Confessioni di un medico mafioso, storia del memoriale Allegra

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Confessioni di un medico mafioso, storia del memoriale Allegra

Ciro Dovizio

Prima che Tommaso Buscetta e Joe Valachi rivelassero, rispettivamente a Giovanni Falcone (1984) e alla Commissione senatoriale degli Stati Uniti sul gangsterismo italo-americana presieduta da John McLellan (1963), i segreti di cosa nostra siciliana e cosa nostra americana, il quotidiano palermitano di sinistra L’Ora aveva già pubblicato una clamorosa testimonianza “dall’interno”, che attestava la straordinaria continuità nel tempo del fenomeno mafioso e dei suoi caratteri costitutivi: struttura, segretezza, ideologia, relazioni politiche, proiezioni internazionali.

Si tratta della confessione del medico di Castelvetrano (Trapani) Melchiorre Allegra, datata 1937, che il cronista de L’Ora Mauro De Mauro, grazie a una fonte, rinvenne e riportò sul giornale nel gennaio 1962. È stata la più importante fonte di storia della mafia mai pubblicata, almeno finché, negli anni Ottanta e Novanta, gli storici non avviarono le prime ricerche archivistiche sull’argomento. Tanto da restare alla base della stessa storiografia sul tema.

L'inchiesta in breve
  • Melchiorre Allegra è stato un medico affiliato alla mafia. Durante il fascismo, è stato interrogato da un gruppo interforze negli anni Trenta. Il suo memoriale anticipa le rivelazioni dei più importanti pentiti che verranno.
  • A pubblicarne degli estratti è stato L’Ora di Palermo nel 1962, 25 anni dopo che era stato raccolto. Fu il giornalista Mauro De Mauro a pubblicarlo, grazie all’aiuto di un ex maresciallo, Giovanni Lo Bianco. De Mauro aveva un’estrazione politica opposta a quella del gruppo dirigente de L’Ora, ma fu scelto lo stesso dal direttore Vittorio Nisticò.
  • Nel memoriale, Allegra descrive le strutture mafiose che descriveranno anche collaboratori come Joe Valachi e Tommaso Buscetta. “Maffia” allora era una parola sconosciuta. Il suo “stato maggiore” si ritrovava a Palermo e ne facevano parte personaggi che torneranno in futuro, come il capomafia di Villbate Calogero Vizzini.

Che la mafia, insomma, fosse un’organizzazione formalizzata si sapeva da prima che il maxiprocesso – tornante fondamentale nella percezione del problema, anche negli studi – lo dimostrasse per via giudiziaria, benché in tanti ne negassero l’esistenza o la derubricassero a residuo di una cultura regionale antistatale.

Colpisce la vicenda di queste carte per quanto dice sia della mafia come costruzione complessa – al confine tra comunicazione sotterranea e comunicazione pubblica – sia dei soggetti che coinvolse: il medico-mafioso Allegra, De Mauro e ovviamente il suo misterioso informatore, che riesumò il documento dagli archivi fascisti, la cui identità sveleremo a suo tempo. Naturalmente, questa storia testimonia anche del grande contributo de L’Ora alla conoscenza del fenomeno mafioso, oltre che di quello di De Mauro, del quale si ricorda sempre il rapimento e l’assassinio nel 1970 a opera della mafia, rimasti peraltro avvolti nel mistero, e quasi mai il profilo di cronista investigativo.

Gli archivi de L’Ora
#GliArchiviDelOra è una serie di tre puntate all’interno di #ArchiviCriminali. È un viaggio tra le pagine dello storico quotidiano che ha contribuito a trasformare la mafia in un tema di interesse nazionale. Fondato dalla famiglia di armatori e proprietari di tonnare Florio, ha attraversato il fascismo come Quotidiano fascista del Mediterraneo e nel Dopoguerra è stato acquistato dal Partito comunista (Pci) che l’ha trasformato in un giornale aperto, interessato soprattutto al dialogo con i gruppi autonomisti siciliani, lontano dalla logica dell’organo di partito.

La serie è curata da Ciro Dovizio, storico dell’Italia contemporanea (mafie e antimafia, politica, giornalismo, cultura) presso l’Università Statale di Milano.

Chi è Mauro De Mauro

Cominciamo quindi da Mauro De Mauro che, tra i redattori de L’Ora, era il meno “in linea” con l’orientamento del giornale. Il gruppo dirigente veniva infatti dalle lotte social-comuniste per la terra del dopoguerra siciliano; De Mauro dalla militanza nei più feroci reparti di Salò (tra cui la X Mas di Junio Valerio Borghese, il corpo militare della Repubblica sociale italiana), tanto che era stato inizialmente incriminato di complicità nella strage delle Fosse ardeatine del 1944 (in cui furono trucidati dagli occupanti tedeschi 335 tra civili e militari), poi assolto dopo la Liberazione.

In Sicilia si era rifugiato nel dopoguerra, collaborando con giornali conservatori (ma anche con L’Ora del socialista Pier Luigi Ingrassia) e legandosi a illustri leader democristiani (Franco Restivo e Nino Gullotti, ad esempio). Secondo il direttore Vittorio Nisticò, che scrisse su di lui una memoria a tre anni dalla scomparsa, furono i fatti del luglio 1960 – crisi del governo Tambroni, repressione poliziesca delle sommosse, quattro morti a Palermo – a convertirlo alla democrazia, alla «nobiltà di una barricata radicalmente diversa da quelle che aveva fino ad allora praticato».

Il governo Tambroni

Fernando Tambroni fu primo ministro tra il 26 marzo e il 27 luglio 1960. La maggioranza del suo governo era formata dalla Democrazia cristiana e dai post-fascisti del Msi, Movimento sociale italiano (insieme ai monarchici). Quest’alleanza provocò un’ondata di manifestazioni, guidate in particolare da gruppi antifascisti. Scioperi generali e cortei ripempirono città in tutta Italia: a Reggio Emilia, Licata (Agrigento), Palermo e Catania rimasero uccisi in tutto una decina di manifestanti. A seguito dei fatti di piazza, si costruì un governo d’emergenza della Dc con l’appoggio esterno di socialisti, liberali e repubblicani. Fu così che fu sfiduciato il governo Tambroni e iniziò il terzo governo di Amintore Fanfani.

Il direttore non aveva badato al suo passato, usando reclutare i cronisti secondo criteri professionali più che politici, e De Mauro aveva già fama di giornalista capace. D’altronde, altri de L’Ora, compreso Nisticò e Felice Chilanti di cui abbiamo scritto nella scorsa puntata, erano stati giovani fascisti. Sicché il direttore lo assunse nel 1959.

De Mauro si occupò di molti temi, specializzandosi però in quello mafioso. Ciò che più gli interessava del fenomeno era la dimensione sotterranea, convinto com’era che nessuna indagine potesse prescindere da rivelazioni “dall’interno”. Perciò ritrasse personaggi più o meno celebri della mafia italo-americana (ad esempio Lucky Luciano e Frank Coppola), valorizzando, per quanto possibile, il loro punto di vista. In questi casi attinse a volumi e cronache dell’epoca, insomma a fonti secondarie.

La “maffia” si ritrova alla Birreria Italia

Niente a che vedere, insomma, con la confessione di Allegra, che De Mauro reperì e pubblicò nel 1962. Nato nel 1881 a Gibellina, in provincia di Trapani, Allegra dirigeva in quanto medico una clinica a Palermo. Nel 1937 venne arrestato e indotto a rilasciare una lunga deposizione agli ufficiali dell’Ispettorato interprovinciale di Ps per la Sicilia, struttura investigativa speciale istituita dal regime nel 1933.

Allegra raccontò di essersi affiliato nel 1916, nel corso della Prima guerra mondiale, quando fu avvicinato da due mafiosi di rango del palermitano: Giulio D’Agati, capomafia di Villabate, e Francesco Motisi, boss del quartiere Pagliarelli. Costoro e altri gli spiegarono di appartenere a «un’associazione molto potente, che comprendeva molta gente di tutte le categorie sociali, non escluse le migliori», i cui adepti si chiamavano tra loro «uomini d’onore». Ragione sociale, per così dire, all’origine della setta sarebbe stato secondo Allegra quella «del rispetto reciproco, della protezione del debole contro il prepotente». L’associazione «era proprio quella che in Sicilia si chiamava “maffia”, da molti conosciuta in maniera, però, assai vaga, perché nessuno, tolti quelli che vi appartenevano, potevano con sicurezza attestarne l’esistenza». Allegra fu messo al corrente delle sue diramazioni in Tunisia, nelle Americhe e in Europa, specialmente a Marsiglia, e della sua articolazione in «famiglie» e «decine», con competenza territoriale su un paese dell’hinterland palermitano o un gruppo di essi.

«A Palermo, però, e credo anche nelle altre città molto popolose, la “famiglia” era l’unione degli affiliati di un rione, in seno al quale si verificava anche la distribuzione in “diecine” – è il racconto di Allegra -.. Dato il titolo di “famiglia” che era attribuito ai vari aggregati, ne derivava quello di “fratelli” attribuito a ciascuno degli affiliati […] Circa le relazioni fra le varie provincie, vigeva la regola della indipendenza di una dall’altra, perché i rapporti venivano mantenuti dai vari “capi di provincia” fra loro, stabilendo così un collegamento sostanziale e non formale che attraverso i capi legava in tutte le provincie i gruppi dell’uno e quelli dell’altro».

Allegra si affiliò sottoponendosi al rito iniziatico nelle sue varie fasi: la puntura del dito, l’immagine sacra cosparsa di sangue e fatta bruciare nelle sue mani, il voto cerimoniale: «Giuro di essere fedele ai miei fratelli, di non tradirli mai, di aiutarli sempre, e se così non fosse, possa io bruciare e disperdermi, come si disperde questa immagine che si consuma in cenere».

Insomma, con buona pace di chi ancora negli anni Sessanta raffigurava la mafia come un costume tipicamente siciliano, un modo di fare e di essere, il documento la dipingeva per quello che era, e cioè una rete di gruppi criminali organizzati con identità, coscienza di sé, regole, gerarchie. Che venisse dall’età fascista non era peraltro un caso, avendo il regime fatto ampio uso (e abuso) dell’accusa di associazione a delinquere, sin dall’operazione condotta tra il 1925 e il 1929 dal “prefetto di ferro” di Palermo mandato dal regime, Cesare Mori.

