Scorte e nuove rotte: i narcos alla prova del lockdown

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Scorte e nuove rotte: i narcos alla prova del lockdown

Cecilia Anesi
Antonio Baquero
Nathan Jaccard
Giulio Rubino

È fine marzo e l’epidemia da Covid-19 sta colpendo duramente l’Italia. Rocco Molè, giovane narcos dell’omonima famiglia di ‘ndrangheta, si trova ad affrontare un bel dilemma. Cosa fare con 537 chili di cocaina appena arrivata a Gioia Tauro, il porto controllato dalla sua ‘ndrina, assieme a quella dei Piromalli? L’Italia è appena entrata in lockdown, circostanza che rende la distribuzione più problematica del solito: i camion di frutta e verdura possono viaggiare, ma con il resto del traffico veicolare sospeso, le possibilità di essere sottoposti a un controllo aumentano. E cinquecento chili non sono uno scherzo.

Molè decide alla fine di tenerne solo una piccola parte per la distribuzione e sotterrare il resto in un limoneto nella piana. La Squadra Mobile di Reggio Calabria scopre ugualmente il nascondiglio proprio durante un pattugliamento per far rispettare le misure previste per l’emergenza Covid-19. Siamo nei primi giorni del lockdown: nessuno è giustificato a trovarsi fuori casa senza motivo, tanto meno in una rimessa agricola intestata ad altri.

La storia di Molè racconta bene l’ondata di panico che ha investito in pieno anche il mondo della droga, a tutti i livelli, in quelle prime settimane di confinamento. Il blocco del commercio con la Cina ha paralizzato la produzione di cocaina in alcune regioni sudamericane; i controlli su strada hanno reso molto più rischiosi i trasporti interni agli Stati; gli spacciatori, non potendo più uscire liberamente di casa, hanno chiesto ai clienti di spostarsi loro, e venirla a prendere di persona, ma i consumatori stessi si trovavano di fronte allo stesso problema: cosa scrivere sull’autocertificazione? «Cerco droga»? Cosa per altro successa davvero, in più occasioni. Sembrava che il mercato della droga dovesse affrontare una significativa contrazione in periodo di lockdown. Ma questo, possiamo confermare dati alla mano, non è avvenuto.

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Il mercato parallelo dei vaccini

Vero o presunto che sia, è oggetto di indagini in Italia ed Ue. Lo popolano truffatori ed esiste perché il sistema di distribuzione globale, soprattutto verso i Paesi poveri, arranca

A cominciare dai grandi produttori con un know how che forse molto ha da insegnare agli altri settori della nostra economia, il narcotraffico si è riorganizzato in fretta, grazie anche ad una gestione oculata del prodotto. I grandi cartelli colombiani da sempre tengono stoccate scorte di cocaina sufficienti a coprire circa due mesi di esportazioni, per far fronte a qualsiasi emergenza. Alcune rotte sono dovute cambiare e ci sono stati piccoli sconvolgimenti della geografia criminale globale ma le soluzioni trovate dalle mafie hanno raggiunto l’obiettivo di superare, senza perdite evidenti, due dei mesi più duri per l’intera economia mondiale.

Anche le vendite al dettaglio si sono aggiornate, con ordini online e consegne via food-delivery, e i precursori sono tornati ad arrivare. Analizzando i dati dei sequestri degli ultimi due mesi e intervistando produttori di coca, narcotrafficanti e forze dell’ordine, IrpiMedia può raccontare come il mondo del narcotraffico abbia saputo adattarsi alle sfide poste dal Covid-19, in un’inchiesta coordinata da Occrp in cinque Paesi del mondo.

Cosa sono i precursori

Con il termine “precursori” – spiega il Ministero dell’Interno – si intendono sostanze chimiche di vario genere normalmente utilizzate in numerosi processi industriali e farmaceutici. Si tratta di prodotti legali, ma che sono fondamentali per reazioni chimiche alla base della sintetizzazione e raffinazione di molti stupefacenti.
“Precursore” è ovviamente un termine generico, che fa riferimento a un “ingrediente non cucinato” del prodotto finale (lecito o illecito). Fra quelli più usati per la produzione di droga c’è l’anidride acetica, un reagente per l’ottenimento di eroina e cocaina, oppure solventi come acetone, etere e acido cloridrico per la raffinazione. La maggior parte di queste sostanze chimiche è commercializzata dalla Cina, o almeno arriva da quel Paese a prezzi più convenienti, anche se vi è una produzione anche in alcuni paesi Europei e in India.

Eppure, il cartello della droga più forte della Colombia, il Clan del Golfo, sembra aver sofferto poco di questa situazione. Un membro del gruppo criminale che ha chiesto di essere solo identificato come Raúl spiega ad Occrp che il Clan ha attinto a riserve messe da parte prima della pandemia e si è rifornito di foglie di coca da fattorie più piccole, che non si sono mai fermate, non avendo bisogno di troppa manodopera.

La roccaforte del Clan del Golfo è la regione di Urabà, nel nordest del Paese, una zona strategica dove ci sono piantagioni, laboratori di raffinazione, e soprattutto grandi porti internazionali per le esportazioni. Raúl racconta che il Clan ha sempre da parte circa 40-45 tonnellate di coca già pronta, abbastanza per due mesi di esportazioni. «Si è sempre conservata una “riserva”, è una catena molto ben organizzata. È l’unico modo per tenere tutto sotto controllo, specialmente il prezzo. Le scorte sono nascoste sulle spiagge, a Tarena (vicino al confine panamense, ndr), oppure nelle piantagioni di banani, o nella giungla. Sono dappertutto». Ramón Santolaria, dell’antinarcotici della Catalogna, in Spagna, aggiunge che i trafficanti di cocaina hanno continuato a esportare verso l’Europa, forse nella speranza che il lockdown rallentasse i controlli nei porti: «I cartelli devono continuare a esportare. Sono come un’azienda, non possono tenersi troppe scorte, sarebbe troppo rischioso».

La produzione non si ferma

In Colombia, Paese che produce il 70% della cocaina mondiale, la situazione due mesi dopo l’entrata in vigore del lockdown non è uniforme. Le forze dell’antidroga hanno da allora sradicato 1969 ettari di piantagioni in tutto il Paese. Misure del genere, però, colpiscono solo i coltivatori delle foglie di coca, non i trafficanti: «Stanno portando via il poco che quella gente ancora aveva», spiega Jorge Elias Ricardo Rada, rappresentante di un sindacato di piccoli coltivatori della regione di Cordoba, che con i cartelli non ha niente a che fare

Un lavoratore delle piantagioni di coca nell’area rurale di La Paz (Colombia), dipartimento di Guaviare, mentre aggiunge componenti chimiche alle foglie di coca – Foto: © Juan Manuel Barrero

Nella regione di Catatumbo, vicino al confine venezuelano, «il business è praticamente paralizzato», spiega Giovanni Mejía Cantor, giornalista di Ocaña, capoluogo della regione. Normalmente quel territorio produce almeno 84 tonnellate l’anno di cocaina pura, ovvero un quarto della produzione totale del Paese. «Le comunità locali sono scese in strada a mettere barricate per impedire l’ingresso a qualsiasi estraneo, per paura del virus», prosegue Mejía. Queste limitazioni hanno ovviamente impattato anche sul movimento delle materie prime necessarie alla produzione: la foglia di coca, la benzina, l’acetone.

Le rotte attive durante il lockdown per portare la coca fuori dalla regione produttrice/OCCRP

Un documento dell’intelligence della Marina colombiana, ottenuto da Occrp, conferma che i cartelli hanno spedito la coca prodotta prima della crisi da coronavirus soprattutto verso gli Usa, il loro mercato principale. In questi anni i narcos hanno fatto largo uso di motoscafi superveloci, barche da pesca e sottomarini artigianali per rifornire la “rotta del nord”, che dal Messico entra negli Stati Uniti. La quarantena ha reso questi sistemi più difficili da usare e i cartelli sono tornati a usare vecchie piste, più lente e frammentate. In questi mesi i carichi arrivati in California sono meno numerosi, ma più grandi.

Diverse fonti nel nord della Colombia, incluso Raúl e un coltivatore di coca, hanno descritto a Occrp almeno sei rotte in uso ora per portare la coca fuori dalla regione produttrice. Alcune di queste sono antichi sentieri e passaggi fluviali tracciati dalle popolazioni indigene degli Embera e dei Katío, che trasportano la coca per brevi tratti a bordo di piccole imbarcazioni. Nella fitta giungla montagnosa del “tappo del Darien”, una regione stretta tra Colombia e Panama, la coca viene portata a spalla, da carovane composte da oltre venti persone con pesanti zaini.

Le rotte attive durante il periodo di lockdown/OCCRP

Le esportazioni verso il secondo mercato più importante al mondo, l’Europa occidentale, hanno sofferto meno problemi. Al contrario della rotta per gli Stati Uniti, quella atlantica si basa sullo sfruttamento di sistemi di trasporto legali via nave o aereo, in particolare carichi di frutta, verdura o fiori freschi. I prodotti alimentari hanno continuato a muoversi costantemente durante il lockdown, prestandosi così a rifornire anche il mercato della cocaina.

Ci sono ad esempio le banane colombiane, tra i carichi di copertura più usati per portare cocaina in Europa. «Chiunque, autorità, polizia o altro, cerchi di bloccare queste rotte fa una brutta fine», spiega il narcos Rául, aggiungendo che tanto le forze dell’ordine quanto gli imprenditori continuano a ricevere le tangenti necessarie a oliare il meccanismo. «Tutti devono mangiare», conclude.

