivelazioni. La prima è che gli uomini della mafia, in seguito all’individuazione nel palermitano di diversi laboratori di eroina, avevano ritenuto più opportuno acquistare direttamente in Estremo Oriente grosse partite di eroina purissima per continuare ad alimentare il traffico verso gli Stati Uniti d’America. La seconda è l’identificazione del misterioso orientale “Kin”: si tratta di Koh Bak Kin, un singaporiano già arrestato nel 1976 all’aeroporto di Roma perché trovato in possesso di 20 chili di eroina.

Ma c’è di più perché la svolta che permette al pool antimafia di riannodare il traffico di eroina dall’Estremo Oriente al cuore del maxi processo è l’incontro nel 1981, riferito da Gasparini e arricchito di particolari, tra lo stesso trafficante di Singapore e due pezzi da novanta della mafia siciliana come Rosario “Saro” Riccobono, boss di Partanna Mondello e componente della “commissione” dal 1974 e Benedetto “Nitto” Santapaola.

Il confronto al maxiprocesso tra Koh Bak Kin e Gaspare Mutolo nell’udienza dell’11 luglio 1986
Al centro della discussione, avvenuta al 5 di via Ammiraglio Cagni a Palermo alla presenza di altri boss di cosa nostra, c’è l’acquisto di una partita da mezza tonnellata di eroina che, si legge nelle carte del maxiprocesso, «sarebbe stata trasportata dalla Thailandia a Palermo per mezzo di una nave procurata dal Santapaola; il pagamento della partita di eroina sarebbe stato effettuato con denaro proveniente dagli Stati Uniti». Del resto sono gli anni della “Pizza Connection” e Oltreoceano le cosche sono una potenza.
Pizza Connection
“Pizza Connection” è il nome di un’inchiesta giudiziaria condotta negli Stati Uniti d’America dall’Fbi tra il 1979 e il 1984. Le indagini, partite dopo l’assassinio del boss Carmine Galante, individuarono la rete di distribuzione, che si avvaleva della copertura di pizzerie e ristoranti italiani per importare l’eroina da Palermo, e i legami con le famiglie mafiose siciliane. Alle indagini collaborò anche Giovanni Falcone. Il processo, a carico del boss Gaetano Badalamenti e altri 18 imputati, iniziò il 24 ottobre del 1985 a New York e terminò il 22 giugno del 1987 con 17 condanne e un’assoluzione. Parallelamente a Lugano si svolse il processo ai riciclatori della “Pizza Connection”, tra cui Vito Roberto Palazzolo e Paul Edward Waridel. Molte delle risultanze di quelle indagini furono assunte dal pool di Palermo nel corso dell’istruttoria del maxi processo.
Riccobono e i suoi quel carico non lo vedranno mai arrivare in porto: il primo carico da 230 chili, che avrebbe fruttato cifre a nove zeri delle vecchie lire, viene fermato il 24 maggio 1983 nel canale di Suez a bordo della nave Alexandros G. A effettuare il sequestro sono l’antidroga statunitense, la Dea, e la polizia greca.

«Che tale ingente carico di eroina fosse destinato alla organizzazione mafiosa di Rosario Riccobono emergeva fin dall’inizio perché – scrivono i magistrati nell’istruttoria del maxiprocesso – a bordo della nave, oltre all’equipaggio, composto di sette uomini tutti di nazionalità greca, vi era Fioravante Palestini», l’uomo Plasmon, ex modello da Giulianova e trovato a casa di Mutolo dalla polizia durante la perquisizione avvenuta circa un anno prima.

Il carico da 230 chili, che avrebbe fruttato cifre a nove zeri delle vecchie lire, viene fermato il 24 maggio 1983 nel canale di Suez a bordo della nave Alexandros G.

Il sequestro – Il carico della Alexandros fermato a Suez

Questo non basta e dal momento del sequestro la procura di Palermo avvia le indagini con le prime rogatorie internazionali. Da una parte si recano in Grecia e in Egitto un funzionario del Servizio centrale antidroga, Enzo Portaccio, e il maggiore Stefano Pitino della Guardia di finanza, dall’altra invece Gianni De Gennaro della narcotici di Roma si mette sulle tracce di Koh Bak Kin volando in Thailandia.

I primi ricostruiscono la genesi di quel carico, caricato su una nave al largo delle coste thailandesi, e la dimensione finanziaria del traffico di stupefacenti che porta fino in Svizzera, mentre il secondo indagherà e porterà Bak Kin in Italia da Bangkok.