Molti dati forniti dal medico anticipavano o confermavano quelli ricavabili da confessioni precedenti e successive, siciliane e americane, a riprova della tenuta dell’organizzazione nel tempo, oltre che del suo carattere transatlantico.

Secondo Allegra, lo «stato maggiore» della mafia si sarebbe riunito a Palermo, presso la Birreria Italia, essendo la città rappresentativa «della parte più importante della “mafia”, camuffata sotto le più diverse forme, umili ed elevate».

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I misteri intorno alla scomparsa di Mauro De Mauro

Battitore libero, geloso di fonti e del suo metodo d’inchiesta, il giornalista de L’Ora non è mai stato ritrovato. La campagna contro L’Ora e le piste che portano ai suoi nemici

Nel documento ricorrevano nomi di personaggi molto noti o che tali sarebbero divenuti in seguito: dal capo-mafia di Villalba Calogero Vizzini a Lucio Tasca, grande proprietario terriero, grande aristocratico palermitano, impegnato secondo Allegra nel riconciliare due fazioni mafiose cittadine contrapposte, dopo che «tre commissioni speciali di maffiosi» giunte dagli Stati Uniti avevano fallito. Il medico disse poi dei tentativi di condizionare le elezioni, ai quali partecipò in prima persona: la mafia si sarebbe divisa «in parti quasi uguali per la lista democratica e per la lista fascista, illudendosi di potersi accattivare» il regime. Soltanto che il progetto non riuscì, avendo i gruppi mafiosi preferito «il principio di venalità», dando quindi «il massimo appoggio a quelli che pagarono profumatamente ed a quelli dei quali potevano trarsi maggiori previsioni di appoggio».

L’archivio dell’Ispettorato interprovinciale di Pubblica sicurezza

In che modo, a distanza di 25 anni, queste carte lasciarono gli archivi polverosi dell’Ispettorato interprovinciale di Pubblica sicurezza – il reparto interforze che, in due riprese, è stato attivo in Sicilia tra il 1933 e il 1949, con tre anni di interruzione tra il 1943 e il 1945 – per arrivare sulla scrivania di De Mauro? È importante chiederselo perché, se esse testimoniano della memoria della mafia, il loro percorso lascia scorgere quella dell’antimafia.

Facciamo un salto all’indietro nel tempo fino al 1933, quando il regime costituì l’Ispettorato interprovinciale di Publica sicurezza per porre un argine alla nuova emergenza mafiosa. Per quanto celebrata dal fascismo, infatti, l’operazione Mori era stata smorzata da pene miti per associazione a delinquere e dall’amnistia del 1932. Il risultato fu che molti mafiosi tornarono a delinquere. Sicché il regime creò l’Ispettorato, ma senza clamori, di modo che l’avvenuta sconfitta della mafia non fosse contraddetta. Questa unità interforze di polizia e carabinieri, che agì come apparato di sicurezza più che come polizia, venne sciolta e ricostituita più volte, fino al 1949, quando venne soppressa. Gli subentrò il Comando forze repressione banditismo, diretto dal generale Ugo Luca, noto per aver posto fine alla latitanza (e alla vita) del bandito Salvatore Giuliano con l’aiuto della mafia.

Ora, il carattere inter-forze dell’Ispettorato fece sì che, all’atto della soppressione, le sue carte finissero in parte negli archivi della polizia, in parte in quelle dei carabinieri, e che alcune andassero semplicemente disperse, compreso il verbale Allegra. Tanto che l’originale è stato ritrovato, un po’ fortunosamente, soltanto una decina di anni fa dallo storico Vittorio Coco.

Giovanni Lo Bianco, l’informatore di De Mauro

Qualcuno, però, all’inizio degli anni Sessanta ricordava del documento e ne passò una copia a De Mauro. Questo qualcuno risponde al nome di Giovanni Lo Bianco, maresciallo dei carabinieri in congedo. Nato a Palermo nel 1908, Lo Bianco aveva diretto molte azioni contro mafia e banditismo, prima al servizio dell’Ispettorato, quindi del suo erede Comando forze repressione banditismo (Cfrb). Ormai in pensione, l’anziano maresciallo intendeva stendere le sue memorie e perciò si rivolse al cronista, incontrandolo più volte nel corso del 1961. Ricaviamo tutto questo da un rapporto riservato di De Mauro a Nisticò, rinvenuto presso l’archivio dell’Istituto Gramsci Siciliano.

«Tra la fine di giugno e la seconda decade di luglio dello scorso anno ho avuto frequenti contatti con il Cavalier Lo Bianco, per raccogliere e stendere le sue “memorie” sulla mafia – scrive De Mauro a Nisticò -. Successivamente, ci siamo incontrati altre volte, dopo ferragosto e fino al 17 settembre, data in cui di fronte al rifiuto di Lo Bianco di lasciarmi in visione per una sera il memoriale Allegra (dal quale si riprometteva di ricavare mezzo milione in aggiunta alle trecentomila lire già ricevute da noi) ebbi una discussione piuttosto vivace. Lo Bianco partì per Roma e da allora ho avuto con lui sporadici contatti».

Eppure, stando a De Mauro, Lo Bianco diceva il vero sul passato, su «quanto cioè è venuto a sua diretta conoscenza durante il servizio prestato nell’Arma dei carabinieri», ma un po’ bluffava, visto che «una delle sue migliori fonti di informazione su avvenimenti accaduti tra il 1953 ed oggi è infatti la collezione delle annate del nostro giornale».

Fatto sta che il maresciallo fornì al cronista informazioni preziose, consegnandogli altre carte e mettendolo in contatto con un vecchio capo-mafia. «Lo Bianco – leggiamo dalla stessa lettera – dopo molte tergiversazioni, mi ha messo in contatto con un capofamiglia che aveva e ha i suoi bravi motivi per essere scontento della mafia. Da lui, durante molti incontri svoltisi prima in riva al mare e poi a casa mia, ho appreso gli elementi relativi alla organizzazione mafiosa di Palermo». Si trattava dell’ex boss del Comune palermitano Bolognetta, Serafino Di Peri, espulso dall’organizzazione in quanto testimone al processo di Viterbo contro la banda di Salvatore Giuliano.

E le memorie di Lo Bianco? D’accordo col maresciallo, De Mauro ne pubblicò una parte, quella che riguardava la lotta contro Giuliano, tenendo segreta l’altra, incentrata sulla mafia. Le cognizioni di Lo Bianco, in effetti, avrebbero contrastato con la tolleranza istituzionale dell’epoca verso la mafia, evidenziando l’inadeguatezza delle agenzie di contrasto e la dimensione politica del problema.

In conclusione, incontrando il vecchio maresciallo, De Mauro ebbe modo di incrociare il meccanismo repressivo statale nei suoi aspetti di continuità (uso di confidenti e informatori, di infiltrati, il ricorso a trattative) traendone preziosi elementi conoscitivi. Più di altri, insomma, mostrò in generale abilità nel muoversi al confine tra mondo «di sotto» e mondo «di sopra», ciò che gli valse molti e clamorosi scoop, ma che anche lo espose a rischi, magari spingendolo a dire – per citare le parole di Sciascia sulla sua scomparsa – «la cosa giusta all’uomo sbagliato e la cosa sbagliata all’uomo giusto».

CREDITI

Autori

Ciro Dovizio

Editing

Lorenzo Bagnoli

Foto di copertina

IrpiMedia

La leggenda dell’aiuto mafioso allo sbarco degli Alleati in Sicilia

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La leggenda dell’aiuto mafioso allo sbarco degli Alleati in Sicilia
Ciro Dovizio

Il mito della collaborazione della mafia allo sbarco in Sicilia tra il 9 e il 10 luglio 1943 domina a tutt’oggi la discussione pubblica, benché ampiamente confutato dagli storici. L’origine e la destituzione di questo mito nascono entrambe dalle pagine de L’Ora, il quotidiano di Palermo uscito tra il 1900 e il 1992. La sua genesi e le conseguenti polemiche, a tanti anni di distanza, restano indicative di modi diversi di declinare l’argomento mafia e di inquadrarlo nei grandi tornanti della storia nazionale.

Stando alla leggenda, a favorire (se non a rendere possibile) l’occupazione del primo pezzo d’Europa da parte delle forze anglo-americane sarebbe stato un accordo segreto tra mafiosi e servizi segreti statunitensi. Nel 1942 l’apparato dell’esercito americano avrebbe infatti ottenuto dal boss mafioso siculo-americano Lucky Luciano, allora detenuto in un carcere di massima sicurezza, di adoperarsi affinché la mafia siciliana, a partire dal caporione di Villalba (provincia di Caltanissetta) Calogero Vizzini, contribuisse alacremente alle operazioni.

La storia non manca di dettagli spettacolari: dai foulard gialli con la «L» di Luciano lanciati dai bombardieri alleati prima dell’invasione a carri armati con la stessa lettera, ai messaggi in codice spediti da Vizzini in tutta l’isola per mobilitare le cosche.

Qualcosa di vero (e documentato) nella vicenda c’è, ma non ha nulla a che fare con lo sbarco. Quando gli Stati Uniti entrarono in guerra, in effetti, corse voce che il porto newyorkese brulicasse di spie e sabotatori nemici, che pescherecci rifornissero al largo sottomarini tedeschi. Il culmine del panico si ebbe nel febbraio 1942, allorché il transatlantico Normandie andò misteriosamente a fuoco. Consapevole del controllo di Luciano sugli affari del porto, l’intelligence della Marina chiese il suo aiuto. Sicché il grande boss assicurò che l’Ila (International longshoreman association – Associazione internazionale portuali, in italiano), il sindacato a lui fedele, e la sua organizzazione avrebbero garantito l’ordine. Lo stesso Luciano avrebbe più tardi rivelato di aver compiuto «sabotaggi», compreso l’incendio del Normandie, nell’intento di ingraziarsi le autorità americane (nella classica logica mafiosa per cui si crea il danno per offrire protezione).

Probabilmente, il suo intervento servì più che altro a evitare che in una fase critica per la nazione i portuali (tra cui molti erano gli italiani) s’impegnassero in scioperi e agitazioni. Nel 1946, Luciano venne scarcerato e rispedito in Italia.

Gli archivi de L’Ora
#GliArchiviDelOra è una serie di tre puntate all’interno di #ArchiviCriminali. È un viaggio tra le pagine dello storico quotidiano che ha contribuito a trasformare la mafia in un tema di interesse nazionale. Fondato dalla famiglia di armatori e proprietari di tonnare Florio, ha attraversato il fascismo come Quotidiano fascista del Mediterraneo e nel Dopoguerra è stato acquistato dal Partito comunista (Pci) che l’ha trasformato in un giornale aperto, interessato soprattutto al dialogo con i gruppi autonomisti siciliani, lontano dalla logica dell’organo di partito.

