Dalla presenza di molte fiduciarie ai titolari effettivi in paradisi fiscali: sono diversi gli indicatori che suggeriscono un elevato rischio di infiltrazioni criminali nell’economia legale in crisi. Lo studio di Transcrime
Scorte e nuove rotte: i narcos alla prova del lockdown
#Covid-19
Cecilia Anesi
Antonio Baquero
Nathan Jaccard
Giulio Rubino
È fine marzo e l’epidemia da Covid-19 sta colpendo duramente l’Italia. Rocco Molè, giovane narcos dell’omonima famiglia di ‘ndrangheta, si trova ad affrontare un bel dilemma. Cosa fare con 537 chili di cocaina appena arrivata a Gioia Tauro, il porto controllato dalla sua ‘ndrina, assieme a quella dei Piromalli? L’Italia è appena entrata in lockdown, circostanza che rende la distribuzione più problematica del solito: i camion di frutta e verdura possono viaggiare, ma con il resto del traffico veicolare sospeso, le possibilità di essere sottoposti a un controllo aumentano. E cinquecento chili non sono uno scherzo.
Molè decide alla fine di tenerne solo una piccola parte per la distribuzione e sotterrare il resto in un limoneto nella piana. La Squadra Mobile di Reggio Calabria scopre ugualmente il nascondiglio proprio durante un pattugliamento per far rispettare le misure previste per l’emergenza Covid-19. Siamo nei primi giorni del lockdown: nessuno è giustificato a trovarsi fuori casa senza motivo, tanto meno in una rimessa agricola intestata ad altri.
La storia di Molè racconta bene l’ondata di panico che ha investito in pieno anche il mondo della droga, a tutti i livelli, in quelle prime settimane di confinamento. Il blocco del commercio con la Cina ha paralizzato la produzione di cocaina in alcune regioni sudamericane; i controlli su strada hanno reso molto più rischiosi i trasporti interni agli Stati; gli spacciatori, non potendo più uscire liberamente di casa, hanno chiesto ai clienti di spostarsi loro, e venirla a prendere di persona, ma i consumatori stessi si trovavano di fronte allo stesso problema: cosa scrivere sull’autocertificazione? «Cerco droga»? Cosa per altro successa davvero, in più occasioni. Sembrava che il mercato della droga dovesse affrontare una significativa contrazione in periodo di lockdown. Ma questo, possiamo confermare dati alla mano, non è avvenuto.
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A cominciare dai grandi produttori con un know how che forse molto ha da insegnare agli altri settori della nostra economia, il narcotraffico si è riorganizzato in fretta, grazie anche ad una gestione oculata del prodotto. I grandi cartelli colombiani da sempre tengono stoccate scorte di cocaina sufficienti a coprire circa due mesi di esportazioni, per far fronte a qualsiasi emergenza. Alcune rotte sono dovute cambiare e ci sono stati piccoli sconvolgimenti della geografia criminale globale ma le soluzioni trovate dalle mafie hanno raggiunto l’obiettivo di superare, senza perdite evidenti, due dei mesi più duri per l’intera economia mondiale.
Anche le vendite al dettaglio si sono aggiornate, con ordini online e consegne via food-delivery, e i precursori sono tornati ad arrivare. Analizzando i dati dei sequestri degli ultimi due mesi e intervistando produttori di coca, narcotrafficanti e forze dell’ordine, IrpiMedia può raccontare come il mondo del narcotraffico abbia saputo adattarsi alle sfide poste dal Covid-19, in un’inchiesta coordinata da Occrp in cinque Paesi del mondo.
Cosa sono i precursori
Con il termine “precursori” – spiega il Ministero dell’Interno – si intendono sostanze chimiche di vario genere normalmente utilizzate in numerosi processi industriali e farmaceutici. Si tratta di prodotti legali, ma che sono fondamentali per reazioni chimiche alla base della sintetizzazione e raffinazione di molti stupefacenti.
“Precursore” è ovviamente un termine generico, che fa riferimento a un “ingrediente non cucinato” del prodotto finale (lecito o illecito). Fra quelli più usati per la produzione di droga c’è l’anidride acetica, un reagente per l’ottenimento di eroina e cocaina, oppure solventi come acetone, etere e acido cloridrico per la raffinazione. La maggior parte di queste sostanze chimiche è commercializzata dalla Cina, o almeno arriva da quel Paese a prezzi più convenienti, anche se vi è una produzione anche in alcuni paesi Europei e in India.
