I professionisti della segretezza di Credit Suisse

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I professionisti della segretezza di Credit Suisse

Lorenzo Bagnoli

L’invasione russa dell’Ucraina sembra aver fatto perdere alla Svizzera la sua tradizionale neutralità e sta mettendo in crisi lo stesso principio di assoluta protezione della privacy dei clienti ultraricchi. La Confederazione elvetica svolge due ruoli fondamentali nel grande gioco finanziario del capitalismo di Stato russo: da un lato è la piazza dove si scambia circa l’80% delle materie prime russe nel mercato internazionale (commodities trading); dall’altro è il luogo sia di residenza fisica, sia di conservazione del patrimonio di diversi oligarchi. Sul piano del mercato delle materie prime, il New York Times il 7 marzo sottolineava che, a quella data, Mosca ancora non era stata esclusa dalle piazze finanziarie svizzere dove si negozia il prezzo di grano, petrolio, metallo e altre materie prime (i legami tra Russia e Svizzera in questo settore risalgono addirittura agli anni Settanta). Sul piano della caccia ai patrimoni degli oligarchi, invece, la Svizzera si è allineata decisamente alle posizioni europee, adottando le medesime sanzioni.

Questa scelta ha avuto dei contraccolpi nel sistema di protezione dei clienti delle banche svizzere. Il 2 marzo il Financial Times ha rivelato che Credit Suisse, la banca al centro dell’inchiesta SuisseSecrets, ha chiesto persone fisiche, hedge fund o fiduciarie che lavorano con clienti dell’istituto di credito di distruggere i documenti che fanno riferimento a yacht, aerei privati e patrimoni immobiliari riconducibili a oligarchi russi sotto sanzione allo scopo di limitare la fuga di notizie. Il giorno seguente il membro del Consiglio degli Stati (la Camera del Parlamento svizzero) Carlo Sommaruga ha depositato un esposto per chiedere che il Ministero Pubblico della Confederazione, la procura generale svizzera, promuova delle indagini sul comportamento della banca.

La distruzione dei documenti è un tentativo di mantenere intatta la coltre di segretezza. Quest’ultima è un valore assoluto che Credit Suisse ha preservato anche in diverse aule di tribunale. A portarla di fronte ai giudici sono stati alcuni clienti super ricchi, proprio coloro che sono di solito protetti da questa segretezza speciale. Questo principio è stato usato per difendersi dalle accuse di frode mosse da clienti che dicono di non essere nemmeno a conoscenza degli investimenti che la banca faceva con i loro soldi. I ricorrenti sono magnati dell’area ex sovietica d’altri tempi, diventati ricchi e influenti quando Putin e il suo cerchio magico nemmeno erano al potere. I processi sono partiti dalla gestione di un ex manager prodigio, ma sono arrivati a contestare i meccanismi di controllo dell’istituto di credito.

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#SuisseSecrets, il progetto

Suisse Secrets è un progetto di giornalismo collaborativo basato sui dati forniti da una fonte anonima al giornale tedesco Süddeutsche Zeitung. I dati sono stati condivisi con OCCRP e altri 48 media di tutto il mondo. IrpiMedia e La Stampa sono i partner italiani del progetto. 

Centosessantatre giornalisti nei cinque continenti hanno rastrellato migliaia di dati bancari e intervistato decine di banchieri, legislatori, procuratori, esperti e accademici, e ottenuto centinaia di documenti giudiziari e finanziari. Il leak contiene più di 18mila conti bancari aperti dagli anni Quaranta fino all’ultima decade degli anni Duemila. In totale, lo scrigno è di oltre 88 miliardi di euro.

«Ritengo le leggi sul segreto bancario svizzero immorali – ha dichiarato la fonte ai giornalisti-. Il pretesto di proteggere la privacy finanziaria è semplicemente una foglia di fico che nasconde il vergognoso ruolo delle banche svizzere quali collaboratori degli evasori fiscali. Questa situazione facilita la corruzione e affama i Paesi in via di sviluppo che tanto dovrebbero ricevere i proventi delle tasse. Questi sono i Paesi che più hanno sofferto del ruolo di Robin Hood invertito della Svizzera».

Nel database di Suiss Secrets ci sono politici, faccendieri, trafficanti, funzionari pubblici accusati di aver sottratto denaro alle casse del loro Paese, uomini d’affari coinvolti in casi di corruzione, agenti di servizi segreti. Ci sono anche molti nomi sconosciuti alle cronache giudiziarie.

Fino a prima dell’invasione dell’Ucraina, i ricchi uomini d’affari russi o dell’area ex sovietica – a prescindere dal loro allineamento con il Cremlino – erano tra i clienti più contesi nelle guerre fiscali. Le banche per individuarli e gestire il loro patrimoni dispongono dei relationship manager, in gergo RM, gestori patrimoniali impiegati direttamente dalla banca che si occupano di consigliare il cliente. Per le banche che combattono le guerre fiscali sono la prima linea della fanteria, quella che per prima va incontro al nemico per conquistare e mantenere la collina più alta: il cliente più facoltoso. È la fanteria in cui si contano anche le perdite più ingenti: se qualcosa non va con il cliente, alla fine possono essere loro, e non la banca, a pagare con l’allontanamento dall’istituto. In Credit Suisse sono in tutto 3.700, divisi in diverse aree geografiche di interesse.

Tra i compiti dei relationship manager c’è mantenere la segretezza, soprattutto di qualche correntista. L’esistenza di clienti particolari è nota grazie a operazioni come quella che abbiamo raccontato della Guardia di finanza di Milano. Dopo Credit Suisse, a Milano sono state indagate altre banche svizzere, come Ubs e Pkb Privatbank. Nessun procedimento si è potuto concentrare sulla figura dei relationship manager che però sono uno degli ingranaggi del sistema attraverso il quale una banca come Credit Suisse incamerato patrimoni di origine criminale o illecita di SuisseSecrets.

La drammatica fine di una stella del mondo bancario svizzero

Tuttavia in Svizzera alcune indagini che riguardano i RM ci sono. La più clamorosa ha coinvolto Patrice Lescaudron, manager francese che lavorava con la sezione di Credit Suisse “Ultra High Net Worth” e procacciava clienti nell’area geografica dei Paesi ex Urss.

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Il processo a Patrice Lescaudron, le sanzioni agli oligarchi russi, i procedimenti di vecchi clienti contro la banca. Come lavorano i custodi della riservatezza dei clienti più abbienti

Nel 2016 ha garantito all’istituto bancario 25 milioni di dollari di profitti. Nel febbraio 2018 si è dichiarato colpevole e conseguentemente è stato condannato dal tribunale di Ginevra a cinque anni di prigione per aver sottratto ai suoi clienti circa 150 milioni di dollari, reinvestiti attraverso operazioni mai autorizzate dai clienti in società e beni di lusso di cui era lui stesso il titolare effettivo. «Era considerato una star», ma «ha preso in giro i clienti e la banca», riporta la Reuters, citando il pronunciamento della sentenza. Per muovere il denaro, Lescaudron ha ammesso di aver distribuito bilanci e comunicazioni finanziarie con le firme falsificate dei suoi clienti. Durante il processo a Ginevra, il suo ex responsabile non ha saputo dare una spiegazione del perché nessuno in banca si sia accorto del comportamento dell’ex manager prodigio. Nel 2020 Lescaudron si è tolto la vita in carcere, poco dopo il suo 57esimo compleanno.

«Violate le norme di conformità»

La FINMA, L’Autorità federale svizzera di vigilanza sui mercati finanziari, tra il 2015 e il 2016 ha aperto due procedimenti contro Credit Suisse: il primo perché voleva chiarire la posizione della banca in alcuni importanti casi di presunta corruzione internazionale; il secondo incentrato su «un’importante relazione d’affari che la banca ha intrattenuto con una persona politicamente esposta», recitava il comunicato stampa del 2018. Il manager coinvolto era Lescaudron: anche se il nome non compare. Il comunicato si limita a identificare un «relationship manager» «che aveva un grande successo in termini di patrimonio in gestione» e che «ha violato le norme di conformità della banca ripetutamente e in modo documentato per un certo numero di anni.

Tuttavia, invece di disciplinare prontamente e proporzionalmente il manager dei clienti, la banca lo ha premiato con pagamenti elevati e valutazioni positive dei dipendenti. La supervisione del relationship manager era inadeguata a causa di questo status speciale». Emergeranno maggiori dettagli del report solo a seguito di una fuga di notizie di febbraio 2021, che ha sostanzialmente confermato come la banca non avesse preso le misure necessarie per interrompere le attività illecite di Lescaudron, che conosceva almeno dal 2011.

Questo caso è stato molto particolare nella storia degli scandali finanziari svizzeri. Come spiega l’ufficio stampa dell’autorità di vigilanza, «la FINMA non si esprime in merito ai singoli assoggettati o a eventuali accertamenti e procedimenti», a parte in casi eccezionali come appunto il caso Credit Suisse-Lescaudron. L’obiettivo della confidenzialità sta nel mandato della FINMA: mantenere una «situazione conforme», cioè dove tutti rispettano le regole. «La FINMA – spiega ancora l’ufficio stampa dell’autorità di vigilanza a IrpiMedia – esige che gli assoggettati gestiscano in modo adeguato i rischi, nello specifico sono tenuti a individuarli, valutarli e ridurli al minimo».

