La rete dell’imprenditore arrestato per l’appalto Consip delle mascherine

9 Aprile 2020 | di Matteo Civillini, Luca Rinaldi

Turbativa d’asta e inadempimento di contratti per pubbliche forniture. Queste le accuse che la procura di Roma ha mosso nei confronti dell’imprenditore quarantaduenne Antonello Ieffi. Le indagini sono partite in seguito a una denuncia di Consip, la centrale acquisti della Pubblica amministrazione, riguardante il lotto 6 della gara da 15,8 milioni di euro relativa alla fornitura di oltre 24 milioni di mascherine chirurgiche. L’imprenditore presentatosi come interlocutore della società aggiudicataria, la Biocrea societa agricola a responsabilità limitata, si impegnava, scrivono gli inquirenti «alla consegna dei primi 3 milioni di mascherine entro tre giorni dall’ordine».

Le mascherine promesse? Inesistenti

Tuttavia fin dai primi contatti con Consip alcune questioni non tornano: Ieffi interloquisce con la stazione appaltante ma non risulta nella compagine societaria di Biocrea, e in seconda battuta inizia a lamentare l’esistenza di problematiche organizzative relative al volo di trasferimento della merce. L’imprenditore sostiene che la merce sia già disponibile presso un punto di stoccaggio in Cina, tuttavia la situazione non si sblocca e la prima consegna prevista dal contratto va dunque a vuoto. A questo punto l’Agenzia delle dogane avvia un controllo presso l’aeroporto cinese di Guangzhou Baiyun: carico inesistente.

Parte la segnalazione di Consip alla procura e gli uomini della Guardia di Finanza scoprono, tra le altre cose che la stessa Biocrea aveva posizioni debitorie per alcune violazioni tributarie per oltre 150 mila euro. Posizioni non dichiarate in sede di ammissione alla gara di appalto che ne avrebbero determinato l’immediata esclusione. Da qui l’immediato annullamento di Consip in autotutela dello scorso 19 marzo.

Il Gip: «Una giocata d’azzardo sulla salute pubblica»

Nella ricostruzione degli inquirenti emerge come Biocrea fosse una scatola vuota intestata a un prestanome. Nonostante ciò e accettando il rischio di non essere in grado di adempiere alla fornitura Ieffi partecipa alla gara: «una puntata d’azzardo – scrive il Gip di Roma nell’ordinanza – giocata sulla salute pubblica e su quella individuale di chi attendeva, e attende, le mascherine, che bene rende la capacità a delinquere del soggetto».

Ieffi però non si perde d’animo e con un’altra società prova ad aggiudicarsi un nuovo appalto, quello relativo alla fornitura di occhiali protettivi, tute di protezione, camici e soluzioni igienizzanti. Una partita da oltre 73 milioni di euro che l’imprenditore decide di giocare con la Dental Express H24. Società dalla inesistente capacità economica e con un socio e membro del consiglio di amministrazione con alle spalle precedenti penali per occultamento di scritture contabili. Emergerebbero inoltre dagli atti le segnalazioni recenti di ben quindici operazioni sospette per riciclaggio.

Le società britanniche aperte tramite Formations House

Trait d’union delle operazioni di Ieffi è la E-Building. Una holding che – stando a quanto affermato dall’imprenditore – racchiuderebbe interessi milionari che spaziano dallo sviluppo di tecnologie per l’energia rinnovabile alla compravendita di crediti deteriorati. La sede è al numero 8 di via Montenapoleone, cuore della moda milanese. Indirizzo di prestigio che però combacia con quello di un servizio di “affitto ufficio virtuali”. Anche a Londra, dove compare in diverse società dai primi anni 2000, Ieffi si sarebbe affidato a un noto “formations agent”, ovvero chi apre aziende per conto terzi. Si tratta di Formations House, a cui negli anni si sono rivolti, tra gli altri, gli eredi della famiglia Riina, colletti bianchi al servizio di uomini della camorra e imprenditori iraniani sotto sanzione, come rivelato in passato da IrpiMedia e La Stampa.

Formations House

I “formation agents” sono società che aprono aziende per conto terzi. Formations House, al 29 di Harley Street, a Londra, è tra questi: ha aperto oltre 400 mila aziende iscritte al registro del commercio di Sua Maestà. Tra i numerosi clienti, però, qualcuno non avrebbe avuto i documenti in regola per passare un banale controllo dell’antiriciclaggio inglese.