Elicotteri della polizia colombiana in pattugliamento nel dipartimento di Nariño nel sud est del Paese. In questa area c’è la maggior concentrazione di colture di coca nel mondo – Foto: © Juan Manuel Barrero Bueno.

Al contrario della rotta per gli Stati Uniti, quella atlantica si basa sullo sfruttamento di sistemi di trasporto legali via nave o aereo, in particolare carichi di frutta, verdura o fiori freschi

La terza rotta della cocaina per importanza è quella che dai Paesi produttori, Colombia, Bolivia e Perù, passa dal Paraguay per arrivare in Brasile, da dove i panetti vengono imbarcati a Santos, il porto di Sao Paulo, per procedere verso l’Africa e poi l’Europa. Questa rotta, secondo Lincoln Gakyia, procuratore antimafia dello Stato di Sao Paulo, è ancora perfettamente funzionante. Il principale gruppo criminale della zona, il Primeiro Comando da Capital (Pcc), è riuscito a mantenere le forniture, ma sta comunque finendo le scorte che aveva nascosto sul territorio, aggiunge il procuratore brasiliano.
Spaccio e dark web

Con il lockdown si è dovuto riorganizzare anche lo spaccio. Pur avendo molte scorte sul territorio, chi vende cocaina al dettaglio ha comunque alzato i prezzi e aumentato la percentuale di taglio. Spacciatori e consumatori intervistati da IrpiMedia a Roma hanno spiegato come ci siano volute alcune settimane per mettere in piedi nuovi sistemi di distribuzione.

Durante questo periodo, i canali preferiti sono stati quelli delle consegne a domicilio, assieme al cibo per lo più, oppure effettuate da lavoratori che avevano modo di giustificare gli spostamenti. Un altro metodo molto usato è stato quello delle file al supermercato, una delle poche situazioni rimaste dove stare fermi per strada per molto tempo non appariva sospetto.

Ma la quarantena ha anche portato a un aumento del commercio sul dark web, quella parte della rete accessibile solo tramite specifici software che garantiscono l’anonimato dell’utente.

«Abbiamo visto un aumento nell’utilizzo del dark web anche in Italia – spiega Marco Sorrentino, comandante, del GICO (antimafia) della Guardia di Finanza di Roma – e vige la regola del “coronasale” ovvero gli sconti da Covid-19. Se parliamo di pacchi, il più piccolo che abbiamo sequestrato era 240 grammi, quindi comunque non parliamo di consumo personale».

Alcuni mercati sul dark web sembrano più mirati ai consumatori che agli spacciatori. «Offerta speciale Quarantena per tutti, sia che siate in isolamento o che siate ancora in giro, tutti i nostri ordini apparte i campioni (0.2 grammi) scenderanno moltissimo rispetto a qualsiasi altro ordine che farete durante questi tempi stressanti», pubblicizzava uno dei venditori in un mercato monitorato da IrpiMedia.

L’offerta di “cocaina colombiana” è aumentata in entrambi i mercati, dove i venditori si sono moltiplicati e dichiarano di garantire cocaina pura all’80% per 80 dollari (75 euro). Lo stesso prezzo al grammo della cocaina che si trova attualmente su strada, ma con un livello di purezza molto superiore. E i clienti sembrano apprezzare: «Servizio eccellente in tempi duri».

Distribuite tramite il circuito postale, le partite vengono spedite prevalentemente all’indirizzo personale degli acquirenti, anche se c’è chi preferisce ricevere la merce a degli indirizzi di raccolta (tabaccherie, drogherie) che, nell’epoca dell’e-commerce, offrono sempre più spesso questo tipo di servizi. Il passaggio alla dogana non può naturalmente essere garantito, ma il tutto avviene in modo molto sicuro, sigillando la merce in più contenitori sottovuoto come in una matrioska, per evitare l’attenzione delle forze dell’ordine e dei cani antidroga.

I vendor principali dichiarano di essere basati in Olanda, Germania e Inghilterra, e spediscono in tutta Europa: «L’aumento medio della domanda registrato nel dark web riguardo agli stupefacenti è del 30% da quando è iniziato il lockdown», spiega a IrpiMedia Giovanni Reccia, Comandante del Nucleo Speciale Privacy e Frodi Tecnologiche della Guardia di Finanza. Prima della crisi da Covid-19, la cocaina rappresentava circa il 15% di tutte le vendite di droga sul dark web superata dalla marijuana che rappresentava un quarto del mercato online.

«L’aumento medio della domanda registrato nel dark web riguardo agli stupefacenti è del 30% da quando è iniziato il lockdown»
Giovanni Reccia

Comandante Nucleo speciali privacy e frodi tecnologiche Guardia di finanza

Il trend dei sequestri

«Se confrontiamo i dati di marzo e aprile 2019 con questi mesi di lockdown, in Italia i sequestri di cocaina sono scesi dell’80%», spiega a IrpiMedia Riccardo Sciuto, generale dei carabinieri che dirige la Direzione Centrale Servizi Antidroga, l’organo di coordinamento italiano per indagini internazionali sul narcotraffico.

I magazzini, tuttavia, erano già ben riforniti e in pochissimo tempo le nostre mafie si sono riorganizzate per farsi arrivare i carichi in Spagna. Il trend era cominciato già prima della pandemia: i porti prediletti dalla organizzazioni criminali italiane sono tornati ad essere per lo più quelli spagnoli, dopo dieci anni in cui si preferivano quelli del nord Europa.

Lo confermano i dati sui sequestri: «Solo tra marzo e aprile le autorità spagnole hanno fermato oltre 14 tonnellate di cocaina, una cifra sei volte più alta di quella dell’anno precedente», dichiara a Occrp Manuel Montesinos, vicedirettore dell’intelligence delle dogane dell’autorità fiscale spagnola. «Siamo stupiti dal ritmo frenetico dei carichi – spiega Montesinos – ogni giorno riceviamo segnalazioni di sequestri o di operazioni sospette». E i carichi intercettati sono molto più grossi del passato. Tra la fine di marzo e la fine di aprile in Spagna ne sono stati sequestrati quattro importanti: 3 tonnellate il 28 marzo, 1.5 il 20 aprile, 1 il 21 aprile e ben 4 il 27 aprile.

17 aprile 2020, le unità della Marina colombiana intercettano e sequestrano nel Pacifico, nelle vicinanze del dipartimento di Cauca, 1,2 tonnellate di cocaina – Foto: Armada Nacional Colombia
Quest’ultimo carico era trasportato da un’imbarcazione di servizio, che di solito navigava nei pressi del porto di Colon, a Panama. Poi improvvisamente ha cambiato lavoro: dalla Colombia è partita dritta per le coste portoghesi attraversando l’Atlantico con quattro tonnellate a bordo. Un’operazione rischiosa che dimostra come per le consegne si tenti il tutto per tutto: di norma il carico sarebbe passato ad altre imbarcazioni più grandi, ma non questa volta. La barca è stata intercettata dalle dogane spagnole al largo delle coste della Galizia, regione del nordovest spagnolo. Almeno altri sette sequestri da oltre 100 chili sono avvenuti in Spagna nello stesso periodo.

«Non potendo fare entrare i carichi via mare a causa dei controlli intensi, le mafie italiane hanno concentrato le loro operazioni sulla Spagna, che da sempre trattano come una loro colonia», analizza Marco Sorrentino, comandante del GICO (antimafia) della Guardia di Finanza di Roma. I carichi sono stati inviati principalmente ad Algeciras (Spagna) o Barcellona, e da lì spostati su gomma nel resto d’Europa, nascosti tra frutta o farina di soia, che ha un aspetto molto simile alla cocaina.

«Non potendo fare entrare i carichi via mare a causa dei controlli intensi, le mafie italiane hanno concentrato le loro operazioni sulla Spagna, che da sempre trattano come una loro colonia»

Marco Sorrentino

Comandante del GICO della Guardia di finanza di Roma

Lavoratori nelle piantagioni di coca nelle aree rurali di La Paz. Uno di loro si protegge le mani dalle punture di zanzara con un tessuto apposito / © Juan Manuel Barrero. Scorri le immagini

I grandi porti del nord Europa continuano comunque a ricevere significativi carichi di cocaina, sempre nascosta nei container che vengono sbarcati a migliaia ogni giorno. «Non ci facciamo illusioni, i criminali continueranno a lavorare senza sosta», dice Fred Westerberke capo della polizia di Rotterdam. «Osserviamo sempre più attività al porto. Nelle scorse settimane abbiamo fermato moltissimi “raccoglitori”, persone incaricate dai narcos di svuotare i container di droga prima che li possiamo individuare» spiega, aggiungendo che dall’inizio del lockdown hanno arrestato oltre 40 raccoglitori”.

L’ultimo tratto per arrivare in Italia da Spagna o Olanda avviene su strada. Trenta chili sono arrivati dall’Olanda anche a Prato, in Toscana. Sono stati scoperti nell’auto di un uomo albanese che, fermato ad posto di blocco in seguito alle misure per l’emergenza Covid-19, si è lanciato in una folle corsa per la città. Messo alle strette, il narcos ha provato anche a investire degli agenti a piedi, che però hanno risposto sparando ai pneumatici della sua auto che ha così finito la corsa, svelando nel bagagliaio 26 panetti di cocaina e 140mila euro.

Per quanto efficaci siano stati i vari gruppi criminali nell’adattarsi alla situazione attuale, le difficoltà sono riflesse nei prezzi. Il comandante della DCSA, Riccardo Sciuto, spiega che i prezzi «sono cresciuti fra il 20 e il 30%». Un dettaglio confermato anche dalle autorità spagnole: un chilo di cocaina scambiato fra diversi gruppi criminali a 27mila euro l’anno scorso, oggi vale fra i 35 e i 37mila.