Mentre per la prima volta durante una missione dello Space Shuttle l’equipaggio si avvia a una camminata spaziale, la nave “Alexandros G.” salpa da Eleusi (Grecia). È il 4 aprile del 1983 e apparentemente a bordo si trova un carico di cemento diretto a Port Sudan, dove giunge il 12 aprile successivo. Prosegue poi per la Thailandia dove arriva il 3 maggio dello stesso anno. Lì, a circa 15 miglia dalla cosa di Ko-Fra-Kong, due pescherecci caricano a bordo della Alexandros undici cartoni imbottiti di eroina, e una partita di armi. Sale a bordo anche Palestini, dopo di che la nave riprende il largo diretta sulla strada del ritorno. La Alexandros viene sorvegliata lungo tutto il tragitto e il 24 maggio una volta giunta a Suez la polizia egiziana, su segnalazione di quelle greca, la perquisisce. Vengono così alla luce i 233 chili di eroina e scattano le manette per l’equipaggio e per lo stesso Palestini, che passerà più di vent’anni in un carcere egiziano.

Palestini racconta ai finanzieri che vanno a interrogarlo di aver incontrato Kin a Bangkok e che se la nave non fosse stata fermata a Suez «la droga sarebbe stata trasbordata su un’altra nave nel Mediterraneo, in un punto che sarebbe stato comunicato successivamente al passaggio di Suez».

La vicenda della Alexandros collega definitivamente cosa nostra al traffico di eroina e mette in discussione la credenza, ancora ben radicata a quel tempo, che la mafia siciliana non traffichi stupefacenti, per ottemperare a un presunto “codice d’onore”.

La vicenda della Alexandros collega definitivamente cosa nostra al traffico di eroina e mette in discussione la credenza, ancora ben radicata a quel tempo, che la mafia siciliana non traffichi stupefacenti, per ottemperare a un presunto “codice d’onore”

La rete criminale attorno a Kin

Un rapporto della narcotici di Roma e della Guardia di finanza del giugno del 1983 riconduce a Kin alcuni sequestri di eroina avvenuti in mezza Europa, oltre ai due quintali di Suez. Gli inquirenti sono in grado di ricostruire i suoi contatti anche con il mondo criminale romano: Kin si incontra infatti nella Capitale anche con Gianfranco Urbani, detto Er Pantera, esponente della banda della Magliana e in grado di stringere rapporti non solo con un boss di cosa nostra come lo stesso Nitto Santapaola. Kin, Urbani, e Mutolo, si sono conosciuti in carcere a Sulmona nel 1976. Il trafficante di Singapore ci era finito dopo essere stato arrestato a Fiumicino in possesso di 20 chili di eroina. Una volta fuori, poco meno di quattro anni dopo, i rapporti fra i tre sono rimasti.

Il 12 luglio 1983, dopo aver incrociato i dati a disposizione e aver messo in fila i suoi contatti, la procura di Palermo emette un mandato di cattura per Kin. Nella sua abitazione di Bangkok gli investigatori trovano gli appunti con gli indirizzi di Gaspare Mutolo, di Fioravante Palestini e dello stesso Gasparini. Consapevole del suo destino, il trafficante si consegna alle autorità italiane senza attendere l’esito della domanda di estradizione. Una volta in Italia Kin riempie centinaia di pagine di verbali, ma i giudici di Palermo sono convinti che altrettante questioni siano rimaste irrisolte e che Kin porti con sé ulteriori segreti.

Una cronaca del giornale L’Unità del 24 aprile 1984 

Tuttavia dal verbale di Kin emergono spaccati interessanti sulla filiera dell’eroina dalla Thailandia alle piazze italiane. Il fornitore di Kin è un tale Tan Song, di cui Kin riferisce solamente che sia alto 1 metro e 68 di circa quarant’anni. Tan song si rifornisce direttamente al Triangolo d’oro, zona a nord della Thailandia dove si trovano estese piantagioni d’oppio e dove si trovavano numerosi laboratori per la produzione dell’eroina. Il beneficiario ultimo di quella zona “prosperosa” è un signore della guerra, Chang Chi Fu, detto Khun Sa, principe prosperoso.
Il “re del triangolo d'oro”
Chang Chi Fu, soprannominato “il re del Triangolo d’oro”, dopo l’addestramento nell’esercito nazionalista cinese Kuomintang e la militanza nell’esercito regolare, forma un esercito personale di alcune centinaia di uomini. Nel 1963, grazie alla lealtà al governo birmano, l’esercito di Chang Chi Fu arriva a toccare quota 10mila uomini, riportano alcune fonti ufficiali. Obiettivo della milizia è quello di combattere per l’indipendenza del popolo dello Shan. Dopo un periodo di detenzione, tra il 1969 e il 1974 riafferma il suo potere nella zona e negli anni ‘80 è ritenuto l’uomo in grado di controllare il 70% del commercio di eroina nel Triangolo d’oro e il 40% dell’eroina che entrava negli Stati Uniti. Tanto che il governo Usa offrì una taglia di 2 milioni di dollari per la sua cattura. Chang Chi Fu propone quindi nel 1989 al allo stesso governo di acquistare l’intera produzione di oppio per impedire che questo fosse venduto sul mercato. Non se ne farà nulla e l’uomo prosegue la sua carriera fino al 1996 quando tramite un accordo segreto col governo birmano si consegna alle autorità che gli garantiscono la non estradizione verso gli Stati Uniti.
Così dal 1981 inizia il rapporto stabile tra Kin e l’Italia per l’invio dell’eroina. Prezzo fissato: 55 milioni delle vecchie lire al chilo, con la sostanza che viaggia per il mondo tra navi, treni, aerei e doppi fondi di valigie e bagagliai. Ed è proprio in questo periodo che Kin racconta dell’incontro a Palermo con un certo “Roberto”. Un siciliano di circa quarant’anni «che appariva come un personaggio molto autorevole». Una pista che porterà le indagini fino in Svizzera: quel Roberto, arriveranno a concludere i magistrati di Palermo, altri non è che Vito Roberto Palazzolo, colui che anni dopo sarà indicato come «il cassiere di cosa nostra». Nomi e circostanze che si intrecciano all’inchiesta americana “Pizza Connection” e al ruolo della Svizzera come luogo del riciclaggio dei proventi del narcotraffico. E del resto i magistrati di Palermo ricostruiscono nel corso delle indagini i rapporti tra Kin e Palazzolo, oltre alle transazioni economiche avvenute a Zurigo e Lugano scaturite dal traffico di eroina tra Thailandia, Europa e Stati Uniti d’America. Al termine di quel percorso è dunque chiaro, si legge agli atti, «comprendere quale fosse l’organizzazione che ha pagato l’eroina sequestrata a Suez», ma cosa ancora più importante, secondo l’obiettivo di giudici istruttori del maxi processo, dimostrare «l’unicità e complessità dell’organizzazione mafiosa che gestisce il traffico di stupefacenti».

