Battitore libero, geloso di fonti e del suo metodo d’inchiesta, il giornalista de L’Ora non è mai stato ritrovato. La campagna contro L’Ora e le piste che portano ai suoi nemici
Confessioni di un medico mafioso, storia del memoriale Allegra
#ArchiviCriminali
Ciro Dovizio
Prima che Tommaso Buscetta e Joe Valachi rivelassero, rispettivamente a Giovanni Falcone (1984) e alla Commissione senatoriale degli Stati Uniti sul gangsterismo italo-americana presieduta da John McLellan (1963), i segreti di cosa nostra siciliana e cosa nostra americana, il quotidiano palermitano di sinistra L’Ora aveva già pubblicato una clamorosa testimonianza “dall’interno”, che attestava la straordinaria continuità nel tempo del fenomeno mafioso e dei suoi caratteri costitutivi: struttura, segretezza, ideologia, relazioni politiche, proiezioni internazionali.
Si tratta della confessione del medico di Castelvetrano (Trapani) Melchiorre Allegra, datata 1937, che il cronista de L’Ora Mauro De Mauro, grazie a una fonte, rinvenne e riportò sul giornale nel gennaio 1962. È stata la più importante fonte di storia della mafia mai pubblicata, almeno finché, negli anni Ottanta e Novanta, gli storici non avviarono le prime ricerche archivistiche sull’argomento. Tanto da restare alla base della stessa storiografia sul tema.
L'inchiesta in breve
- Melchiorre Allegra è stato un medico affiliato alla mafia. Durante il fascismo, è stato interrogato da un gruppo interforze negli anni Trenta. Il suo memoriale anticipa le rivelazioni dei più importanti pentiti che verranno.
- A pubblicarne degli estratti è stato L’Ora di Palermo nel 1962, 25 anni dopo che era stato raccolto. Fu il giornalista Mauro De Mauro a pubblicarlo, grazie all’aiuto di un ex maresciallo, Giovanni Lo Bianco. De Mauro aveva un’estrazione politica opposta a quella del gruppo dirigente de L’Ora, ma fu scelto lo stesso dal direttore Vittorio Nisticò.
- Nel memoriale, Allegra descrive le strutture mafiose che descriveranno anche collaboratori come Joe Valachi e Tommaso Buscetta. “Maffia” allora era una parola sconosciuta. Il suo “stato maggiore” si ritrovava a Palermo e ne facevano parte personaggi che torneranno in futuro, come il capomafia di Villbate Calogero Vizzini.
Che la mafia, insomma, fosse un’organizzazione formalizzata si sapeva da prima che il maxiprocesso – tornante fondamentale nella percezione del problema, anche negli studi – lo dimostrasse per via giudiziaria, benché in tanti ne negassero l’esistenza o la derubricassero a residuo di una cultura regionale antistatale.
Colpisce la vicenda di queste carte per quanto dice sia della mafia come costruzione complessa – al confine tra comunicazione sotterranea e comunicazione pubblica – sia dei soggetti che coinvolse: il medico-mafioso Allegra, De Mauro e ovviamente il suo misterioso informatore, che riesumò il documento dagli archivi fascisti, la cui identità sveleremo a suo tempo. Naturalmente, questa storia testimonia anche del grande contributo de L’Ora alla conoscenza del fenomeno mafioso, oltre che di quello di De Mauro, del quale si ricorda sempre il rapimento e l’assassinio nel 1970 a opera della mafia, rimasti peraltro avvolti nel mistero, e quasi mai il profilo di cronista investigativo.
Gli archivi de L’Ora
La serie è curata da Ciro Dovizio, storico dell’Italia contemporanea (mafie e antimafia, politica, giornalismo, cultura) presso l’Università Statale di Milano.
Chi è Mauro De Mauro
Cominciamo quindi da Mauro De Mauro che, tra i redattori de L’Ora, era il meno “in linea” con l’orientamento del giornale. Il gruppo dirigente veniva infatti dalle lotte social-comuniste per la terra del dopoguerra siciliano; De Mauro dalla militanza nei più feroci reparti di Salò (tra cui la X Mas di Junio Valerio Borghese, il corpo militare della Repubblica sociale italiana), tanto che era stato inizialmente incriminato di complicità nella strage delle Fosse ardeatine del 1944 (in cui furono trucidati dagli occupanti tedeschi 335 tra civili e militari), poi assolto dopo la Liberazione.