In generale i procedimenti della FINMA, spiega l’avvocato svizzero Paolo Bernasconi, sono molto temuti perché l’autorità può sospendere le licenze per operare nel mercato o all’estero, come accaduto nel caso di Ubs. Quando un’impresa commette un crimine o un delitto, invece, la multa massima prevista dal codice penale svizzero è di 5 milioni di franchi: un’inezia per un istituto di credito. La FINMA non ha potere di comminare multe, innescare procedimenti penali o arrestare, però può sporgere denuncia alla magistratura svizzera. I suoi «procedimenti di enforcement» vengono rispettati proprio per evitare sospensioni delle licenze di operare. I report sono molto dettagliati e le banche cercano sempre di impedire che vengano depositati a processo perché qualunque ente sotto la FINMA è obbligato a collaborare con l’autorità di vigilanza del mercato, che per questo ha accesso a un’enorme mole di prove. Con le procure invece non c’è alcuna collaborazione obbligatoria per lo stesso principio per cui un imputato a processo non è obbligato a dire la verità e accusarsi da solo.

Mentre il filone svizzero d’indagine su Lescaudron si è chiuso con l’ammissione di colpevolezza, quello sulle responsabilità della banca resta ancora aperto. Lescaudron può infatti essere stato un «caso isolato», come sostenuto dalla dirigenza della banca dell’epoca, oppure il sintomo di un problema più endemico, come ipotizzato da alcuni suoi clienti. Nel nostro ordinamento sarebbe proprio la banca a dover dimostrare che il caso non è ripetibile e che le procedure interne di controllo sono adeguate, in Svizzera invece resta un’ipotesi di alcuni clienti che il comportamento dei RM sia più endemico, e avallato dalla dirigenza dell’istituto.

Due ex clienti sono arrivati a chiedere per due volte, l’ultima alla Camera d’appello penale della Corte di giustizia di Ginevra, la ricusazione del magistrato che ha condotto le indagini su Lescaudron e Credit Suisse, Yves Bertossa. A loro parere in quattro anni non avrebbe investigato adeguatamente le responsabilità dell’istituto di credito. La Camera d’appello ha respinto la richiesta a luglio 2021, ma ha sottolineato la «riluttanza» del magistrato a istruire questo filone processuale e il fatto che «non si conoscono sviluppi significativi». Eppure Bertossa è uno dei magistrati che più si batte per velocizzare la giustizia svizzera nel contrasto alla criminalità economica e spesso è vittima di tentativi di ricusazione finalizzati solo a dilatare i tempi del processo, come lui stesso ha spiegato al sito d’informazione svizzero Naufraghi.

Tra le società scelte da Lescaudron per i suoi investimenti c’è stata anche la Meinl European Land Ltd, società di Jersey che ha improvvisamente perso valore nel 2007 e per questo era finita sotto indagine all’epoca. L’indagine a Jersey si è chiusa nel 2012 perché «non sono state trovate violazioni». Anche la doppia battaglia giudiziaria tra l’attuale compagine societaria, Atrium European Real Estate, e la banca che gestiva la società, Meinl, si è chiusa nel 2011 senza vincitori. Meinl è l’istituto di credito coinvolto nella vicenda dell’Aeroporto di Parma di cui IrpiMedia ha scritto nel novembre 2011.

Per approfondire

La strana storia dell’aeroporto di Parma

Il rilancio si basa su previsioni economiche di documenti fantasma dagli scenari improbabili. La vicenda dell’ex azionista di maggioranza, la banca austriaca Meinl, accusata di riciclaggio e con licenza bancaria sospesa. In gioco 12 milioni pubblici

Ivanishvili v. Credit Suisse

Bidzina Ivanishvili è stato primo ministro della Georgia tra il 2012 e il 2013 ed è il fondatore del partito di governo Sogno georgiano. Nel 2021 ha dichiarato di aver completamente lasciato la politica attiva. Il suo nome così come quello di alcuni suoi familiari compare più volte nei file di SuisseSecrets con conti aperti tra il 2004 e il 2013. Alcuni di questi sono ancora attivi ma sono oggetto di un contenzioso con la banca.

Storicamente, Ivanishvili è diventato un imprenditore nella prima Russia post-comunista. Ogni suo legame con la Russia si è però interrotto definitivamente nel 2012 (il processo di allontanamento è cominciato già nel 2004) e non ha alcuna forma di appartenenza al gruppo di oligarchi oggi sotto sanzione.

La sua fortuna nasce in Russia nel settore metallurgico e bancario, negli anni dopo la caduta del Muro di Berlino. È stato legato all’ex presidente russo Boris Eltsin, di cui ha dichiarato di aver sostenuto la campagna elettorale nel 1996 e in questo senso apparteneva all’elite del potere politico-economico della Russia allargata post-comunista. Bloomberg stima il suo patrimonio in 6 miliardi di dollari, più del Pil del suo intero Paese. Quando Lescaudron lo ha portato in Credit Suisse, l’ex relationship manager ha iniziato la sua incredibile carriera. Nel 2017, però, Ivanishvili ha cominciato una sua battaglia per recuperare il denaro che Lescaudron gli ha sottratto: circa 400 milioni di dollari.

Il rifiuto del 2004 alle autorità russe

Mikhail Khodorkovsky è stato il primo degli oligarchi contrari a Vladimir Putin ha costruire un legame storico con la Svizzera. Negli anni della perestrojka, la politica economica di Mikhail Gorbachev che ha accompagnato l’Unione sovietica nel capitalismo tra la seconda metà degli anni Ottanta e la fine dell’Urss, è diventato uno degli imprenditori più ricchi del Paese ed è stato tra i principali sostenitori di Boris Eltsin. È in quegli anni che diventa il numero uno della Yukos, la principale società petrolifera russa della prima fase post-comunista. Quando Vladimir Putin è diventato presidente della Russia, nel 1999, i suoi rapporti con il Cremlino si sono velocemente deteriorati dal momento in cui Khodorkovsky ha rifiutato l’offerta di “pace” in cambio di una sua uscita di scena dalla politica russa.

Nel 2003 è stato accusato di evasione fiscale e frode, due capi d’imputazione usati in seguito contro altri oligarchi usciti dal circolo del potere del Cremlino. Dopo una prima condanna nel 2005, alla lista dei reati di Yukos sono stati aggiunti appropriazione indebita e riciclaggio. Alla fine l’oligarca-oppositore è stato rilasciato nel 2013. Le autorità russe fin dal 2004 hanno chiesto assistenza alla loro controparte svizzera perché è nella Confederazione elvetica che Khodorkovsky e Yukos avevano le proprie casseforti. Dopo un’iniziale sequestro di 6 miliardi di franchi nel 2004, il Tribunale federale svizzero, facendo leva su decisioni simili del Consiglio d’Europa, ha bollato come «politica» la decisione delle autorità giudiziarie russe nei confronti di Khodorkovsky e si è rifiutato di collaborare con Mosca.

Lo scontro tra Ivanishvili e Credit Suisse si sviluppa su due fronti fondamentali: Singapore e Bermuda. Consigliato da Credit Suisse, l’uomo d’affari georgiano a Singapore aveva costruito un trust amministrato dalla stessa banca, mentre alle Bermuda aveva sottoscritto una polizza-mantello di Credit Suisse Life (Bermuda) Ltd, lo stesso strumento finanziario mascherato da polizza assicurativa scovato a Milano nel 2013. A Singapore la sentenza è attesa per la fine del 2022, mentre alle Bermuda ci sono già state due sentenze e una terza, conclusiva, è attesa. Le prime sono entrate nel merito di quali documenti dovessero essere prodotti da Credit Suisse Life (Bermuda) Ltd a giustificazione delle perdite subite da Ivanishvili e dalla sua famiglia, mentre la terza si pronuncerà sull’eventuale responsabilità della società delle Bermuda di Credit Suisse.

Tra le operazioni più spericolate di Lescaudron c’è stato l’acquisizione con trust e veicoli riconducibili a Ivanishvili di circa il 20% delle quote societarie di una piccola società biotech da poco quotata in borsa dove, secondo il Wall Street Journal, aveva delle azioni lui stesso. Ivanishvili ha sostenuto di aver seguito le indicazioni degli esperti della gestione patrimoniale, senza sapere nulla dell’enorme rischio a cui lo stava esponendo Lescaudron attraverso quella rete di partecipazioni via società offshore, di cui dice di essere sempre stato all’oscuro.

Tra il crollo della biotech e altre speculazioni per spese personali, il conto finale pagato da Ivanishvili sarà di 400 milioni di dollari sui 755 depositati in Credit Suisse, secondo quanto risulta dai documenti giudiziari delle Bermuda. «Quello che so è che Credit Suisse ha perso i miei soldi», ha detto l’ex primo ministro georgiano all’avvocato della banca durante un’udienza dell’ultimo filone processuale tenutasi alle Bermuda, a metà novembre 2021. «Avevo dato i soldi a Credit Suisse e non ho mai saputo [altro]», ha aggiunto. «Cosa avrebbe dovuto fare Credit Suisse?», si è chiesto invece l’avvocato di Credit Suisse Life alle Bermuda, Stephen Moverley Smith. La piccola società di biotech era un investimento incerto: «Una speculazione su un titolo farmaceutico rischioso, ecco cosa fanno gli oligarchi con i soldi che avanzano», è stata la considerazione dell’avvocato.