CREDITI

Autori

Cecilia Anesi
Antonio Baquero
Nathan Jaccard
Giulio Rubino

In partnership con

Editing

Lorenzo Bagnoli

Foto

Casadaphoto/Shutterstock
Juan Manuel Barrero

Hanno collaborato

Luis Adorno
Raffaele Angius
Aubrey Belford
Koen Voskuil

Illustrazioni

OCCRP

Regione Lombardia: contestata a una società la frode sulla commessa per la mascherine

8 Maggio 2020 | di Matteo Civillini

Affidamenti diretti di Regione Lombardia per la fornitura di dispositivi di protezione individuale finiti nella mani di un grossista coinvolto in un’indagine per la vendita di abiti contraffatti. Una partita da quasi 14 milioni di euro – già pagata per circa il 70% – che si sta concludendo nel modo peggiore per tutti. A Milano le mascherine e i camici (DPI) cercati con massima urgenza lo scorso marzo non sono mai arrivati. Per l’imprenditore Fabrizio Bongiovanni, 44 anni, invece, sono scattati gli arresti domiciliari con le accuse di frode nelle pubbliche forniture e false attestazioni di svincolo.

Al centro della vicenda c’è Eclettica srls, azienda di Turbigo, in provincia di Milano, specializzata nell’import di giacche e cappotti. Con l’avanzare dell’emergenza Covid-19, però, il suo amministratore, Bongiovanni, avrebbe fiutato l’affare: procurarsi Dpi dalla Cina e rivenderli a diverse realtà della pubblica amministrazione. Ha potuto farlo ampliando l’oggetto sociale della sua attività solo il 7 aprile scorso, dunque solo dopo aver appreso dell’affidamento da parte di Aria Spa la stazione appaltante di Regione Lombardia.

Stando a fonti investigative, i prezzi unitari offerti dall’Eclettica vanno dai 50 centesimi per le mascherine chirurgiche, a 3,50 euro per le FFP2 fino a 18 euro per i camici più costosi. Da Aria spa, ottiene cinque affidamenti per un totale di quasi 14 milioni di euro, di cui 10,49 milioni pagati subito al momento dell’ordine. Un bell’affare per un’azienda che nel 2018 – ultimo anno di pubblicazione del bilancio – aveva fatturato poco meno di due milioni di euro.

Il sequestro della Guardia di finanza

Il contratto prevedeva che le forniture sarebbero state completate entro 7 giorni. Ma un mese e mezzo più tardi la società risulta in gran parte inadempiente. Tanto che oggi la Guardia di Finanza di Como ha provveduto al sequestro di 3,3 milioni di euro depositati sui conti della società. L’unica parte dei proventi della commessa lombarda che i finanzieri sono finora riusciti a rintracciare. Eclettica, peraltro, era già al centro di un’indagine della Procura di Como per la presunta commercializzazione di capi d’abbigliamento contraffatti.

L’avvocato Lorenzo Labate, difensore di Bongiovanni, sostiene che Eclettica ha già consegnato buona parte della merce ad Aria e che quella mancante è bloccata in dogana a Malpensa o in procinto di partire dalla Cina. «Questa situazione ha determinato uno stallo» dice Labate, «le indagini stanno comportando controlli ulteriori che rallentano il completamento della fornitura». Dall’altra parte la stessa Aria Spa fa sapere che la stessa merce ferma deve ancora «superare la verifica della certificazione».

Le false attestazioni di svincolo

Gli affidamenti di Regione Lombardia non sono gli unici ad aver cacciato l’amministratore di Eclettica nei guai.  Bongiovanni è accusato dalla Procura di Como di aver presentato false dichiarazioni di svincolo per ottenere lo sdoganamento diretto di 72mila mascherine FFP2 all’aeroporto di Malpensa.

L’attestazione presentata da Bongiovanni indicava come unico destinatario della merce la Federazione Italiana Medici. Ma, stando agli accertamenti dei finanzieri comaschi, 12mila delle mascherine dirette alla Federazione sarebbero state invece sottratte per la vendita al dettaglio a soggetti privati. Per Bongiovanni è scattatto dunque l’arresto con l’accusa di aver prodotto false attestazioni di svincolo. 

Il legale di Bongiovanni sostiene che il suo assistito abbia agito in modo lecito: «le bolle di svincolo erano intestate ad Eclettica e nessuna mascherina è stata sottratta all’Ordine dei Medici».

Il caos tra gli appalti Consip e della Protezione Civile

Quello dell’azienda milanese è solo l’ultimo caso di forniture affidate in tutta fretta per far fronte all’emergenza coronavirus e poi finite nel caos. Irpimedia ha documentato come tra gli aggiudicatari di appalti Consip ci siano inizialmente stati imprenditori indagati per frode. O come una carico di 5 milioni di mascherine interamente pagato dalla Protezione Civile sia rimasto bloccato in Cina perché non in regola.

«La situazione emergenziale ha costretto ad abbandonare procedure più complesse che permettono di verificare, tra le altre cose, la effettiva capacità imprenditoriale dei fornitori», dice a IrpiMedia una fonte investigativa. «A volte la fretta porta a fare delle cattive scelte».

Covid19: la zona grigia del mercato dei rapid test

#Covid-19

Covid19: la zona grigia del mercato dei rapid test

Cecilia Anesi
Lorenzo Bagnoli

Per quattro giorni interi Rodzer Zekirovski ha avuto tutti i sintomi da Covid-19: febbre alta, dolore muscolare, tosse secca. Era marzo nel nord della Macedonia e il quarantaquattrenne Zekirovski era preoccupato. Ma per quanto abbia insistito, non è riuscito a farsi accettare per un tampone in un ospedale pubblico.

Ha allora deciso di perseguire quella che gli sembrava una valida alternativa: andare in una clinica privata e sottoporsi ad un rapid-test sierologico con pungidito. Un esame banalissimo: gli operatori sanitari dovevano solo prelevare, attraverso una puntura, una gocciolina del suo sangue e appoggiarla sulla cassettina di plastica che rileva una reazione anticorpale all’infezione da coronavirus e in pochi minuti avrebbe avuto una risposta, simile a quella di un test di gravidanza: sì o no. Costo dell’operazione: 20 dollari. E con la promessa di affidabilità certa poiché il test era prodotto in Olanda. O almeno questo era ciò a cui aveva creduto il signor Zekirovski quando, risposta negativa alla mano, è tornato a casa sollevato.

Tre giorni dopo l’uomo è deceduto. L’autopsia ha confermato che Zekirovski era positivo alla SARS-CoV-2, il virus che causa la malattia Covid-19. Convinta che non avesse contratto il virus, l’intera famiglia Zekirovski non ha preso precauzioni quando l’uomo è tornato a casa sventolando il suo certificato. «Ci siamo abbracciati e baciati tra noi due e con i bambini – racconta la moglie Gjultena – come potevamo immaginare?».

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Non è possibile stabilire se una diagnosi corretta avrebbe salvato la vita di Zekirovski, ma senza dubbio la sua morte è la dimostrazione che i test rapidi detti “point of care” non sono sufficienti per una diagnosi certa del Covid-19. Al contrario di quanto è stato detto alla famiglia dell’uomo e al contrario di quanto pensa chi vede in essi una soluzione miracolosa.

A differenza dei tamponi faringei analizzati in laboratorio che cercano le proteine del virus – un processo che può richiedere giorni – i test rapidi cercano gli anticorpi rilasciati da un organismo nella lotta al virus. E i risultati sono leggibili in una decina di minuti.

Test del genere, pungidito, esistono già di tutti i tipi: per HIV, per scoprire la presenza di alcool o droghe nel sangue, per il colesterolo e così via. Ma il SARS-CoV-2 è un virus nuovo e ancora poco compreso, per cui le speranze iniziali che si riponevano a livello internazionale su questi test rapidi sierologici Covid-19 sono state tradite dall’evidenza che molti di questi sono meno accurati di quanto dichiarato dalle aziende produttrici.

Test rapido, test sierologico tradizionale e tampone a confronto

Test rapido: con test rapido intendiamo i test “pungidito” con la gocciolina di sangue. Non sono test diagnostici in quanto non sono in grado di stabilire se chi si sottopone al test abbia o meno il Covid-19 ma rintracciano la presenza di eventuali anticorpi. L’Organizzazione mondiale della sanità ne sconsiglia l’utilizzo, così come da parte dell’Istituto Superiore di Sanità non c’è mai stato un pronunciamento a favore del loro utilizzo. I distributori dei kit che abbiamo intervistato lamentano però il fatto che in Italia non sia stato fatto nemmeno un tentativo di testarli seriamente. In questo stallo, diversi sindaci e presidenti di Regione ne hanno fatto ordini importanti.

Test sierologico tradizionale: è un altro test che serve alla rilevazione degli anticorpi che usa i sistemi definiti CLIA o ELISA. È lo strumento scelto dal Ministero della Salute e dal Comitato tecnico scientifico per fare lo screening della popolazione in Italia, in quanto ritenuto migliore e più accurato dei test rapidi, vista la letteratura scientifica al momento disponibile. Il Ministero il 17 aprile ha indetto una gara per la «fornitura di kit, reagenti e consumabili del medesimo tipo, per l’effettuazione di 150.000 test» allo scopo in particolare di trovare le immunoglobuline di tipo G. L’appalto è stato vinto dalla società americana Abbott. Il suo test è anch’esso inserito dall’Oms nella lista dei prodotti «non approvati».