La serie è curata da Ciro Dovizio, storico dell’Italia contemporanea (mafie e antimafia, politica, giornalismo, cultura) presso l’Università Statale di Milano.

1958: l’inchiesta de L’Ora su Vizzini a Villalba

La leggenda dello sbarco degli Alleati grazie all’aiuto della mafia siculo-americana, come nella migliore tradizione delle false notizie, nacque a guerra in corso come spiegazione fascista del cedimento dell’esercito davanti alle armate nemiche. Nonostante la schiacciante superiorità anglo-americana, infatti, negli ultimi anni della Seconda guerra mondiale ancora forte restava nel Paese la presunzione d’invincibilità del regime, frutto di tanti anni di martellante propaganda. Di qui l’idea che la sconfitta fosse l’effetto non del crollo del fascismo e dei suoi contrasti con la monarchia, ma del tradimento di generali, ammiragli, funzionari, oltre che di quel male oscuro dell’isola contro cui il regime si era battuto: la mafia.

Il mito, però, cominciò a delinearsi compiutamente nel 1958, quando Michele Pantaleone, esponente socialista di punta di Villalba, pubblicò sul quotidiano palermitano L’Ora una biografia di don Calò, Calogero Vizzini. Il contributo di Pantaleone s’inseriva in una più vasta campagna antimafia ideata dal direttore, il giornalista calabrese Vittorio Nisticò. Quest’ultimo dirigeva la testata dal 1954, cioè da quando l’editore era diventato il Partito comunista italiano (Pci). Il suo mandato era quello di allargare un’opinione di sinistra che a Palermo, come nelle altre città isolane, era molto ristretta. Perciò portò il giornale su una linea fortemente regionalista, atta a promuovere larghe intese in nome dell’autonomia siciliana, ad avversare le industrie settentrionali e la rivale Democrazia cristiana.

Don Calò, Calogero Vizzini

Nisticò fece però di più: rinnovò il nucleo redazionale attingendo al capitale sociale delle lotte contadine post-belliche: si trattava di quadri di partito, sindacalisti e intellettuali di sinistra accomunati dal fatto di essere passati dagli alvei conservatori delle loro famiglie al fuoco delle mobilitazioni social-comuniste.

Medesima estrazione aveva Pantaleone, rampollo di una famiglia di notabili villalbesi da sempre avversa a quella di don Calò Vizzini. Nel 1944 era al fianco del segretario regionale del Pci Girolamo Li Causi quando il boss ordinò di sparare verso il comizio social-comunista. Fu eletto poi deputato regionale per il Psi. Questi suoi trascorsi indussero Nisticò a reclutarlo nel gruppo di cronisti incaricati di seguire le inchieste sulla mafia, coordinati da un giornalista di cui parleremo ancora, Felice Chilanti.

Pantaleone si concentrò appunto su Vizzini e Villalba, anticipando i temi di Mafia e politica, in un suo saggio sulle origini di Cosa nostra diventato, negli anni, un best-seller. Pantaleone fece di Vizzini il super-capo della mafia e di Villalba la sua capitale mondiale. Scrisse della scalata del boss nel settore dei latifondi e delle zolfare, delle sue parentele con alti prelati, quindi del suo contributo allo sbarco. Raccontò poi di come gli americani lo avessero eletto sindaco del paese, della sua militanza separatista che durò «finché gli convenne: poi, quando il movimento fu liquidato passò alla Democrazia cristiana e – sempre a modo suo – vi rimase finché visse».

Vizzini in realtà aveva aderito al Partito popolare e, sotto il regime, a un effimero Partito agrario. In seguito, si era fatto separatista mantenendo però una relazione con la Dc, segretario della quale era, a Villalba, suo nipote. Passò quindi alla Democrazia cristiana. La sua carriera politica segue uno schema ricorrente: il passaggio dei capi-mafia dal separatismo alla Dc. È la sopravvivenza del vecchio mondo delle classi dominanti (e dei loro codazzi mafiosi) in quello nuovo della politica e dei partiti di massa. Difficile, insomma, trovare miglior modo d’inchiodare i democristiani alle proprie responsabilità. Il discorso, peraltro, esasperò la crisi politica in corso alla Regione favorendo l’ascesa di Silvio Milazzo, notabile Dc di Caltagirone (in provincia di Catania), alla presidenza col sostegno di monarchici, missini, cattolici dissidenti e (dall’esterno) social-comunisti, e l’estromissione della Dc dal governo.

Com’è noto, le fortune del mito e di Pantaleone decollarono col suo Mafia e politica, libro edito (grazie all’aiuto di Carlo Levi) nel 1962 da Einaudi, più volte tradotto e ristampato, che diede al problema-mafia rilievo nazionale, sia pure sovrastimando il peso e di Vizzini e di Villalba nella vicenda mafiosa.
Pantaleone fu percepito sempre di più come l’«esperto» di mafia per eccellenza. Se non che, il suo racconto molto inclinava alla mitologia, e non solo in relazione allo sbarco.

Prendiamo l’immagine di Vizzini come capo-mafia tradizionale (e tradizionalista): essa strideva col suo profilo di imprenditore zolfifero, già esponente di un cartello internazionale dell’acido solforico, e col suo reiterato utilizzo delle cooperative contadine – elemento per eccellenza «moderno» dalla prospettiva di sinistra – nel proprio interesse. Negli anni caldi del Dopoguerra era stato sì un personaggio importante, al confine tra mafia, affari e mondo politico, tra separatismo e Democrazia cristiana; non era stato però il capo della mafia. In effetti, testimonianze successive di pentiti ne hanno molto ridimensionato il ruolo nelle gerarchie mafiose.

La versione di Nick Gentile

Non passò molto perché nella redazione de L’Ora prendesse forma una versione sullo sbarco antitetica a quella di Pantaleone. Fu il risultato delle indagini di Felice Chilanti, grande cronista investigativo, già coordinatore dell’inchiesta del 1958. Originario di Ceneselli (in provincia di Rovigo), il giovane Chilanti si era distinto nella stampa di regime come fascista radicale e antisemita. Successivamente si era fatto prima cospiratore (tramando contro Galeazzo Ciano, il genero del Duce), finendo in carcere e al confino, poi antifascista militando in un gruppo partigiano irregolare, Bandiera Rossa. Dopo la guerra, infine, si era avvicinato al Pci concorrendo alla fondazione del quotidiano Paese Sera e specializzandosi nel giornalismo d’inchiesta.

Nel 1963 il vecchio mafioso italo-americano Nick Gentile propose a Chilanti un grande scoop: raccontare la propria vita. Le dichiarazioni del boss furono pubblicate su L’Ora e Paese Sera in novembre, per andare a formare in seguito un volume rimasto prezioso, Vita di Capomafia (Editori Riuniti). Veramente Gentile aveva già steso un testo autobiografico nel corso di una collaborazione confidenziale con agenti del Narcotic Bureau, che avevano intercettato una sua lettera a un altro mafioso americano. Quel testo passò a Chilanti, il quale lo pubblicò com’era aggiungendovi un’introduzione e alcuni brani dell’intervista uscita su L’Ora. Diversi altri, compreso quello sull’aiuto della mafia allo sbarco, restarono però fuori dal libro.

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La prima autobiografia di un mafioso

di Lorenzo Bagnoli

Agrigentino di Siculiana, Nicola Gentile – noto come zu Cola oppure Nick – ha vissuto gli anni del proibizionismo ed è stato uno stretto collaboratore di Lucky Luciano nei primi anni Trenta, quando oltreoceano si combatteva la “guerra castellamarese” (1930-31) tra boss originari di Castellammare del Golfo. Nel 1937, a seguito di un rilascio su cauzione, è fuggito in Sicilia, dove ha stretto nuovi rapporti con mafiosi come Calogero Vizzini. Dagli archivi desecretati dell’FBI in merito all’inchiesta sull’omicidio di John Fitzgerald Kennedy, si scopre che l’ambasciata americana di Roma nel 1963 stava cercando di sapere se ci fossero nuove rivelazioni del boss negli articoli de L’Ora. Si legge anche che Aristide Manopulo, della polizia di Roma, stava cercando di localizzare dove si trovasse il boss, senza però riuscirci. John Dickie, nel libro Cosa Nostra, racconta che quando Gentile si confessò «viveva una vita da pensionato» a Roma, che cercava di giustificare la sua esperienza all’interno dell’organizzazione criminale.

Gentile è stato il primo “uomo d’onore” a raccontarsi in un’autobiografia, a ottant’anni. Al netto di errori di prospettiva, in particolare rispetto agli equilibri di potere criminale tra Palermo e l’agrigentino, è stato uno spaccato importante per comprendere alcune dinamiche di cosa nostra. Già nel 1949, racconta Dickie, aveva passato un intero pomeriggio a parlare con un «duttureddu». Leggenda vuole – mai dimostrata indipendentemente – che si trattasse di Andrea Camilleri, il futuro inventore del commissario Montalbano.

Il racconto di Gentile uscì appena prima che il super-pentito Joe Valachi testimoniasse davanti alla Commissione McClellan. «La più straordinaria avventura della nostra vita di giornalista»: così Chilanti avrebbe definito i suoi colloqui col boss.

Gentile dichiarò di appartenere a un’organizzazione criminale a base etnica, siculo o italo-americana, nota come «onorata società», articolata in Famiglie o borgate e a livello elementare in «decine», dotata di una struttura di coordinamento chiamata Commissione. Raccontò di essersi mosso sempre tra i due versanti dell’Atlantico, collegandosi volta a volta a gruppi di consociati, connazionali, compaesani, tra New York, Pittsburgh, Kansas City, Philadelphia, New Orleans, Palermo, Raffadali (Agrigento).

Tra l’altro, l’intervista avrebbe inaugurato un genere di grande fortuna: quello della «vita di mafia», del racconto «dall’interno» in forma di libro. Va detto che l’esame critico a cui Chilanti sottopose le parole di Gentile restarono un unicum in questo campo. Al cronista premeva capire perché il capo-mafia decidesse di esporsi in pubblico, rivelando un passato denso di misfatti. Che volesse difendere prima di tutto sé stesso?