Eppure, il cartello della droga più forte della Colombia, il Clan del Golfo, sembra aver sofferto poco di questa situazione. Un membro del gruppo criminale che ha chiesto di essere solo identificato come Raúl spiega ad Occrp che il Clan ha attinto a riserve messe da parte prima della pandemia e si è rifornito di foglie di coca da fattorie più piccole, che non si sono mai fermate, non avendo bisogno di troppa manodopera.
La roccaforte del Clan del Golfo è la regione di Urabà, nel nordest del Paese, una zona strategica dove ci sono piantagioni, laboratori di raffinazione, e soprattutto grandi porti internazionali per le esportazioni. Raúl racconta che il Clan ha sempre da parte circa 40-45 tonnellate di coca già pronta, abbastanza per due mesi di esportazioni. «Si è sempre conservata una “riserva”, è una catena molto ben organizzata. È l’unico modo per tenere tutto sotto controllo, specialmente il prezzo. Le scorte sono nascoste sulle spiagge, a Tarena (vicino al confine panamense, ndr), oppure nelle piantagioni di banani, o nella giungla. Sono dappertutto». Ramón Santolaria, dell’antinarcotici della Catalogna, in Spagna, aggiunge che i trafficanti di cocaina hanno continuato a esportare verso l’Europa, forse nella speranza che il lockdown rallentasse i controlli nei porti: «I cartelli devono continuare a esportare. Sono come un’azienda, non possono tenersi troppe scorte, sarebbe troppo rischioso».
La produzione non si ferma
In Colombia, Paese che produce il 70% della cocaina mondiale, la situazione due mesi dopo l’entrata in vigore del lockdown non è uniforme. Le forze dell’antidroga hanno da allora sradicato 1969 ettari di piantagioni in tutto il Paese. Misure del genere, però, colpiscono solo i coltivatori delle foglie di coca, non i trafficanti: «Stanno portando via il poco che quella gente ancora aveva», spiega Jorge Elias Ricardo Rada, rappresentante di un sindacato di piccoli coltivatori della regione di Cordoba, che con i cartelli non ha niente a che fare
Nella regione di Catatumbo, vicino al confine venezuelano, «il business è praticamente paralizzato», spiega Giovanni Mejía Cantor, giornalista di Ocaña, capoluogo della regione. Normalmente quel territorio produce almeno 84 tonnellate l’anno di cocaina pura, ovvero un quarto della produzione totale del Paese. «Le comunità locali sono scese in strada a mettere barricate per impedire l’ingresso a qualsiasi estraneo, per paura del virus», prosegue Mejía. Queste limitazioni hanno ovviamente impattato anche sul movimento delle materie prime necessarie alla produzione: la foglia di coca, la benzina, l’acetone.
Un documento dell’intelligence della Marina colombiana, ottenuto da Occrp, conferma che i cartelli hanno spedito la coca prodotta prima della crisi da coronavirus soprattutto verso gli Usa, il loro mercato principale. In questi anni i narcos hanno fatto largo uso di motoscafi superveloci, barche da pesca e sottomarini artigianali per rifornire la “rotta del nord”, che dal Messico entra negli Stati Uniti. La quarantena ha reso questi sistemi più difficili da usare e i cartelli sono tornati a usare vecchie piste, più lente e frammentate. In questi mesi i carichi arrivati in California sono meno numerosi, ma più grandi.
Diverse fonti nel nord della Colombia, incluso Raúl e un coltivatore di coca, hanno descritto a Occrp almeno sei rotte in uso ora per portare la coca fuori dalla regione produttrice. Alcune di queste sono antichi sentieri e passaggi fluviali tracciati dalle popolazioni indigene degli Embera e dei Katío, che trasportano la coca per brevi tratti a bordo di piccole imbarcazioni. Nella fitta giungla montagnosa del “tappo del Darien”, una regione stretta tra Colombia e Panama, la coca viene portata a spalla, da carovane composte da oltre venti persone con pesanti zaini.