Qui la serie di IrpiMedia #29Leaks sulla vicenda di Formations House, in partnership con La Stampa.

Non è chiaro a cosa siano servite quelle società di diritto britannico: quasi tutte aperte e chiuse nel giro di pochi anni senza mai presentare un bilancio. Tra gli amministratori, insieme a Ieffi, compare anche il romano Stefano Formica, personaggio noto per essere stato chiamato in causa nell’affaire Telekom Serbia dal grande accusatore di allora Igor Marini. Formica fu poi scagionato e considerato una vittima delle accuse dello stesso Marini.

Covid-19: revocato l’appalto per le mascherine alla cooperativa sotto inchiesta

8 Aprile 2020 | di Matteo Civillini, Lorenzo Bodrero

Consip, la centrale acquisti per la Pubblica amministrazione, ha risolto il contratto con la cooperativa Indaco Service di Taranto per la fornitura di mascherine chirurgiche e FFP3. La centrale d’acquisti dello Stato spiega a IrpiMedia di aver annullato l’aggiudicazione dei due lotti da oltre 28 milioni di euro in seguito ai controlli effettuati sull’operatore economico. La decisione arriva giorni dopo un’inchiesta di IrpiMedia che aveva rivelato il burrascoso trascorso giudiziario di almeno due partecipanti alla gara, tra cui Indaco Service. Ora Consip emetterà gli ordini di fornitura agli altri aggiudicatari dello stesso lotto.

La cooperativa di Taranto è nota per aver perso nel giugno 2017 la concessione per il centro d’accoglienza straordinario Indaco-S.Maria del Galeso a causa di gravi carenze di carattere gestionale, strutturale e igienico-sanitario. Il manager di Indaco Service, Salvatore Micelli, è stato inoltre arrestato nel dicembre 2018 con l’accusa di aver partecipato a una maxi-truffa da oltre tre milioni di euro ai danni dello Stato. Micelli sostiene la sua innocenza, dicendo di «non aver preso neanche un euro illecitamente».

Figura invece ancora tra gli aggiudicatari della gara per far fronte all’emergenza Covid-19 la holding bresciana Italian Properties Srl. Il suo proprietario Marco Melega, 47enne cremonese, è stato arrestato lo scorso luglio per una presunta truffa online in cui sono caduti migliaia di consumatori. Secondo le accuse della procura di Cremona, il gruppo di Melega avrebbe creato siti per l’acquisto di vini, buoni carburante e prodotti elettronici a prezzi stracciati. Le vendite prevedevano un acquisto minimo di mille euro di merce. Secondo l’accusa, la società non sarebbe stata in possesso di alcun prodotto e quindi i compratori sarebbero rimasti a mani vuote.

Melega è accusato di associazione a delinquere finalizzata alle truffe online, frode fiscale, bancarotta fraudolenta e riciclaggio. Melega dice di essere «stato profondamente turbato» dall’arresto e di «star affrontando la situazione con determinazione precisando agli inquirenti la mia estraneità ai fatti». Consip ha precisato a IrpiMedia che ulteriori controlli nei confronti delle aziende che hanno vinto gli appalti per la fornitura di materiale sono tutt’ora in corso.

Foto: Le coordinate del bando Consip per la fornitura di mascherine chirurgiche/IrpiMedia

Covid-19: il nodo carceri è una questione di diritti umani

7 aprile 2020 | di Lorenzo Bodrero, Matteo Civillini

Dal Garante dei detenuti alle associazioni, dagli avvocati ai familiari passando per i sindacati di polizia penitenziaria. L’appello è unanime: decongestionare le carceri prima che sia troppo tardi. L’emergenza sanitaria ha acuito la questione del sovraffollamento delle carceri, vecchio e irrisolto problema della giustizia italiana. Secondo il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale il tasso di affollamento è del 122%, con picchi oltre il doppio della capienza. A fronte di 50.931 posti disponibili ci sono 61.230 detenuti, oltre un quinto della capienza massima.

Il decreto cosiddetto Cura-Italia prevede l’assegnazione degli arresti domiciliari a coloro che devono scontare una pena o un residuo di pena entro i sei mesi. Tra i sette e i diciotto mesi è contemplato anche l’utilizzo del braccialetto elettronico. Fonti giudiziarie interpellate da IrpiMedia descrivono come a dir poco «oberati» gli uffici di sorveglianza, gli unici preposti a giudicare le richieste di scarcerazione provenienti dal detenuto, dai familiari, dai magistrati ma anche dal direttore del singolo carcere.