«Forse vuole ottenere anche questo – scrisse Chilanti – ma fin dal primo colloquio, durato alcune ore, ho ricavato la sensazione che Nicola Gentile fosse mosso da ragioni più complesse: un miscuglio di astuzie, secondi, terzi fini, non disgiunti dallo stato fondamentale della sua esistenza: la vecchiaia coi suoi ripensamenti e bilanci, e principalmente con la sua solitudine».

Ne venne fuori un confronto serrato del cronista con l’ideologia mafiosa. «Era molto difficile capirsi, Gentile e io. Gentile chiamava “giustizia” atti che per me erano delitti, chiamava “onore” proprio quel modo di comportarsi che per un normale cittadino è il malaffare, la malavita».

Chiese il cronista: «Nelle sue memorie lei parla di “amicizia”; erano amici o avevano paura?». «Conoscevano la mia forza, sapevano», rispose il boss. «Ma allora la famosa amicizia degli amici non conta niente?», ribatté Chilanti. «Conta la forza», fu la risposta lapidaria di Gentile.

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I misteri intorno alla scomparsa di Mauro De Mauro

Battitore libero, geloso di fonti e del suo metodo d’inchiesta, il giornalista de L’Ora non è mai stato ritrovato. La campagna contro L’Ora e le piste che portano ai suoi nemici

Ma torniamo allo sbarco. A un certo punto, Chilanti chiese al vecchio boss se fosse vero che Luciano, Vizzini e un altro capo-mafia di rango come Vito Genovese avessero svolto funzioni di agenti segreti per conto dei servizi di sicurezza della Marina americana. «Non è vero niente. Questa è una favola inventata di sana pianta e che ha avuto fortuna per diverse ragioni – fu la risposta di Gentile -. I comandi alleati disponevano di ben altri servizi di informazione, e la favola di questi gangster e capimafia diventati improvvisamente combattenti al servizio della Marina americana o della democrazia venne convalidata, tacitamente anche da chi svolse effettivamente quelle attività, ma preferì attribuirne il merito a “mafiosi” ed ex-gangster. E naturalmente certi capi-mafia si presero ben volentieri quei meriti, pensando di ricavarci qualcosa di buono. Posso senz’altro affermare che la storiella del carro armato americano che giunge a Villalba con un drappo inviato da Lucky Luciano al capomafia Calogero Vizzini è una fantasiosa invenzione».

Ciò che resta del mito

In realtà Gentile non escluse che ufficiali americani si fossero collegati a mafiosi più o meno illustri, dopo lo sbarco. Quei contatti, tenne però a specificare, non servirono tanto alla guerra quanto a «certi traffici, certi commerci, certi affari che potremmo definire di sottogoverno militare alleato. E niente altro». Chilanti, particolarmente prudente verso le parole del boss, in questo caso si disse d’accordo, presentando la gestione degli affari illeciti come l’effettivo «servizio reso dai capimafia tornati in patria ai funzionari americani». «Siamo lieti – aggiunse – che questa faticosa inchiesta ci abbia dato anche la possibilità di smentire nettamente e con una testimonianza non contestabile, la brutta storia della partecipazione degli ex-gangster e dei capimafia alla guerra in Sicilia, al servizio degli alleati».

Naturale che l’intervista provocasse la reazione di Pantaleone, che scrisse una lettera di protesta al direttore de L’Ora, Nisticò, presto pubblicata. In quell’occasione l’autore di Mafia e politica scoprì le sue fonti: oltreoceano, gli accenni della Commissione d’inchiesta del Senato degli Stati Uniti del 1950 presieduta da Estes Kefauver alla trattativa con Luciano (che però riguardano i sabotaggi nel porto di New York, non lo sbarco) e, sul versante siciliano, la testimonianza dei Carabinieri locali e di alcune famiglie di sfollati.

Questa la replica di Chilanti: «I famosi accordi segreti […] in base ai quali il gangster [Luciano] avrebbe diretto misteriose operazioni spionistiche in Sicilia stando in prigione (c’è rimasto fino al Dopoguerra) sanno molto di fiaba». Certo, Gentile non era il Vangelo, lasciò intendere, eppure la storia del grande complotto non lo convinceva. Se il boss, aggiunse, «mi avesse raccontato che Vizzini e Genco Russo (un altro mafioso di Cosa nostra originario del nisseno, ndr) o lui stesso avevano diretto le operazioni degli anglo-americani in Sicilia, predisponendo gli sbarchi e guidando le truppe dall’uno all’altro capo del vallone, lungo le trazzere, alla liberazione delle città, non gli avrei dato credito». Molto più probabile, oltre che congeniale al profilo dei mafiosi, che il tutto riguardasse la borsa nera più che la collaborazione allo sforzo bellico. Pungente la nota conclusiva: «Del resto Pantaleone sa che mi sono sempre occupato, di preferenza, di mafiosi viventi. Sono più scomodi di quelli morti, ma più interessanti».

Insomma, la versione di Pantaleone restava sproporzionata (e tale resta quella dei suoi epigoni), ancorché mossa da intenzioni lodevoli. Si fondava, certo, su un nucleo di verità, visto che gli alleati e la mafia si incontrarono veramente dopo lo sbarco. Il punto era (ed è) un altro: che in qualunque sede, e a maggior ragione in quella giornalistica e storica, non si può affermare alcunché prescindendo dalle prove; e nessuna evidenza attesta il grande complotto. Molti documenti, invece, compresi quelli desecretati dell’Oss (Office of strategic services, il servizio segreto del tempo di guerra), testimoniano che non vi furono accordi segreti tra la mafia e l’intelligence americana, che le autorità di occupazione misero a segno anche operazioni repressive. Non per questo però – ne siamo certi – il mito cesserà di avere fortuna.

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Ciro Dovizio

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Lorenzo Bagnoli

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IrpiMedia

Messina Denaro, il “capo” che capo non è

27 Gennaio 2023 | di Lorenzo Bodrero, Simone Olivelli

L’arresto di Matteo Messina Denaro avvenuto il 16 gennaio 2023, dopo trent’anni di latitanza, ha generato più interrogativi che risposte. Queste ultime si spera arriveranno con il prosieguo delle indagini che si concentrano ora sui luoghi in cui l’ex primula rossa si nascondeva e sulle persone che per tre decenni gli hanno consentito di trasformarsi in un fantasma. Ma le domande abbondano, incentrate sia sui segreti di un passato che solo lui e pochissimi altri detengono sia sul futuro di Cosa nostra. La prima da porsi, non in ordine di importanza ma piuttosto in risposta all’esibizione di emotività che ha attraversato tutti i media all’indomani del suo arresto, è quanto Messina Denaro contasse davvero all’interno del sistema mafioso siciliano fino al giorno prima della cattura.

Il quesito è d’obbligo dal momento che sui principali giornali italiani a fianco del nome dell’ormai ex superlatitante sono comparse definizioni quali «capo di Cosa nostra», «l’ultimo padrino», «capo dei capi». Etichette che strizzano l’occhio alla narrazione da fiction ma che rischiano di falsare sia l’analisi di ciò che ha rappresentato negli anni il boss sia lo stato di salute dell’odierna mafia siciliana.

Un capo che capo non è?

«Messina Denaro non è stato super capo di niente». Le parole sono di Salvatore Lupo, studioso di mafia di lunga data e professore di Storia contemporanea all’Università di Palermo. «La definizione può anche essere stata usata dagli inquirenti qualche volta – aggiunge – ma loro stessi sanno che Cosa nostra ha sempre avuto il suo epicentro nel Palermitano e ciò esclude che un boss trapanese possa ricoprire questo ruolo». Essere stato delfino prima e successore poi di Totò Riina non hanno significato per Messina Denaro ereditarne automaticamente il ruolo. E ciò non perché il boss di Castelvetrano non abbia dato prova di carisma e intelligenza criminale, anzi, ma perché, dopo le stragi dei primi anni Novanta e la successiva repressione delle forze dell’ordine, la struttura verticistica di Cosa nostra, che aveva nella commissione interprovinciale il proprio apice, ha subito un pesante colpo. Tra arresti e necessità per l’associazione di inabissarsi, non c’era più alcun trono su cui sedere.

Nonostante ciò, sarebbe altrettanto errato non riconoscere il peso avuto da Messina Denaro all’interno di Cosa nostra. Infatti, se per un trapanese, secondo le regole e le tradizioni mafiose, sarebbe stato difficile riuscire a presiedere la Cupola, resta indubbio che lui – figlio di un boss e cresciuto alla “scuola” di Riina – abbia rappresentato l’elite mafiosa.

«Messina Denaro incarna la figura del mafioso corleonese ma al contempo è stato anche in grado di trasformare quell’ortodossia portandola verso nuove prospettive», commenta a IrpiMedia Nino Di Matteo, già magistrato a Palermo e prossimo al rientro nella Direzione nazionale antimafia, dopo l’esperienza al Consiglio superiore della magistratura. Tra gli elementi che dimostrano come Messina Denaro sia stato capace di ammodernare Cosa nostra, per Di Matteo sono da segnalare «la scelta di differenziare gli investimenti anche al di fuori della Sicilia, per riciclare il denaro, e l’utilizzo di strumenti tecnologici nelle comunicazioni». Un modus operandi ben diverso dai boss – Riina su tutti – che ha accompagnato la crescita di Messina Denaro all’interno di Cosa nostra.

Ricostruire la biografia di Messina Denaro, risalire all’origine della sua latitanza, significa immergersi nell’Italia delle bombe. Quelle del ‘92, che uccisero in Sicilia i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e quelle dell’estate ‘93 nel Centro e Nord Italia, quando Messina Denaro e i fratelli Graviano, con Riina da qualche mese in carcere, decisero – insieme probabilmente a soggetti esterni a Cosa nostra – di esportare la violenza al di là dello Stretto. È in quelle settimane che Messina Denaro, letteralmente, sparisce. Gli ultimi 30 anni, una latitanza lunga e trascorsa con la consapevolezza di essere già stato condannato all’ergastolo, non hanno fatto altro che mitizzare quel personaggio che con grande abilità lui stesso ha plasmato.

«L’arresto di Messina Denaro non rappresenta di certo la decapitazione di una cupola ma implica indubbiamente una modifica degli assetti di Cosa nostra», spiega a IrpiMedia Sebastiano Ardita, anche lui membro uscente del Consiglio superiore della magistratura e prossimo al ritorno alla Direzione distrettuale antimafia di Catania. Le cronache dell’arresto e la scoperta delle complicate condizioni di salute di Messina Denaro hanno fatto pensare a una possibile volontà dello stesso boss di mettere fine alla propria latitanza. «Così fosse significherebbe che lo stesso Messina Denaro potrebbe avere già previsto la necessità di un riassestamento dell’organizzazione, che adesso sarà chiamata a gestire ciò che lui gestiva dall’esterno (in quanto latitante, nda)». Insomma, una certa riorganizzazione delle gerarchie dovrà per forza avvenire.