Tampone: il tampone naso-faringeo è ad oggi l’unico strumento diagnostico disponibile, in grado di identificare acidi nucleici virali, spia della presenza del virus. I test per la ricerca degli anticorpi sono complementari al tampone. Dopo aver prelevato materiale biologico, il tampone prevede l’analisi in laboratorio, per trovare tracce di RNA virale nel campione. Per evitare errori umani, l’Istituto Superiore di Sanità ha pubblicato a inizio aprile una guida con le raccomandazioni per effettuare il test nel modo corretto.

La stessa Organizzazione mondiale della sanità il 26 marzo, un po’ tardi rispetto alla commercializzazione dei rapid test, ha pubblicato una lista di test e rispettive aziende produttrici dicendo però «non ne incoraggiamo l’uso». In un aggiornamento del 4 maggio, compaiono anche nomi di spicco come Abbott, l’azienda americana che si è appena aggiudicata l’appalto italiano per 150mila test sierologici tradizionali con prelievo endovenoso (un sistema più complesso del pungidito). Eppure i singoli Paesi, soprattutto quando annunciano la “fase 2”, non possono fare affidamento solo su questo metodo per lo screening della popolazione. Il tampone costa molto, i traccianti chimici sono merce sempre più contesa e i laboratori, per analizzarne i campioni, rischierebbero di ingolfarsi in tutto il mondo.

La posizione pilatesca dell’Oms di fronte ai test rapidi ha così di fatto aperto a un far west in cui aziende private più e meno accreditate hanno cercato di vendere dei prodotti la cui affidabilità non è stata mai validata davvero. Se questa situazione era accettabile a febbraio, oggi ci dovrebbe essere un’analisi seria di quali siano i test rapidi affidabili e quali no. Circostanza che finora non si è verificata.

La posizione pilatesca dell’Oms di fronte ai test rapidi ha così di fatto aperto a un far west in cui aziende private più e meno accreditate hanno cercato di vendere dei prodotti la cui affidabilità non è stata mai validata davvero

Non c’è nulla di certo intorno alla diagnostica del Covid: gli stessi tamponi a volte hanno dato risultati sballati. Ma il rischio maggiore sembra rappresentato proprio dai test rapidi “pungidito” perché studi scientifici indipendenti hanno iniziato a smontare l’affidabilità certificata dai produttori.

«Se vogliamo determinare se una persona è infetta, allora un falso positivo non è un grande problema perché l’unica conseguenza è che la persona viene messa in quarantena per niente», ha spiegato a IrpiMedia Marien de Jonge, un ricercatore che si sta occupando di COVID-19 Radboud University Medical Center in Olanda. «Ma un falso negativo è un disastro. Perché, evitando di isolarsi, può mettere inconsapevolmente in pericolo le altre persone».

Resta però un fatto: i test rapidi, se incrociati all’uso del tampone, potrebbero essere la chiave per fare lo screening della popolazione che tutti stanno aspettando. «Testare, tracciare e trattare» è il cavallo di battaglia dell’epidemiologo Alessandro Vespignani. Secondo lo scienziato – con un passato da fisico e informatico, competenze che oggi unisce all’epidemiologia per realizzare complessi sistemi di analisi e predizione delle epidemie – è fondamentale fare tamponi e test (purché omologati) a tappeto, con «determinazione ossessiva e spietata» ha spiegato in un’intervista a The Post Internazionale.

Invece, al momento, regna solo il caos.

IrpiMedia ha partecipato ad un’inchiesta transnazionale coordinata da OCCRP su sei Paesi nel mondo, che fa luce su una serie di problematiche legate alla commercializzazione e all’uso di questi test a livello internazionale.

«Se vogliamo determinare se una persona è infetta, allora un falso positivo non è un grande problema perché l’unica conseguenza è che la persona viene messa in quarantena per niente. Ma un falso negativo è un disastro. Perché, evitando di isolarsi, può mettere inconsapevolmente in pericolo le altre persone»

Marien de Jonge

Radboud University Medical Center (Paesi Bassi)

È ormai chiaro che il paziente macedone sia stato ingannato. Non solo il test non era affidabile al 100%, ma non era nemmeno giusto indurre il signor Zekirovski a credere di aver fatto un test diagnostico di alta qualità solo perché “olandese”. Il test a cui è stato sottoposto Zekirovski, il Biozek, è prodotto dall’azienda olandese Inzek International Trading, stando alle dichiarazioni ufficiali. In realtà, le ricerche di OCCRP svelano come il kit Biozek sia prodotto della Hangzhou Alltest Biotech Co. Ltd, una grossa azienda cinese sul mercato da anni. Non solo Inzek, ma una moltitudine di fabbricanti europei e americani lo hanno commercializzato e reimpacchettato, cambiandogli il nome, per farlo sembrare di fabbricazione occidentale. Molti hanno fatto sparire del tutto dai loro siti e dai kit in commercio il nome del produttore originario, Alltest.

Come funzionano i test rapidi

I test rapidi sierologici “pungidito”, da non confondere con quelli molecolari, funzionano con il prelievo di una goccia di sangue da appoggiare in una cassettina di plastica al cui interno c’è un “cuore” di reagenti in grado di tracciare la presenza di anticorpi virali.

La maggior parte di questi test cercano due tipi di anticorpi: le immunoglobuline M (IgM), che solitamente compaiono all’inizio dell’infezione, e le immunoglobuline G (IgG), che sono anticorpi di lunga durata, di cui il corpo mantiene memoria. E che quindi in teoria potrebbero dimostrare l’immunità di un organismo al virus, anche se quest’ultima circostanza non è ancora stata del tutto verificata.

I test pungidito, sulla cui affidabilità c’è ancora molto dibattito e poca letteratura scientifica, sono i più economici e danno un risultato in circa 10-15 minuti, non sempre completamente attendibile.

Questa pratica si muove sul filo della legalità. Un prodotto, secondo la normativa europea, può dirsi “Made in Europe” se quella che viene definita “l’ultima lavorazione” avviene nello spazio Schengen, come spiegato a IrpiMedia da Confindustria Dispositivi Medici. Questa “lavorazione” può anche essere solo l’assemblaggio con un nuovo involucro, che di fatto ribattezza il prodotto. L’origine, però, deve sempre essere rintracciabile dagli organismi europei che certificano le aziende e dalle agenzie nazionali che approvano la commercializzazione dei prodotti. Questa pratica avviene in Italia con una autocertificazione mandata al Ministero della Salute, che poi registra aziende manifatturiere e mandatarie di un singolo dispositivo medico.

E così, oltre all’originale marchio Alltest, i test della Hangzhou Alltest Biotech Co. Ltd sono stati venduti sotto altri nomi a istituzioni governative, municipalità, Asl, ospedali e cliniche private in mezzo mondo, distribuiti in paesi tra cui Spagna, Italia, Inghilterra, Indonesia, Russia, Arabia Saudita e pure il Vaticano.

Le analisi del sangue per effettuare i test seriologici molecolari all’ospedale Bellaria di Bologna – Foto: Michele Lapini

Il kit pungidito Covid-19 di Alltest è affidabile?

Il test di validazione che presenta Alltest per accreditarsi sul mercato afferma una precisione dei test del 92.9% per gli IgM (quindi per gli anticorpi che l’organismo produce a infezione in corso) e un 98.6% per gli anticorpi di lunga memoria, gli IgG.

Studi indipendenti sul prodotto però riportano un’affidabilità molto più bassa.

Uno studio dell’Ospedale Universitario Principe di Asturia ha rilevato falsi negativi in più della metà dei casi. Hanno però anche scoperto che il test è sempre più sensibile col passare del tempo: se usato su pazienti oltre i 14 giorni dopo la comparsa dei primi sintomi, allora il test è in grado di trovare gli anticorpi e i falsi negativi appaiono solo un quarto delle volte.

«L’accuratezza (dettata dalle due S, specificità e sensibilità) dichiarata da Alltest, ovvero 92.6% e 98.6%, è spazzatura», spiega dal “Center for Global Health Science and Security” della Georgetown University la ricercatrice e professoressa Claire Standley.

Sullo studio rilasciato da Alltest mancano molte informazioni. «Non hanno specificato lo status clinico dei pazienti, non sappiamo – precisa Standley – se erano ricoverati, se erano pescati a caso dalla comunità, non sappiamo se avevano sintomi lievi, non sappiamo come siano stati scelti. E in più – conclude – non c’è alcuna specifica sugli standard etici utilizzati durante lo studio. Tutti aspetti fondamentali».

Uno studio dell’Ospedale Universitario Principe di Asturia ha rilevato falsi negativi in più della metà dei casi

Standley sostiene che gli esperimenti clinici dei rapid test dovrebbero essere comparati con quelli più accurati fatti in laboratorio (per esempio il tampone faringeo), ma nota come sullo studio rilasciato da Alltest tutto questo aspetto manchi del tutto.

Anche con un’affidabilità più bassa di quella dichiarata, i kit di Alltest potrebbero essere un utile mezzo di screening usato in tandem al tampone, sostiene Standley. D’altronde è proprio questa la corretta somministrazione del test indicata sul sito web di Alltest. Come precisato sul sito dopo la cancellazione dell’ordine da parte del governo inglese. Così oggi si legge che il test «non è adeguato per una prima diagnosi dell’infezione» e dovrebbe essere utilizzato come «metodo supplementare» ai test di laboratorio. L’azienda si è rifiutata di rispondere ad altre richieste di commento dei giornalisti di OCCRP.