In Sicilia si era rifugiato nel dopoguerra, collaborando con giornali conservatori (ma anche con L’Ora del socialista Pier Luigi Ingrassia) e legandosi a illustri leader democristiani (Franco Restivo e Nino Gullotti, ad esempio). Secondo il direttore Vittorio Nisticò, che scrisse su di lui una memoria a tre anni dalla scomparsa, furono i fatti del luglio 1960 – crisi del governo Tambroni, repressione poliziesca delle sommosse, quattro morti a Palermo – a convertirlo alla democrazia, alla «nobiltà di una barricata radicalmente diversa da quelle che aveva fino ad allora praticato».
Il governo Tambroni
Fernando Tambroni fu primo ministro tra il 26 marzo e il 27 luglio 1960. La maggioranza del suo governo era formata dalla Democrazia cristiana e dai post-fascisti del Msi, Movimento sociale italiano (insieme ai monarchici). Quest’alleanza provocò un’ondata di manifestazioni, guidate in particolare da gruppi antifascisti. Scioperi generali e cortei ripempirono città in tutta Italia: a Reggio Emilia, Licata (Agrigento), Palermo e Catania rimasero uccisi in tutto una decina di manifestanti. A seguito dei fatti di piazza, si costruì un governo d’emergenza della Dc con l’appoggio esterno di socialisti, liberali e repubblicani. Fu così che fu sfiduciato il governo Tambroni e iniziò il terzo governo di Amintore Fanfani.
Il direttore non aveva badato al suo passato, usando reclutare i cronisti secondo criteri professionali più che politici, e De Mauro aveva già fama di giornalista capace. D’altronde, altri de L’Ora, compreso Nisticò e Felice Chilanti di cui abbiamo scritto nella scorsa puntata, erano stati giovani fascisti. Sicché il direttore lo assunse nel 1959.
De Mauro si occupò di molti temi, specializzandosi però in quello mafioso. Ciò che più gli interessava del fenomeno era la dimensione sotterranea, convinto com’era che nessuna indagine potesse prescindere da rivelazioni “dall’interno”. Perciò ritrasse personaggi più o meno celebri della mafia italo-americana (ad esempio Lucky Luciano e Frank Coppola), valorizzando, per quanto possibile, il loro punto di vista. In questi casi attinse a volumi e cronache dell’epoca, insomma a fonti secondarie.
La “maffia” si ritrova alla Birreria Italia
Niente a che vedere, insomma, con la confessione di Allegra, che De Mauro reperì e pubblicò nel 1962. Nato nel 1881 a Gibellina, in provincia di Trapani, Allegra dirigeva in quanto medico una clinica a Palermo. Nel 1937 venne arrestato e indotto a rilasciare una lunga deposizione agli ufficiali dell’Ispettorato interprovinciale di Ps per la Sicilia, struttura investigativa speciale istituita dal regime nel 1933.
Allegra raccontò di essersi affiliato nel 1916, nel corso della Prima guerra mondiale, quando fu avvicinato da due mafiosi di rango del palermitano: Giulio D’Agati, capomafia di Villabate, e Francesco Motisi, boss del quartiere Pagliarelli. Costoro e altri gli spiegarono di appartenere a «un’associazione molto potente, che comprendeva molta gente di tutte le categorie sociali, non escluse le migliori», i cui adepti si chiamavano tra loro «uomini d’onore». Ragione sociale, per così dire, all’origine della setta sarebbe stato secondo Allegra quella «del rispetto reciproco, della protezione del debole contro il prepotente». L’associazione «era proprio quella che in Sicilia si chiamava “maffia”, da molti conosciuta in maniera, però, assai vaga, perché nessuno, tolti quelli che vi appartenevano, potevano con sicurezza attestarne l’esistenza». Allegra fu messo al corrente delle sue diramazioni in Tunisia, nelle Americhe e in Europa, specialmente a Marsiglia, e della sua articolazione in «famiglie» e «decine», con competenza territoriale su un paese dell’hinterland palermitano o un gruppo di essi.