Le incognite sulla collaborazione di Matteo Messina Denaro

Ma al di là del suo effettivo status dentro Cosa Nostra, la domanda che più preme dopo l’arresto di Messina Denaro è una: parlerà? Il boss, che ha sfidato lo Stato dimostrando però anche di saperci trattare, è custode di una memoria criminale che, per molti, potrebbe intrecciarsi con importanti passaggi della recente storia d’Italia. Pensare a una possibile collaborazione con la giustizia di Messina Denaro significa valutare di poter fare luce sull’esistenza di mandanti esterni alla mafia delle stragi del 1992 e 1993, ma anche su chi abbia reso possibile i suoi 30 anni di latitanza, e magari anche arrivare all’archivio di Totò Riina.

È ancora presto per dire se Messina Denaro deciderà di compiere questo passo. Farlo potrebbe consentirgli di evitare i rigori del carcere duro ma sono tanti anche i motivi che portano a pensare che il boss possa scegliere di trincerarsi dietro un rigoroso silenzio.

Il pm Nino Di Matteo durante un’udienza sulla trattativa Stato-mafia nel luglio 2014 – Foto: NurPhoto/Getty

«Guardando al passato sappiamo che gli uomini appartenenti alla stirpe di sangue di Cosa nostra normalmente non si sono mai pentiti», spiega il pm Ardita. «Pensiamo a Totò Riina, Leoluca Bagarella, Nitto Santapaola, o Giuseppe Madonia… sono figure – continua il magistrato – che hanno mantenuto nella condizione di detenuti di lungo corso la stessa linea, addirittura fino alla morte per alcuni di essi».

Di previsioni non ne fa neanche Di Matteo. Il magistrato palermitano aggiunge che la decisione è «sempre connessa a scelte di carattere personale, oserei dire intime», delle quali al momento non possiamo avere contezza. Messina Denaro ha pur sempre una reputazione da mafioso doc da difendere. E quindi «chissà se il boss non smentisca se stesso rinnegando tutta la sua esistenza e vuotando il sacco», ha auspicato il giornalista Attilio Bolzoni su Domani. Esistono infatti esempi di segno opposto: Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi e, più recentemente, Nino Giuffré e altri hanno saltato il fosso pur avendo ricoperto ruoli apicali in Cosa nostra.

Ma supponiamo per un attimo che l’ex primula rossa collabori. Se già questa è un’ipotesi tutt’altro che scontata, altrettanto incerta è la totale disponibilità delle istituzioni a perseguire, fino in fondo, eventuali piste offerte da Messina Denaro.

«Mi auguro che lo Stato in tutte le sue articolazioni – è l’auspicio del magistrato Nino Di Matteo – dimostri di volere la collaborazione ed eventualmente di saperla gestire con professionalità e coraggio, senza alcun timore di affrontare argomenti che potrebbero essere particolarmente delicati».

Il riferimento non è solo alla trattativa che Cosa nostra – di cui Messina Denaro era già un solido rappresentante mentre lo scettro era in mano a Riina – intavolò con taluni rappresentanti delle istituzioni (pur non costituendo reato, secondo la Corte di assise d’appello di Palermo) ma anche alla prolungata latitanza di u siccu, irrealizzabile senza l’ausilio di personaggi che vanno oltre la cerchia di fiancheggiatori dell’ex boss.

Ancora Di Matteo: «È chiaro dalle cronache di questi giorni che l’interessato è stato certamente protetto ad alto livello nella sua latitanza». E dunque chi dovrebbe temere la sua collaborazione? «Coloro che hanno interesse ad archiviare definitivamente la stagione stragista e a collegare quel periodo esclusivamente alle responsabilità dei mafiosi», aggiunge il magistrato. «Potrebbero essere in tanti – conclude Di Matteo – a temere una piena e completa collaborazione di Messina Denaro». Per ottenere la quale qualcuno sospetta ci sia in ballo un accordo con le istituzioni.

Il prezzo della collaborazione: fantasia o realtà?

In un’intervista rilasciata a Massimo Giletti nel novembre 2022, Salvatore Baiardo, l’uomo che agevolò la latitanza dei fratelli Graviano e che per questo è stato condannato per favoreggiamento, preannunciava la cattura di Messina Denaro. Baiardo, in quell’occasione, accennava alle gravi condizioni di salute del boss, ipotizzando che una possibile cattura sarebbe stata il frutto di un accordo con le istituzioni per l’abrogazione dell’ergastolo ostativo. Quelle dichiarazioni tornano prepotentemente attuali alla luce dell’arresto dell’ex boss.

Ergastolo ostativo e 41-bis: le differenze

Sono due espressioni divenute centrali nel dibattito sulla giustizia in Italia e che spesso vengono confuse l’una con l’altra. Entrambe fanno riferimento a due distinti articoli dell’Ordinamento penitenziario.

L’ergastolo ostativo è regolamentato all’articolo 4-bis dell’Ordinamento. Consiste in un regime che esclude l’applicabilità di alcuni benefici (lavoro all’esterno, permessi premio, misure alternative alla detenzione) ai condannati per reati particolarmente gravi, quali terrorismo, eversione, mafia. Reati che “ostano” all’accesso dei benefici. Questi sono applicabili solo a patto che il detenuto collabori con la giustizia. Le critiche a questo regime ruotano intorno al fatto che rimuove per il detenuto la funzione “rieducativa” e il “reinserimento”, creando una discriminazione tra chi vi è sottoposto e il resto dei detenuti. Nel 2021 la Corte costituzionale ha giudicato l’ergastolo ostativo contrario ai principi costituzionali, secondo i quali le pene «devono tendere alla rieducazione del condannato». La riforma è arrivata a fine 2022 e prevede la possibilità di accesso ai benefici, a patto che vengano rispettati alcuni requisiti, tra cui l’ottenimento del parere favorevole da parte del pubblico ministero.

Con 41-bis si fa invece riferimento all’articolo dell’Ordinamento penitenziario che tratta il carcere duro. Introdotto dopo la strage di Capaci, prevede forti restrizioni per il detenuto, con l’obiettivo di impedire che mantenga i contatti con l’associazione criminale di cui ricopre un ruolo di vertice. Viene applicato ai condannati per gli stessi reati del 4-bis anche se i dati dicono che al carcere duro sono sottoposti prevalentemente detenuti condannati per mafia, a prescindere dalla durata della pena comminata. Prevede lo sconto della pena presso istituti appositi oppure in sezioni separate all’interno di un carcere.

«Le informazioni date da Baiardo si sono rivelate precise e puntualmente si verificano», riflette Sebastiano Ardita. «Significa che la persona (Baiardo, ndr) che le ha riferite era informata in modo diretto, oppure da qualcuno che sapeva ciò che sarebbe successo». La domanda da porsi è perché Baiardo abbia rilasciato queste dichiarazioni. Ardita si sofferma sul fatto che in genere «si è portati a credere a coloro che riferiscono un fatto che poi si realizza, anche quando riferiscono qualcosa che deve ancora accadere». Elementi, dunque, che possono portare ad accreditare un soggetto di affidabilità ad ampio raggio. Con i rischi che ne possono conseguire: non è infatti detto che l’anticipazione dell’arresto fatta da Baiardo significhi che tutto ciò che dica quest’ultimo sul tema sia fondato.

È la stessa cautela utilizzata dagli inquirenti per valutare l’attendibilità dei collaboratori di giustizia, uno dei pilastri nel contrasto alle organizzazioni mafiose: ogni dichiarazione va verificata.

Oltre alla capacità predittiva, ciò che ha colpito di più nelle parole di Baiardo è stato il riferimento a una possibile contropartita nella presunta resa di Messina Denaro. Cosi fosse significherebbe che anche in questi mesi esiste una trattativa tra Cosa nostra e pezzi dello Stato. Secondo Baiardo la moneta di scambio starebbe nell’abrogazione dell’ergastolo ostativo. L’ipotesi, però, non convince il magistrato Ardita.

«Dire pubblicamente e far sapere che da una certa azione – cioè la consegna o la cattura di un latitante – possa derivare una scelta politica di attenuazione del 41-bis o dell’ergastolo ostativo significa mettere in allarme il quadro istituzionale e politico e di fatto impedire che questo avvenga». Stando così le cose è difficile dire perché e per conto di chi Baiardo abbia parlato. «Ci deve essere dunque una ragione che sfugge, un pezzo del ragionamento che riguarda fatti o circostanze che, al momento, non possiamo comprendere».

Dubbi che forse solo l’ex boss può fugare, l’uomo che ha sventrato autostrade e ucciso bambini e che in uno dei suoi covi teneva il poster di Marlon Brando nei panni di Vito Corleone, lui sì «capo dei capi» di un mondo immaginario.

Foto di copertina: Giornali in edicola all’indomani dell’arresto di Matteo Messina Denaro – Donato Fasano/Getty
Editing: Giulio Rubino

Mafiosi in trasferta: gli anni del soggiorno obbligato in Emilia-Romagna

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Mafiosi in trasferta: gli anni del soggiorno obbligato in Emilia-Romagna

Sofia Nardacchione

Èla sera del 13 aprile del 1978. Filippo Melodia esce dalla sua casa, a Modena, dopo essere stato avvisato che un maresciallo di pubblica sicurezza vuole parlare con lui. Appena varca la soglia di casa viene colpito da un pallettone sparato da un fucile a canne mozze: Melodia, trentotto anni, si accascia e viene freddato da altri colpi. Il nome della vittima dell’agguato è conosciuto: forse non a Modena, sicuramente ad Alcamo, in Sicilia, dove è nato. E dove è salito agli onori delle cronache per un fatto che rimarrà nella storia: Filippo Melodia è l’uomo che – nel 1965, dopo che la ragazza aveva sciolto il fidanzamento – ha rapito Franca Viola, l’ha tenuta segregata per otto giorni, l’ha stuprata, contando poi sul matrimonio riparatore.