Nelle sentenze di febbraio 2020 e settembre 2021 la Corte Suprema delle Bermuda ha stabilito che Credit Suisse Life (Bermuda) Ltd è costretta a produrre il materiale richiesto dalla controparte per capire se la responsabilità delle perdite economiche sono del cliente o della società. «CS Life non si è fatta carico né ha commissionato alcuna indagine in merito alle transazioni fraudolente che poi potesse diventare materiale mostrabile», ha testimoniato un ex dipendente, citato nella sentenza del 2021. Più avanti: «La ragione per cui non ci sono documenti di questa categoria che si possono produrre è che questo materiale è confidenziale». Talmente confidenziale che non è nemmeno in possesso alle Bermuda ma solo alla sede di Zurigo.

La prassi del segreto bancario impedisce all’ufficio centrale di consegnare documenti di un cliente. La difesa le chiama «considerazioni di riservatezza» che «impediscono alla Banca di fornire il rapporto FINMA a Credit Suisse Life (Bermuda) Ltd». Non solo: visto che i contenuti del rapporto sono stati resi noti da una fuga di notizie, Credit Suisse ha fatto appello all’Alta corte inglese che le ha concesso un’ingiunzione per impedire che la famiglia Ivanishvili possa fare «uso» del rapporto. Questo complica ulteriormente la gestione del dossier.

Da sempre nella storia dei processi alle banche svizzere gli istituti di credito fanno resistenza all’acquisizione di documenti del genere: «Il proceduralista accorto fa spesso valere l’argomento che un rapporto del genere non è utilizzabile come prova in sede penale perché è stato acquisito con altre regole», spiega l’avvocato svizzero Paolo Bernasconi. In pratica, mentre la FINMA è un organismo con il quale la banca è obbligata a collaborare non vale lo stesso con una procura. Il discorso però non vale per i processi civili, come nel caso delle Bermuda.

Il costo della segretezza

La riservatezza è uno dei beni più preziosi storicamente del sistema bancario svizzero e i clienti che hanno un conto “segreto” sono ritenuti «speciali». Sono quelli con cui si fanno i maggiori margini di profitto, come quelli che Leuscardon faceva con i clienti dell’area ex sovietica: il costo dei servizi è fino al 70% più elevato di quello standard di altre banche.

Una giornalista del consorzio SuisseSecrets, per capire come funziona questo mercato, si è finta una ricca investitrice interessata. «Pochi, anche all’interno della banca, potranno accedere alle informazioni relative al suo conto», le ha assicurato un manager in una conversazione. Ci sono diverse alternative per una gestione sicura e riservata che vanno dai conti cifrati, cioè anonimi, fino alle polizze-mantello e ai trust. Tra gli schemi proposti, c’era anche la costituzione di una società il cui socio unico sarebbe stato un prestanome fornito da Credit Suisse. Questo sarebbe apparso come il proprietario formale di yacht, beni immobili e aeroplani, e il patrimonio che finisce sotto la lente degli investigatori o sotto sanzione sarebbe stato amministrato da un trust gestito dalla stessa Credit Suisse.

Tra gli schemi proposti da Credit Suisse c’era anche la costituzione di una società il cui socio unico sarebbe stato un prestanome fornito da Credit Suisse

Finora i clienti dalla Svizzera che hanno scelto questa opzione si sono sempre dovuti appoggiare a trust stranieri (come quello a Singapore di Bidzina Ivanishvili) ma a gennaio 2022 il Parlamento ha incaricato il Consiglio federale di creare le basi legislative per avere istituti del genere anche nella Confederazione. Si tratta di uno dei modi per continuare a essere competitivi nel mercato finanziario globale, a seguito dell’introduzione della comunicazione automatica imposta dal sistema di scambio di informazioni bancarie Crs. In pratica, è un modo per cercare di restare una potenza nello scenario delle guerre fiscali: il segreto bancario è di casa anche a Singapore, i Paesi Bassi sono anche più in alto nella classifica del Tax Justice Network dei Paesi con maggiore opacità fiscale, ma la Svizzera in questi anni ha subito più attacchi.

L’opzione per un deposito bancario cifrato, del tutto anonimo, è stata proposta alla potenziale cliente al costo di 2.250 dollari all’anno. In una comunicazione via mail con la futura potenziale cliente, il vice presidente della sede di Zurigo che si occupa dei mercati emergenti ha tuttavia precisato che «i conti cifrati sono in realtà un servizio che stiamo gradualmente eliminando, dato che il livello di protezione offerto è diminuito molto negli anni».

Per un’investitrice dall’Africa, però, resta ancora un’opzione: la Nigeria ha aderito al Crs solo nel 2020, il Ghana dal 2019, le isole Mauritius dal 2018 e il Sudafrica all’inizio, nel 2017. Gli altri Paesi sono fuori dal sistema di scambio automatico di informazioni bancarie.

Secondo quanto risulta a SuisseSecrets, in un sondaggio interno a Credit Suisse 50 mila dipendenti hanno identificato «un’urgente necessità di un ambiente che aiuti le persone che si occupano di rischio e conformità fiscale a parlare». Il segreto assoluto, forse, non è più un valore così indiscutibile, nemmeno all’interno della sua cattedrale.

CORREZIONE: L’articolo è stato modificato il 12 marzo per eliminare ogni connessione tra Bidzina Ivanishvili e il Cremlino. 

CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli

Editing

Giulio Rubino

Foto di copertina

Guerra al segreto bancario svizzero

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Guerra al segreto bancario svizzero

Lorenzo Bagnoli

Prendere tempo è stata la principale strategia adottata dalla Svizzera per consolidare e preservare il proprio segreto bancario. La “riservatezza” degli istituti di credito non è infatti una legge, bensì una prassi: è stata appresa e praticata dai banchieri della Confederazione a partire dagli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento, fino a farla diventare una sorta di religione di Stato. Spiega Sebastien Guex – professore di storia contemporanea all’Università di Losanna, tra i pochi intellettuali svizzeri che abbia mai scritto dell’origine del segreto bancario – che già all’alba del Ventesimo secolo i banchieri elvetici dispensavano ai clienti più importanti la massima discrezione.

La Svizzera diventò anche per questo un polo attrattivo per i ricchi borghesi di Francia, Germania e Austria (pochi gli italiani, al tempo). «Tra il 1906 e il 1907 il governo francese aveva già intrapreso delle azioni per ottenere dai governi di Svizzera, Belgio e Gran Bretagna quello che oggi si chiama Scambio automatico d’informazioni fiscali», racconta Guex. Il Common Reporting Standard (Crs), questa la sigla del sistema odierno condiviso all’interno della comunità dei Paesi Ocse, è stato introdotto in Svizzera solo nel 2018. Permette alle autorità fiscali dei Paesi aderenti di scambiarsi i dati standardizzati dei contribuenti, in modo che possano condurre verifiche patrimoniali. Di fatto è il mezzo che abolisce il segreto bancario. Almeno per i contribuenti residenti all’estero.

È stato un percorso lungo e accidentato per la Svizzera arrivare fino a questo punto: «Se si dovesse insegnare all’università il combattimento ritardatore, bisognerebbe prendere come modello la diplomazia svizzera», commenta Paolo Bernasconi, avvocato, ex magistrato, padre della legge svizzera sul riciclaggio degli anni Novanta. Il combattimento ritardatore è una tecnica difensiva: significa reagire agli attacchi per non perdere posizioni. Per cent’anni la diplomazia svizzera ha resistito agli assalti al suo segreto bancario. Gli Stati Uniti pensavano di aver vinto nel 1996, quando firmarono il primo accordo di collaborazione. Prevedeva lo scambio dei rapporti ma non dei conti correnti: un’informazione inutile ai fini di un procedimento penale. La guerra non era nemmeno cominciata.

Punire i delatori

Le prime schermaglie giudiziarie contro le banche svizzere cominciarono negli anni Trenta. Non era ancora una guerra, ma la cronaca di allora ricalca quello che si vede anche oggi, sia da parte della Svizzera, sia dei suoi aggressori.

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Il 27 ottobre 1932, per rompere la segretezza svizzera il ministero delle Finanze francese ha mosso persino la magistratura. La Banca commerciale di Basilea, un istituto di credito tra i più importanti dell’epoca, aveva un’agenzia clandestina a Parigi, nascosta nelle stanze del lussuoso hotel La Trémoille, a due isolati di distanza dall’Eliseo. Le fece perquisire il Commissario della sicurezza generale Roger Barthelet, una sorta di superpoliziotto alle dipendenze di un dipartimento del ministero dell’Interno, il quale interrogò poi sia gli impiegati della banca – il direttore e i suoi due vice, svizzeri – sia la clientela francese. Tra i documenti trovò una lista di conti correnti depositati nella sede centrale della banca, a Basilea. Nessun accenno a chi fossero i proprietari: erano conti cifrati. Sepolta in mezzo alle pagine di un quaderno, però, c’era una lista con un migliaio di nomi: la prima nella lunga storia degli scandali bancari della Svizzera. Era la chiave per decrittare i proprietari dei conti.