«A Palermo, però, e credo anche nelle altre città molto popolose, la “famiglia” era l’unione degli affiliati di un rione, in seno al quale si verificava anche la distribuzione in “diecine” – è il racconto di Allegra -.. Dato il titolo di “famiglia” che era attribuito ai vari aggregati, ne derivava quello di “fratelli” attribuito a ciascuno degli affiliati […] Circa le relazioni fra le varie provincie, vigeva la regola della indipendenza di una dall’altra, perché i rapporti venivano mantenuti dai vari “capi di provincia” fra loro, stabilendo così un collegamento sostanziale e non formale che attraverso i capi legava in tutte le provincie i gruppi dell’uno e quelli dell’altro».
Allegra si affiliò sottoponendosi al rito iniziatico nelle sue varie fasi: la puntura del dito, l’immagine sacra cosparsa di sangue e fatta bruciare nelle sue mani, il voto cerimoniale: «Giuro di essere fedele ai miei fratelli, di non tradirli mai, di aiutarli sempre, e se così non fosse, possa io bruciare e disperdermi, come si disperde questa immagine che si consuma in cenere».
Insomma, con buona pace di chi ancora negli anni Sessanta raffigurava la mafia come un costume tipicamente siciliano, un modo di fare e di essere, il documento la dipingeva per quello che era, e cioè una rete di gruppi criminali organizzati con identità, coscienza di sé, regole, gerarchie. Che venisse dall’età fascista non era peraltro un caso, avendo il regime fatto ampio uso (e abuso) dell’accusa di associazione a delinquere, sin dall’operazione condotta tra il 1925 e il 1929 dal “prefetto di ferro” di Palermo mandato dal regime, Cesare Mori.
Molti dati forniti dal medico anticipavano o confermavano quelli ricavabili da confessioni precedenti e successive, siciliane e americane, a riprova della tenuta dell’organizzazione nel tempo, oltre che del suo carattere transatlantico.
Secondo Allegra, lo «stato maggiore» della mafia si sarebbe riunito a Palermo, presso la Birreria Italia, essendo la città rappresentativa «della parte più importante della “mafia”, camuffata sotto le più diverse forme, umili ed elevate».
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Nel documento ricorrevano nomi di personaggi molto noti o che tali sarebbero divenuti in seguito: dal capo-mafia di Villalba Calogero Vizzini a Lucio Tasca, grande proprietario terriero, grande aristocratico palermitano, impegnato secondo Allegra nel riconciliare due fazioni mafiose cittadine contrapposte, dopo che «tre commissioni speciali di maffiosi» giunte dagli Stati Uniti avevano fallito. Il medico disse poi dei tentativi di condizionare le elezioni, ai quali partecipò in prima persona: la mafia si sarebbe divisa «in parti quasi uguali per la lista democratica e per la lista fascista, illudendosi di potersi accattivare» il regime. Soltanto che il progetto non riuscì, avendo i gruppi mafiosi preferito «il principio di venalità», dando quindi «il massimo appoggio a quelli che pagarono profumatamente ed a quelli dei quali potevano trarsi maggiori previsioni di appoggio».
L’archivio dell’Ispettorato interprovinciale di Pubblica sicurezza
In che modo, a distanza di 25 anni, queste carte lasciarono gli archivi polverosi dell’Ispettorato interprovinciale di Pubblica sicurezza – il reparto interforze che, in due riprese, è stato attivo in Sicilia tra il 1933 e il 1949, con tre anni di interruzione tra il 1943 e il 1945 – per arrivare sulla scrivania di De Mauro? È importante chiederselo perché, se esse testimoniano della memoria della mafia, il loro percorso lascia scorgere quella dell’antimafia.
Facciamo un salto all’indietro nel tempo fino al 1933, quando il regime costituì l’Ispettorato interprovinciale di Publica sicurezza per porre un argine alla nuova emergenza mafiosa. Per quanto celebrata dal fascismo, infatti, l’operazione Mori era stata smorzata da pene miti per associazione a delinquere e dall’amnistia del 1932. Il risultato fu che molti mafiosi tornarono a delinquere. Sicché il regime creò l’Ispettorato, ma senza clamori, di modo che l’avvenuta sconfitta della mafia non fosse contraddetta. Questa unità interforze di polizia e carabinieri, che agì come apparato di sicurezza più che come polizia, venne sciolta e ricostituita più volte, fino al 1949, quando venne soppressa. Gli subentrò il Comando forze repressione banditismo, diretto dal generale Ugo Luca, noto per aver posto fine alla latitanza (e alla vita) del bandito Salvatore Giuliano con l’aiuto della mafia.