Un matrimonio che non arriverà mai: Franca Viola è infatti la prima donna a rifiutare le nozze con il suo stupratore. Melodia va quindi in carcere e, nel frattempo, cresce di rango: fa parte di cosa nostra e diventa il nuovo capomafia della Sicilia Occidentale, si macchia di vari reati tra cui sequestri di persona e scompare dalle cronache. Per poi ricomparire con la sua morte, centinaia di chilometri più lontano dalla Sicilia, ma non per scelta: Filippo Melodia era a Modena in soggiorno obbligato, come altre centinaia di persone negli anni Settanta.

L’Unità del 14 aprile 1978: la notizia dell’assassinio di Filippo Madonia

L’epoca del soggiorno obbligato

Il soggiorno obbligato è una misura cautelare di epoca fascista reintrodotta nel 1956 nei confronti di chi è ritenuto pericoloso per la pubblica sicurezza e, dal 1965, contro gli indiziati di associazione mafiosa. Una misura che nelle intenzioni del legislatore sarebbe servita ad allontanare i mafiosi dal loro territorio di origine, per spezzare i legami criminali che avevano creato. Così non è stato, perché, semplicemente, i legami si sono ricreati nei territori di arrivo dei soggiornanti obbligati: un caso emblematico è quello di Antonio Dragone, boss di ‘ndrangheta che da Cutro si trasferisce in provincia di Reggio Emilia all’inizio degli anni Ottanta, facendo così nascere una delle proiezioni extra-regionali della ‘ndrangheta, che più di trent’anni dopo, finirà al centro del maxiprocesso Aemilia.

Ma, già negli anni Settanta, i casi sono tanti: nella sola Emilia-Romagna ci sono le famiglie mafiose dei Commendatore, dei Riina, dei Leggio, oltre a una serie di personaggi che gravitano intorno ai nuclei mafiosi. All’apparenza si occupano tutti di attività legali: chi fabbrica e commercia materassi, chi commercia in vino, chi, ancora, piastrelle. Ma quello che emerge dai documenti desecrati nel giugno 2020 dagli atti di indagine sul caso Sindona è ben altro: un vero e proprio intreccio di storie mafiose, molte delle quali dai contorni ancora poco chiari, come l’omicidio di Filippo Melodia.

Tra materassi e sequestri di persona

Anni Sessanta. I fratelli Carmelo e Francesco Commendatore si trasferiscono, spediti in soggiorno obbligato, da Catania a Budrio, comune ai confini della città metropolitana di Bologna, nelle terre di pianura che vanno verso Ferrara. Insieme a loro ci sono i cugini Felice e Alfio. La famiglia decide di entrare nel business di materassi, cuscini e carta igienica, tra fabbricazione e vendita ambulante. Dopo qualche anno decidono di dividersi. Carmelo e Francesco Commendatore nel 1971 costituiscono una fabbrica di cuscini e materassi di gommapiuma a Budrio: il nome è “Centroflex”. I cugini Felice e Alfio, invece, costituiscono altre ditte operanti negli stessi mercati tra Forlì, Budrio e Bologna.

Le attività della Centroflex vengono però fermate poco dopo: Francesco e Carmelo Commendatore vengono arrestati nel 1979. I fratelli sono ritenuti responsabili di un sequestro di persona, avvenuto proprio in Emilia-Romagna: quello di Angelo Fava, un industriale di Cento, comune tra Ferrara e Bologna, sequestrato il 4 febbraio del 1979 dai catanesi Angelo Pavone, che poi verrà assassinato, e Santo Mazzei, appartenente – scrive la Criminalpol – «alla pericolosissima famiglia di altissimo livello delinquenziale dei “carcagnusi”», collegati entrambi ai Commendatore. Anche perché il furgone sul quale Fava è stato portato a Catania è della ditta Commendatore, così come il capannone di Budrio dove è stato tenuto il sequestrato la mattina del rapimento.

Il business dei materassi finisce così, almeno per Carmelo Commendatore, che viene condannato a tredici anni di carcere per il sequestro. Francesco viene invece assolto, ma le inchieste sui Commendatore continuano: nello stesso anno i due vengono denunciati dalla Questura di Bologna per associazione a delinquere di stampo mafioso, insieme ad altre 80 persone.

I carcagnusi

Negli anni Settanta a Catania si forma un gruppo criminale, nato con lo scopo di contrastare il potere del boss di Cosa Nostra Nitto Santapaola e della sua famiglia: la nuova organizzazione si chiama “clan dei Cursoti”. Tra i mafiosi che ne fanno parte c’è Santo Mazzei, detto “U Carcagnusu”, diventato uomo d’onore di Cosa Nostra per volere di Leoluca Bagarella. All’inizio degli anni Ottanta, dopo l’omicidio del boss Corrado Manfredi, alla guida dei Cursoti, e la conseguente nascita di tensioni dovute alla scelta del nuovo capomafia, il clan si sgretola e si formano così tre gruppi: i “Cursoti catanesi”, i “Milanesi” e i “Carcagnusi”, con a capo Santo Mazzei. I “Carcagnusi”, oggi come allora, si muovono tra Catania e il Nord Italia, ma gli interessi di Mazzei e dei suoi sodali si erano già allora spostati anche sull’Emilia-Romagna, dove viveva il fratello Francesco, in soggiorno obbligato tra Casalfiumanese, provincia di Bologna, e Carpi, provincia di Modena.

Ma il commercio dei materassi non si è mai fermato, arriva fino ad oggi: dalla tradizione di famiglia è nata la Eminflex, una delle più grandi aziende di materassi in tutta Italia, con sede sempre a Budrio ma con punti vendita in tutto il Paese. Il collegamento è trasparente: «La storia di Eminflex – si legge sul sito – inizia nel 1973 a Budrio di Bologna per merito della famiglia Commendatore che decide di intraprendere una nuova attività entrando nel mercato dei rivenditori di materassi» . Un’azienda che, vent’anni dopo, nel 1993, farà un salto grazie alla televendita sulle reti del gruppo Finivest di Silvio Berlusconi, continuando l’ascesa fino ad oggi.

Da Corleone all’Emilia-Romagna

Quella dei Commendatore non è l’unica famiglia legata all’ambiente criminale a Budrio: nel comune vive anche Giacomo Riina. Corleonese, classe 1908, Giacomo Riina è lo zio di Salvatore Riina, detto Totò. E non è a Budrio per caso: si è trasferito nel 1969, dopo anni di presenza sul territorio della famiglia dei Commendatore ma anche di un’altra famiglia, quella di Luciano Leggio, meglio conosciuto come “Liggio”, la primula rossa di Corleone. Cosa hanno in comune? Appartengono alle cosche mafiose più attive, dice la Criminalpol nei documenti desecretati, «fra quelle che in questi ultimi anni (quindi prima del 1979, ndr) si sono dedicate a molti sequestri di persona». Ma i collegamenti sono molti di più. Giacomo Riina così come Luciano Leggio vengono arrestati nel 1964 per la prima guerra di mafia – combattuta all’inizio degli anni Sessanta a Palermo con più di cento omicidi – e processati prima nel capoluogo siciliano e poi a Bari: vengono assolti nel 1969, quando vengono tutti mandati in soggiorno obbligato. Riina, appunto, a Budrio.

Qui viene considerato il “cervello” delle attività dei Commendatore: sovrintende le società dei fratelli che, scrive sempre la Criminalpol, «non prendono mai iniziative senza il suo consenso». I rapporti tra le famiglie mafiose emergono chiaramente qualche anno dopo il suo arrivo: la casa dello zio del più famoso boss viene perquisita alla ricerca dei catturandi Salvatore Riina e Salvatore Bagarella, ritenuti allora responsabili dell’omicidio del colonello dei carabinieri Giuseppe Russo, ucciso a Ficuzza, in provincia di Corleone, nel 1977. Dei ricercati non c’è traccia, ma viene sequestrato vario carteggio, dal quale emergono i collegamenti con noti esponenti della mafia siciliana, tra cui i Leggio.

Luciano Leggio

Nel 1979 gli stessi Paolo Borsellino, allora sostituto procuratore della Repubblica, ed Emanuele Basile, comandante dei carabinieri di Monreale, arrivano a Budrio per portare a Palermo e interrogare Giacomo Riina, che farà poi ritorno nel territorio emiliano-romagnolo dove ormai porta avanti le sue attività. Non solo con i Commendatore, ma anche con la famiglia dei Leggio con cui non c’è solo una storia criminale comune e un legame familiare (è sposato con Maria Concetta Leggio): Riina gestisce anche l’azienda agricola di famiglia tra i confini di Budrio e Medicina, nel bolognese, nata dopo l’arrivo dei Leggio in Emilia-Romagna e, in particolare, a Castel San Pietro Terme, tra Bologna e la Romagna. Un’azienda che negli anni Settanta valeva tra i 600 e i 700 milioni di lire.

Una geografia mafiosa

Intorno a Giacomo Riina gravitano una serie di personaggi legati ai clan mafiosi: c’è il noto contrabbandiere di sigarette Gerardo Cuomo, campano che si è trasferito a Bologna, dove nel 1992 gli verranno confiscati diversi beni. C’è Francesco Scaglione, in soggiorno obbligato a Massa Lombarda, «capace di commettere qualsiasi reato» – come si legge negli appunti dell’allora questore di Bologna Italo Ferrante – e arrestato nel 1978 perché indiziato di associazione a delinquere e gestore di case da gioco. E ancora, Francesco Minarda, che arriva a Bologna nel 1978 con la scusa di dover effettuare delle cure di fisioterapia all’ospedale Rizzoli di Bologna, ma poi allontanato perché chiaramente il suo scopo era quello di mantenere contatti con clan mafiosi.

C’è Francesco Scordato, che vive a Formigine, in provincia di Modena. Scordato è proprietario di una società di trasporti con cui tiene collegamenti con il mercato ortofrutticolo di Bologna e il palermitano, e lavora anche nel commercio di piastrelle insieme a Tommaso Scaduto, mandato in soggiorno obbligato dall’Asinara a Castel Maggiore, appena fuori Bologna, sulla strada che porta a Ferrara: se Scordato, dice la Criminalpol, è un «ottimo luogotenente», Scaduto è un vero e proprio boss, «anche se dietro quest’ultimi – scrive ancora il questore Ferrante – si intravede la figura di Badalamenti Gaetano». Badalamenti, il boss di Cinisi che verrà condannato nel 1987 negli Stati Uniti a 45 anni di reclusione per un traffico di droga dal valore di 1,65 miliardi di dollari, ma anche all’ergastolo per aver ordinato l’omicidio di Giuseppe Impastato. E che prima di essere condannato vive per due anni in Emilia-Romagna: a Sassuolo, provincia di Modena, dal 1974 al 1976.

