#IoApro, la “disobbedienza” dei ristoratori pilotata dall’estrema destra

19 Gennaio 2021 | di Cecilia Anesi, Gabriele Cruciata

Su Facebook o Telegram, il 15 gennaio era stato annunciato come il giorno in cui «oltre 50mila ristoratori» avrebbero tenuto le serrande alzate, nonostante il coprifuoco: l’inizio di una grande protesta contro le restrizioni anticovid imposte dal governo. Alla fine, i principali quotidiani nazionali e regionali hanno definito la mobilitazione un flop, ovunque.

Il sedicente movimento di «disobbedienza civile», però, prosegue. Si chiama #IoApro e ha fatto proseliti facendo leva su rabbia ed esasperazione dopo il lockdown. Pubblicamente, il movimento si presenta come apartitico, sorto dalla spinta di migliaia di ristoratori in difficoltà. In realtà, il principale testimonial ha appena fondato un partito e gli organizzatori provengono soprattutto dagli ambienti di estrema destra, complottisti, sovranisti, antieuropei e negazionisti rispetto all’esistenza del coronavirus e ai suoi effetti sulla salute.

Umberto Carriera, le ombre intorno al capopopolo

Il capopopolo di #IoApro vive a Pesaro e risponde al nome di Umberto Carriera. Ristoratore di successo, Carriera aveva fatto parlar di sé già lo scorso novembre grazie a due cene fatte nei propri locali con Vittorio Sgarbi. In quell’occasione il critico d’arte e parlamentare aveva elogiato Carriera per la propria attività e visto con apprezzamento un suo eventuale ingresso in politica. E così è successo. A dicembre 2020 Carriera ha fondato un partito, il Movimento Liberale Italiano (Mli), con la piena benedizione di Sgarbi. Per quanto il fronte del movimento #IoApro si mostri unito nella protesta, la scelta di fondare un partito ha già provocato forti divisioni.

Trentaduenne di San Severo (Foggia) ma residente da anni nel pesarese, Carriera dichiara di possedere sei ristoranti nella provincia di Pesaro-Urbino. Dai suoi social invita altri ristoratori e gestori di bar e attività di ristoro ad aprire le serrande nonostante i Dpcm.

Nonostante il ruolo nel movimento, lo stesso Carriera ha tenuto chiuso il ristorante simbolo della protesta, “La Macelleria”. Prima ha sostenuto che il motivo fossero delle minacce subite da lui e dalla famiglia, salvo poi spiegare che in realtà fosse tutta una tattica per depistare i controlli di polizia e tenere aperto un altro dei suoi locali.

Lunedì mattina Carriera pubblica la copia di una denuncia che ha depositato in Questura, per le minacce ricevute e contro una pagina Facebook che sostiene che Carriera si sia minacciato da solo. Piovono commenti di supporto al Masaniello di Pesaro, tra cui quella sgrammaticata del suo socio nel ristorante: «E quando visi tutte quelle lacrime, avrei pianto anche io». Insomma, Carriera in questi giorni ha cercato di guadagnarsi il consenso in ogni modo.

Il video filmato il 15 gennaio da degli aderenti alla protesta #IoApro presso il ristorante “Dal Gale” a Perugia e pubblicato nel gruppo Telegram “Io Apro Umbria” e “Io Apro” nazionale.

Il ristoratore leader di #IoApro è ormai un personaggio pubblico e si fa intervistare spesso. Le sue dichiarazioni, però, non sempre corrispondono al vero. Dice di essere stato nominato da Forbes nella “pre-lista” dei 150 imprenditori Under 30 più brillanti d’Italia. Questa “pre-lista” però non esiste. Alcuni media hanno riportato invece che sarebbe stato inserito nella lista dei 150 imprenditori under 30 più promettenti sempre secondo Forbes, ma anche questa informazione è scorretta.

Il caporedattore della rivista, Daniel Settembre, ha contattato Carriera già a gennaio 2019 per intimargli di non intestarsi titoli che non ha: «Gli ho detto di togliere immediatamente qualsiasi riferimento a Forbes». Non l’ha fatto, nemmeno oggi, quando ormai sono passati due anni. «Ho scoperto che mi ha bloccato dai social e adesso scopro anche che con #IoApro Carriera continua a usare senza diritti il nostro brand», aggiunge.

Sui social Carriera presenta i suoi sei ristoranti – aperti nel giro di cinque anni – come uniti in una holding denominata Carriera’s Group. Non sembra esserci però traccia di un codice di registrazione della società in nessuna camera di commercio, né in Italia, né all’estero. Esistono di certo i ristoranti, che sono aziende piccole (srl semplificate): data la loro categoria non sono nemmeno obbligate a depositare un bilancio. Contattato diverse volte, il ristoratore non ha voluto rispondere alle domande di IrpiMedia.

La galassia dei movimenti intorno a #IoApro

Il principale partito politico che ha sostenuto #IoApro è la Lega di Matteo Salvini. Le pagine social del partito hanno rilanciato un’intervista che Salvini ha fatto al leader dei disobbedienti. Sugli stessi canali la Lega ha rilanciato anche foto di membri del vecchio governo Conte che si sono spesi per #IoApro. Come Armando Siri, ex sottosegretario ai Trasporti della Lega: si è fotografato seduto al ristorante durante il giorno della manifestazione.

Oltre alla Lega, a sostegno di #IoApro si sono schierati diversi movimenti accomunati da posizioni sovraniste, in cui trovano casa persone vicine a leghisti e ai fuoriusciti dal Movimento Cinque Stelle.

C’è ad esempio ItalExit, il partito di Gianluigi Paragone, l’ex direttore de La Padania, il fu organo di partito della Lega entrato in Parlamento con il Movimento Cinque Stelle. Paragone per la cena del 15 gennaio è andato a mangiare alla Filetteria di Sassuolo per supportare la protesta. C’è La Marcia della Liberazione, movimento costituitosi il 20 ottobre 2020 a Roma, in occasione della prima manifestazione contro le restrizioni dovute all’emergenza Covid. Tra gli aderenti, figurano il filosofo Diego Fusaro, fondatore del partito VoxItalia; l’umbro Moreno Pasquinelli, ex Rifondazione Comunista che oggi si definisce «ideologo della Sinistra sovranista» e Mauro Scardovelli, guru new age, giurista e psicoterapeuta, ospite fisso di ByoBlu, il canale fondato dall’ex capo della comunicazione del Movimento Cinque Stelle Claudio Messora. Alla lista degli aderenti vanno aggiunte altre entità ancora più marginali, come “Il Popolo delle Partite Iva”, “Il Popolo del Lavoro”, “Italia Libera”.