Gli inquirenti francesi scoprirono così che almeno dal 1927, a loro insaputa, all’hotel La Trémoille c’era un via vai di clienti francesi che venivano a riscuotere cedole, obbligazioni, dividendi, interessi maturati sui conti accesi in Svizzera. Il meccanismo permetteva ai clienti francesi di evadere circa il 20% delle tasse. Al fisco francese erano stati strappati così tra l’uno e i due miliardi di franchi svizzeri. Nella lista degli evasori c’erano alcune della famiglie francesi più ricche dell’epoca (tra cui gli industriali Peugeot e gli editori di Le Figaro, i Coty), politici di primo piano di diverse estrazioni, ex ministri, una dozzina di generali, due vescovi e due giudici della Corte d’appello. All’interno della banca ci fu una discussione se collaborare o meno con le autorità francesi. Alla fine la linea della tutela del segreto bancario prevalse.

Nella lista degli evasori c’erano alcune della famiglie francesi più ricche dell’epoca, politici di primo piano di diverse estrazioni, ex ministri, una dozzina di generali, due vescovi e due giudici della Corte d’appello

Dopo il caso della Banca commerciale di Basilea ne vennero altri, nei mesi seguenti. Banche minori che, memori del precedente, spostarono tutti i documenti in Svizzera prima dell’arrivo degli inquirenti. Qualche lista di clienti spuntò comunque. I magistrati francesi decisero di rendere pubblici i nomi di 130 correntisti con il patrimonio in Svizzera: la «classifica dei buoni francesi che evadono il fisco», scrisse il settimanale socialista Le Populaire.

Dopo il clamore iniziale, il caso si sgonfiò: i 38 magistrati che indagavano avevano infatti a disposizione solo quattro contabili per analizzare un migliaio di documenti; l’Ordine degli avvocati protestò al ministero della Giustizia contro i metodi d’indagine e qualche giornale conservatore, tra cui Le Figaro, cominciò una campagna contro il governo: «Verso la dittatura della delazione», titolava l’editoriale del 27 novembre 1932. Faceva il caso di monsieur Blum, «un distinto giurista»: «Per il solo essere nominato nei documenti della Banca di Basilea, viene incolpato e il suo nome rispettato, uno dei più antichi di Francia, viene messo alla pubblica gogna, il signor Blum!», s’indignava l’articolo. «Il vero scandalo – prosegue l’articolo – è il saccheggio fiscale d’ispirazione socialista e demagogica che rovina la Francia».

Cent’anni di liste dei correntisti segreti

Senza le liste clienti sequestrate o fuoriuscite dagli uffici delle banche che si trovano in Paesi che mantengono riservata l’identità dei clienti non sapremmo nulla di patrimoni all’estero. L’episodio di Parigi è stato solo il primo di una serie. In fondo, è stato una sorta di leak d’altri tempi. La lista più famosa riguardante clienti di una banca è quella procurata da Hervé Falciani nel 2008. L’ex dipendente della sede svizzera di Hsbc aveva girato circa duemila nomi di potenziali evasori fiscali all’allora ministro delle Finanze francese Christine Lagarde. La Lista Lagarde è un sottoinsieme della Lista Falciani, contenente 120 mila nomi. Da lì è nata l’inchiesta collaborativa di Icij SwissLeaks. Falciani è stato poi condannato a cinque anni per spionaggio industriali e violazione del segreto bancario nel 2015.

Sempre del 2008 è anche la Lista Vaduz, un cd-rom con 388 nomi di presunti evasori in Liechtenstein. In Italia, nel 2009, la Guardia di Finanza di Milano ha scoperto sul computer dell’avvocato svizzero Fabrizio Pessina una lista di clienti importanti con patrimoni nascosti all’estero. Aveva una società in Svizzera dalla quale ha costruito fiduciarie e società schermate in diversi paradisi fiscali.

Nel dicembre 2013 sempre la Guardia di Finanza milanese ha trovato la lista di circa 13mila clienti di Credit Suisse che hanno sottoscritto false polizze assicurative tra Liechtenstein e Bahamas. La banca ha patteggiato, però per tanti clienti la situazione è incerta, tanto che molte polizze nemmeno si trovano. Nel 2019 sempre le Fiamme Gialle hanno iniziato a setacciare i 4.500 nomi di clienti di Payopm, una piattaforma facente capo a un avvocato italiano residente a Panama che secondo un esposto sarebbe uno strumento per evadere il fisco.

Le conseguenze del caso della Banca Commerciale di Basilea e la discussione interna all’istituto di credito sono due delle motivazioni principali per le quali nel 1934, sotto la pressione dell’ambiente bancario svizzero, la confederazione ha introdotto la sua legge bancaria. L’articolo 47, spiega il professor Guex, è il più importante: «Dice che tutti gli impiegati, i direttori o i proprietari di una banca che trasmettono informazioni sulla clientela dell’istituto di credito commettono un delitto». Quando la pressione internazionale si è fatta più forte, nel 2014, la pena prevista per i delatori è stata ampliata ad altre categorie professionali che entrano in possesso dei dati (con pene fino ai tre anni di carcere; sono cinque per chi rivela i dati dei correntisti per ottenere «per sé o per altri un vantaggio patrimoniale»). Fin dall’origine della legge, tuttavia, lo Stato, in quanto protettore del bene della segretezza, può procedere d’ufficio. Due anni dopo la sua introduzione, nel 1936, fu riformato anche il codice penale per introdurre il reato di spionaggio bancario. «A quel punto il segreto bancario è davvero protetto dal punto di vista legale e diventa un bene pubblico in Svizzera – spiega Guex -. A mia conoscenza si tratta dell’unico governo che prima della Seconda Guerra Mondiale ha adottato delle disposizioni legali a tutela del segreto bancario». Questo sistema, secondo Guex, ha creati «una cultura del segreto bancario, interiorizzata dagli impiegati di banca o, per meglio dire, da una buona parte della società svizzera».

Finché ci sarà l’articolo 47, il segreto bancario avrà il suo salvacondotto. Per quanto la Svizzera abbia stretto accordi di collaborazione con le autorità fiscali di oltre un centinaio di Paesi e abbia adottato lo standard comune nello scambio di informazioni, il suo passato non passa del tutto. Del resto il Dipartimento federale è conscio che «ogni grande centro finanziario – dice a IrpiMedia un portavoce – corre il rischio di essere sfruttato per transazioni illegali».

Per i cittadini svizzeri e per i residenti in Svizzera la riservatezza dei conti correnti è ancora tutelata. Dal punto di vista di Guex, il fatto che i correntisti delle banche svizzere con un patrimonio superiore ai 50 milioni di euro sia cresciuto dal 2015 dimostra che i servizi di gestione del patrimonio elvetici si rivolgono sempre di più a una fetta specifica del mercato.

L’articolo 47 della legge bancaria svizzera (1934) prevede che tutti gli impiegati, i direttori o i proprietari di una banca che trasmettono informazioni sulla clientela dell’istituto di credito commettono un delitto. Due anni più tardi fu introdotto nel codice penale il reato di spionaggio bancario

E questo va di pari passo con una maggiore possibilità di concedere residenza e cittadinanza: «Un primo modo per continuare a far funzionare il segreto bancario è trasformare i clienti più importanti in cittadini svizzeri». «Ciò che tiene insieme il popolo svizzero, così diverso per valori e lingue, è il franco. La ricchezza. E per mantenere lo status quo, è stato fatto credere agli svizzeri, serve il segreto bancario», conclude il professore.

«Una volta i clienti stranieri delle banche svizzere non fiscalizzati erano l’80%, se non il 90%. Oggi non è più così», dice Paolo Bernasconi, ex magistrato. Al di là del segreto bancario, infatti, il sistema penale svizzero si è dotato di nuovi reati per punire il riciclaggio anche da proventi di reati fiscali (introdotto nel 2016) e ha costretto i distretti finanziari svizzeri a preoccuparsi delle potenziali inchieste in casa propria.

Le prime reazioni a Suisse Secrets

Credit Suisse in una nuova nota di risposta a Suisse Secrets ribadisce di essere «pienamente consapevole delle proprie responsabilità, nei confronti dei clienti e del sistema finanziario nel suo complesso, relative al mantenimento dei massimi standard di condotta». «Queste dichiarazioni pubblicate sui media – aggiunge la banca – costituiscono un evidente tentativo di screditare non solo la banca ma anche la piazza finanziaria svizzera nel suo insieme, che ha attraversato un periodo di cambiamenti significativi nel corso degli ultimi anni». Nel Parlamento svizzero, però, la questione dell’articolo 47 sta diventando di natura politica: «Suisse Secrets mostra ancora una volta che le banche svizzere continuano a fare affari con dittatori, autocrati e criminali – è stato il commento del partito dei Verdi, che sono all’opposizione -. Sono inoltre tutelate da un inasprimento dell’articolo 47 della legge sulle banche, che risale a un’iniziativa parlamentare del PLR (Partito liberale radicale)». Il Partito liberale radicale è un gruppo politico di centrodestra tra i principali rappresentanti degli interessi del mondo economico e finanziario svizzero. Nel 2014 il PLR ha proposto l’inasprimento dell’articolo 47 della legge bancaria per punire la «violazione del segreto professionale», che poi è stato ratificato dal Parlamento. In questo modo i colpevoli del reato non sarebbero stati solo i dipendenti della banca ma anche chi ottiene questi dati o chi induce chi ne è in possesso a cederli. Su twitter, Samira Marti – deputata dei socialdemocratici, partito che fa parte del governo ma in minoranza – ha scritto che l’assenza di un media svizzero al consorzio Suisse Secrets per il timore di ripercussioni legali (carcere compreso) è la dimostrazione del livello di censura che le banche riescono a imporre. Aggiunge che il suo partito «presenterà una proposta nella sessione primaverile» par cambiare l’articolo 47 e chiede ai centristi di Die Mitte/Le Centre e alla sinistra dei Verdi Liberali di votare assieme . Julie Cantalou, dei Verdi Liberali, le ha risposto: «Il giornalismo svolge il suo ruolo essenziale quando svela pratiche illecite – si legge nel suo comunicato-. Vogliamo quindi sostenere la riforma dell’articolo 47 e non vediamo l’ora di collaborare con Samira Marti su questa importante materia».