È intorno a questi personaggi che ruotano omicidi e sequestri di persona, ma anche business che arricchiscono le casse delle famiglie mafiose: la base operativa è l’Emilia-Romagna, ma i collegamenti sono nazionali e internazionali. C’è, ad esempio, il contrabbando di tabacco lavorato, che porta alcuni boss, tra i quali Tommaso Scaduto, a gravitare vicino alla riviera romagnola, dove attraccano mezzi carichi di sigarette provenienti dalla Jugoslavia. C’è una rete di trasporti utilizzata per attività lecite e illecite: a comporla sono i camion delle società di materassi dei Commendatore e la “Linea S” di Sassuolo, la società di Scaduto, per il recapito di piastrelle.

Entrambe vengono utilizzate per i sequestri di persona. Non solo quello dell’imprenditore Angelo Fava, ma anche un altro: quello di Armando Montanari. Anche lui industriale, viene rapito a Guastalla, in provincia di Reggio Emilia, da Tommaso Scaduto e dal suo clan che gravita tra Modena e Monreale, provincia di Palermo: è uno degli stessi automezzi della “Linea S” che viene utilizzato per trasportare il riscatto pagato per la liberazione di Montanari. E poi ci sono gli omicidi, quello di Filippo Melodia e quello di Baldassarre Garda: in soggiorno obbligato a Castel Maggiore, è il figlio di Giuseppe, vecchio boss della mafia di Monreale, Palermo. Una mafia figlia del boss e medico Michele Navarra, che rinnega quella di nuovo corso, guidata da Luciano Leggio e dagli uomini a lui vicini. Baldassarre Garda viene ucciso il 19 febbraio del 1978 a Santa Maria Codifiume, piccola frazione di Argenta che affaccia sul fiume Reno.

Filippo Melodia

A ucciderlo a colpi di pistola sono dei killer, nella casa colonica della sua azienda agricola. Sul fatto che sia un delitto di mafia gli investigatori sembrano non avere dubbi, i motivi invece sono meno chiari: probabilmente l’omicidio di Baldassarre Garda è legato a contrasti familiari di ordine ereditario, forse legati al sequestro del nipote Francesco Madonia, che nel 1974 era stato rapito e rilasciato dopo sette mesi in cambio di un riscatto di un miliardo di lire. I contorni però non sono definiti: «Non si può escludere – si legge nei documenti della Criminalpol – che il sequestro Madonia sia stato commissionato da Baldassare allo stesso Scaduto e che il Baldassare poi insoddisfatto della somma percepita abbia minacciato lo Scaduto di vendetta».

Ma la violenza non si ferma: nello stesso periodo Salvatore Truglio, siciliano residente a Baricella, provincia di Bologna, finisce sotto un trattore guidato da Vincenzo Maenza, unico testimone ed ex dipendente di Giuseppe Garda. Una morte che viene catalogata come decesso per infortunio sul lavoro e mai più indagata.

Così, tra materassi, cuscini e piastrelle, negli anni Settanta gli equilibri mafiosi si giocano anche in Emilia-Romagna. Sulla lunga scia di sangue della prima guerra di mafia palermitana, gli interessi criminali arrivano tra Bologna, Modena, Ferrara e la Romagna, ma il laccio che lega i soggiornanti obbligati alla terra d’origine non viene allentato: è in Sicilia che vengono portate le vittime dei sequestri di persona, nell’isola arrivano i soldi dei riscatti. Ed è dalla Sicilia che viene fatto arrivare pesce fresco di qualità, come facevano il boss Gaetano Badalamenti prima e Tommaso Scaduto poi, grazie alle conoscenze negli aeroporti di Palermo e Bologna.

CREDITI

Autori

Sofia Nardacchione

Illustrazioni

Editing

Luca Rinaldi

Da Delianuova a Hamilton, Canada: la parabola della “mafia italiana”

Da Delianuova a Hamilton, Canada: la parabola della “mafia italiana”

Alessandro Boldrini

Il viaggio in auto da Buffalo ad Hamilton dura poco più di un’ora. Si attraversano due Paesi e si passa per uno degli scenari naturalistici più famosi al mondo, le cascate del Niagara. Nel mezzo una differenza abissale, da tutti i punti di vista: ambientale, culturale, di tradizioni. Ma anche, e soprattutto, di milieu criminale. Lì lo chiamano l’«underworld», il mondo di sotto. La traduzione italiana più appropriata è «malavita». Perché la mafia in quell’area del Nordamerica è quanto di più liquido possa esistere. Il confine è talmente labile che perfino la storica divisione fra cosa nostra siciliana e la ’ndrangheta calabrese a volte viene meno, specie se di mezzo ci sono gli affari. Inquirenti e investigatori faticano infatti, a volte, a inquadrare il fenomeno nel giusto perimetro.

L’ultima relazione semestrale della Direzione investigativa antimafia (Dia), riferita al periodo luglio-dicembre 2020, ad esempio, nel descrivere la situazione canadese cita uno dei numerosi episodi della lunga epidemia di violenza che negli ultimi anni ha imperversato nella regione dell’Ontario. Si tratta dell’omicidio di Pasquale Musitano, detto «Fat Pat», rimasto vittima di un agguato appena sceso dal suo fuoristrada blindato nel parcheggio di un centro commerciale a Burlington, centro di oltre duecentomila abitanti sulla sponda Ovest del lago Ontario.

La relazione della Dia

di Giacomo Pirrone

È stata pubblicata lo scorso 22 settembre la relazione del Ministero dell’Interno al Parlamento sulle attività della Direzione investigativa antimafia per il secondo semestre del 2020. Il periodo preso in esame è quindi quello immediatamente successivo al primo e più esteso lockdown per contrastare gli effetti della pandemia da Covid-19. Una fase caratterizzata da un contesto di crisi economica generalizzata, particolarmente grave soprattutto per il settore terziario, colpito da lunghe chiusure e riaperture a intermittenza.

In questo contesto, riporta la Dia, le varie organizzazioni criminali di stampo mafioso hanno confermato una tendenza alla sommersione che si osserva da anni: un ricorso sempre meno frequente alla violenza, sostituito da strategie più subdole che puntano all’infiltrazione nel tessuto socio-economico dei territori di appartenenza e alla creazione di un welfare parallelo a quello statale che approfitta delle situazioni di crisi economica. Inoltre, i gruppi criminali dimostrano una grande velocità e flessibilità nel cambiare le proprie strategie per adattarle alle nuove tendenze sociali e tecnologiche; lo dimostrano l’uso sempre più frequente di criptovalute per le proprie transazioni e la diversificazione dei propri affari per approfittare dei finanziamenti pubblici stanziati per l’emergenza.

La ‘ndrangheta calabrese, scrivono gli uomini della Dia, mostra una forte vocazione imprenditoriale, che si avvale dei fondi ricavati dal narcotraffico – in primis cocaina – e dell’aiuto di una cosiddetta “area grigia” di professionisti, imprenditori e amministratori corrotti che collaborano con le cosche senza farne parte attivamente. Gli affari delle ‘ndrine si spingono su tutto il territorio nazionale, in particolare in Emilia-Romagna, Liguria e Lombardia. Pur conservando una struttura unitaria e molto organizzata, la mafia calabrese sembra meno impermeabile che in passato con diversi casi di collaboratori di giustizia. In Sicilia, cosa nostra conserva il proprio ruolo preminente nella regione convivendo e talvolta collaborando con la Stidda, associazione di gruppi organizzati orizzontalmente presente soprattutto nell’area centro-orientale. Anche qui si cerca di infiltrarsi nei settori più coinvolti dai contributi pubblici, come quello delle energie rinnovabili. C’è inoltre un interesse crescente verso il gioco d’azzardo, usato come mezzo di riciclaggio.

Anche i clan della Camorra mostrano una spiccata attitudine all’imprenditorialità, con casi di coincidenza tra leadership criminale e management imprenditoriale. Questi gruppi sono molto eterogenei fra loro per strutture e modalità operative; questa eterogeneità porta a una forte flessibilità e capacità rigenerativa, ma causa anche rapporti instabili tra i clan che alternano periodi di conflittualità e alleanza in funzione degli interessi del momento. Anche la Puglia conferma tendenze già viste in precedenza: in particolare, la mafia pugliese è quella più incline a conflittualità interne. Ciò – chiude il rapporto della Dia – sarebbe causato dal perdurare delle condizioni detentive di molti leader storici e dal conseguente tentativo delle nuove leve di scalare le gerarchie. Particolarmente rilevante è il contesto foggiano, dove le consorterie mostrano una grande duttilità nei contesti economico-finanziari. Sul territorio nazionale sono inoltre presenti gruppi criminali etnici, eterogenei per origini e interessi. Se al centro-nord questi gruppi riescono a costruirsi una propria autonomia e talvolta un’egemonia in settori specifici, nelle regioni meridionali agiscono con l’assenso delle mafie locali, quando non direttamente in subordine.

Il 52enne, scrive la Dia, è «un soggetto ritenuto esponente di spicco di una famiglia di ’ndrangheta originaria di Delianuova e trapiantata in Canada». Eppure gli studi e le inchieste sembrano suggerire tutt’altro. Tanto che la dottoressa Anna Sergi, criminologa dell’Università dell’Essex, nel commentare il paragrafo dedicato all’omicidio di Fat Pat ha segnalato l’«errore nell’ultima relazione della Direzione Investigativa Antimafia», dove «si indica la famiglia (Musitano, ndr) come clan di ’ndrangheta. Questi errori confondono ancora di più il panorama confuso della mobilità mafiosa». Sergi fa infatti riferimento all’estrema mobilità dei clan della zona, in particolare della città di Hamilton, dove tutti confluiscono sotto il generico cappello della «mafia italiana».

Lo sbarco in «Canadà»

Un milieu criminale dove regna l’ibridismo, tanto che i confini tra ’ndrangheta e cosa nostra sembrano quasi fondersi fra loro. Ne è un esempio la storia del clan Musitano, che – insieme ad altre due famiglie calabresi, i Papalia e i Luppino-Violi – per decenni ha dominato su un’area della quarta città più popolosa di tutto l’Ontario. Per comandare a lungo, però, bisogna scendere a compromessi. Che in alcuni casi significa perfino mettere da parte le proprie «ingombranti» origini e schierarsi al fianco di chi di volta in volta ha il potere in mano. La presenza dei Musitano ad Hamilton è documentata fin dagli anni Trenta. Il capostipite del casato è Angelo Musitano, «la bestia di Delianuova», che nel 1938 fugge dalla provincia di Reggio Calabria alla volta di quel Paese lontano che i giornali dell’epoca chiamano ancora «Canadà».