Numeri e canali della protesta

Lunedì mattina la pagina Facebook “IoApro1501” ha pubblicato un video di resoconto secondo cui sarebbero 12mila i bar e ristoranti che «hanno ricominciato a lavorare in sicurezza», ovvero aperto in barba ai decreti, dal 15 sera. Tuttavia il 19 gennaio i carabinieri del Comando Provinciale di Milano hanno fatto sapere che in Lombardia – a fronte di un aumento dei controlli in vista di #IoApro – sono stati sanzionati sei titolari di bar e ristoranti per aver tenuto aperto nonostante i Dpcm. Quattro licenze sono state sospese per cinque giorni.

Non c’è modo di verificare se effettivamente il 15 sera e le giornate successive abbiano aperto 12mila tra bar e ristoranti. Ma dai gruppi Telegram si vede che qualche locale fa davvero sedere i propri clienti al tavolo, come dimostrano foto e video condivisi nelle chat. Si vedono persone che pasteggiano e brindano come se nulla fosse, talvolta si urla «alla libertà» o «alla Costituzione» o al coraggio dei ristoratori che hanno tenuto aperto a cena nonostante i divieti. In alcuni casi i video riprendono l’ingresso e le verifiche da parte delle forze dell’ordine, spesso accolte con grida, cori e insulti.

Nei gruppi Telegram volano insulti anche nei confronti dei giornalisti, accusati di essere “prezzolati”, “venduti” o addirittura “braccio armato del potere” e “puttane di Stato” per aver evidenziato le violazioni legate all’iniziativa. Gli utenti applaudono solo i mezzi di cosiddetta controinformazione, come ByoBlu o RadioSavana, i cui articoli vengono condivisi di continuo. Entrambi i siti sono noti per diffondere fake news e teorie del complotto.

La promessa dell’assistenza legale gratuita

Carriera è il volto della protesta, ma fondamentale per convincere i ristoratori a “disubbidire” è la promessa di un sostegno legale gratuito. Nei vari gruppi Telegram a riguardo ci sono riferimenti di vari avvocati presso cui i ristoratori eventualmente multati possono rivolgersi. L’elenco è lungo e diversi di loro hanno negato di aver aderito alla difesa pro bono dei ristoranti rimasti aperti, come lo studio Massafra di Roma e il gruppo Mille Avvocati. «La notizia è falsa», hanno dichiarato quando contattati da IrpiMedia.

Altri difenderanno solo gli iscritti alla loro associazione. È il caso dell’avvocato Maurizio Giordano di Moncalieri (Torino), che dice di agire «come rappresentante Piemonte della Comicost», il Comitato per le libertà costituzionali, un gruppo di cinque avvocati lombardi vicini alla Lega fondato ad inizio pandemia per «vigilare sulla corretta applicazione della Costituzione da parte del Governo Italiano» che in questi mesi è sceso in piazza con i dissidenti contro i lockdown. Promette di fornire «tutta una serie di servizi gratuiti a tutti i suoi iscritti, tra cui la consulenza e la predisposizione dei ricorsi agli eventuali verbali». Giordano ha aggiunto che «l’iscrizione al Comitato costa poche decine di euro e può essere fatta anche successivamente alla multa».

Qualcuno ha invece confermato la disponibilità a difendere gratuitamente i “disobbedienti”. Alessandro Fusillo, avvocato del Movimento Libertario, «movimento culturale, sociale e [anti]politico» che vuole l’abolizione dello Stato e inneggia alla resistenza contro il “coronazismo”. Alla richiesta di IrpiMedia, risponde: «Finché ci bastano le forze, difendiamo e assistiamo tutti», allegando alla comunicazione il vademecum diffuso dal movimento rispetto al comportamento da tenere con le forze dell’ordine che contestano un’infrazione. Si legge che la contestazione di «inosservanza dei provvedimenti dell’autorità» è una «contestazione infondata» perché il Dpcm è «un ordine illegale e in contrasto con la costituzione».

Marco Mori è un altro avvocato disponibile all’assistenza pro bono, ma solo per chi è multato nel foro dove lavora, quello di Genova. È stato candidato con i neofascisti di Casapound alle elezioni comunali del capoluogo ligure nel 2018 e oggi milita in VoxItalia, il partito di Diego Fusaro. Di recente ha depositato una denuncia penale contro il governo. Chiarisce di essere disposto a sostenere gratuitamente solo chi risiede nel suo foro, quello di Genova.

Screenshots dei gruppi Telegram #IoApro scattati durante il monitoraggio svolto da IrpiMedia dal 14 gennaio. Il gruppo nazionale conta ad oggi quasi 15mila iscritti, mentre ci sono 75 sotto-gruppi tra regionali e provinciali. La lista dei gruppi attivi è coordinata dal canale Telegram sovranista @liberaespressione gestito in anonimato.
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Nei gruppi Telegram Mori è un vero idolo. I suoi video di denuncia contro l’operato del governo vengono pubblicati a più riprese da più utenti su gruppi nazionali e locali di #IoApro. Del resto visioni politiche vicino al centrodestra o alla destra più estrema sono largamente presenti all’interno dei gruppi Telegram. Accanto a tricolori e utenti con foto profilo di Mussolini e di braccia tese, alcuni utenti attaccano frontalmente il governo e «i clandestini».

Alcuni di loro scrivono che viviamo in un regime, mentre altri sostengono che è in corso «una dittatura dei traditori». Ci sono poi molti riferimenti alla «dittatura sanitaria», alla «finta pandemia» e ad alcuni contenuti promossi da Matteo Salvini e i gruppi di estrema destra che lo scorso novembre a Roma avevano organizzato una manifestazione violenta contro le misure anti-covid. L’utente “Pol” dice che «le mascherine servono solo a far fare soldi a farmacie e aziende farmaceutiche» mentre un altro utente afferma che «il vaccino ci rende schiavi».

In uno dei gruppi si è arrivati a inventare un articolo della Costituzione: «Il popolo ha il diritto di sovvertire un governo che non è in grado di servire il proprio Sovrano». È l’ordinamento secondo il movimento degli “#ioapristi”.

Editing: Lorenzo Bagnoli | Foto: facebook.com/UmbertoCarrieraBusinessMan
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Vietato chiedere trasparenza nella filiera degli acquisti pubblici

16 Dicembre 2020 | di Laura Carrer*, Matteo Civillini

L’inchiesta è partita da una semplice domanda: l’acquisto di mascherine da parte della nostra pubblica amministrazione ha contribuito ad alimentare lo sfruttamento dei lavoratori uiguri in Cina? Un quesito legittimo nato dalle molteplici testimonianze secondo cui alcuni tra i principali produttori cinesi di dispositivi di protezione individuali utilizzino lavoratori uiguri messi alle loro dipendenze da un controverso programma statale di “rieducazione” coatta. Si inserisce in questo scenario anche la notizia pubblicata alcuni giorni dal Washington Post che, facendo riferimento a un report interno all’azienda Huawei, parla della creazione di un sistema di riconoscimento facciale ad hoc per identificare proprio la minoranza uigura.