Lo sbarco degli americani

Il combattimento ritardatore svizzero ha tenuto botta finché il conflitto fiscale si è combattuto in Europa. Poi, nel 2008, sono arrivati gli americani e si sono portati dietro la comunità internazionale.

La Pearl Harbour che ha trasformato in mondiale la guerra fiscale europea è stata la testimonianza di Bradley Birkenfeld, gestore del risparmio che lavorava all’epoca con Ubs e che, di fronte a un Tribunale della Florida, si è dichiarato colpevole di aver aiutato i suoi clienti a evadere milioni di dollari tra il 2001 e il 2006. Apriti cielo: il Dipartimento di Giustizia americano ha cominciato a usare in modo sistematico il concetto di «concorso nel reato» da parte dei professionisti residenti all’estero che hanno aiutato i contribuenti americani a evadere il fisco. «2008, anno nero dell’Ubs», titolava Swissinfo a dicembre 2008: l’Unione bancaria svizzera si apprestava a chiuedere un bilancio bucato dall’enorme esposizione sul mercato dei mutui americano (l’origine della crisi finanziaria) e una serie di controversie giudiziarie. L’istituto bancario è stato salvato dall’intervento del governo elvetico e della banca centrale.

L’anno successivo la War on tax è stata dichiarata tema centrale del G20. «È stata la prima volta che gli Stati hanno fatto sul serio. In materia fiscale di solito non era così», ricorda Bernasconi. È stata l’Ocse a decidere di stilare l’elenco dei Paesi non collaborativi: quelle banche avrebbero dovuto passare scrutini straordinari per ogni singola transazione. «L’asticella fissata per non essere in blacklist però era irraggiungibile per la Svizzera», ricostruisce l’avvocato: servivano dodici accordi in materia di doppia imposizione che prevedesse la possibilità di cooperare su richiesta nei casi non solo di frode fiscale, ma anche di evasione. Anche i pochi alleati europei della Svizzera – Austria e Lussemburgo – si sono adeguati al contesto internazionale. Era impossibile per la Svizzera andare avanti da sola. Anche Ubs, quindi, si è dovuta arrendere.

Il D-Day delle guerre fiscali, l’inizio della cavalcata contro il segreto fiscale svizzero, è cominciata il 12 agosto 2009, quando l’istituto elvetico ha accettato di consegnare i nomi di 250 clienti (su 4.500 richiesti) alle autorità americane. «Se vuole illegalmente, perché in violazione del segreto bancario», sottolinea Paolo Bernasconi. Questa concessione però è stata spiegata di fronte al Tribunale federale svizzero: la banca si trovava in «stato di necessità». Se non si fosse adeguata, non avrebbe più potuto fare compensazioni finanziarie (in pratica operazioni interbancarie per scambiarsi assegni o denaro) in dollari, rimanendo tagliata fuori completamente dal mercato internazionale. «La banca doveva evitare l’avvio di un procedimento penale formale, perché avrebbe fatto scattare una serie di misure che l’avrebbero messa al tappeto», prosegue Bernasconi. Sarebbero scattate sanzioni come quelle applicate alle banche russe dopo l’invasione della Crimea. Insomma, se non avesse ceduto, sarebbe fallita.

La definizione

Con evasione fiscale si definiscono i comportamenti illeciti che si adottano per non pagare o pagare meno le tasse. L’elusione fiscale è invece il modo attraverso cui, in modo lecito ma spregiudicato, si aggirano le regole tributarie per pagare meno di quanto dovuto. La frode fiscale è un reato che si commette emettendo fatture false e dichiarazioni dei redditi fasulle.

L’accordo Irs-Ubs è stato un precedente che ha condizionato per sempre le relazioni Svizzera-Stati Uniti. Anche Credit Suisse, Banca Svizzera Italiana, Pkb Privatbank e Wegelin & Co hanno dovuto patteggiare con gli americani. Quest’ultima – la più antica banca svizzera – finendo in bancarotta a causa della sanzione.

Come in ogni guerra, l’intervento di una potenza in un conflitto è teso a proteggere i propri confini. In questo caso Delaware, South Dakota, Alaska, Nevada, ovvero alcuni tra i paradisi fiscali sul suolo americano specializzati in particolare nella costruzione di società “bucalettere”. Secondo il report 2009 della Tax Justice Network, l’organizzazione che traccia i furti di gettito a livello complessivo, nel 2007 gli Stati Uniti hanno attratto 2.600 miliardi di rapporti finanziari, ancora più della Svizzera. «Mentre gli Stati Uniti saltano su e giù e dicono “Ah, cattive, cattive banche svizzere”, gli Stati Uniti stanno facendo esattamente le stesse cose per quanto riguarda i titolari di conti bancari non residenti», spiegava alla Reuters Sarah Lewis, all’epoca direttore esecutivo della Tax Justice Network.

Con il Fatca – Foreign Account Tax Compliance Act, introdotto in USA da Barack Obama – le banche sono obbligate a fornire al fisco americano tutte le informazioni sui contribuenti americani. Ma non viceversa

Barack Obama, appena eletto presidente degli Stati Uniti, ha promosso lo standard americano di scambi di informazioni, il Foreign Account Tax Compliance Act (Fatca). Però non ha affrontato i paradisi di casa propria: per quello ci sono voluti più di dieci anni. Il Corporate Transparency Act del 2020 è il tentativo più credibile fatto finora per la riforma delle leggi antiriciclaggio statunitensi.

Ma le perplessità restano, soprattutto in materia bancaria: gli Usa, infatti, rifiutano il sistema di scambio automatico delle informazioni previsto per i Paesi dell’Ocse, il CRS. Con il Fatca di Obama si sono costruiti il loro. «Sono stati gli Stati Uniti a fare da locomotiva contro il segreto bancario svizzero, perché hanno lanciato i provvedimenti contro le banche e hanno lanciato il loro sistema automatico, ma non di scambio», conclude Bernasconi. In pratica con il Fatca le banche sono obbligate a fornire al fisco americano tutte le informazioni sui contribuenti americani. Non viceversa. Secondo una fonte investigativa italiana, è totalmente sbilanciato nello scambio di informazioni: «Noi agli Stati Uniti diciamo tutto, loro niente». Trucchi da L’arte della guerra. Quella fiscale.

CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli

Editing

Giulio Rubino

Foto di copertina

La sede della banca nazionale svizzera a Bern
(marekusz/Shutterstock)

Provate a prenderli, quei conti in Credit Suisse

#SuisseSecrets

Provate a prenderli, quei conti in Credit Suisse

Cecilia Anesi
Ben Wieder (Miami Herald)
OCCRP

«Si sono venduti questi merdosi… la Svizzera diventerà un Paese di merda», sbotta Antonio Velardo. L’imprenditore campano è agitato, fa una serie di telefonate, vuole scoprire se è vero che la Svizzera cambierà le regole sul segreto bancario che fino a quel momento erano state serratissime. Avere soldi lì, era come tenerli in scrigni invisibili chiusi a chiave.

Era il 14 marzo 2009, e il giorno prima la Svizzera aveva annunciato l’adesione ai protocolli Ocse. Da quel momento le autorità straniere avrebbero potuto chiedere accertamenti sui titolari di conti, se sospettati di evasione fiscale. Così, almeno, gli aveva annunciato il suo socio dell’epoca, Henry “Harry” Fitzsimons, un ex-terrorista dell’IRA (Irish Republican Army).

«Senti, mi servono tutte le informazioni sulla Svizzera. Hanno lanciato qualcosa sulla Svizzera, mi fai un dossier», chiedeva Velardo a un suo collaboratore.

«Non mi piace proprio questo fatto. Non mi sembra una cosa giusta. Merda…» si sfoga mentre di sottofondo si sente il rombo di una Ferrari. «La senti la bestia?», si vanta con il compare.

Velardo non è un uomo noto, piuttosto è uno dei tanti, uno dei 700 italiani domiciliati all’estero che compaiono nel leak di Suisse Secrets e che risultano avere tanti, tantissimi soldi. Ed è proprio questo anonimato, questa invisibilità, che Velardo voleva mantenere rivolgendosi alle banche svizzere.