Le consegne nel mondo dei rapid test marchiati Biozek

Le lacune attorno al prodotto Alltest hanno spinto ai primi di aprile diversi governi, come quello spagnolo oltre al già menzionato governo inglese, a fermare gli ordini. Un distributore italiano sentito da IrpiMedia sostiene che da quel momento i kit siano bloccati in Cina, in attesa di un’ulteriore verifica da parte della Repubblica Popolare, ma che ci siano ugualmente rivenditori europei e americani che offrono comunque i test a prezzi di mercato altissimi, esibendo una certificazione cinese contraffatta.

#Covid-19

Il mercato parallelo dei vaccini

Vero o presunto che sia, è oggetto di indagini in Italia ed Ue. Lo popolano truffatori ed esiste perché il sistema di distribuzione globale, soprattutto verso i Paesi poveri, arranca

«Forse c’è una parola sbagliata»

I test rapidi per Covid-19 prodotti da Alltest sono identificati da un codice: INCP-402, che può comparire anche nelle varianti 402s, 402b, 4011a o BNCP-402 e BNCP-402e. Questo codice è attribuito al prodotto dalla fabbrica di origine: Alltest riporta INCP nello studio clinico con cui ha immesso sul mercato il prodotto. Inzek nello studio lo riporta come BNCP, ma gli autori sono gli stessi del report di Alltest, così come il prodotto. Almeno altre tre aziende che si inquadrano come “fabbricanti”, tra Europa e USA, stanno rivendendo test INCP-402 e varianti con il proprio marchio. Prodotti che in realtà dovrebbero riportare da qualche parte la dicitura “Made in China” e semmai assemblati altrove.

Si ottiene un’ulteriore conferma che i test in commercio siano sempre di produzione Alltest incrociando i codici di prodotto che si trovano nei foglietti illustrativi con le esportazioni che Alltest da Huangzhou fa in tutto il mondo.

Il foglietto illustrativo del rapid test 

«Inzek di solito fa il proprio controllo di qualità in un laboratorio in Iraq, e poi assemblea i prodotti in Olanda, ma nessuno di questi due passi è stato possibile a causa delle misure di lockdown»

Mustafa Hamid

Manager controllo qualità Inzek

Così spunta la principale azienda importatrice dei kit di Alltest, l’olandese Inzek International Trading BV, l’azienda produttrice dei dispositivi medici Biozek. Fino al 29 aprile scorso, sul sito dell’azienda questi test erano pubblicizzati come “prodotti in Olanda”, e venduti a marchio CE. Chi li acquistava, specialmente a certe latitudini, presentava l’origine del prodotto come garanzia di qualità. L’azienda farmaceutica statale dell’Indonesia, PT Kimia Farma, l’8 aprile ha annunciato l’acquisto di 300 mila kit Biozek ritenuti ottimi poichè marcati CE.

«I test sono stati sviluppati e prodotti sotto le più severe regole dell’Unione Europea e olandesi. Queste regole non lasciano margine d’errore rendendo il nostro prodotto molto affidabile e sicuro», ha affermato nel corso di una conferenza stampa Mustafa Hamid, il manager per il controllo qualità di Inzek. Lo stesso Hamid ammette però in una intervsita con OCCRP che i test siano di fatto sviluppati e prodotti in Cina da Alltest. «Inzek – prosegue – di solito fa il proprio controllo di qualità in un laboratorio in Iraq, e poi assemblea i prodotti in Olanda, ma nessuno di questi due passi è stato possibile a causa delle misure di lockdown». A detta dello stesso importatore, quindi, a partire dal momento in cui sono entrate in vigore le misure restrittive in Olanda, non c’è stato più alcun passaggio produttivo o di controllo qualità in Europa. Ma il manager giura come l’azienda produttrice cinese sia assolutamente professionale e con certificati ufficiali.

I campioni per i test seriologici molecolari all’ospedale Bellaria di Bologna – Foto: Michele Lapini

Quando i giornalisti di OCCRP gli hanno fatto notare che i kit venduti in questi mesi da Inzek continuano ad avere la denominazione “prodotto in Olanda”, Hamid ha risposto: «Forse abbiamo sbagliato una parola. Forse dovremmo correggerla». Il giorno dopo l’intervista la dichiarazione è sparita dal sito.

Il direttore indonesiano della Kimia Farma, Andi Prazos, aveva creduto che i test fossero olandesi e aveva anche inviato il suo staff per un controllo presso la fabbrica di Inzek in Olanda. «Prima dell’acquisto, ci siamo accertati che Inzek fosse un’azienda credibile e che avesse la propria linea produttiva. Ci ha aiutato l’ambasciata indonesiana in Olanda», afferma Prazos.

Dichiarare la produzione in uno spazio che non sia quello corretto «è un atteggiamento scivoloso, chiaramente, e non molto trasparente verso il consumatore – commenta Claire Standley, ricercatrice di Georgetown – che sfrutta le pieghe di un sistema di norme che non si era mai posto davvero il problema, visto che finora non c’era un interesse in questo tipo di strumenti diagnostici».

«Dichiarare la produzione in uno spazio che non sia quello corretto è un atteggiamento scivoloso, chiaramente, e non molto trasparente verso il consumatore che sfrutta le pieghe di un sistema di norme che non si era mai posto davvero il problema, visto che finora non c’era un interesse in questo tipo di strumenti diagnostici»

Claire Standley

Ricercatrice, Georgetown

I test a marchio Biozek sono diventati molto popolari. L’amministratore delegato Zeki Hamid ha spiegato che l’azienda ha venduto e spedito finora ben 1,6 milioni di kits, contando tra i clienti più importanti Indonesia, Russia, Olanda, Kuwait, Arabia Saudita e Iraq. E un cliente d’eccellenza, il Vaticano.

Lo Stato della Chiesa ha ordinato 700 kit, come riportato da La Stampa, grazie all’intermediazione di Paolo Zampolli, ambasciatore dell’isola di Dominica presso le Nazioni Unite. Zampolli non è un imprenditore qualunque: è arrivato a New York a fine anni ‘80 per avviare un’agenzia di modelle di grandissimo successo. È così che ha conosciuto Melania Knauss, l’attuale first lady d’America, presentata all’amico Donald Trump durante un party nel 1998. I Trump restano ancora suoi grandi amici.

A suo dire, i buoni agganci in Vaticano sono invece dovuti alla parentela con Papa Paolo VI, morto nel ‘78. Sull’account Instagram Zampolli ha pubblicato una foto con i test Biozek, in cui scrive che i test rapidi sono «per l’FDA», l’agenzia federale del farmaco negli Stati Uniti. Alla domanda se i test fossero stati affidabili o meno, l’ufficio stampa del Vaticano non ha risposto.

Altri nomi, stesso cuore

Numero di serie alla mano, i giornalisti OCCRP sono riusciti a trovare almeno altri due prodotti ri-marchiati degli Alltest, venduti su ampia scala. Uno di questi è venduto a marchio ScreenItalia, un’azienda che produce e vende dispositivi medico-diagnostici in vitro (IDV) da Perugia, in Umbria. Sul proprio sito, la ScreenItalia ha dedicato un’intera pagina al test rapido Covid-19 presentando anche un documento di autodichiarazione di conformità CE e dichiarando l’iscrizione al registro dei dispositivi medici del Ministero della Salute. E infatti, lì la ScreenItalia appare come “fabbricante” di tre rapid test Covid-19, di cui due registrate come varianti del codice INCP-402, lo stesso kit rietichettato dalla Biozek olandese. Una delle varie aziende distributrici definisce questo atteggiamento «concorrenza sleale, visto che certi clienti preferiscono il made in Italy al prodotto cinese».

ScreenItalia si è però rifiutata di fornire informazioni rispetto all’origine del test e agli acquirenti, dicendo che «sono informazioni confidenziali». Non si sa quindi a quanti ospedali, ASL o laboratori diagnostici la ScreenItalia abbia fornito i test Alltest, ma stando a quanto riportato da La Nazione la Protezione Civile umbra ha acquistato 15mila rapid test “Screen Test”, ovvero i test INCP-402 della ScreenItalia. «Noi siamo distributori in esclusiva di questo prodotto». In realtà l’INCP-402 è della Alltest, prodotto in Cina, e distribuito in Italia da varie aziende.

Nel nostro Paese risulta infatti fabbricante di test INCP anche Acro Biotech, azienda di Rancho Cucamonga, California. Il prodotto è venduto con il marchio Acro o Juscheck, di fatto entrambe versioni dell’Alltest INCP-402. Acro Biotech è il maggior cliente di Alltest già da prima della pandemia, da cui acquista test in vitro per la diagnostica di altri virus o alcool e droghe. Acro Biotech ha rivenduto poi in India, Cile, Brasile, Spagna, Belgio, Finlandia e Italia. E sulla dichiarazione di conformità CE il produttore dichiarato è proprio l’azienda di Rancho Cucamonga. Nessuna traccia nei fogli illustrativi del nome Alltest. L’azienda californiana non ha risposto alle richieste di spiegazioni di OCCRP.

«Il Comitato Tecnico Scientifico (CTS), quindi Ministero della Salute e Istituto superiore di sanità (ISS) in testa, non riconoscono al momento i cosiddetti test rapidi sierologici come strumenti diagnostici validi. Noi ci atteniamo alle linee guida della comunità scientifica internazionale»

Cesare Buquicchio

Capo ufficio stampa del Ministero della sanità

La zona grigia

In Italia la “zona grigia” sulle normative commerciali si somma al fatto che, dopo l’avvio della fase 2, un po’ per disorganizzazione un po’ per mancanza di un piano comune, ogni Regione fa storia a sé.