Le esportazioni verso il secondo mercato più importante al mondo, l’Europa occidentale, hanno sofferto meno problemi. Al contrario della rotta per gli Stati Uniti, quella atlantica si basa sullo sfruttamento di sistemi di trasporto legali via nave o aereo, in particolare carichi di frutta, verdura o fiori freschi. I prodotti alimentari hanno continuato a muoversi costantemente durante il lockdown, prestandosi così a rifornire anche il mercato della cocaina.
Ci sono ad esempio le banane colombiane, tra i carichi di copertura più usati per portare cocaina in Europa. «Chiunque, autorità, polizia o altro, cerchi di bloccare queste rotte fa una brutta fine», spiega il narcos Rául, aggiungendo che tanto le forze dell’ordine quanto gli imprenditori continuano a ricevere le tangenti necessarie a oliare il meccanismo. «Tutti devono mangiare», conclude.
Al contrario della rotta per gli Stati Uniti, quella atlantica si basa sullo sfruttamento di sistemi di trasporto legali via nave o aereo, in particolare carichi di frutta, verdura o fiori freschi
Spaccio e dark web
Con il lockdown si è dovuto riorganizzare anche lo spaccio. Pur avendo molte scorte sul territorio, chi vende cocaina al dettaglio ha comunque alzato i prezzi e aumentato la percentuale di taglio. Spacciatori e consumatori intervistati da IrpiMedia a Roma hanno spiegato come ci siano volute alcune settimane per mettere in piedi nuovi sistemi di distribuzione.
Durante questo periodo, i canali preferiti sono stati quelli delle consegne a domicilio, assieme al cibo per lo più, oppure effettuate da lavoratori che avevano modo di giustificare gli spostamenti. Un altro metodo molto usato è stato quello delle file al supermercato, una delle poche situazioni rimaste dove stare fermi per strada per molto tempo non appariva sospetto.
Ma la quarantena ha anche portato a un aumento del commercio sul dark web, quella parte della rete accessibile solo tramite specifici software che garantiscono l’anonimato dell’utente.
«Abbiamo visto un aumento nell’utilizzo del dark web anche in Italia – spiega Marco Sorrentino, comandante, del GICO (antimafia) della Guardia di Finanza di Roma – e vige la regola del “coronasale” ovvero gli sconti da Covid-19. Se parliamo di pacchi, il più piccolo che abbiamo sequestrato era 240 grammi, quindi comunque non parliamo di consumo personale».
Alcuni mercati sul dark web sembrano più mirati ai consumatori che agli spacciatori. «Offerta speciale Quarantena per tutti, sia che siate in isolamento o che siate ancora in giro, tutti i nostri ordini apparte i campioni (0.2 grammi) scenderanno moltissimo rispetto a qualsiasi altro ordine che farete durante questi tempi stressanti», pubblicizzava uno dei venditori in un mercato monitorato da IrpiMedia.
L’offerta di “cocaina colombiana” è aumentata in entrambi i mercati, dove i venditori si sono moltiplicati e dichiarano di garantire cocaina pura all’80% per 80 dollari (75 euro). Lo stesso prezzo al grammo della cocaina che si trova attualmente su strada, ma con un livello di purezza molto superiore. E i clienti sembrano apprezzare: «Servizio eccellente in tempi duri».
Distribuite tramite il circuito postale, le partite vengono spedite prevalentemente all’indirizzo personale degli acquirenti, anche se c’è chi preferisce ricevere la merce a degli indirizzi di raccolta (tabaccherie, drogherie) che, nell’epoca dell’e-commerce, offrono sempre più spesso questo tipo di servizi. Il passaggio alla dogana non può naturalmente essere garantito, ma il tutto avviene in modo molto sicuro, sigillando la merce in più contenitori sottovuoto come in una matrioska, per evitare l’attenzione delle forze dell’ordine e dei cani antidroga.
I vendor principali dichiarano di essere basati in Olanda, Germania e Inghilterra, e spediscono in tutta Europa: «L’aumento medio della domanda registrato nel dark web riguardo agli stupefacenti è del 30% da quando è iniziato il lockdown», spiega a IrpiMedia Giovanni Reccia, Comandante del Nucleo Speciale Privacy e Frodi Tecnologiche della Guardia di Finanza. Prima della crisi da Covid-19, la cocaina rappresentava circa il 15% di tutte le vendite di droga sul dark web superata dalla marijuana che rappresentava un quarto del mercato online.