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L'inchiesta in breve
  • Tra il 2007 e il 2008 due procure antimafia calabresi, quella di Reggio Calabria e quella di Catanzaro, iniziano a indagare il potenziale riciclaggio di capitali mafiosi di due clan di ‘ndrangheta, i Morabito di Africo e i Mancuso di Limbadi
  • Durante le indagini, emerge la figura dell’imprenditore immobiliare Antonio Velardo e dei suoi soci, tra cui l’ex terrorista IRA Henry Fitzsimons
  • A marzo 2009, Velardo e Fitzsimons vengono intercettati preoccupati per i paventati cambi nella legislazione svizzera rispetto al segreto bancario, svelando così di avere dei conti bancari in Svizzera
  • Le rogatorie internazionali mandate dalla Calabria e che chiedono una verifica sui conti in Svizzera non forniranno informazioni utili durante le indagini. Il sospetto è che i capitali legati al villaggio turistico “Gioiello del Mare” siano transitati da lì
  • Solo nel 2014 l’autorità giudiziaria svizzera informa la controparte italiana della presenza di cinque conti correnti di Credit Suisse su cui Velardo ha il potere di firma
  • Due di questi conti correnti compaiono nel database di Suisse Secrets, assieme a un terzo conto mai comunicato agli italiani
  • Tre di questi conti, poichè intestati a un’azienda nelle isole Marshall, non potranno essere sequestrati
  • Nel 2016, il costruttore del Gioiello del Mare viene condannato per appartenenza alla ‘ndrangheta, e il villaggio confiscato. Velardo e Fitzsimons verranno assolti per mancanza di prove a causa della scarsa collaborazione delle autorità straniere
  • Degli oltre 450 appartamenti venduti, solo 33 clienti stranieri hanno ottenuto una casa
#SuisseSecrets, il progetto

Suisse Secrets è un progetto di giornalismo collaborativo basato sui dati forniti da una fonte anonima al giornale tedesco Süddeutsche Zeitung. I dati sono stati condivisi con OCCRP e altri 48 media di tutto il mondo. IrpiMedia e La Stampa sono i partner italiani del progetto. 

Centosessantatre giornalisti nei cinque continenti hanno rastrellato migliaia di dati bancari e intervistato decine di banchieri, legislatori, procuratori, esperti e accademici, e ottenuto centinaia di documenti giudiziari e finanziari. Il leak contiene più di 18mila conti bancari aperti dagli anni Quaranta fino all’ultima decade degli anni Duemila. In totale, lo scrigno è di oltre 88 miliardi di euro.

«Ritengo le leggi sul segreto bancario svizzero immorali – ha dichiarato la fonte ai giornalisti-. Il pretesto di proteggere la privacy finanziaria è semplicemente una foglia di fico che nasconde il vergognoso ruolo delle banche svizzere quali collaboratori degli evasori fiscali. Questa situazione facilita la corruzione e affama i Paesi in via di sviluppo che tanto dovrebbero ricevere i proventi delle tasse. Questi sono i Paesi che più hanno sofferto del ruolo di Robin Hood invertito della Svizzera».

Nel database di Suiss Secrets ci sono politici, faccendieri, trafficanti, funzionari pubblici accusati di aver sottratto denaro alle casse del loro Paese, uomini d’affari coinvolti in casi di corruzione, agenti di servizi segreti. Ci sono anche molti nomi sconosciuti alle cronache giudiziarie.

Aveva ragione Velardo ad essere preoccupato perché già da un anno, in Calabria, due procure antimafia – quella di Reggio Calabria e quella di Catanzaro – lo avevano messo sotto intercettazione perché sospettato di muovere capitali riconducibili alla ‘ndrangheta e all’IRA. Due indagini complesse, rese ancor più difficili dai troppi salti di giurisdizione dei soldi e dei personaggi coinvolti, e che sono finite con l’assoluzione sia di Velardo che di Fitzsimons.

La traccia dei soldi che partendo dalla Calabria arriva fino a Miami, è rimasta sepolta grazie alla discrezione della Svizzera, che non è mai davvero venuta meno. E i segreti finanziari di Velardo incastonati tra le Alpi, quella parte mai scoperta dalle procure, sono rimasti tali. Almeno finora.

Grazie alle informazioni del leak, carte giudiziarie e altri documenti ottenuti in vari paesi del mondo, Suisse Secrets può oggi svelare nuovi dettagli sui movimenti di Velardo e dei suoi soci, sia in Calabria che, oggi, nei Caraibi.

Da Capo Verde ad Africo 

Nato a Napoli, il quarantaquattrenne Antonio Velardo si presenta con uno scintillante profilo Linkedin dove si descrive come “venture capitalist” nel mondo dell’immobiliare.

Oggi di base ai Caraibi, Velardo ha iniziato a vendere case agli stranieri da ventenne. Dopo una laurea in ingegneria presa in Inghilterra, si è trasferito a Capo Verde – arcipelago di 15 isole al largo del Senegal, nel mezzo dell’Oceano Atlantico.

Capo Verde, terra natale della famosissima musica morna, proprio come la sua musica è sempre stato un frullatore di note e gente diversa, un tempo tristemente ultima tappa della tratta degli schiavi prima dell’imbarco verso le Americhe, oggi noto hub per il rimbalzo di carichi di cocaina che viaggiano nella direzione opposta.

Amatissima dagli italiani, Capo Verde era un mercato turistico e immobiliare perfetto dove muovere i primi passi. Ed è qui che Velardo inizia a collaborare con Henry Fitzsimons. Condannato per un attacco bomba dell’IRA a inizio anni ‘70, l’irlandese – uscito di prigione dieci anni dopo – è diventato un magnate dell’immobiliare a Belfast in un batter d’occhio. Ma Fitzsimons era soprattutto noto in quanto proprietario del Rumours, un night famoso per le sue feste e per la clientela, fatta, secondo alcune fonti, per buona parte da membri dell’IRA.

A Capo Verde, Fitzsimons ha accolto Velardo sotto la sua ala, pagandogli – secondo le intercettazioni – 4mila sterline a settimana affinché lo aiutasse con vendite immobiliari nell’arcipelago.

#SuisseSecrets

I professionisti della segretezza di Credit Suisse

Il processo a Patrice Lescaudron, le sanzioni agli oligarchi russi, i procedimenti di vecchi clienti contro la banca. Come lavorano i custodi della riservatezza dei clienti più abbienti

Presto, la coppia ha iniziato a espandere le attività investendo in resort turistici in Europa. Stando alle indagini della Guardia di finanza di Reggio Calabria, Velardo non si pone mai il problema di quanto costino i beni da acquistare, «come se disponesse di una quantità di denaro illimitata».

Alla fine del 2006 aprono insieme la società irlandese VFI Overseas Properties Real Estate Agent Ltd per seguire progetti immobiliari anche in Calabria, sia nel vibonese e catanzarese, che nella Locride. Qui, dopo avere sentito della possibilità di costruire un grande villaggio turistico sulla Costa dei Gelsomini nella zona di Brancaleone (Africo), Velardo si era messo in moto per entrare in contatto con chi aveva in mano il progetto. La costa di Africo però non è una tipica meta turistica, più che altro è nota per l’ingombrante presenza di uno dei clan di ‘ndrangheta più potenti al mondo, i Morabito alias Tiradrittu. Egemoni del traffico di cocaina dall’America Latina all’Europa, nel territorio di Africo non si muove una foglia, che questo clan non voglia.

Amatissima dagli italiani, Capo Verde era un mercato turistico e immobiliare perfetto dove muovere i primi passi. Ed è qui che Velardo inizia a collaborare con Henry Fitzsimons

Anna Sergi, autrice e ricercatrice sulla ‘ndrangheta e professoressa di criminologia presso l’Università di Essex, spiega come la zona di Africo si incastoni in una lunga costellazione di paesini sulla statale 106 jonica, la strada che connette Reggio Calabria a Catanzaro attraversando tutta la Locride. «Uno dopo l’altro, senza volto, piccoli paesini. Bova Marina, Brancaleone, Africo, Bovalino, e sù fino a Locri, Siderno e oltre, tutti sulla costa, dimenticati eppure bellissimi. E tutti parte di un territorio, di una rete di ‘ndrangheta, che riconosce il comando del “clan più forte”, i Morabito di Africo, la ‘ndrina che comanda anche il territorio di Brancaleone».

La circostanza non aveva frenato Velardo e Fitzsimon che, ai primi di marzo 2007 diventano ufficialmente coinvolti, come promotori e agenti immobiliari, nel più grande sviluppo immobiliare di sempre in Locride: il Gioiello del Mare.

Il sei marzo 2007 infatti Velardo apre la filiale italiana della VFI, registrandola in Calabria. Pochi giorni prima, con Fitzsimons avevano firmato un contratto con la RDV srl di Antonio Cuppari, titolare del sito di costruzione a Brancaleone. L’accordo dava mandato alla VFI per vendere gli appartamenti, pubblicizzando il mega-progetto in Irlanda, Inghilterra ma anche Norvegia, Svezia e Russia. E per ogni appartamento venduto “su carta”, VFI prendeva una commissione del 31% sul prezzo finale di vendita

Pochi mesi dopo, a maggio 2007, Velardo aveva acquistato con un’azienda immobiliare di sua proprietà, alcuni terreni all’asta vicino al grande cantiere di Cuppari. L’idea era quella di inglobarli nel progetto del Gioiello del Mare, facendoli diventare il “beachfront” – ovvero il lato spiaggia – del mega progetto. «Non avrei preso il terreno se non c’era lui», afferma Velardo in una conversazione intercettata. «Vabbè lui ha garantito la protezione sul territorio», commenta l’interlocutore. Una protezione, ritengono gli inquirenti grazie anche alle testimonianze di pentiti, che Cuppari ha potuto fornire in quanto membro della ‘ndrangheta di Africo con la dote di Vangelo. 