Indice di affollamento nelle carceri a febbraio 2020 (sopra) e andamento storico della popolazione e della capienza carceraria (sotto). Dati: Associazione Antigone, Istat

La misura denota «estrema timidezza da parte delle istituzioni nella gestione del problema», ha dichiarato a IrpiMedia Michele Miravalle, portavoce dell’associazione Antigone. La norma coinvolgerebbe meno di 4.000 detenuti ma «per rendere praticabili le condizioni minime di sicurezza sanitaria occorre liberarne almeno il doppio», ha aggiunto. E lamenta: «Inoltre, nessuno ha contezza del reale numero di braccialetti a disposizione».

Mentre il 2 aprile si è registrata la prima vittima per coronavirus tra i detenuti – 2 quelle accertate tra la polizia penitenziaria -, non mancano le perplessità intorno ai dati ufficiali. Al momento sono 140 le guardie carcerarie risultate infette, 26 i detenuti. «Non abbiamo motivo di non fidarci dei dati rilasciati. La domanda che dovremmo porci però – continua Miravalle – è: fin dove potranno arrivare quei numeri? Mai come oggi la “prevenzione” è tutto, se arriveremo alla “reazione” allora sarà troppo tardi».

Braccialetti elettronici, quell'appalto in parte inevaso

Da risorsa a ostacolo. Il mancato utilizzo di un numero adeguato di braccialetti elettronici è il più classico dei colli di bottiglia. Disporne a sufficienza porterebbe a decongestionare l’affollamento delle carceri e a un maggiore controllo nella diffusione del contagio. Il forte ritardo nell’esecuzione del contratto per la fornitura (l’installazione e l’attivazione mensile di 1.000 braccialetti vinto da Fastweb, insieme alla Vitrociset, risale ormai tre anni fa) è un nodo irrisolto, tornato a galla con le misure per contenere il coronavirus negli istituti di pena.

Il servizio sarebbe dovuto partire già a fine 2018 ma mancava ancora il via libera del ministero dell’Interno – allora guidato da Matteo Salvini – per la nomina della commissione di collaudo. «Ad oggi, dal sito della Polizia di Stato, risulta che la procedura di collaudo sia ancora aperta» ha rilevato il quotidiano Il Dubbio che ha dedicato una lunga inchiesta al tema. Secondo la relazione tecnica il contratto sarebbe partito a dicembre 2018 e in 15 mesi sarebbero stati attivati 5.200 braccialetti, 350 al mese, ben al di sotto degli accordi presenti nell’appalto.

La stessa relazione dice anche che fino a metà maggio ne saranno disponibili 2.600, un numero che forse spiega l’immobilismo istituzionale verso le esortazioni allo sfollamento dei penitenziari. In un’intervista a Radio Radicale del 27 marzo, il sottosegretario agli Interni Achille Variati ha detto che «da oggi verranno resi disponibili circa 5.000 braccialetti che saranno consegnati con un numero non inferiore ai 300 a settimana». Ancora poco: associazioni e garanti dei detenuti auspicano il rilascio tramite misure alternative alla detenzione di non meno di 10.000 persone.

Della stessa posizione è Mauro Palma, Garante Nazionale dei detenuti che si fa portavoce delle pressioni che arrivano dagli oltre 60 colleghi dispiegati sul territorio: «Quella norma è un primo passo ma perde di senso se non ne saranno presi ulteriori provvedimenti», dice Palma a IrpiMedia. «La priorità – continua – è allentare gli spazi, non farlo avrebbe forti ripercussioni, anche all’esterno, ma il governo deve decidere in fretta e ancora più celermente deve darne esecuzione».

L’opinione diffusa tra gli addetti ai lavori è che se all’esterno il picco dell’infezione sembra essere raggiunto, all’interno delle carceri sia invece ancora in piena crescita. E così i timori crescono, soprattutto alla luce delle condizioni delle strutture e della popolazione carceraria. Il 67% di loro, secondo Antigone, ha almeno una patologia, il 10% è sopra i 60 anni e quasi mille detenuti sono sopra i 70. Le misure intraprese fin qui per isolare le infezioni sono considerate ampiamente insufficienti. Scarso il numero di mascherine, personale sanitario ridotto all’osso, spazi di isolamento inadeguati e promiscuità con potenziali positivi creano forti tensioni tra i detenuti.