«Il Comitato Tecnico Scientifico (CTS), quindi Ministero della Salute e Istituto superiore di sanità (ISS) in testa, non riconoscono al momento i cosiddetti test rapidi sierologici – quindi quelli che si basano su una goccia di sangue – come strumenti diagnostici validi. Noi ci atteniamo alle linee guida della comunità scientifica internazionale», spiega Cesare Buquicchio, capo ufficio stampa del Ministero.

«È vero – concorda Buquicchio – molte regioni hanno acquistato i test rapidi nonostante ci fossimo chiaramente pronunciati contrari. Ma le posso assicurare che alcune di queste li hanno addirittura dovuti buttare via perchè non funzionavano bene». IrpiMedia ha tracciato acquisti di test Acro Biotech fatti dalla Asl di Cagliari, dall’Ospedale dei Colli di Napoli e da un Comune di 1700 abitanti in Abruzzo, Cerchio.

Il sindaco Gianfranco Tedeschi, a fine marzo, ha acquistato da un’azienda di Bari 1.700 test Acro Biotech per i suoi cittadini, nonostante la polemica con la Regione Abruzzo. Ne ha già usati 650 con l’aiuto di un medico testando per tre volte circa 200 persone. «Siamo molto soddisfatti dei risultati, e dell’affidabilità dei test che abbiamo usato incrociandoli ai più classici tamponi laddove le persone risultavano positive al Covid-19, o che abbiamo usato per confermare gli anticorpi in persone che sapevamo avere già attraversato la malattia».

Non è stato possibile sapere dalla Asl di Cagliari e dall’ospedale di Napoli come siano stati usati i test e che risultati abbiano dato.

Ci si aspetta che l’Istituto Superiore di Sanità si pronunci questa settimana per mettere una parola definitiva in materia.

In piena pandemia, ci si poteva aspettare un maggiore coordinamento a livello nazionale. Invece la zona grigia ha prevalso con il rischio che i test finiscano nelle mani di privati che non saprebbero come utilizzarli correttamente.

Un broker di un’azienda di e-commerce veneta di prodotti medici che chiede di restare anonimo spiega di aver «venduto rapid test sierologici, anche del tipo INCP402, ad aziende private non in ambito medico. Ma abbiamo preteso un certificato dal medico del lavoro dell’azienda, che dichiarasse come lo screening sarebbe avvenuto sotto la propria responsabilità». Non tutti i rivenditori però sono così scrupolosi. Alcune aziende vendono online rapid test senza che avvenga alcuna valutazione sui compratori: basta un pagamento con Paypal.

«Al momento c’è un buco normativo, perché non c’è nessuna norma che vieti vendere alla “signora Maria” ma non c’è nemmeno alcuna norma che lo consenta. Noi abbiamo semplicemente deciso di non farlo perchè per politica aziendale non ci interessa», spiega a IrpiMedia il broker.

La Guardia di Finanza però si sta muovendo per impedire la vendita diretta al privato cittadino. Il Gruppo Tutela spesa Pubblica di Firenze il 4 maggio ha oscurato uno dei tanti siti web che vendeva illecitamente, tra vari prodotti medici, anche i sierologici pungidito. «L’azienda di e-commerce – spiega a IrpiMedia il comandante Marco Chetta – si era lanciata anche sui rapid test che adesso sono molto in voga. Chiedeva 59 euro a kit. I proprietari dichiaravano sul sito che la vendita era solo per operatori medici specializzati, ma in realtà non vi era il minimo controllo e li poteva acquistare chiunque».

Ci si aspetta che l’Istituto Superiore di Sanità si pronunci questa settimana per mettere una parola definitiva in materia. Il timore però è che le linee guida vengano lasciate vaghe per paura di infilarsi in un pantano. Lasciando così che viga ancora una “zona grigia”. Peccato, perché ciò che servirebbe è una risposta certa rispetto a quali strumenti usare, se questi stessi strumenti sono validi, e come incrociarli, per il monitoraggio dell’andamento epidemiologico e per la cosiddetta “fase 2”.

CREDITI

Autori

Cecilia Anesi
Lorenzo Bagnoli

In partnership con

Editing

Luca Rinaldi

Foto

CDC/Unsplash
National Cancer Institute/Unsplash
Michele Lapini

Mascherine: l’Italia paga ma la merce resta bloccata a Pechino

6 Maggio 2020 | di Matteo Civillini, Gianluca Paolucci

Cinque milioni di mascherine già interamente pagate dalla Protezione Civile sono bloccate in Cina perché non in regola. I fornitori cinesi sono di conseguenza finiti sulla lista nera del governo di Pechino per aver venduto prodotti di scarsa qualità. E la richiesta dell’Italia, intanto, resta inevasa.

È passato un mese ormai da quando la Protezione Civile ha versato dodici milioni e mezzo di euro nelle casse di un’azienda tecnologica controllata dallo Stato cinese. Prive di marcatura CE, per queste mascherine KN95 (2,50 euro l’una) è necessario il nulla osta del Comitato tecnico scientifico del Ministero della salute. Ma la partita sta sollevando diverse perplessità tra i funzionari che gestiscono la crisi Covid-19. «Siamo in un momento in cui si acquista e poi si fanno i controlli quando la merce viene consegnata», concedono dalla Protezione Civile a La Stampa e IrpiMedia. Certo, la corsa globale alle mascherine obbliga a tagliare tempi e cautele. Con il rischio però di incappare in brutte sorprese: ovvero, che in Italia della merce non arrivi mai, lasciando spazio solo alla complicata strada del rimborso per recuperare i fondi pubblici spesi per gli acquisti.

Al centro dell’acquisto bloccato c’è la Tus Data Asset: società statale fondata nel 2018 dall’università Tsinghua di Pechino che si occupa di big data, tecnologia blockchain e intelligenza artificiale. Niente a che vedere con i Dpi ma, come molti altri in questo periodo di emergenza, anche l’azienda cinese si sarebbe reinventata. Secondo il quotidiano South China Morning Post, la Tus Data Asset avrebbe cambiato la sua ragione sociale per includere l’esportazione di strumenti medicali il 23 marzo. Una settimana dopo aver siglato il contratto con la Protezione Civile per 5 milioni di FFP2 (poi diventate KN95) a 2,50 euro l’una, iva e trasporto escluse. Il prospetto inviato dall’azienda e consultato da IrpiMedia comprende anche le foto dei modelli specificando però che «si tratta solo di un esempio, e il materiale inviato dipende dalle scorte disponibili». 

La fattura in favore della Aipo International

Le condizioni di vendita appaiono restrittive: l’azienda cinese esige un acconto pari al 50% dell’importo totale e il versamento del saldo prima che la merce lasci la Cina. Pagamento che, come indica la fattura, non viene richiesto a favore della stessa Tus Data Asset, ma di un’azienda terza. Si tratta di Aipo International, un rivenditore di cuffie bluetooth e videoproiettori con sede a Shenzhen, l’hub dell’elettronica cinese a 2.000 km di distanza da Pechino. Non è chiaro quale sia la relazione tra le due aziende. Interpellato da IrpiMedia, un responsabile di Tus Data Asset non ha voluto commentare.

Come da accordi, la Protezione Civile liquida i 12 milioni e mezzo all’atto della consegna del materiale in un deposito cinese. La qualità delle mascherine ricevute però lascia dei dubbi e il trasporto in Italia viene bloccato. Il 13 aprile un nuovo capitolo: il Ministero del Commercio cinese vieta ufficialmente alla Tus Data Asset e alla AIPO International di esportare Dpi all’estero. «I prodotti di alcune aziende sono stati restituiti perché, data la bassa qualità, macchiano l’immagine del Paese», si legge nella nota ministeriale cinese. Fatto sta che oggi le mascherine sono ancora in Cina. «Noi puntiamo ad avere la merce certificata dice la Protezione Civile. Se la merce non sarà riconosciuta valida allora avvieremo le procedure di rimborso. Ma speriamo tutto vada bene».

Il modello Lombardia dalla grandeur sanitaria alla débâcle Covid-19

#Covid-19

Il modello Lombardia dalla grandeur sanitaria alla débâcle Covid-19

Lorenzo Bagnoli
Luca Rinaldi

La Lombardia vanta un sistema sanitario definito, soprattutto dai suoi governanti, «eccellente». Compare sempre nei primi posti dell’Indice di performance sanitaria e nel 2019, secondo il report del think tank Demoskopika, 165 mila persone si sono spostate da altre regioni per farsi curare nei suoi ospedali. Eppure, dietro l’ “eccellenza”, ci sono anche dei problemi gestionali colossali, dovuti a precise scelte politiche. Da un lato, il sistema sanitario “alla lombarda” ha trasformato profondamente la sua rete di presidi sanitari di medicina generale a vantaggio dei grandi ospedali. Dall’altro, ha creato un sistema di accreditamento tra pubblico e privato che in passato ha dimostrato di essere permeabile a fenomeni corruttivi.

Non è possibile stabilire una causalità diretta tra la struttura del sistema sanitario e i numeri dell’emergenza Covid, più alti qui che nel resto d’Italia, ma si possono certamente indicare le responsabilità politiche che hanno prodotto il sistema odierno. Il processo ventennale è stato talmente pervasivo che, nonostante molte indagini e condanne, non è stato possibile scardinarlo. La trasformazione è cominciata nel 1997, quando la regione era governata da Roberto Formigoni, che al Pirellone, il grattacielo allora sede del governo regionale, ci è stato dal 1995 al 2013. Al suo regno è seguito quello della Lega, prima Roberto Maroni e ora Attilio Fontana, che hanno seguito pedissequamente il sentiero tracciato in passato.