Non ci sono dubbi che prodotti macchiati da sospetti di lavoro forzato siano arrivati anche in Europa e in Italia. Come abbiamo raccontato nell’inchiesta pubblicata ieri, 15 dicembre, su IrpiMedia, la più grande catena italiana di farmacie vende ancora oggi le mascherine fabbricate in una di queste aziende. Un guaio – quantomeno di immagine – per una multinazionale che vorrebbe fare della responsabilità sociale il suo fiore all’occhiello.

Ancor più spinoso, però, sarebbe sapere che le nostre casse pubbliche supportano un modello volto a soffocare i diritti e le libertà individuali di decine di migliaia di persone. Seppur questi acquisti siano stati spinti con molta fretta e pochi controlli da una drammatica situazione di emergenza. Ma non è il caso di abbassare la guardia, soprattutto in un momento come questo. La Regione Puglia, per esempio, ha ricevuto lo scorso aprile una partita di 200mila tute mediche che, secondo il Guardian, sono state prodotte da lavoratori nordcoreani sfruttati.

Il diritto di sapere

Un caso isolato o parte di un problema più ampio? Per andare a fondo in una questione di stretto interesse pubblico ci siamo rivolti al governo centrale e alle più grandi regioni dal nord al sud Italia. Lo abbiamo fatto tramite il progetto FOIA4journalists di Transparency Italia, che da giugno 2018 supporta giornalisti e associazioni nella stesura di istanze di accesso agli atti delle Pubbliche Amministrazioni.

Il FOIA (Freedom of Information Act) è un diritto-strumento fondamentale per ottenere documenti ufficiali e di prima mano da parte degli enti centrali o, in questo caso, delle Regioni. Quest’anno è risultato particolarmente decisivo per il tema dell’accesso alle informazioni poiché da una parte la pandemia da covid-19 ha incentivato la richiesta di dati aperti soprattutto in ambito sanitario; dall’altra parte è stato possibile constatare tristemente quanto un’emergenza sanitaria come quella che stiamo vivendo non basti per incentivare la trasparenza e la proattività degli enti che ci amministrano.

Il Freedom of Information Act in Italia

Il Freedom of Information Act (FOIA), diffuso in oltre 100 paesi al mondo, è la normativa che garantisce a chiunque il diritto di accesso alle informazioni detenute dalle pubbliche amministrazioni, salvo i limiti a tutela degli interessi pubblici e privati stabiliti dalla legge.

In Italia tale diritto è previsto dal decreto legislativo n. 97 del 2016 che ha modificato il decreto legislativo n. 33 del 2013 (c.d. decreto trasparenza), introducendo l’accesso civico generalizzato al fine di promuovere la partecipazione dei cittadini all’attività amministrativa e favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche.

L’obiettivo del FOIA è dunque promuovere una maggiore trasparenza nel rapporto tra le istituzioni e la società civile e incoraggiare un dibattito pubblico informato su temi di interesse collettivo. Giornalisti, organizzazioni non governative, imprese, cittadini italiani e stranieri possono richiedere dati e documenti, così da svolgere un ruolo attivo di controllo sulle attività delle pubbliche amministrazioni.

Il passaggio di una delle risposte ricevute da IrpiMedia dopo l’accesso agli atti alle Regioni

Il FOIA serve infatti a questo: richiedere dati, documenti o informazioni che non sono oggetto di pubblicazione obbligatoria nelle sezioni di amministrazione trasparente degli enti locali e centrali, senza obbligo di motivazione. Un diritto che si estende quindi a chiunque voglia controllare l’operato delle amministrazioni e della cosa pubblica richiedendo tutto ciò che è considerato atto pubblico, una mole davvero importante di informazioni che possono contribuire ad una lettura meno opaca delle azioni dei decisori.

Risposte evasive e insufficienti

Le richieste inoltrate vertevano sulla presenza o meno, all’interno degli elenchi dei produttori di dispositivi di protezione individuale (DPI) e mascherine chirurgiche ai quali le varie stazioni appaltanti si sono rivolte dall’inizio dell’emergenza covid-19 fino al 30 ottobre 2020, di alcune aziende cinesi note per utilizzare lavoratori uiguri. Abbiamo anche specificato di voler ottenere le stesse informazioni nel caso in cui produttore e soggetto affidatario fossero differenti, casistica non proprio rara.

Degli 11 soggetti interrogati solo 3 hanno risposto pienamente alle richieste, verificando l’assenza delle aziende segnalate sia tra i loro fornitori diretti che tra i produttori dei dispositivi acquistati. Tra gli altri i riscontri sono stati tra i più disparati. C’è chi non ha neppure risposto, rimpallando la questione tra diversi uffici. C’è chi ha rimandato a una lunga serie di delibere o liste, dove però venivano indicati solo i nomi dei fornitori – per la stragrande maggioranza importatori italiani di prodotti cinesi.

Degli 11 soggetti interrogati solo 3 hanno risposto pienamente alle richieste, verificando l’assenza delle aziende segnalate sia tra i loro fornitori diretti che tra i produttori dei dispositivi acquistati

E c’è chi, infine, ha detto che i dati non erano “immediatamente reperibili”, che l’estrazione degli stessi sarebbe “troppo onerosa” da sostenere durante l’emergenza sanitaria, o che la richiesta era “irragionevole”.

Regioni come Toscana e Veneto, colte dalle nostre istanze, si sono dette impossibilitate a rispondere dettagliatamente e con sicurezza poiché il funzionario incaricato avrebbe dovuto cercare i nominativi delle aziende manualmente all’interno di centinaia di documenti cartacei. Unica concessione la ricerca all’interno di una singola gara. Insufficiente a garantire un livello minimo di trasparenza per la cittadinanza.

Un risultato diametralmente opposto a quello ottenuto dai colleghi stranieri che hanno posto le medesime domande alle rispettive amministrazioni pubbliche. In Svezia, Danimarca, Norvegia ed Estonia – Paesi dove la trasparenza rappresenta un valore cardine – i funzionari pubblici hanno fornito risposte rapide e dettagliate. Se i prodotti incriminati non figuravano lo hanno detto senza giri di parole.