E Cuppari per i Morabito era un importante tassello, con il ruolo di imprenditore edile in grado di realizzare un complesso turistico-residenziale di quella portata. Il Gioiello del Mare infatti prevedeva almeno 620 appartamenti circondati da servizi di lusso come campi da golf, piscine, un hotel 5 stelle.

 Il Gioiello del Mare infatti prevedeva almeno 620 appartamenti circondati da servizi di lusso come campi da golf, piscine, un hotel 5 stelleScorri le immagini

Antonio Velardo nel corso di un’intervista

«Dalle intercettazioni e dalle carte processuali di Metropolis è chiaro che i proprietari della VFI non avessero idea che Cuppari avesse precedenti penali e che fosse associato con la mafia. Cuppari stesso ha dichiarato a processo di avere nascosto i suoi precedenti alla VFI perché, ha detto, temeva che la VFI non avrebbe più lavorato con lui se l’avesse scoperto. E aveva ragione», ha dichiarato Velardo tramite il suo PR Jamie Diaferia, dello studio Infinite Global di New York. Cuppari, contattato tramite il suo legale, non ha risposto.

Nel 2013 però, il Gip di Reggio Calabria mette i sigilli al Gioiello del Mare, bloccando definitivamente il cantiere. Cuppari viene arrestato con l’accusa di essere ‘ndranghetista, venendo poi condannato a 10 anni. Il funzionario dell’ufficio tecnico di Brancaleone firmatario dei permessi, viene assolto, e così Velardo e Fitzsimons in una sentenza che ha lasciato molti di sasso. 

Nonostante la VFI avesse venduto almeno 450 appartamenti del Gioiello, quando scattano gli arresti e il sequestro solo pochi stranieri erano riusciti ad ottenere un appartamento: 33 per la precisione, come ha potuto verificare IrpiMedia al catasto di Brancaleone.

Nonostante la VFI avesse venduto almeno 450 appartamenti del Gioiello, quando scattano gli arresti e il sequestro solo pochi stranieri erano riusciti ad ottenere un appartamento: 33 per la precisione

Simon Chambers è un avvocato irlandese che ha rappresentato decine di acquirenti. Dopo anni in causa contro uno studio di avvocati di Londra, Giambrone & Law, che si era occupato dei contratti di acquisto per gli appartamenti facendo da tramite tra la VFI di Velardo e Fitzsimons e il costruttore calabrese, Chambers è riuscito a fare compensare i suoi clienti solo della metà dei soldi persi nell’investimento, rivalendosi sull’assicurazione (di Giambrone). Chambers ha spiegato che molti suoi clienti avevano pagato, parzialmente o per intero, per appartamenti che non gli sono mai stati consegnati, in alcuni casi perché mai costruiti.

Ma se già all’epoca i conti di Velardo in Svizzera fossero stati noti, ha detto Chambers, le cose sarebbero potuto essere diverse. «Sapevamo che i soldi erano finiti da qualche parte. Dovevano essere finiti da qualche parte», ha concluso Chambers.

Scudi alzati

Nonostante la Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria sospettasse ricchezze nascoste da Velardo, gli inquirenti non riuscivano a localizzarle. Dalle intercettazioni, l’imprenditore immobiliare parla di investimenti di lusso – una Ferrari Scaglietti comprata per 300mila euro, una proprietà da 10 milioni di sterline a Londra – e conti milionari («Antò io ho 40 milioni di euro in contanti in banca solo io»). E a un amico che gli propone di investire in opere d’arte, Velardo risponde di voler investire «soldi più elevati», nell’ordine di 500mila euro.

Quando intercettato preoccupato rispetto ai cambi di legislazione sul segreto bancario in Svizzera, l’autorità giudiziaria aveva già provato a localizzare i suoi conti, senza però riuscirci. Gli svizzeri, senza il numero preciso dei conti correnti, non potevano aiutare. «Non conoscevamo il numero dei conti correnti – ha spiegato un inquirente dell’indagine Metropolis a IrpiMedia – sapevamo solo ne avesse, perché se ne vantava al telefono».

E anche da Irlanda e Inghilterra arriva poco aiuto: nonostante sollecitate, non comunicheranno informazioni sui conti bancari dei due soci. Così, la traccia di denaro resta come una via lattea in un cielo troppo lontano.

Scavando in un’altra direzione, la Guardia di finanza di Catanzaro – nell’indagine parallela chiamata Black Money che toccava gli investimenti del clan Mancuso – raggiunge una svolta il 18 marzo 2010 quando, al varco doganale di Ponte Chiasso, gli agenti fermano uno dei consulenti commercialisti di Velardo, proprio di ritorno da un incontro con lui a Lugano.

Tra la copiosa documentazione sequestrata, spuntava anche la prova che Velardo e Fitzsimons utilizzassero una fiduciaria di Cipro, la HF & AV HOLDING. Non solo, le intercettazioni tra i commercialisti calabresi e Velardo avvenute dopo la perquisizione a Ponte Chiasso, raccontavano di una certa preoccupazione tra gli indagati rispetto a ciò che le carte potessero rivelare.

Uno schema complesso

Grazie alla documentazione sequestrata al commercialista, gli inquirenti erano riusciti a delineare un puzzle dell’operazione finanziaria di Velardo e della sua squadra. La descrivono come divisa in due fasi: la prima rappresentata dalla realizzazione di grandi guadagni con l’attività di intermediazione immobiliare per clienti stranieri in Calabria. In questa fase, ritengono, il gruppo guadagnava più del dovuto eludendo il fisco grazie ad «una serie di accorgimenti giuridico – contabili finalizzati ad evitare l’imposizione fiscale sul territorio italiano dei redditi». Nella fase due, questi soldi non tassati (e tenuti offshore) venivano investiti aprendo nuove società in Italia – Calabria, Roma, Milano, Como – per realizzare e poi vendere nuovi complessi immobiliari.

La rete transnazionale di aziende passava da varie giurisdizioni: Inghilterra,Tunisia, Russia con società controllate da fiduciarie in paradisi fiscali come Cipro e Delaware.

Una schermatura, quella delle fiduciarie, che Velardo aveva scelto di usare anche in Italia. Infatti, nel 2010 aveva dato mandato alla fiduciaria milanese EOS Finanziari Fiduciari S.p.a, posseduta da una banca svizzera, di rappresentare il suo azionariato nelle aziende calabresi.

A giugno 2021 Il Fatto Quotidiano ha dato la notizia che Eos è finita sotto la lente della procura di Milano, per avere aiutato clienti a nascondere ricchezze frutto di reati finanziari, soldi che venivano prima nascosti offshore e poi scudati e fatti rientrare in Italia ripuliti.

Sei manager apicali di Eos sono finiti sotto indagine a Milano perché «assumevano e gestivano nel tempo i mandati fiduciari mediante la diffusa e consapevole inottemperanza della normativa primaria in materia di adozione di efficaci presidi antiriciclaggio».

Anche Velardo si era servito di EOS per far gestire una parte dei suoi asset, aderendo allo scudo fiscale introdotto con un decreto legge di luglio 2009, che cercava di recuperare capitali italiani detenuti all’estero.  

Tutto legale, o meglio legalizzato (salvo che accertamenti successivi non dimostrino che il denaro tenuto all’estero sia provento di attività criminale).

Ma poichè permesso, Velardo nel 2010 dà mandato a EOS di gestire il patrimonio scudato pagando la tassa di adesione allo scudo (del 5% sul capitale che viene fatto rientrare in Italia) e facendo investire lo stesso in operazioni finanziarie legate alle società che controllava tramite la fiduciaria.

A dicembre 2011 però, il governo Monti introduce un’imposta straordinaria di 1.5% facendo lievitare la tassa sui patrimoni scudati a 6.5%.

Velardo non ci sta. Decide di disinvestire parte dei suoi asset in Italia e gestiti tramite EOS, spostandoli nella Banca Julius Baer, a Lugano.

«La rinuncia allo scudo fiscale comporta ovviamente, il venir meno della causa di non punibilità», scrive il giudice per le indagini preliminari nell’ordinanza di custodia cautelare di Black Money.

IrpiMedia ha scoperto che quando le autorità svizzere finalmente si svegliano dal torpore, e rispondono alla rogatoria di Catanzaro è tardi. È il 2014 ed è già un anno che la fase delle indagini è stata chiusa, con l’ordinanza di custodia cautelare del 25 marzo 2013.

Comunica, l’autorità giudiziaria svizzera, di avere trovato cinque conti Credit Suisse su cui Velardo ha il potere di firma. Due personali, e tre intestati all’azienda Apax delle Isole Marshall. Comunica anche di avere proceduto al sequestro solo dei due conti personali, e di non potere toccare gli altri tre poiché aziendali.

Alcuni di questi conti risultano anche nel leak di Suisse Secrets, incluso uno in più, dalla vita breve (2011-2012), mai comunicato dall’autorità giudiziaria svizzera ai colleghi calabresi.

Velardo aveva aperto un conto personale presso Credit Suisse a settembre 2010, un conto intestato ad un’azienda due mesi dopo, e infine un terzo conto sempre aziendale a maggio 2011. Quest’ultimo è stato aperto per poco, chiuso nel 2012, e conteneva poche migliaia di euro.