Chiara* è la madre di Diego* e, come tutti gli altri famigliari, non vede suo figlio da oltre un mese a causa delle misure di prevenzione. I colloqui sono stati aboliti e avvocati e parenti possono comunicare solo via telefono. «Ieri abbiamo fatto la prima video chiamata», racconta Chiara a IrpiMedia, «mi ha detto “mamma la situazione è ben peggiore di quella che vi raccontano, sta degenerando”». L’area allestita per i contagiati è stata soprannominata “braccio Covid” dai detenuti. Ci vengono trasferiti esclusivamente quelli sottoposti a tampone, che viene somministrato quando ormai i sintomi sono palesi. Fino a un attimo prima, però, il detenuto divideva la cella con altre tre o quattro persone.

Ma la preoccupazione di Chiara è rivolta anche agli altri: «E se la situazione peggiora, come è probabile che sia? Si ribelleranno? Temo il peggio…». I colloqui virtuali con Diego continueranno una volta alla settimana. «Prima di salutarci mi ha detto “ti prego, mamma, siate voi la nostra voce, non fateci morire nel silenzio”».

Alta tensione

Scontri e sommosse sono già scoppiate all’indomani dell’emanazione delle prime contromisure volte a isolare il virus nei penitenziari italiani. Da Salerno a Modena, da Napoli a Vercelli, da Frosinone ad Alessandria, da Foggia a Pavia, i carcerati lamentavano non solo l’abolizione delle visite con i parenti ma anche, e soprattutto, l’alto livello di concentrazione di persone e l’impossibilità di mettersi al riparo dall’infezione. Le violente proteste hanno causato 13 morti, 77 invece i detenuti evasi.

È di pochi giorni fa un audio pubblicato dal Corriere della sera di alcune guardie penitenziarie registrato durante lo svolgimento degli scontri. Una di queste denuncia il tentativo messo in atto da alcuni ristretti di uccidere lui e i colleghi allagando i locali e mettendo a contatto l’acqua con dei fili elettrici. Un’altra si rivolge ai colleghi e in tono allarmato grida: «Hanno sfasciato tutto… Tutti fuori sono… Non c’è più controllo… Era inevitabile che succedesse».

Tutto questo, un mese fa. E oggi? Le proteste sono state sedate ma il malumore rimane. Sulle piattaforme di messaggistica cominciano a circolare appelli lanciati dall’interno dei penitenziari in cui si denunciano le pessime condizioni sanitarie e igieniche delle aree, in particolare, adibite alla gestione del contagio. Al quotidiano di via Solferino ha parlato anche il sostituto procuratore di Napoli, Catello Maresca: «La questione carceraria è molto grave e seria», dice il magistrato, «le carceri sono delle polveriere pronte a esplodere nuovamente dopo i fatti del 7 marzo. Gli interventi presi sono assolutamente insufficienti, bisogna fare i tamponi a tutti i detenuti e alla polizia penitenziaria».

I moniti del Consiglio d’Europa

La «questione grave e seria» richiamata dal procuratore Maresca ha origini lontane. Il sovraffollamento delle carceri è una costante da almeno dieci anni, con picchi come quello del 2010 che non ha precedenti nella storia della Repubblica (vedi infografica).

All’appello unanime sulla necessità di ridurre il numero di detenuti si è aggiunto quello del Consiglio d’Europa (Coe). Attraverso il proprio comitato anti tortura (Cpt), ha richiamato una serie di principi a cui tutti gli Stati membri devono attenersi per evitare il rischio di pandemia nelle carceri: «Tutte le autorità competenti dovrebbero compiere sforzi concertati per ricorrere ad alternative alla privazione della libertà. Questa esigenza diviene imperativa, in particolare in situazioni di sovraffollamento». Commutazione della pena, rilascio anticipato e libertà vigilata sono le soluzioni proposte dal Consiglio.

«Non si tratta di un amnistia, tento meno di un indulto come tanti sostengono», commenta Miravalle di Antigone. «Quello che chiediamo è un allargamento delle misure alternative alla detenzione per, almeno, tutta la durata dell’emergenza».

Sempre dal Coe sono arrivati, nel giro di un anno, due pareri negativi sul sistema carcerario italiano. Il primo nell’aprile 2019 quando l’Italia è risultata tra gli ultimi posti in Europa per il sovraffollamento delle carceri, preceduta solo da Macedonia del Nord, Francia e Romania. Particolarmente alta è risultata anche la percentuale di detenuti in attesa di giudizio, con il 34% della popolazione carceraria contro il 22% della media europea.