L’inchiesta

Le mascherine prodotte dagli uiguri ai lavori forzati in Cina e vendute in Europa

Trasferiti da Pechino in fabbriche lontano dalla loro regione, gli operai uiguri sono costretti ai lavori forzati. La distribuzione nelle farmacie europee e italiane

15 Dicembre 2020

Quando invece la risposta era affermativa hanno indicato con precisione i quantitativi, i distributori europei che li hanno reperiti in Cina, e infine i luoghi di destinazione finale, come ospedali o case di cura. Dati che hanno restituito una panoramica limpida, permettendo così di ricostruire l’intera filiera. Non per fare una caccia alle streghe, ma per capire le sue implicazioni più profonde e, quando necessario, mettere i soggetti coinvolti di fronte alle proprie responsabilità. E perché no, metterli anche nella condizione di poter verificare gli attori della stessa filiera.

Se la cosiddetta accountability, ovvero la responsabilità da parte dei funzionari pubblici di rendicontare ai cittadini come vengono investite le risorse finanziarie per il bene pubblico, è ormai aspetto cardine all’interno delle decisioni in una lunga lista di paesi nel mondo anche durante la pandemia che ci accomuna senza distinzioni, in Italia così non è: possiamo chiaramente affermare che il suo posto al tavolo dei decisori è ancora vuoto.

*Transparency International Italia | Editing: Luca Rinaldi | Foto: Nirat.pix/Shutterstock

Le mascherine prodotte dagli uiguri ai lavori forzati in Cina e vendute in Europa

#Covid-19

Le mascherine prodotte dagli uiguri ai lavori forzati in Cina e vendute in Europa

Matteo Civillini

C’è anche la più grande catena italiana di farmacie tra i rivenditori di mascherine prodotte in Cina da cittadini uiguri sottoposti a condizioni di lavoro forzato. In Italia, i prodotti sono distribuiti dal gruppo Lloyds Farmacia (marchio di Admenta Italia, divisione italiana del colosso americano della distribuzione farmaceutica McKesson), presente nella penisola con oltre 260 punti vendita, tra cui quelli gestiti da società partecipate di enti pubblici come i Comuni di Milano, Bologna e Bergamo. A scoprirlo è un’inchiesta internazionale – di cui IrpiMedia è partner italiano – che ha ricostruito la presenza in Europa di dispositivi di protezione forniti da aziende cinesi accusate da analisti internazionali di sfruttamento.

Gli uiguri sono una minoranza di religione musulmana ed etnia turcofona che risiede principalmente nella regione autonoma dello Xinjiang, nella Cina occidentale. Da anni il governo cinese sottopone gli uiguri a una sistematica campagna di repressione che prende pieghe particolarmente distopiche: dalla sorveglianza di massa, al controllo delle nascite e alla prigionia in centinaia di centri di detenzione.

Tra le misure più controverse c’è il “trasferimento” di lavoratori uiguri dalla loro terra di origine a fabbriche dislocate nel resto del Paese. Per Pechino questo programma offre alla minoranza musulmana la possibilità di migliorare le proprie condizioni di vita ed emanciparsi da situazioni di povertà. Ma, a detta di gruppi per la difesa dei diritti umani, gli uiguri non hanno reale libertà di scelta e sono costretti ad accettare gli spostamenti nei “campi di lavoro” sotto la minaccia, anche solo implicita, di un ulteriore peggioramento delle proprie condizioni.

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McKesson, multinazionale americana da 200 miliardi di dollari di fatturato all’anno che in Europa è presente in 13 Paesi, dichiara pubblicamente di avere un occhio di riguardo per la responsabilità sociale all’interno della propria filiera. Il codice di condotta di Admenta richiama i propri dipendenti a «prestare particolare attenzione a ciò che è giusto dal punto di vista etico».

Tra le aziende che hanno ricevuto operai uiguri attraverso il programma di trasferimento c’è la Hubei Haixin Protective Products, azienda che si occupa di dispositivi di protezione individuale con sede nella provincia di Hubei. Video della TV di Stato e notizie sul sito del governo provinciale dimostrano che 131 operaie uigure hanno lavorato nella fabbrica fino allo scorso settembre. Il gruppo McKesson è cliente della Hubei Haixin.

I dispositivi di protezione nelle farmacie italiane

In Italia, il gruppo McKesson è attivo dal luglio 1999, quando acquistò dal Comune di Bologna l’80% del pacchetto azionario dell’azienda che gestiva le farmacie comunali. Prima tappa dell’inarrestabile processo di privatizzazione del settore, nel quale Admenta Italia – holding italiana di McKesson – l’ha fatta spesso da padrone, inghiottendo grosse fette di mercato nel centro-nord.

Da Milano a Padova, da Bergamo a Modena, passando per numerosi piccoli paesi. Il modello di gestione è sempre lo stesso: Admenta acquisisce il pacchetto di maggioranza delle partecipate, mentre ai comuni resta in mano una quota di minoranza. Le amministrazioni mantengono un posto in consiglio d’amministrazione e la possibilità di influenzare l’operato delle farmacie comunali.

Oggi il gruppo Admenta gestisce più di 260 punti vendita e, tramite la controllata Farmalvarion, distribuisce prodotti ad oltre 2500 clienti, tra farmacie private, ospedali e case di cura. L’holding italiana ha un fatturato consolidato di oltre 600 milioni di euro.

Alle farmacie fisiche Lloyds affianca un sito di e-commerce, ulteriormente potenziato nel corso della pandemia. A gestire le vendite online è l’Azienda Farmacie Milanesi, la società partecipata dal Comune che riunisce le farmacie comunali di Milano di cui Palazzo Marino detiene il 20% delle quote. Proprio sul sito di Lloyds si trovano ancora oggi in vendita le mascherine chirurgiche di Hubei Haixin.

No comment

IrpiMedia ha chiesto ad Admenta Italia un’intervista, ma l’azienda ha declinato l’offerta. Il Comune di Milano non ha voluto fornire commenti. McKesson Europe, la holding che controlla Admenta Italia, ha dichiarato di impegnarsi «a garantire una buona responsabilità sociale d’impresa e l’approvvigionamento etico».

L’editoriale

Vietato chiedere trasparenza nella filiera degli acquisti pubblici

La Pubblica amministrazione italiana, nonostante la legge e gli strumenti, non è stata in grado di rispondere ai quesiti sulle società che avrebbero sfruttato i lavoratori uiguri in Cina

«I fornitori – conclude l’azienda – devono accettare i nostri principi di sostenibilità della filiera che riguardano il rispetto delle leggi pertinenti, oltre che l’adesione alle nostre rigorose politiche sulla protezione dei lavoratori, la preparazione alle emergenze, l’identificazione e la gestione dei rischi ambientali e la protezione dell’ambiente».