I broker – Il sistema degli intermediari e gli immortali delle rotte

Un ulteriore passo in avanti sulla conoscenza del fenomeno mafioso legato al narcotraffico i giudici di Palermo lo fanno riflettendo sul fatto che «Gaspare Mutolo e la sua famiglia erano in grado di gestire lo smercio di limitate quantità di eroina […] ma un carico di 233 chilogrammi di droga presuppone tali collegamenti internazionali e disponibilità finanziarie, che è impensabile potesse essere gestito in esclusiva dalla “famiglia” di Partanna Mondello».

Si fa strada dunque la figura del moderno “broker” della droga: nelle operazioni tracciate dalla procura di Palermo e nell’ambito dell’inchiesta Pizza Connection non a caso si sono messi in luce contrabbandieri internazionali all’epoca già noti alle autorità, che sono stati in grado di utilizzare le rotte del traffico illecito del tabacco a beneficio del traffico di droga. Emergono così le figure di Paul Waridel e di Luigi Dapueto, il “re delle bionde”. Personaggi che dieci anni dopo saranno ancora sulla cresta dell’onda perché inseriti nella rete di Pasquale Marando, nome di primo piano e grande innovatore del narcotraffico della ‘ndrangheta calabrese nei primi anni ‘90.

«Gaspare Mutolo e la sua famiglia erano in grado di gestire lo smercio di limitate quantità di eroina […] ma un carico di 233 chilogrammi di droga presuppone tali collegamenti internazionali e disponibilità finanziarie, che è impensabile potesse essere gestito in esclusiva dalla “famiglia” di Partanna Mondello»

Gli agganci di Waridel e Dapueto conducono ancora in Thailandia, Turchia e Libano, per finire poi a livello finanziario in Svizzera, spesso negli uffici di Palazzolo e di qualche cassetta di sicurezza al riparo da occhi indiscreti. Un ecosistema in cui, concludeva il pool antimafia di Palermo, «all’interno di cosa nostra si sono create strutture autonome ma funzionalmente collegate, addette alle varie fasi in cui si articola il complesso traffico di stupefacenti, mentre gli “uomini d’onore” che non hanno responsabilità operative nel traffico possono contribuirvi finanziariamente, condividendone in varia misura, gli utili e i rischi. Si è riprodotta, in sostanza, la stessa situazione del contrabbando di tabacchi, ma in misura molto maggiore e con profitti enormemente più alti». La medesima storia si ripeterà nel decennio successivo con il traffico di cocaina.

«All’interno di cosa nostra si sono create strutture autonome ma funzionalmente collegate, addette alle varie fasi in cui si articola il complesso traffico di stupefacenti, mentre gli “uomini d’onore” che non hanno responsabilità operative nel traffico possono contribuirvi finanziariamente, condividendone in varia misura, gli utili e i rischi»

Nel 1979 un rapporto di Boris Giuliano tracciava già questo tipo di scenario: «la mafia siciliana – si legge nel rapporto agli atti del maxiprocesso – è rientrata nel traffico internazionale di stupefacenti con larga disponibilità di uomini e mezzi, sfruttando, soprattutto, i canali delle grandi reti di contrabbandieri di tabacchi lavorati esteri che operano nel sud-Italia e nelle isole sotto la ferrea guida di grossi nomi della mafia».

*L’ordinanza-sentenza del maxiprocesso è interamente consultabile in formato digitale sul sito del Consiglio Superiore della Magistratura

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Luca Rinaldi

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Lorenzo Bagnoli

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