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Il piano d’emergenza nel cassetto da dieci anni

Il governo regionale dal 2010, anno dell’esplosione del virus influenzale H1N1, meglio conosciuto come “influenza suina”, dovrebbe avere aggiornato un piano di emergenza per la gestione delle pandemie. Il piano però non è mai stato messo in atto, nonostante il 22 dicembre 2010, quasi dieci anni fa, una delibera regionale avesse indicato quali dovessero essere i suoi contenuti, dopo aver evidenziato tutte le criticità nella tenuta del sistema sanitario regionale durante l’emergenza H1N1.

La delibera aveva già individuato i punti deboli del sistema lombardo di fronte a una crisi, dalle mancate procedure per la gestione delle residenze sanitarie per anziani, che rappresentano una delle più importanti alternative all’ospedale che esistono in Lombardia, fino a stabilire quale dovesse essere il comportamento dei medici di medicina generale in una fase di pandemia acuta.

Tutto il sistema, per altro, non poteva prescindere dal coordinamento e dalla gestione dell’emergenza da parte delle Asl, le Aziende sanitarie locali, che oggi hanno cambiato pelle, diventando, di fatto, sportelli di accettazione e uffici amministrativi, più che presidi medici.

La delibera, infatti, indicava la mancata definizione di un «accordo-quadro con le residenze per anziani (Rsa) per l’aumento di assistenza medica e infermieristica» tra i principali nodi da sciogliere per realizzare un piano di emergenza lombardo. Oggi le Rsa sono i luoghi dove si sono verificati focolai sulle cui responsabilità la procura di Milano ha aperto otto inchieste, di cui la più importante riguarda il Pio Albergo Trivulzio, struttura che ospita circa 1.200 anziani.

Altro buco mai sanato è il capitolo riguardo la “Fase 6”, cioè il protocollo di comportamento da seguire quando ci si trova di fronte a una pandemia dilagata, che letto oggi è drammatico.

Era prevista infatti la definizione di accordi con i medici di medicina generale per «l’ampliamento dell’assistenza in fase 6». Anche qui la verifica è lapidaria: «Non sono stati siglati accordi». Come allora nei decenni successivi gli stessi medici sono rimasti senza linee guida su come trattare a domicilio i pazienti sospetti. Allo stesso modo nel documento si indica, proprio in virtù dell’isolamento dei casi, il necessario incremento dell’assistenza domiciliare. Risultato: «assenza di azioni».

«Il progressivo ridimensionamento del ruolo dei medici di famiglia ha portato a una progressiva perdita di cura del territorio»

Roberto Carlo Rossi

Presidente dell'Ordine dei medici di Milano

«Negli ultimi 15 anni in Lombardia – dice a IrpiMedia il presidente dell’Ordine dei medici di Milano, Roberto Carlo Rossi – si è di fatto depauperato il patrimonio della medicina generale sul territorio. I medici di famiglia hanno rivestito, purtroppo, un ruolo sempre più marginale. La messa al centro degli ospedali in quanto tali e il progressivo ridimensionamento del ruolo dei medici di famiglia – conclude Rossi – ha portato a una progressiva perdita di cura del territorio».

Proprio lo sviluppo della medicina del territorio avrebbe potuto essere uno strumento importante per l’isolamento dei casi e il trattamento a domicilio senza ricovero, come ha sottolineato l’8 aprile su RaiTre, ad Agorà, il dottor Massimo Galli, responsabile del reparto malattie infettive all’Ospedale Sacco di Milano: «C’è stato un clamoroso fallimento, e di questo ne dovremo prendere atto per il futuro, della medicina territoriale, ammettiamolo e riconosciamo questo aspetto».

L’inizio dello smantellamento combacia con la riforma formigoniana del 1997, completata 18 anni dopo con quella voluta dal governo regionale della Lega guidato da Roberto Maroni.

Il regno di Roberto Formigoni

Tra il 1995 e il 2013 Roberto Formigoni è stato presidente regionale e ha tirato le fila del potere in una delle regioni più produttive d’Europa. La sanità è sempre stata uno dei suoi cavalli di battaglia, grazie soprattutto ai legami con organizzazione religiose con la vocazione per la politica e gli affari come Comunione e Liberazione e il suo braccio economico, la Compagnia delle Opere.

Parola chiave: spoils system

Pratica politica secondo cui gli alti dirigenti della pubblica amministrazione cambiano con il cambiare del governo

Formigoni inizia da giovanissimo la sua attività politica nella Democrazia cristiana. Prima di sedere sullo scranno più alto della regione Lombardia passa dall’Europarlamento alle elezioni del 1984, diventando nel 1987 vice presidente del Parlamento europeo. Eletto deputato in Italia nel 1987, otto anni dopo arriva il primo mandato da presidente della regione Lombardia e la militanza nel progetto politico di Silvio Berlusconi.

Lo chiamavano il Celeste, al Pirellone. Rispetto agli “azzurri”, i neomilitanti della rampante Forza Italia, in maggioranza nuovi arrivati nel mondo della politica, Formigoni era un politico navigato, con anni di militanza democristiana. Il suo azzurro, perciò, era meno acceso: celeste, appunto.

È proprio nel corso di questi vent’anni che il sistema della sanità lombardo spinge l’acceleratore sul settore privato, con il contributo decisivo dei grossi gruppi imprenditoriali, che in Lombardia hanno visto un nuovo mercato, e le organizzazione religiose.

La sua riforma del 1997 è una rivoluzione copernicana nel sistema sanitario italiano: equipara sistema pubblico e sistema privato seguendo i modelli di privatizzazione dei Paesi anglosassoni. In un convegno del novembre 1997 diceva che il suo modello avrebbe permesso il «superamento della crisi del welfare, ovvero della solidarietà sociale di matrice statalista».

«E noi – si legge nel resoconto di AdnKronos Salute – crediamo che questo episodio possa contagiare le altre regioni e avviare un confronto che aiuti a trovare risposte adeguate alle grandi questioni dibattute anche in questo convegno». L’ambizione non gli è mai mancata. Non ha contagiato altre regioni, ma ha pervaso nel profondo la Lombardia: la stessa filosofia formigoniana è stata perseguita anche dalla giunta leghista che ha preso il suo posto, con un’ulteriore riforma promossa nel 2015.

L'unicità del sistema sanitario lombardo
Spiega Alberto Ricci, coordinatore dell’Osservatorio OASI dell’università Bocconi, che il servizio sanitario lombardo si differenzia principalmente in due aspetti da quello delle altre regioni italiane: il primo è il ruolo delle Asl, le Aziende sanitarie locali, le cui funzioni in Lombardia sono state attribuite a due diverse tipologie di enti, il secondo riguarda il peso nell’offerta sanitaria del settore privato.

Le Asl, da legge nazionale del 1992, «si occupano della committenza e dell’erogazione delle prestazioni sanitarie», spiega Ricci. In pratica, a seconda dell’esigenza del paziente, possono fornire direttamente un servizio da ambulatorio, prescrivere farmaci, oppure ricoverare il paziente nella struttura idonea per ricevere cure «ad alta intensità», fino a un ricovero; ma allo stesso tempo, le Asl hanno la possibilità di commissionare prestazioni sanitarie ad altre aziende pubbliche (come le aziende ospedaliere) o private accreditate. In Lombardia queste due funzioni sono divise tra Ats, Agenzie di tutela della salute (otto per le undici province lombarde) che «allocano le risorse e decidono le prestazioni sanitarie» e le Asst, Aziende socio sanitarie territoriali, che «hanno sostituito le precedenti aziende ospedaliere e inglobato i poli ambulatoriali» e si occupano di erogare materialmente le prestazioni. Le Asst, in larga parte, hanno sede in strutture ospedaliere. La nomenclatura nuova arriva nel 2015, ma il cambiamento era cominciato con il Celeste, con la riforma del 1997. Mentre in regioni come Emilia Romagna, Toscana e Veneto si investiva in «strutture intermedie» per la medicina generale, dei poliambulatori più attrezzati, in Lombardia non c’è stato grande coordinamento. «Una buona medicina del territorio è quella che è in grado di schermare l’ospedale, di scegliere chi può essere curato a domicilio e chi no. Dove questa rete non c’è, si va tutti al pronto soccorso», aggiunge Ricci. È quanto è successo in Lombardia e qui sta il suo fallimento.

Il forte ruolo delle strutture ospedaliere in Lombardia, aggiunge Ricci, è principalmente dovuta alla conformazione geografica e sociale della Lombardia, tra le regioni più densamente popolate d’Italia. La rilevante presenza del privato, si giustifica invece a partire dalla realtà economica della Lombardia, da sempre contraddistinta da una vivace imprenditoria, e con la seconda specificità del “modello Formigoni”: una visione favorevole all’integrazione tra sistema sanitario pubblico ed erogatori privati. Infatti la Regione spende circa il 30% del budget sanitario per accreditare ospedali e ambulatori privati nel sistema pubblico (contro una media nazionale del 20,3%). In pratica, un utente del servizio sanitario lombardo può ricevere una prestazione pagata in tutto o in parte dal pubblico anche nelle strutture private. Nell’ottica dei promotori del modello, lo scopo è promuovere un’assistenza di altissima qualità e ampliare l’offerta. Secondo i detrattori, invece, il sistema ha sì garantito una qualità alta delle prestazioni sanitaria ma arrivando a “privatizzarsi” nei fatti, mettendo in competizione per la stessa torta di risorse, circa 19 miliardi di euro all’anno, il sistema pubblico e privato. Questo slittamento può essere dannoso perché i sistemi, per quanto integrati sul piano teorico, non hanno sempre lo stesso obiettivo. I privati concentrano la loro offerta su reparti ad altissima specializzazione oppure su residenze assistenziali, perché rappresentano la fetta di mercato dove i margini sono più alti. Restano con maggiore frequenza sulle spalle del pubblico i servizi di base, come i pronto soccorso.