Lavorare alla Hubei Haixin

Decine di milioni di mascherine chirurgiche prodotte da Hubei Haixin sono arrivate in tutta Europa, compresa l’Italia, dove vengono vendute al pubblico da Lloyds Farmacia.

Le mascherine marchiate Hubei Haixin sono rimaste sugli scaffali – virtuali e non – di Lloyds, sebbene la presenza e lo sfruttamento di lavoratori di origine uigura all’interno dell’azienda cinese sia nota da almeno marzo scorso.

Le mascherine chirurgiche prodotte da Hubei Haixin che IrpiMedia ha acquistato sul sito di Lloyds Farmacia
L’antropologo tedesco Adrian Zenz è tra i maggiori studiosi al mondo della questione uigura e delle politiche repressive di Pechino nello Xinjiang. Tanto che è diventato bersaglio delle campagne propagandistiche del governo cinese a causa dei suoi studi sui campi di rieducazione. Secondo Zenz chiunque abbia nella propria filiera aziende che utilizzano il programma cinese di trasferimento dei lavoratori «commette una violazione di qualsiasi codice etico».

#Covid-19

Genesi delle attuali politiche di Pechino nei confronti degli uiguri

Lo Xinjiang, terra stanziale degli uiguri, detiene lo status ufficiale di Regione Autonoma dal 1955. Da allora il governo centrale ha incentivato il trasferimento nella regione dei cittadini han, l’etnia maggioritaria del Paese, attraverso politiche agricole e industriali. In seguito al crollo dell’Unione Sovietica e alla nascita delle vicine repubbliche centro-asiatiche, i sentimenti secessionisti della minoranza uigura si sono riaccesi, dando vita a gruppi indipendentisti. All’indomani degli attacchi dell’11 settembre, Pechino ha designato alcune di queste frange indipendentiste come “terroristi” legati a una vasta rete internazionale di terrorismo islamico.

Ma sono gli eventi del 2009 che hanno segnato lo spartiacque della politica governativa nei confronti degli uiguri. Nel luglio di quell’anno a Ürümqi è scoppiata una sanguinosa rivolta tra uiguri e han che, secondo le autorità, ha provocato 197 morti e 1721 feriti. A innescarla è stato un incidente avvenuto in una fabbrica della regione di Guangdong dove lavoravano alcuni operai uiguri. Erano stati trasferiti proprio in virtù del controverso programma di cui è vittima la minoranza etnica, già attivo all’epoca. Due di essi sono stati linciati da colleghi han dopo che erano circolate accuse di stupro nei loro confronti, rivelatesi poi infondate. A Ürümqi gli uiguri sono scesi in piazza per chiedere un’indagine imparziale sulla duplice uccisione. Inizialmente pacifica, la manifestazione si è trasformata in un violento scontro etnico. Da una parte gli uiguri hanno preso d’assalto le proprietà dei cittadini han, aggredendoli brutalmente. Dall’altra, gruppi di vigilantes di origine han hanno attaccato gli uiguri in rappresaglia.

Come scrive Gabriele Battaglia su Internazionale, quelle violenze, insieme a successivi episodi, hanno fornito al governo di Pechino il pretesto per scatenare la guerra contro i cosiddetti “tre mali”: terrorismo, separatismo ed estremismo religioso. Costruendo, passo dopo passo, quell’apparato di controllo sociale e repressione in vigore ancora oggi.

Al contrario di quanto afferma il governo di Pechino, Zenz sostiene che i trasferimenti degli operai nelle fabbriche non siano “politiche del lavoro” ma violazioni dei diritti umani: «Si passa dal reclutamento e dall’addestramento in ambienti di tipo militare, a programmi di indottrinamento e lavaggio del cervello fortemente coercitivi», dice il ricercatore.

I lavoratori uiguri che vengono spediti in altre zone della Cina finiscono molto spesso «in dormitori dove viene applicata la segregazione, dove sono continuamente monitorati da videocamere e guardie, senza la possibilità di entrare e uscire liberamente», aggiunge Zenz.

Secondo un’indagine dell’Australian Strategic Policy Institute (Aspi), pubblicata nel marzo scorso, sono oltre 80mila gli uiguri che tra il 2017 e il 2019 sono stati costretti ad abbandonare le propria regione per andare in fabbriche che funzionano come campi di lavoro forzato nel resto della Cina. Il report del centro studi australiano è stato il primo a documentare la presenza di lavoratori uiguri nello stabilimento di Hubei Haixin.

Lavoro forzato

Dal 2017 più di un milione di uiguri e appartenenti ad altre minoranze etniche sono stati rinchiusi in campi di prigionia sparsi per lo Xinjiang. Il governo cinese li descrive come “Centri Vocazionali di Istruzione e Formazione” necessari nella lotta all’estremismo religioso. Ma per numerose Ong internazionali e governi occidentali si tratta di campi di concentramento, dove i reclusi vengono privati di qualsiasi libertà.

I racconti di ex detenuti, insieme a un corposo leak di informazioni riservate, hanno permesso di ricostruire il funzionamento dei centri. Al loro interno gli uiguri sono costretti a seguire un rigido programma di indottrinamento, imparare il mandarino e rinunciare ai propri costumi e abitudini religiose. Nei casi più estremi, i reclusi raccontano di aver subito punizioni corporali e torture dopo essersi rifiutati di aderire alla dura disciplina.

Come scrive l’Australian Strategic Policy Institute (Aspi), il programma di “rieducazione” è ora entrato in nuova fase, il cui nucleo centrale è il trasferimento forzato degli uiguri in fabbriche collocate sia nello Xinjiang che nel resto della Cina. In alcuni casi i lavoratori uiguri vengono spostati direttamente dai campi di prigionia verso i luoghi di produzione a loro assegnati.

A detta di Aspi, per gli uiguri è estremamente complicato rifiutare questi incarichi lavorativi, poiché essi sono sempre espressione del più ampio apparato di repressione e indottrinamento politico. «Oltre all’incessante sorveglianza fisica, sulle minoranze che provano a disertare il programma di trasferimento dei lavoratori incombe la minaccia della detenzione arbitraria», scrive Aspi nel suo report.

«La mia pelle è così splendente!»

All’inizio del 2019, 131 donne di origine uigura sono state trasferite nella fabbrica di Songzi, a poco meno di 3mila chilometri di distanza dal confine con lo Xinjiang. Un articolo pubblicato dall’organo di propaganda statale Hubei Daily racconta che, all’interno dello stabilimento, le donne devono partecipare a quotidiane cerimonie dell’alzabandiera, cantare l’inno cinese, seguire lezioni di mandarino e soggiornare in alloggi dedicati.