Il trend dei sequestri
«Se confrontiamo i dati di marzo e aprile 2019 con questi mesi di lockdown, in Italia i sequestri di cocaina sono scesi dell’80%», spiega a IrpiMedia Riccardo Sciuto, generale dei carabinieri che dirige la Direzione Centrale Servizi Antidroga, l’organo di coordinamento italiano per indagini internazionali sul narcotraffico.
I magazzini, tuttavia, erano già ben riforniti e in pochissimo tempo le nostre mafie si sono riorganizzate per farsi arrivare i carichi in Spagna. Il trend era cominciato già prima della pandemia: i porti prediletti dalla organizzazioni criminali italiane sono tornati ad essere per lo più quelli spagnoli, dopo dieci anni in cui si preferivano quelli del nord Europa.
Lo confermano i dati sui sequestri: «Solo tra marzo e aprile le autorità spagnole hanno fermato oltre 14 tonnellate di cocaina, una cifra sei volte più alta di quella dell’anno precedente», dichiara a Occrp Manuel Montesinos, vicedirettore dell’intelligence delle dogane dell’autorità fiscale spagnola. «Siamo stupiti dal ritmo frenetico dei carichi – spiega Montesinos – ogni giorno riceviamo segnalazioni di sequestri o di operazioni sospette». E i carichi intercettati sono molto più grossi del passato. Tra la fine di marzo e la fine di aprile in Spagna ne sono stati sequestrati quattro importanti: 3 tonnellate il 28 marzo, 1.5 il 20 aprile, 1 il 21 aprile e ben 4 il 27 aprile.
«Non potendo fare entrare i carichi via mare a causa dei controlli intensi, le mafie italiane hanno concentrato le loro operazioni sulla Spagna, che da sempre trattano come una loro colonia», analizza Marco Sorrentino, comandante del GICO (antimafia) della Guardia di Finanza di Roma. I carichi sono stati inviati principalmente ad Algeciras (Spagna) o Barcellona, e da lì spostati su gomma nel resto d’Europa, nascosti tra frutta o farina di soia, che ha un aspetto molto simile alla cocaina.
«Non potendo fare entrare i carichi via mare a causa dei controlli intensi, le mafie italiane hanno concentrato le loro operazioni sulla Spagna, che da sempre trattano come una loro colonia»
I grandi porti del nord Europa continuano comunque a ricevere significativi carichi di cocaina, sempre nascosta nei container che vengono sbarcati a migliaia ogni giorno. «Non ci facciamo illusioni, i criminali continueranno a lavorare senza sosta», dice Fred Westerberke capo della polizia di Rotterdam. «Osserviamo sempre più attività al porto. Nelle scorse settimane abbiamo fermato moltissimi “raccoglitori”, persone incaricate dai narcos di svuotare i container di droga prima che li possiamo individuare» spiega, aggiungendo che dall’inizio del lockdown hanno arrestato oltre 40 raccoglitori”.
L’ultimo tratto per arrivare in Italia da Spagna o Olanda avviene su strada. Trenta chili sono arrivati dall’Olanda anche a Prato, in Toscana. Sono stati scoperti nell’auto di un uomo albanese che, fermato ad posto di blocco in seguito alle misure per l’emergenza Covid-19, si è lanciato in una folle corsa per la città. Messo alle strette, il narcos ha provato anche a investire degli agenti a piedi, che però hanno risposto sparando ai pneumatici della sua auto che ha così finito la corsa, svelando nel bagagliaio 26 panetti di cocaina e 140mila euro.
Per quanto efficaci siano stati i vari gruppi criminali nell’adattarsi alla situazione attuale, le difficoltà sono riflesse nei prezzi. Il comandante della DCSA, Riccardo Sciuto, spiega che i prezzi «sono cresciuti fra il 20 e il 30%». Un dettaglio confermato anche dalle autorità spagnole: un chilo di cocaina scambiato fra diversi gruppi criminali a 27mila euro l’anno scorso, oggi vale fra i 35 e i 37mila.
CREDITI
Autori
Cecilia Anesi
Antonio Baquero
Nathan Jaccard
Giulio Rubino
In partnership con
Editing
Foto
Juan Manuel Barrero
Hanno collaborato
Luis Adorno
Raffaele Angius
Aubrey Belford
Koen Voskuil