Il secondo, lo scorso gennaio, quando a termine di visite ispettive agli istituti di Milano Opera, Biella, Saluzzo e Viterbo il Cpt ha constatato la necessità di rivedere il regime di carcere duro cosiddetto 41-bis – giudicato carente nelle attività sociali – e di abolire l’istituto di isolamento diurno poiché «anacronistico» e dannoso per la salute psicologica del detenuto.

* Nome di fantasia | Foto: il corridoio di un carcere – Lorenzo Bodrero/IrpiMedia

L’economia criminale del post-emergenza Covid-19

6 Aprile 2020 | di Luca Rinaldi

In piena crisi è necessario progettare ciò che verrà dopo. La pandemia da Covid-19 ora in atto avrà strascichi economici e sociali di enorme portata e si entrerà in una fase di crisi economica importante. Lo scorso 31 marzo l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) ha presentato il rapporto sugli impatti di lungo termine generati dall’emergenza Covid-19. Il prezzo in termini di vite umane è già altissimo e l’Onu chiede agli Stati membri «il massimo supporto finanziario e tecnico» per fasce più deboli della popolazione. Stando alle stime del Fondo Monetario Internazionale ci prepariamo a vivere una crisi peggiore di quella del 2008 e una mancata risposta coordinata porterebbe a un taglio del Pil globale del 10%.

Allo stesso modo l’Organizzazione mondiale del lavoro ha stimato una perdita di posti di lavoro compresa tra i 5 milioni (scenario a basso impatto) e i 25 milioni (scenario a impatto medio-alto), con un costo per l’economia globale di almeno 860 miliardi di dollari che potrebbe toccare quota 3.400 miliardi. La stessa organizzazione stima che tra 8,8 e 35 milioni di persone in più si troveranno in condizioni di povertà lavorativa (working poor) in tutto il mondo, rispetto alla stima di inizio anno che prevedeva un calo di 14 milioni nel 2020. Una situazione quella dei lavoratori in situazione di povertà acuita dalla continua deregolamentazione del mercato del lavoro che anche in Italia sta mostrando tutte le sue crepe.

Una simile situazione inevitabilmente impatterà in modo significativo anche in Europa e in Italia: se nel vecchio Continente la quota di persone in condizione di povertà lavorativa è fissata al 9,6%, l’Italia supera la media Ue attestandosi al 12%, preceduta solo da Grecia, Spagna e Romania, che tocca quota 17. Qui e sulla prevedibile contrazione del credito si giocano due partite fondamentali per la tutela dell’economia del Paese, che in periodi di crisi scatena l’appetito delle organizzazioni criminali, in particolare quelle mafiose che possono contare sulla scorta di liquidità derivante dai traffici illeciti e pronta per essere reinvestita in attività del tutto legali. Prevedibile che il settore della piccola e media impresa che popola il panorama italiano sia un bersaglio ancora più facile.
Parola chiave: Working poor

I working poor, o lavoratori in condizione di povertà, sono coloro che, pur avendo un’occupazione, si trovano a rischio di povertà e di esclusione sociale a causa del livello troppo basso del loro reddito, dell’incertezza sul lavoro, della scarsa crescita reale del livello retributivo. Il fenomeno, causato anche da una progressiva polarizzazione del mercato del lavoro, che non facilita la disponibilità occupazionale per le fasce medie di reddito. Per l’Eurostat, l’ufficio statistico europeo, una famiglia rientra fra i working poors se almeno un membro della stessa lavora e se il reddito complessivo familiare è circa al di sotto del 60% (ma la percentuale per alcuni può variare) del reddito mediano del paese.

Scenari simili del resto si sono palesati con le ondate della crisi che si sono fatte sentire maggiormente tra il 2008 e il 2012. Allora si osservò un peggioramento generale delle condizioni di accesso al credito da parte delle imprese, sia manifatturiere sia dei servizi, una picchiata sull’erogazione dei prestiti bancari e in parallelo una recrudescenza nello stesso periodo dei reati di usura ed estorsione. Le più penalizzate furono le imprese con meno di venti addetti e il settore della vendita al dettaglio.