Un altro resoconto dall’interno di Hubei Haixin riporta la composizione scritta da una lavoratrice uigura durante uno dei corsi serali obbligatori: «L’acqua, il terreno e l’aria sono così puliti qui. In soli tre mesi, sono passata da essere scura e smilza, ad avere la pelle chiara ed essere ben nutrita. La mia pelle è così splendente!»

Lavoratrici uigure all’interno dello stabilimento di Hubei Haixini – Foto: weibo.com

Racconti come questo non convincono gli osservatori internazionali. Secondo Penelope Kyritsis, direttrice del Worker Rights Consortium, organizzazione internazionale per la difesa dei diritti dei lavoratori, è semplicemente impossibile essere certi che l’utilizzo di lavoratrici uigure da parte di Hubei Haixin non comporti aspetti di coercizione.

Qualsiasi distributore che compra prodotti da aziende come Hubei Haixin deve «immediatamente interrompere i suoi rapporti commerciali con stabilimenti situati nello Xinjiang o che abbiano degli input dalla regione», aggiunge Kyritsis.

Le mascherine nelle farmacie europee e il silenzio di Hubei Haixin

L’Italia non è l’unico paese europeo in cui McKesson vende i dispositivi di protezione individuale prodotti da Hubei Haixin. Le stesse mascherine possono essere acquistate nelle farmacie online controllate dalla multinazionale in Norvegia, Belgio e Olanda.

Nel Nord Europa, a commercializzare prodotti medicali legati al lavoro degli uiguri è anche Onemed, leader della distribuzione farmaceutica con sede in Svezia. A differenza di McKesson, Onemed non vende direttamente al dettaglio, ma gestisce numerosi appalti pubblici per la forniture di Dpi. Mascherine e camici marchiati Hubei Haixin sono stati forniti da Onemed a governi e ospedali pubblici in Svezia, Norvegia, Danimarca ed Estonia.

Onemed ha dichiarato a SVT, la TV di stato svedese, di essersi accorta dell’utilizzo di lavoratori uiguri da parte di Hubei Haixin alla fine del 2019 e di aver continuato il proprio rapporto dopo aver svolto alcune verifiche: «La nostra valutazione complessiva è che non vi è alcun caso di lavoro forzato o discriminazione contro la minoranza uigura nella nostra catena di fornitura – dichiara il portavoce del gruppo svedese Onemed – ma ovviamente continueremo a seguire la questione e a prendere provvedimenti se dovessimo ricevere nuove informazioni».
Le mascherine di Hubei Haixin in vendita sul sito di Lloyds Farmacia

Hubei Haixin non ha risposto a una lista di domande dettagliate. Tuttavia, OCCRP è entrata in possesso di una lettera redatta da Hubei Haixin, nella quale l’azienda spiega di aver tenuto le lavoratrici uigure alle proprie dipendenze fino alla fine di settembre. «Il contratto di lavoro tra la nostra azienda e i dipendenti dello Xinjiang sarebbe dovuto terminare a marzo 2020 – ha scritto l’azienda Hubei Haixin -. In seguito allo scoppio della pandemia Covid-19 nella provincia di Hubei e i successivi lockdown regionali le 130 lavoratrici della Xinjiang sono rimaste bloccate a Hubei senza poter tornare a casa».

Anche il Ministero degli Esteri cinese non ha risposto alle domande inviate da OCCRP, ma un portavoce dell’ambasciata cinese a Oslo ha dichiarato: «I cosiddetti “abusi dei diritti umani” nello Xinjiang o la “persecuzione delle minoranze etniche” sono le menzogne del secolo inventate dalle forze estremiste anti-cinesi».

CREDITI

Autori

Matteo Civillini

Hanno collaborato

Aubrey Belford
Peter Svaar
Ola Westerberg

Editing

Lorenzo Bagnoli

In partnership con

OCCRP, SVT (Svezia)
NRK (Norvegia)
DR (Danimarca)
Follow The Money (Paesi Bassi)
De Tijd (Belgio)
Eesti Päevaleht (Estonia)

Infografiche & Mappe

OCCRP

Le mancate forniture che hanno dato avvio all’inchiesta che coinvolge Fontana

7 Agosto 2020 | di Matteo Civillini, Luca Rinaldi

Sono 25 mila camici sanitari il “corpo del reato” dell’inchiesta che ha messo nel mirino Attilio Fontana, presidente di Regione Lombardia. La parte mancante della fornitura da 513 mila euro affidata senza gara da Aria, la stazione appaltante della Lombarda, a Dama Spa, azienda guidata da Andrea Dini, cognato di Fontana. Un accordo formalizzato il 16 aprile scorso, e poi mai pienamento rispettato, facendo scattare l’ipotesi di frode in pubbliche forniture: per gli inquirenti Dini avrebbe tentato di vendere la parte della fornitura non consegnata a una Onlus di Varese a un prezzo superiore (da 6 a 9 euro). Alla stampa l’avvocato di Andrea Dini, Giuseppe Innaccone, puntualizza che nei messaggi scambiati tra l’imprenditore e chi avrebbe dovuto acquisire i camici «non si parla di camici ma di tessuti da vendere». Tuttavia nei giorni scorsi i 25 mila camici sono stati sequestrati dalla Guardia di finanza nei magazzini della Dama Spa. Nel mezzo, il tentativo di trasformare l’ordine oneroso in donazione, bonifici sospetti dalla Svizzera e una lunga serie di mezze verità e dietrofront sciorinate dal governatore lombardo.

Seppur la più scottante politicamente, quella di Dama spa è solo una delle numerose partite di dispositivi di protezione individuale gestite da Aria e poi mai arrivate nei magazzini della Regione. Come Irpimedia ha già raccontato, per le sole mascherine il 72% degli ordini effettuati da Aria è stato successivamente annullato. Ma se la maggior parte delle cancellazioni sono dovute perlopiù alla non idoneità dei prodotti o a ritardi nelle consegne, il caso della Dama spa è ben diverso. Al centro infatti c’è un macroscopico conflitto di interessi: soldi pubblici sarebbero dovuti finire nelle tasche dell’azienda di famiglia (Roberta Dini, moglie di Fontana, detiene una quota di minoranza di Dama Spa). La patata bollente rivelata da Report che ha fatto partire la corsa a trasformare in corso d’opera la vendita in una semplice donazione. Tentativo mai realmente riuscito visto che la proposta, inviata da Dini via email, non è mai stata formalizzata da Aria.  