Ora, il carattere inter-forze dell’Ispettorato fece sì che, all’atto della soppressione, le sue carte finissero in parte negli archivi della polizia, in parte in quelle dei carabinieri, e che alcune andassero semplicemente disperse, compreso il verbale Allegra. Tanto che l’originale è stato ritrovato, un po’ fortunosamente, soltanto una decina di anni fa dallo storico Vittorio Coco.
Giovanni Lo Bianco, l’informatore di De Mauro
Qualcuno, però, all’inizio degli anni Sessanta ricordava del documento e ne passò una copia a De Mauro. Questo qualcuno risponde al nome di Giovanni Lo Bianco, maresciallo dei carabinieri in congedo. Nato a Palermo nel 1908, Lo Bianco aveva diretto molte azioni contro mafia e banditismo, prima al servizio dell’Ispettorato, quindi del suo erede Comando forze repressione banditismo (Cfrb). Ormai in pensione, l’anziano maresciallo intendeva stendere le sue memorie e perciò si rivolse al cronista, incontrandolo più volte nel corso del 1961. Ricaviamo tutto questo da un rapporto riservato di De Mauro a Nisticò, rinvenuto presso l’archivio dell’Istituto Gramsci Siciliano.
«Tra la fine di giugno e la seconda decade di luglio dello scorso anno ho avuto frequenti contatti con il Cavalier Lo Bianco, per raccogliere e stendere le sue “memorie” sulla mafia – scrive De Mauro a Nisticò -. Successivamente, ci siamo incontrati altre volte, dopo ferragosto e fino al 17 settembre, data in cui di fronte al rifiuto di Lo Bianco di lasciarmi in visione per una sera il memoriale Allegra (dal quale si riprometteva di ricavare mezzo milione in aggiunta alle trecentomila lire già ricevute da noi) ebbi una discussione piuttosto vivace. Lo Bianco partì per Roma e da allora ho avuto con lui sporadici contatti».
Eppure, stando a De Mauro, Lo Bianco diceva il vero sul passato, su «quanto cioè è venuto a sua diretta conoscenza durante il servizio prestato nell’Arma dei carabinieri», ma un po’ bluffava, visto che «una delle sue migliori fonti di informazione su avvenimenti accaduti tra il 1953 ed oggi è infatti la collezione delle annate del nostro giornale».
Fatto sta che il maresciallo fornì al cronista informazioni preziose, consegnandogli altre carte e mettendolo in contatto con un vecchio capo-mafia. «Lo Bianco – leggiamo dalla stessa lettera – dopo molte tergiversazioni, mi ha messo in contatto con un capofamiglia che aveva e ha i suoi bravi motivi per essere scontento della mafia. Da lui, durante molti incontri svoltisi prima in riva al mare e poi a casa mia, ho appreso gli elementi relativi alla organizzazione mafiosa di Palermo». Si trattava dell’ex boss del Comune palermitano Bolognetta, Serafino Di Peri, espulso dall’organizzazione in quanto testimone al processo di Viterbo contro la banda di Salvatore Giuliano.
E le memorie di Lo Bianco? D’accordo col maresciallo, De Mauro ne pubblicò una parte, quella che riguardava la lotta contro Giuliano, tenendo segreta l’altra, incentrata sulla mafia. Le cognizioni di Lo Bianco, in effetti, avrebbero contrastato con la tolleranza istituzionale dell’epoca verso la mafia, evidenziando l’inadeguatezza delle agenzie di contrasto e la dimensione politica del problema.
In conclusione, incontrando il vecchio maresciallo, De Mauro ebbe modo di incrociare il meccanismo repressivo statale nei suoi aspetti di continuità (uso di confidenti e informatori, di infiltrati, il ricorso a trattative) traendone preziosi elementi conoscitivi. Più di altri, insomma, mostrò in generale abilità nel muoversi al confine tra mondo «di sotto» e mondo «di sopra», ciò che gli valse molti e clamorosi scoop, ma che anche lo espose a rischi, magari spingendolo a dire – per citare le parole di Sciascia sulla sua scomparsa – «la cosa giusta all’uomo sbagliato e la cosa sbagliata all’uomo giusto».
CREDITI
Autori
Ciro Dovizio
Editing
Lorenzo Bagnoli
Foto di copertina
IrpiMedia