L’evento scatenante è l’omicidio della sorella Rosa, commesso un anno prima: Musitano, appena uscito dal carcere, scopre che la donna – da poco vedova – è rimasta incinta di un altro uomo. Una macchia per l’onore della famiglia che va ripulita con il sangue. Musitano uccide infatti la sorella e poi trascina il cadavere per le vie del paese fino alla casa dell’amante. Ancora in attesa di processo l’uomo fa perdere le proprie tracce e ripara ad Hamilton. Qui vive per quasi trent’anni sotto falso nome, Jim D’Augustino, e per sopravvivere si dedica ai mestieri più disparati: sarto, meccanico, imbianchino.

Nel 1940 Musitano viene condannato in contumacia a 30 anni di carcere e iniziano così le ricerche anche in campo internazionale. La svolta arriva soltanto nel 1963, quando anche l’Interpol si mette sulle sue tracce dopo aver ricevuto una segnalazione e una vecchia fotografia di trent’anni prima. Sarà proprio quello scatto in bianco e nero e dai contorni ingialliti a farlo finire in trappola. Il 3 marzo 1965, infatti, gli agenti che da mesi lo stavano pedinando riescono ad arrestarlo. Al momento dell’arresto Musitano non nega le accuse, ma stenta a riconoscersi nella foto che gli investigatori gli mostrano. Per lui arriva quindi il momento del ritorno in patria con l’estradizione.

La dinastia criminale

Ormai, però, la stirpe criminale ha già messo radici. Nei ventisette anni di vita trascorsi ad Hamilton, Musitano riesce a metter su famiglia e dà una mano a crescere i figli del fratello. A portare avanti la dinastia ci pensano infatti i nipoti, Anthony e Dominic Musitano. È grazie a loro che a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta il nome dei Musitano si fa largo nel panorama criminale canadese assumendo un ruolo di primo piano, sapendo al contempo esercitare quel «fascino» mafioso che ha sempre tanto appeal sui giovani. Tony è uno di quei personaggi che fa parlare di sé con estrema facilità: a colpire è soprattutto il suo senso dello humor nero come la pece, capace di spezzare le smorfie del viso a metà tra un sorriso e un velo di timore.

La dinastia dei Musitano

Nel gennaio del 1983 viene condannato a 15 anni di carcere per una serie di attentati esplosivi contro alcune attività commerciali per la gestione del racket ad Hamilton, che in quel periodo viene ribattezzata “Bomb City”.

Mentre è in carcere pianifica – insieme al fratello Dominic e altri – l’omicidio di Domenic Racco, uno dei boss più in vista del Siderno Group, avamposto ’ndranghetista attivo nella GTA, la Great Toronto Area. In ballo ci sono gli affari con il traffico di droga e un debito da circa mezzo milione non onorato da Racco. Tanto basta per attirarlo in una trappola e farlo fuori, senza paura di mettersi contro altri compari calabresi.

Con Tony dietro le sbarre, il ruolo di comando spetta a Dominic, che indirizza il business di famiglia verso il gioco d’azzardo illegale. Nel 1992, un rapporto del dipartimento di polizia di Hamilton-Wentworth stima che i guadagni dei Musitano si aggirino attorno ai 14 milioni di dollari all’anno. Dominic Musitano fa del carisma la sua arma vincente e contribuisce a costruire un immaginario. Così le cronache raccontano delle oltre mille persone che il giorno del suo funerale popolavano le strade di Hamilton per seguire la veglia funebre.

Dominic muore per un arresto cardiaco all’età di 56 anni, mentre Tony morirà molti anni più tardi, nell’aprile 2019, dopo aver trascorso l’ultimo periodo della sua vita da boss in pensione.

Il Siderno Group

Per Siderno Group, o Crimine di Siderno, s’intende il gruppo di famiglie calabresi affiliate alla ’ndrangheta presente nella GTA, la Great Toronto Area, in Canada. Insieme alle camere di controllo della Lombardia, della Liguria e ai tre mandamenti calabresi (Ionica, Tirrenica e Città), rappresenta la sovrastruttura che coordina le attività delle ’ndrine canadesi e risponde direttamente al Crimine reggino. Il nome del Siderno Group si deve a un’intuizione investigativa degli inquirenti italiani, i quali – nell’omonima operazione del 1992 – hanno ricostruito le attività di una serie di famiglie trapiantate da decenni in Canada ma originarie di Siderno e di città della Locride come Gioiosa Ionica e Marina di Gioiosa Ionica.

I clan attivi nella regione canadese dell’Ontario, secondo gli esperti, non hanno di fatto mai reciso i legami con la «madre patria» calabrese e, come rivelano le inchieste giudiziarie, sono impegnati principalmente in attività illecite come il narcotraffico e il riciclaggio di denaro sporco. La ’ndrina di riferimento all’interno del Siderno Group è quella dei Commisso, detti «quagghia», che già negli anni ’80 gestivano alcune fra le principali rotte del traffico di eroina prima, e di cocaina poi, sull’asse New York-Toronto-Calabria.

Le redini passano così in mano ai figli di Dominic, Angelo «Ang» e Pasquale, detto «Fat Pat». Gli ordini partono da Pat, il fratello maggiore, colui che meglio incarna l’immagine del gangster lasciata dal padre. A dimostrazione della liquidità mafiosa della famiglia Musitano troviamo due episodi specifici. Il primo, nel 1997, l’omicidio di uno dei boss più importanti dell’epoca: Johnny «Pops» Papalia, fatto fuori insieme al suo braccio destro Carmine Barillaro proprio su ordine dei Musitano. A dispetto dalle sue origini calabresi (di Delianuova) Papalia – dopo la collaborazione con il contrabbandiere platiese Rocco Perri – si afferma a partire dagli anni Cinquanta come esponente di spicco del braccio canadese della famiglia di Buffalo, guidata da Stefano Maggadino.

I Musitano hanno un debito con Papalia di 250 mila dollari per un giro di scommesse in cui sono coinvolti. E decidono che piuttosto che estinguere il debito è meglio risolvere il problema alla radice, eliminando Pops e preparandosi ad affrontare una faida da cui difficilmente potranno uscire vincitori. Ma i Musitano ci riescono, grazie a uno strano gioco di alleanze che li porta a cercare e trovare la sponda delle principali famiglie di cosa nostra a Montréal, i Cuntrera Caruana e i potentissimi Rizzuto. L’appiattimento dei calabresi sui siciliani è ormai definitivo. Nel 2000, incastrati dal killer da loro stessi ingaggiato, i fratelli Musitano patteggiano 10 anni per l’omicidio Barillaro e in cambio vengono fatte cadere le accuse per altri due casi, compreso quello di Papalia.

La scia di sangue

L’omicidio di Johnny Papalia segna però uno spartiacque nella storia criminale di Hamilton, della quale non mancano strascichi ancora oggi. Come raccontano alcune fonti qualificate, capita infatti che durante gli intervalli a scuola tra i ragazzini emerga quella vecchia storiaccia della guerra fra i Musitano e i Papalia e, anche se le parentele con i protagonisti degli eventi siano distanti anni luce, le discussioni finiscano in rissa. Oppure succede che, per «sbeffeggiare» i rivali, su alcuni canali YouTube vengano caricati dei gameplay di un popolare videogioco, Grand Theft Auto, in cui si simulano spedizioni punitive e agguati mortali ai danni di esponenti della famiglia Musitano.

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Il messaggio è inequivocabile: «Questa è la fine che meritate». Negli ambienti giudiziari canadesi si vocifera anche che lo spettro della vendetta per l’omicidio Papalia aleggi sui più recenti fatti di cronaca che hanno riguardato (e di fatto sterminato) la famiglia Musitano. Il 2 maggio 2017 viene ammazzato sul vialetto di casa Ang Musitano, 39 anni. Due componenti del commando di fuoco – Michael Graham Cudmore e Daniele Ranieri – sono stati ritrovati morti nel deserto del Messico. E le autorità sospettano che sempre in Messico trascorra la sua latitanza l’ultimo dei sospettati, Daniel Mario Tomassetti, a cui dà la caccia anche l’Interpol.

Poco più di tre anni dopo, il 10 luglio 2020, come ricorda la Dia, tocca invece a Fat Pat. Scrupoloso in ogni azione, viaggia sempre a bordo del suo suv blindato. Non è mai solo, ma i killer riescono a freddarlo in uno dei rarissimi momenti in cui abbassa la guardia. L’omicidio di Pasquale Musitano ha un’eco che arriva perfino oltreoceano, soprattutto per la caratura del personaggio. «Era Tony Soprano prima ancora che Tony Soprano fosse in televisione», dirà un ex sergente della polizia di Hamilton commentando la morte del gangster-boss amante dei cappotti di pelle e degli occhiali scuri. Per il suo omicidio i sospettati sono cinque, tutti apparentemente lontani dall’«underworld».

Quasi certamente, però, l’inchiesta della polizia canadese non porterà mai alla scoperta dei mandanti né del movente: a gestirla è infatti la squadra omicidi, che punta ad assicurare quanto prima i killer alla giustizia, mentre gli investigatori specializzati in criminalità organizzata premono affinché si allarghi il raggio d’azione proprio come avviene nelle più complesse indagini italiane. Ma il caso non è di loro competenza.

Tra le voci che girano c’è quella di un coinvolgimento di una famiglia emergente, gli Iavarone, forse stanchi della vita da «portaborse» dei Musitano e capaci di sfruttare a proprio vantaggio il momento di massimo declino degli storici alleati. Una sorta di gioco al massacro tra clan fragili dove chi la spunta ne esce moribondo. Negli ambienti della malavita e tra i ben informati si dice che prima di vestire il doppiopetto per buttarsi nel business, gli Iavarone stiano aspettando l’uscita dal carcere di Domenico «Dom» Violi, reggente dell’ultimo dei tre storici gruppi rimasto ad Hamilton, il clan calabrese Luppino-Violi, nonché sospettato di essere il primo canadese con la dote di «underboss» per conto di una famiglia di cosa nostra americana, i Todaro di Buffalo. Ma questa è tutta un’altra storia.

CREDITI

Autori

Alessandro Boldrini

Infografiche & Mappe

Lorenzo Bodrero

Editing

Luca Rinaldi

Foto

Una veduta di Hamilton, Ontario – Harold Stiver/Shutterstock