A quel punto (eravamo a metà maggio) Dama blocca le forniture dopo aver già consegnato 49mila camici, come previsto dal contratto. Per risarcire il cognato dai mancati introiti Fontana fa partire un bonifico da 250mila euro a favore di Dama Spa da un suo conto personale in Svizzera. A gestire l’operazione sarebbe stato Fontana in prima persona, stando a quanto dichiarato dal suo avvocato: «Quando è venuto a sapere della fornitura, per evitare equivoci gli ha detto di trasformarla in donazione e lo scrupolo di aver danneggiato suo cognato lo ha indotto in coscienza a fare un gesto risarcitorio».

A predisporre il versamento è l’Unione Fiduciaria, la società milanese che cura il patrimonio di Fontana. Il bonifico però non arriverà mai a destinazione: un funzionario della fiduciaria, insospettito da importo e causale, fa una segnalazione di operazione sospetta di riciclaggio all’UIF di Banca d’Italia, l’unità di Palazzo Koch che si occupa delle operazioni sospette. L’11 giugno Fontana fa retromarcia e chiede all’Unione Fiduciaria di ritirare il bonifico. Ma, ormai, è troppo tardi: la segnalazione è arrivata sulla scrivania dei magistrati milanesi che istruiscono la Guardia di Finanza ad approfondire il caso.

Ulteriore elemento che gli inquirenti stanno approfondendo è la domiciliazione del Diva Trust, il soggetto che tramite la Credit Suisse Servizi Fiduciari controlla il 90% di Diva Spa che a sua volta detiene il 90% della Dama: Diva Trust è domiciliato allo stesso indirizzo di Unione Fiduciaria, la stessa sede da cui è partito il bonifico segnalato all’autorità antiriclaggio. «Una coincidenza», puntualizzano le difese, ma che sta portando la procura a verificare che non ci siano interessi incrociati tra il presidente della Regione e i Dini.

L’assetto proprietario di Dama Spa

Il triangolo Svizzera-Bahamas-Liechtenstein

Le indagini fanno venire a galla la complessa ingegneria finanziaria usata da Fontana e famiglia per la gestione dei propri risparmi. Un patrimonio da 5 milioni di euro custodito a partire dal 1997 dalla UBS di Lugano in un conto inizialmente intestato alla madre del governatore. Passano otto anni e i risparmi della famiglia Fontana prendono la via dei Caraibi. Il 1 giugno 2005, infatti, la UBS Trustees delle Bahamas registra il Montmellon Valley, un trust con lo scopo di schermare la reale proprietà del conto svizzero. Come scrive L’Espresso, la data dell’operazione sembra essere curiosa: un mese più tardi, il 1 luglio, entra in vigore la cosiddetta Euroritenuta, ovvero la tassazione alla fonte dei conti detenuti da cittadini europei nelle banche elvetiche.

Ovviamente, i nomi di Fontana e della madre non compaiono nei documenti del trust Montmellon Valley. Ad amministrarlo sono tre soggetti: Corpboard Ltd, una fiduciaria di UBS alle Isole Vergini Britanniche, il Dr. Herbert Oberhuber, avvocato del Liechtenstein il cui nome compare in una miriade di società presenti nei leak Paradise e Panama Papers e la Domar Board Services Anstalt, con sede a Vaduz. Quest’ultima una tipologia di soggetto giuridico peculiare del Liechtenstein paragonabile ad una fondazione. Nell’ottobre del 2010 tra gli amministratori del trust subentra Peter Marxer Jr., socio di Marxer and Partners, il più antico studio legale di Vaduz. A fondarlo era stato il padre omonimo, personaggio politico di primo piano in Liechtenstein negli anni ‘80.

I documenti che provano la costituzione e la chiusura del trust alle Bahamas / Scorri le immagini

Il tesoretto della famiglia Fontana sparisce in questo triangolo tra Svizzera,Bahamas e Liechtenstein fino al 2015 quando l’attuale presidente di Regione Lombardia, allora sindaco di Varese, eredita il patrimonio da 5 milioni di euro dopo il decesso della madre. Pochi mesi dopo regolarizza la sua posizione sfruttando la voluntary disclosure voluta dal governo Renzi, ma i soldi restano in Svizzera nelle casse di Ubs. L’operazione si chiude con la definitiva chiusura del trust Montmellon Valley nel gennaio 2016.

Investimenti scivolosi

Come tutte le famiglie benestanti del varesotto anche dei Dini non si legge granché. Per chi bazzica gli ambienti degli industriali della zona una situazione da «Capitale Umano», per citare il famoso film di Paolo Virzì. Non a caso anche in questa occasione l’attenzione si è gioco forza spostata su Attilio Fontana, ma anche i Dini in passato sono stati protagonisti di operazioni finanziarie non proprio riuscite.

Nei primi anni ‘70 Paolo Dini, padre di Andrea, titolare del maglificio Daco di Varese lancia un proprio marchio di proprietà, Paul & Shark, oggi controllato dalla Dama Spa. Il business regge e nel tempo la famiglia diversifica, incappando in qualche inciampo, come la truffa messa in piedi da Bernard Madoff, banker di New York capace di montare uno “schema Ponzi” da 50 miliardi di dollari. Paolo Dini è uno dei quattro italiani che compaiono nella lista dei clienti truffati da Madoff rimettendoci, stando ai documenti del processo, circa un milione di dollari che tuttavia non hanno impattato sulle attività di famiglia.

A metà degli anni 2000 l’avvicinamento tra Fontana e la famiglia Dini con il matrimonio tra l’attuale presidente della Regione e Roberta Dini. Nel 2010 i Dini si imbarcano, insieme a Davide Bizzi, nel progetto di recupero dell’area ex Falck di Sesto San Giovanni: un investimento da 405 milioni di euro, a tutt’oggi arenato tra bonifiche infinite e progetti faraonici mai attuati. Nel frattempo Dini senior muore nel 2017, ma l’area ex Falck rimane ancora oggi una grande incompiuta ora in mano ai re di denari dell’immobiliare milanese Hines e Prelios dopo la cessione del gruppo Bizzi.

I fari dell’autorità antifrode sui certificati sospetti per le mascherine

2 luglio 2020 | di Lorenzo Bodrero, Matteo Civillini

Milioni di prodotti medici e dispositivi di protezione individuale con falsi certificati di conformità sono arrivati in Europa dall’inizio della pandemia Covid-19. Un’ondata con seri rischi per la salute degli operatori sanitari e dei cittadini che li utilizzano con la convinzione di essere protetti. A lanciare l’allarme è l’Ufficio Europeo Antifrode (OLAF) che sta portando avanti un’indagine sul fenomeno insieme agli organi di polizia degli stati membri.