Allo stesso modo con la crisi in arrivo e allo stabilizzarsi dei numeri del contagio organizzazioni mafiose con grandi liquidità, come lo è soprattutto la ‘ndrangheta, individueranno quei settori produttivi in cui immettere i propri capitali. Questo succederà nelle aree economicamente più fragili del Paese, ma sarà uno scenario a cui fare attenzione anche nelle regioni più produttive del nord, che sono state le più colpite dal contraccolpo della pandemia.

Qui si andrà oltre lo schema del prestito a usura che, come ha sottolineato alcuni giorni fa sul Fatto Quotidiano il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo, «continuerà a esistere solo quale reato tipico delle manifestazioni criminali meno ramificate ed evolute». Dunque la seconda fase di fatto setterà l’agenda criminale sul medio-lungo periodo toccando settori come il mercato immobiliare e la sanità arrivando a consolidare le proprie posizioni, ha sottolineato ancora Lombardo, anche all’interno del mercato creditizio e dei beni di prima necessità. Nei settori in cui arriveranno investimenti, finanziamenti a pioggia e appalti saranno necessarie regolamentazioni importanti anche per arginare i sistemi corruttivi. Tema ancora più caldo dal momento che si è destinati ad andare incontro a una stagione di appalti in deroga e non possono verificarsi situazioni come quelle dell’appalto Consip denunciata lo scorso 2 aprile da IrpiMedia.

«Molto dal punto di vista della liquidità delle mafie dipenderà dalla velocità con cui ripartiranno dopo il rallentamento i mercati illegali per poi fornire denaro a quelli legali»

Federico Varese, criminologo

«Molto dal punto di vista della liquidità delle mafie – spiega a IrpiMedia il criminologo dell’Università di Oxford Federico Varese – dipenderà dalla velocità con cui ripartiranno dopo il rallentamento i mercati illegali per poi fornire denaro a quelli legali: si guardi storicamente alle mosse della mafia italo-americana di Joe Bonanno dopo la crisi del 1929 il quale sospese la richiesta del pizzo per iniziare a erogare prestiti alle imprese a cui faceva estorsioni in precedenza».

Altri tempi, ma un modus operandi che nel tempo è diventato paradigma. La risposta dello Stato, delle banche e delle imprese al momento della ripresa dovrà dunque essere tempestiva e regolamentata anche se, afferma ancora Varese «ci saranno soprattutto piccole imprese che scontando irregolarità del passato avranno comunque difficoltà ad accedere al credito e si rivolgeranno ai mercati illegali. In questi contesti – ragiona Varese – le organizzazioni mafiose potrebbero anche non comparire tanto come fornitore di liquidità quanto come “garante” di chi presta denaro ma non necessariamente legato a famiglie mafiose. In questo modo la mafia entra in gioco come parte di un meccanismo e abilitata a usare la violenza». In sostanza un fornitore di servizi.

Il mercato dell’immobiliare, soprattutto se si verificheranno crolli nei prezzi, si consoliderà come uno dei settori prediletti per il riciclaggio, in particolare per mettere al sicuro il denaro. Qui non saranno solo le mafie a investire, ma anche e soprattutto attori come grandi fondi internazionali dove spesso è impossibile identificare il beneficiario effettivo.

Attenzione anche al cybercrime. Lo spostamento radicale di molte attività online sono un bersaglio ancora più interessante di quanto già non sia in questo momento per le organizzazioni criminali. Tra frodi e truffe «un mercato che crescerà in modo esponenziale in cui non saranno necessariamente le organizzazione mafiose “tipiche” a operare», sostiene Varese.

Infine la componente di consenso e ammortizzatore sociale delle organizzazioni criminali è l’aspetto più “di governo” dell’intera gestione del momento di crisi economica che ci apprestiamo a vivere. In prima istanza la categoria dei working poor sarà un grande bacino da cui pescare: dimenticata dalla politica è una categoria a cui le mafie guardano con interesse per guadagnare consenso. Ancora più interessante per le future economie criminali dal punto di vista politico saranno in particolare le aree di povertà estrema: «L’esempio dell’America Latina – specifica Varese – è in questo senso attinente. Lì le varie declinazioni criminali che siano gang, cartelli o mafie stanno offrendo sussidi di cibo e beni di prima necessità nelle favelas dove il governo non arriva».