Il privato è un universo composito, dove ci sono diversi interessi: dalle fondazioni religiose, agli enti no profit fino al mondo del profit. a convivenza per essere positiva deve essere coordinata e programmata dal pubblico, sostiene Ricci: «La presenza del privato accreditato nella sanità pubblica ha spesso significato, come accaduto anche in Lombardia, maggiore disponibilità di investimenti e in definitiva di offerta di servizi per l’intero sistema pubblico. A patto che la regia regionale sia efficace nella programmazione e nel monitoraggio, i privati mettono a disposizione del Sistema sanitario nazionale alcune competenze altamente specialistiche: si pensi al ruolo di molti grandi ospedali privati accreditati nella ricerca, ma anche nel corso dell’emergenza Covid19».

Critici più radicali come Maria Elisa Sartor, docente a contratto di Programmazione, organizzazione, controllo nelle aziende sanitarie all’Università degli Studi di Milano, sostengono che la riforma di Formigoni abbia costruito uno spazio che definisce il “quasi-mercato”: le aziende ospedaliere vendono alla Regione dei servizi e competono tra loro, senza però offrire necessariamente quello che serve al sistema sanitario, ma quello che conviene di più all’azienda sanitaria. Se privato e pubblico fossero davvero paritari e complementari questo problema non si porrebbe. Invece, secondo Sartor, le differenze esistono. Lo dimostra, ad esempio, il caso dell’emergenza coronavirus. In un articolo pubblicato su Gli Asini, la professoressa ricorda che le prime strutture ospedaliere intervenute fino al 9 marzo sono state solo pubbliche.

Dopo la deliberazione regionale dell’8 marzo che seguiva il lockdown imposto dal governo nazionale, la Lombardia ha chiesto che i privati liberassero posti letto per l’emergenza. Ora strutture pubbliche e strutture private sono parimenti impegnate nel contrasto al coronavirus, ma il vantaggio “negoziale” delle strutture private ha permesso loro, in molti casi, di organizzarsi e prepararsi meglio, mentre il pubblico è andato immediatamente in affanno, senza possibilità di organizzarsi.

Il tramonto del “Celeste”

La Corte dei conti nel 2011 ha sottolineato come nel settore sanitario «si intrecciano con sorprendente facilità veri e propri episodi di malaffare con aspetti di cattiva gestione, talvolta favoriti dalla carenza dei sistemi di controllo». Casi di questo genere non sono di certo mancati nemmeno nell’eccellenza Lombardia: il colpo decisivo per Formigoni arriva proprio con le indagini sui fondi neri dell’ospedale San Raffaele di Milano e sulla Fondazione Maugeri di Pavia che gestisce l’omonimo ospedale, due aziende sanitarie private.

Gli inquirenti hanno ricostruito come dal 2002 al 2011 siano partiti dai conti del San Raffaele nove milioni di euro diretti all’imprenditore del settore sanitario Pierangelo Daccò, che informalmente curava gli interessi di Regione Lombardia e, all’interno della stessa fondazione, di don Luigi Verzè, il prelato ex vicepresidente della fondazione San Raffaele. Quei nove milioni sono un tesoretto frutto delle sovrafatturazioni imposte dal braccio destro di don Verzè ai fornitori: la “cresta” retrocessa in contanti è servita a corrompere i vertici di Regione Lombardia così da avere provvedimenti favorevoli alla fondazione. Da questo primo tassello l’inchiesta si è allargata fino a sbattere poi contro la Fondazione Maugeri di Pavia.

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Il mercato parallelo dei vaccini

Vero o presunto che sia, è oggetto di indagini in Italia ed Ue. Lo popolano truffatori ed esiste perché il sistema di distribuzione globale, soprattutto verso i Paesi poveri, arranca

Nell’aprile 2012, con l’accusa di aver distratto 56 milioni di euro alla fondazione, sono stati arrestati l’ex assessore Antonio Simone e il direttore amministrativo del polo sanitario Costantino Passerino. Il presidente della Fondazione Umberto Maugeri è finito ai domiciliari. Tra gli indagati compariva anche Pierangelo Daccò, accusato di riciclaggio, appropriazione indebita, associazione per delinquere, frode fiscale e false fatture. E poi c’era Formigoni in persona, indagato per corruzione aggravata transnazionale: per gli inquirenti avrebbe favorito con 15 delibere regionali la Fondazione Maugeri in cambio di alcune utilità, come vacanze pagate e cene in ristoranti di lusso.

Le indagini tra San Raffaele e Maugeri si sono concluse con una sentenza a quattordici anni per i protagonisti della vicenda, tra cui il segretario generale della regione e il direttore generale dell’assessorato alla sanità in Lombardia.

Quattro anni dopo l’accusa ha chiesto altri nove anni di carcere per Formigoni: «È stata una gravissima corruzione sistemica durata dieci anni che ha assunto le forme dell’associazione a delinquere con importi enormi messi in gioco», hanno spiegato in aula i pm. «Questo processo ha dimostrato quanto la corruzione possa essere devastante per il sistema economico: settanta milioni sono usciti dalle casse dello Stato per essere usati in una serie di benefit. Il modo di operare dei componenti dell’associazione a delinquere è stato un cancro».

«Questo processo – hanno sostenuto in aula i pm di Milano – ha dimostrato quanto la corruzione possa essere devastante per il sistema economico: settanta milioni sono usciti dalle casse dello Stato per essere usati in una serie di benefit. Il modo di operare dei componenti dell’associazione a delinquere è stato un cancro»

Il tribunale, alla fine, ha condannato il Celeste a 6 anni per corruzione. La condanna diventa definitiva nel 2019 con una condanna a 5 anni e 10 mesi.

Corruzione, mafia e politica, la sanità lombarda scricchiola anche dopo Formigoni

Già prima del caso San Raffaele e Maugeri la sanità lombarda aveva mostrato segni di malattia. In occasione dell’inchiesta Infinito che nel 2010 scoperchiò il vaso di Pandora sulle cosche della ‘ndrangheta al nord si sono potuti leggere i rapporti perversi tra mafia e sanità in Lombardia.

Agli arresti finì il direttore sanitario dell’azienda sanitaria locale di Pavia Carlo Chiriaco. Condannato in via definitiva a 12 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, è ritenuto uno dei referenti della ‘ndrangheta a Pavia e in Lombardia.

In quegli stessi anni a Pavia accadono tra l’altro due fatti rilevanti: l’arresto di Ciccio Pelle detto Pakistan che da latitante viene ricoverato in una clinica pavese sotto falso nome e con una falsa cartella clinica, mentre una perizia oculistica sempre di un nosocomio pavese certificherà la quasi cecità del boss camorrista Giuseppe Setola, che sarà però in grado di lasciare gli arresti domiciliari e portare a compimento la strage di Castelvolturno.

Pochi giorni prima degli arresti dell’operazione Infinito all’ospedale San Paolo di Milano muore gettandosi dalla tromba delle scale Pasquale Libri, funzionario della divisione appalti dell’ospedale. Libri e lo stesso Chiriaco si conoscevano da tempo e se nel corso dell’inchiesta del 2010 è emersa l’influenza delle cosche sulla sanità, successivamente a venire a galla sarà il sistema di corruzione e tangenti tra la politica lombarda e i suoi colletti bianchi.

Partendo dal suicidio di Libri e dalle carte trovate all’interno del suo ufficio gli investigatori, quattro anni dopo, hanno ricostruito un sistema di nomine, voti e favori che ha determinato l’assegnazione di alcune gare d’appalto relative alle forniture elettromedicali. Il regno di Formigoni è finito ma l’avvicendamento con l’allora uomo forte della Lega Nord, Roberto Maroni, ha cambiato le tessere del puzzle, sempre legate al potere politico, ma non ha fermato il virus della corruzione. La Lega non è stata in grado di immunizzare il sistema dall’intreccio tra sanità, politica e corruzione. 

Lo dimostra una inchiesta della procura di Monza che ha portato in carcere Fabio Rizzi, fedelissimo dello stesso Maroni, che ha patteggiato una pena a 2 anni e 6 mesi per corruzione.

Rizzi è il padre della riforma del 2015 che ha riorganizzato per la seconda volta la sanità in Lombardia. Con Rizzi nei guai era finito un gruppo di imprenditori accusato di aver versato bustarelle ai funzionari ai quali erano affidate una serie di gare di appalto: le operazioni coinvolgevano anche appalti di società private accreditate con il sistema sanitario nazionale, tutte per la gestione esterna di servizi odontoiatrici. Dieci gli episodi di corruzione ricostruiti nel corso delle indagini che hanno permesso di scoprire che da oltre 10 anni numerose aziende ospedaliere avevano esternalizzato il servizio di odontoiatria ricorrendo a gare di appalto per circa 400 milioni. L’ennesimo spreco di denaro pubblico.

Così come è stato inutile – parola dello stesso assessore al Welfare di Regione Lombardia Giulio Gallera – la costruzione dell’ospedale di emergenza alla Fiera di Milano. Lo ha detto in una conferenza stampa via Facebook in cui ha dimostrato ancora una volte le difficoltà del governo regionale a gestire la crisi.

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CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli
Luca Rinaldi

Editing

Giulio Rubino

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