«La domanda per questi prodotti è aumentata e, con essa, anche il numero dei truffatori attirati dalla possibilità di fare profitti illeciti enormi,» spiega a IrpiMedia Ville Itälä, direttore generale di OLAF. «La caratteristica principale della frode consiste – specifica Itälä – nel vendere dispositivi con certificazioni ottenute da organismi che non hanno il reale potere di certificare questi prodotti».

Come un’inchiesta di IrpiMedia aveva già raccontato, l’emergenza Covid-19 ha fatto nascere un fiorente mercato grigio delle certificazioni per Dpi. Documenti che, a un occhio inesperto, danno l’impressione che si tratti di un bollino di qualità o un lasciapassare per l’esportazione in Europa. Ma, in realtà, non è così. Se, infatti, i certificati mostrano ben in vista il marchio CE – lo standard per la vendita nel mercato comunitario, poi a caratteri piccoli specificano che questo non è altro che un attestato volontario di revisione delle specifiche tecniche. Inutile quindi per garantire la sicurezza dei prodotti.

«La caratteristica principale della frode consiste nel vendere dispositivi con certificazioni ottenute da organismi che non hanno il reale potere di certificare questi prodotti»
Ville Itälä, direttore generale di OLAF

Il gran bazar delle certificazioni

A emettere questi documenti sono soggetti che non hanno le licenze necessarie per certificare dispositivi di protezione individuale. Ma che, tuttavia, con lo scoppio della pandemia hanno venduto questi pezzi di carta a centinaia di aziende cinesi che si erano riconvertite da un giorno all’altro alla produzione di mascherine.

Due società l’hanno fatta da padrone in questo bazar delle certificazioni: l’italiana Ente Certificazione Macchine (Ecm) e la polacca ICR Polska. Organismi notificati e riconosciuti dalla Commissione Europea, e dai ministeri nazionali, per la certificazione di macchine industriali, apparecchiature radio e ascensori, ma non di mascherine FFP2, FFP3 o altri dispositivi di protezione personale.

Un’inchiesta di OCCRP, e dei media partner tra cui IrpiMedia, ha scoperto che la documentazione di queste aziende è stata utilizzata per vendere Dpi in almeno 19 paesi europei. In alcuni casi, i certificati hanno permesso l’importazione di mascherine successivamente ritirate dalla vendita per non aver soddisfatto gli standard di sicurezza di test indipendenti.

In Lituania, la Kangyuan Jiangkang Technology, azienda di proprietà di un cittadino cinese, oggi latitante ricercato dalle autorità di Pechino, si è assicurata 19 contratti pubblici dopo aver mostrato certificati di Ecm. Le mascherine prodotte dall’azienda sono state segnalate come a rischio per la salute da enti regolatori in Portogallo, Estonia e Malta.

«I prodotti accompagnati da certificati falsi potrebbero essere inefficaci o persino dannosi per la salute», sottolinea Ville Itälä, direttore generale di OLAF. «Non è un problema soltanto per i singoli consumatori, ma anche per le farmacie, le case di cura e i grandi acquirenti istituzionali, come ospedali o carceri».

Non si tratta soltanto di un rischio ipotetico. OLAF spiega di aver accertato come, in almeno uno Stato membro, gli operatori sanitari siano stati infettati dal virus perché i dispositivi di protezione acquistati dagli enti pubblici erano sotto standard. In un altro caso, centinaia di migliaia di mascherine difettose sono state sequestrate poco prima che venissero distribuite a medici e infermieri. Casi su cui sono ancora in corso le indagini dell’antifrode.

Il bollino della discordia

Fondata nel 1999 in un paesino sui colli bolognesi, Ente Certificazione Macchine (Ecm) è un’azienda riconosciuta dal Ministero dello Sviluppo Economico come organismo notificato per diverse categorie di merce, ma non per i Dpi. Dallo scoppio della pandemia sono comparsi sul mercato centinaia di “attestati volontari” emessi da Ecm, e spesso spacciati per vere e proprie certificazioni di conformità CE.

Chi induce i clienti a pensare che il “bollino Ecm” valga come marchio CE sono i distributori, si difende l’azienda: «Noi facciamo un’attività di pre-verifica documentale su richiesta dei consulenti dei produttori – aveva spiegato Luca Bedonni, direttore servizi di Ecm a IrpiMedia. Il certificato viene emesso su base volontaria e non è un certificato CE, come viene scritto a chiare lettere sullo stesso».

Tuttavia, diverse autorità di vigilanza del mercato ed esperti del settore hanno censurato l’operato dell’azienda bolognese. Il 7 aprile scorso Accredia – l’ente a cui spetta vigilare sugli organismi certificatori – ha inviato una circolare agli organismi attivi in questo mercato come Ecm. Accredia ha sottolineato come le fattezze grafiche della attestazioni creassero confusione, a causa di riferimenti a Direttive e al logo CE «richiamati più o meno ad arte per ingenerare in chi li riceve l’idea di aver ricevuto un certificato del tipo valido». Successivamente, Accredia ha adottato provvedimenti sanzionatori nei confronti di Ecm.

Tuttavia, documenti ottenuti da IrpiMedia e OCCRP mostrano che Ecm ha continuato ad offrire servizi connessi alla verifica di DPI anche dopo la strigliata di Accredia. Il 27 aprile Ecm ha inviato a un importatore un preventivo per la «verifica di conformità CE di seconda parte» per delle mascherine cinesi ad uso di dispositivo di protezione individuale. Il servizio sarebbe costato 20mila euro da pagare interamente in anticipo. Dorte Kardel, consulente danese per la compliance di DPI, ha affermato a OCCRP che questa «verifica di seconda parte» non esiste secondo le regole europee.

L’ad di Ecm, Andrea Secchi, sostiene che la sua azienda ha emesso i certificati su una «base puramente volontaria» e che i suoi clienti cinesi erano pienamente consapevoli che la responsabilità di ottenere il marchio CE sarebbe ricaduta su di loro.

«La nostra azienda – fa sapere Secchi raggiunto da IrpiMedia – non è responsabile per qualsiasi uso differente, scorretto o improprio del documento o di qualsiasi sua manipolazione. Inoltre, Ecm non è responsabile per qualsiasi non-conformità presente sul prodotto, dato che il processo di produzione, le modificazioni e i difetti – conclude l’amministratore delegato – non sono sotto la nostra sorveglianza».

Quest’inchiesta è stata realizzata in collaborazione con Bayerischer Rundfunk / ARD (Germania), the Danish Broadcasting Corporation (Danimarca), Sveriges Television (Svezia), Follow the Money (Olanda), Investigative Reporting Lab (Macedonia), De Tijd (Belgio), RISE Romania, Oštro (Slovenia), Atlatszo.hu (Ungheria), Público (Portogallo), Reporter.lu (Lussemburgo) and Siena.lt (Lituania).
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