Covid-19, due vincitori della gara per le mascherine sono sotto inchiesta

2 aprile 2020 | di Matteo Civillini

Procedure straordinarie, deroghe e commissari. Lo stato di emergenza sta caratterizzando l’aggiudicazione degli appalti della Consip, la centrale acquisti della pubblica amministrazione italiana. E come spesso accade nella gestione emergenziale tra le maglie più larghe dei controlli passano società con conti più o meno aperti con la giustizia o che poco hanno a che fare col mercato di riferimento. È il caso della gara indetta per la fornitura dei dispositivi di protezione sanitaria, in particolare mascherine, e aggiudicata lo scorso 27 marzo. Base d’asta 123 milioni di euro per nove lotti e aggiudicata per poco meno di 64, con un ribasso dunque che sfiora il 50%.

Le procedure straordinarie

Tra gli aggiudicatari delle gare indette da Consip per far fronte all’emergenza Covid-19 ci sono anche una cooperativa di Taranto a cui la Prefettura ha revocato la gestione di un centro d’accoglienza e una società immobiliare guidata da un imprenditore indagato per frode.

I bandi della centrale degli appalti italiana sono assegnati con una procedura straordinaria dopo che il decreto Cura Italia del 17 marzo ha previsto la deroga al Codice Appalti: per accorciare i tempi delle aggiudicazioni, i controlli sulle aziende che partecipano si fanno ex post, cioè ad appalto aggiudicato. In pratica, spiega un funzionario Consip a IrpiMedia, «prima avviene la scelta delle aziende e poi si effettuano i controlli sulla loro integrità e gli eventuali ordini di materiale». E come spesso accade durante le gestioni commissariali e in regime d’emergenza, come è stato per il terremoto de L’Aquila, per il G8 a La Maddalena, o più recentemente con Expo2015, il curriculum degli aggiudicatari pone qualche interrogativo.

La Procedura negoziata d’urgenza per mascherine chirurgiche e dispositivi di protezione individuale per l’emergenza sanitaria “Covid-19”, è stata indetta da Consip lo scorso 19 marzo. La base d’asta della gara, suddivisa in 9 lotti era fissata a 123 milioni di euro. La procedura è stata aggiudicata per 63,8 milioni di euro col criterio del minor prezzo.

La coop dell’accoglienza finita nel mirino della Prefettura di Taranto

Il primo caso riguarda la tarantina Indaco Service Cooperativa Sociale che ad oggi risulta tra i vincitori di due lotti per la fornitura di oltre 16,5 milioni di mascherine chirurgiche e 5,4 milioni di FFP3. La società è abilitata dal Ministero delle finanze alle gare d’appalto per i servizi socio-assistenziali come la fornitura di mascherine e per questo motivo si è presentata come capofila di un consorzio insieme ad altre due società. Se l’aggiudicazione sarà confermata, Indaco Service si spartirà con le altre società vincitrici una torta da oltre 34 milioni di euro.

A Taranto Indaco Service è nota tra le altre cose per aver perso nel giugno 2017 la concessione per il centro d’accoglienza straordinaria Indaco-S. Maria del Galeso a causa di «gravi carenze di carattere gestionale, strutturale e igienico-sanitarie», si legge nel decreto di revoca firmato dalla Prefettura. Nel centro, poco prima del provvedimento, era scoppiata una rivolta: «Per la disperazione i richiedenti asilo si sono barricati dentro al centro insieme al personale, costringendo la polizia ad intervenire – ricorda Enzo Pilò dell’Associazione Babele, gruppo che tutela i diritti dei richiedenti asilo -. C’erano inadempienze di ogni genere, questa cooperativa non ha mai svolto alcun servizio». L’amministratore della cooperativa Salvatore Micelli sostiene però che la causa del disservizio fosse il sovraffollamento del centro in seguito all’invio dei migranti stabilito dalla stessa Prefettura.

A seguito dell’estromissione dal nuovo bando per il centro d’accoglienza è partita una guerra di ricorsi tra Indaco Service e amministrazione pubblica che doveva chiudersi a marzo con il giudizio del Consiglio di Stato, che invece ha rinviato la seduta. Micelli, molto attivo nella politica tarantina, nel dicembre 2018 è stato accusato di aver partecipato a una maxi-truffa da oltre tre milioni di euro ai danni dello Stato. La vicenda risale al 2012, quando la Regione Puglia doveva gestire la partita dei fondi europei a sostegno dell’occupazione femminile. Micelli e soci avrebbero costituito una decina di imprese fittizie per mettersi in tasca i sussidi senza svolgere alcuna attività lavorativa concreta.

Micelli è stato accusato anche di aver presentato false fideiussioni a garanzia dei finanziamenti statali, falsificando le firme dei procuratori di agenzie di assicurazione. Per farsi liquidare i fondi il gruppo avrebbe poi inviato agli enti regionali finte lettere di assunzione e buste paga in realtà mai versate. L’imprenditore è ora fuori dal carcere perché, dice la Cassazione, gli elementi indiziari non sono sufficienti a definire il suo ruolo nella presunta truffa. La procura ha chiesto il rinvio a giudizio e l’udienza preliminare è stata fissata per maggio. È accusato di associazione a delinquere finalizzata alla truffa aggravata.

Sentito da IrpiMedia, Salvatore Micelli sostiene di essere vittima di un attacco da parte del mondo politico e giudiziario tarantino allo scopo di gettare fango su di lui. «Il sottoscritto – spiega – non ha preso neanche un euro illecitamente. Io non conosco neanche chi sono la maggior parte delle persone coinvolte nell’indagine. Avevo solo svolto attività di consulenza per alcune di queste imprese». Anzi, sostiene di essere stato il primo a denunciare un sistema di corruzione in città.

L’imprenditore sotto indagine per truffa

Insieme a Indaco Service, tra gli aggiudicatari del lotto per la fornitura di mascherine chirurgiche c’è anche la Italian Properties Srl: una holding bresciana che dichiara di avere partecipazioni per oltre 20 milioni di euro in società industriali, commerciali, agricole e immobiliari. Il suo proprietario Marco Melega, 47 anni, è stato arrestato lo scorso luglio per una presunta maxi-truffa online in cui sono caduti migliaia di consumatori. Secondo le accuse della procura di Cremona, il gruppo di Melega avrebbe creato diversi siti per l’acquisto di vini, buoni carburante e prodotti elettronici a prezzi stracciati. Le vendite erano riservate ai titolari di partita Iva e prevedevano un acquisto minimo di mille euro di merce.

Secondo l’accusa, la società non sarebbe stata in possesso di alcun prodotto e quindi i compratori sarebbero rimasti a mani vuote. Quando le lamentele e le denunce montavano le società venivano liquidate, i siti internet chiusi per poi ripartire nuovamente sotto altre spoglie. Le somme di denaro venivano poi trasferite ad altre società, simulando il pagamento di operazioni fittizie, e infine monetizzate sotto forma di stipendi. Definito come dominus e principale beneficiario della frode, Marco Melega è accusato di associazione a delinquere finalizzata alle truffe online, frode fiscale, bancarotta fraudolenta e riciclaggio. L’11 marzo ha lanciato Barter For Good, una piattaforma online dove le aziende possono donare «merci difettose, beni invenduti e cespiti in disuso» da distribuire tra gli enti no-profit impegnati nella lotta al Covid-19. Il sito dichiara di aver raccolto al 26 marzo oltre 1,298 milioni di euro.

Marco Melega spiega a IrpiMedia che Italian Properties realizzerà la fornitura di dispositivi medici tramite la propria piattaforma online di scambi multilaterali tra imprese. «Abbiamo centinaia di contatti che ci stanno favorendo nelle interlocuzioni con i vari fornitori italiani ed esteri».

In merito alle vicende personali, Melega dice di esserne «stato profondamente turbato». «Sto affrontando la situazione con determinazione precisando agli inquirenti la mia estraneità ai fatti», aggiunge.

Consip contattata da IrpiMedia spiega che le società risultano effettivamente aggiudicatarie dei lotti, ma che si procederà agli ordini solo dopo le verifiche. «In caso di esito positivo dei controlli, per ogni lotto – aggiunge Consip – sarà stipulato un accordo quadro con tutti i fornitori aggiudicatari. Gli ordini di fornitura verranno emessi a partire dal fornitore primo classificato, fino all’esaurimento della disponibilità dei prodotti di quest’ultimo, proseguendo poi con un meccanismo “a cascata” verso quelli successivi in graduatoria». Così lo schema dell’emergenza, ancora una volta, rischia di premiare i più furbi.

Come è andata a finire

Dopo l’inchiesta che avete appena finito di leggere l’8 aprile Consip ha risolto il contratto con la Indaco Service emettendo gli ordini di fornitura agli altri aggiudicatari dello stesso lotto.

In partnership con: La Stampa | Editing: Lorenzo Bagnoli, Luca Rinaldi | Foto: Mika Baumeister/Unsplash

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