I conti Credit Suisse, che in qualche modo sono sopravvissuti alle indagini, sollevano serie domande sulle procedure di due-diligence (cioè della valutazione della clientela) dell’istituto di credito

Gli altri due, invece, hanno raggiunto rispettivamente un picco di circa 1.4 milioni di euro (quello personale) e circa 1.2 milioni di euro (quello aziendale) nel 2011, ben tre anni prima che le autorità ne scoprissero l’esistenza. Entrambi sono rimasti aperti anche dopo le operazioni giudiziarie Metropolis e Black Money: nel 2016 c’erano più di 300mila euro in uno, e più di 500mila euro in un altro.

Per gli inquirenti, tracciare i flussi finanziari di Velardo e Fitzsimons è stato un compito arduo, perché come scrive il Gip si muovevano «attraverso operazioni finanziarie e societarie mirate a canalizzare il flusso di denaro per veicolarlo verso paradisi fiscali e farne perdere le tracce». «Era un’indagine innovativa sul riciclaggio, ma non siamo riusciti a portare a giudizio i giusti accertamenti patrimoniali che avrebbero tranquillizzato i giudici», ricorda uno dei pm con un velo di frustrazione. «Tutti i prestanome e i broker sono stati assolti – spiega un altro pm – era impossibile dimostrare il flusso dei soldi, che si muoveva a loro stesso dire in modo “psicopatico” tra diverse giurisdizioni e paradisi fiscali».

Ricapitolando, Velardo era stato accusato in due diversi procedimenti giudiziari: Metropolis a Reggio Calabria e Black Money a Catanzaro. È stato assolto a Reggio Calabria per non avere commesso il fatto, ma condannato in primo grado Catanzaro a quattro anni solo per associazione per delinquere finalizzata all’evasione fiscale. In appello, nel 2019, questa accusa viene cancellata dalla prescrizione. Anche Fitzsimons, all’epoca arrestato in Senegal (si crede sulla via per Capo Verde), viene assolto. Fitzsimons, tramite il suo avvocato Dan McGuinness, fa sapere di non avere più contatti con Velardo dal 2010. Aggiunge che a febbraio 2021 la Corte d’Appello di Reggio Calabria a cui si era rivolto, ha decretato l’ingiusto arresto e detenzione e ordinato un indennizzo.

Ora però Suisse Secrets getta una nuova luce su quei flussi di denaro. I conti Credit Suisse, che in qualche modo sono sopravvissuti alle indagini, sollevano serie domande sulle procedure di due-diligence (cioè della valutazione della clientela) dell’istituto di credito.

Quando nel 2013 Velardo finisce alla ribalta delle cronache perché accusato di riciclaggio in tandem con un ex-terrorista IRA, è davvero difficile pensare che Credit Suisse non se ne sia accorta. Credit Suisse, contattata da IrpiMedia e dai media partner, non ha risposto alle domande relative a questi conti bancari.

Sono tunisino ma sto ai Caraibi

Il disamore di Velardo per le tasse italiane potrebbe essere ciò che lo ha spinto a stoccare soldi in Svizzera. Nel 2009, quando la concessionaria Ferrari chiede la dichiarazione dei redditi, Velardo sbotta con un suo aiutante. «Non dichiaro niente io, non ho mai dichiarato in vita mia… digli: l’amministratore vive sempre fuori e non dichiara un cazzo…».

Un anno dopo, aprirà i primi due conti Credit Suisse, mettendo come domicilio la Tunisia. Una mossa, quella della residenza in Tunisia, che per la GdF aveva il solo scopo di eludere le tasse. «Una scoreggia in faccia a quel pezzente del Generale della Guardia di finanza che deve morire in culo perchè io ora sono tunisino!» dice euforico Velardo parlando con il suo consulente legale dell’epoca. «Mi devono sbocchinare».

In Tunisia, Velardo e Fitzsimons avevano avviato un’altra filiale di VFI, nascondendo la proprietà tramite una fiduciaria del Delaware – come i documenti ottenuti da Al Quatiba in Tunisia dimostrano. Sempre in Tunisia, Velardo ha poi aperto un’altra azienda – la Apax consulting – che ha due gemelle, quella detentrice dei conti in Svizzera e registrata alle Isole Marshall, e quella americana servita per investire nell’immobiliare in Florida. Nessuno degli indirizzi delle aziende, oggi, porta ad un ufficio, come hanno verificato i giornalisti di Al Quatiba.

In Tunisia, Velardo e Fitzsimons avevano avviato un’altra filiale di VFI, nascondendo la proprietà tramite una fiduciaria del Delaware

Tracce più concrete invece si trovano in Florida, dove Velardo e tre soci hanno acquistato – tra il 2012 e il 2014 – più di 130 case. Come ha scoperto il Miami Herald, la maggior parte sono state pagate in contanti, proprio negli anni successivi alle vendite del Gioiello del Mare.

Velardo oggi ha il suo centro d’affari nei Caraibi, da dove pubblicizza le sue competenze su un sito web personale, una pagina LinkedIn e un blog Medium. E, in Repubblica Dominicana, guida un’azienda di consulenza immobiliare e finanziaria, la Real Capital Caribe.

A possedere il capitale dell’azienda, invece, un suo amico dai tempi di Metropolis. Ex-bancario di Barclays a Londra, viene intercettato – ma mai indagato – mentre Velardo racconta dei suoi progetti immobiliari in Calabria, del suo timore di essere sotto controllo, dei suoi guadagni («ho fatturato 60 milioni di euro») e dei suoi conti bancari tra Lugano e Locarno. 

L’ex-bancario è anche stato un perno fondamentale per gli investimenti immobiliari in Florida, infatti come ha scritto il Miami Herald, dopo che Velardo viene ufficialmente accusato in Calabria, il suo nome scompare progressivamente dalle aziende in Florida venendo sostituito da quello del collega. E il fil-rouge con la Calabria non sembra essersi fermato. 

Nel 2018, l’amministratore di un’azienda di Vibo ritenuto prestanome di Velardo e indagato con lui in Black Money, tale Francesco Colacino, viene iscritto come procuratore della Real Capital Caribe. Avrà potere di firma sui conti bancari, e potrà occuparsi delle intermediazioni immobiliari dell’azienda. Colacino, contattato da IrpiMedia, ha negato di avere a che fare con la Real Capital Caribe.

La Real Capital Caribe sul suo sito pubblicizza la realizzazione di due condo-hotel a Santo Domingo, e le cui unità immobiliari sono disponibili sia come affitto che per investimento. «Una grande opportunità d’investimento nel cuore dei Caraibi», recita lo slogan, promettendo guadagni dell’11% per chi dovesse investire negli appartamenti di lusso.

Una pubblicità della Real Capital Caribe

Le rovine

Nel frattempo, a Brancaleone, il Gioiello del Mare cade in rovina. A tagliarlo in due, la statale 106 jonica e campi incolti. L’erba secca, altissima, da bordo strada incornicia le case sulla spiaggia – il “beachfront” – l’unica parte completata. Dall’altra parte, al di là della statale e del suo traffico continuo, lo Smeraldo. Quello che doveva essere un mega resort da 600 appartamenti, è oggi un cantiere abbandonato. Gli scheletri di cemento spuntano dalla collina come a ricordare un sogno sbagliato, mentre solo le prime quattro schiere sono finite. Tutto attorno, gli uliveti e i campi verdissimi in salita verso l’Aspromonte severo. Di fronte, il mare, quel mare a cui lo Smeraldo doveva essere collegato con strade e passaggi pedonali apposta. Invece, l’unico modo di arrivare al “beachfront” è dalla statale jonica, girando in un angusto sottopassaggio della ferrovia. Non proprio una facility di lusso.

Un dettaglio dell’attualità dell’area del Gioiello del Mare lato fonte spiaggia mappata dal catasto di Brancaleone

IrpiMedia ha raggiunto due dei proprietari, con appartamenti allo Smeraldo e al “beachfront”, parte del gruppo di 33 stranieri che hanno ottenuto un appartamento. «È un gioiello del mare, ma è diventato un totale incubo per noi», concordano.

Chiedono l’anonimato per timore di ripercussioni. Adesso che tutto è confiscato, non possono toccare nulla delle aree comuni, nemmeno fare manutenzione ordinaria. Eppure, se non fosse stato per i loro sforzi e per un giardiniere pagato di tasca propria dal 2013, «sarebbe tutto caduto in rovina». E adesso è stato approvato un ordine di demolizione per l’intero complesso Smeraldo, un ordine che include anche le loro proprietà.

Un dettaglio dell’attualità dell’area del Gioiello del Mare lato entroterra mappata dal catasto di Brancaleone

Il 29 gennaio 2016 il Tribunale di Locri assolve Velardo, Fitzsimons e Cuppari dall’accusa di riciclaggio dicendo che sì, indubbiamente il Gioiello del Mare era «destinato – per le sue proporzioni e la sua importanza – a stimolare gli “appetiti” delle cosche di ‘ndrangheta operanti nella zona di Brancaleone» e che l’appartenenza di Cuppari ai Morabito era una prova del fatto che il clan si fosse intromesso nell’investimento, ma che mancavano le prove concrete dell’utilizzazione di somme derivanti da attività illecite. Pertanto, i tre imputati dovevano essere assolti.

Questo però, ci tengono a specificare i giudici, non per colpa dell’accusa. Se da una parte si era riusciti a ricostruire i rapporti tra la VFI e la RDV, dall’altra «la scarsa collaborazione offerta dalle autorità di polizia straniere non ha certo consentito di approfondire le modalità di approvvigionamento dei conti correnti intestati ai soci della prima, Antonio Velardo ed Henry Fitzsimons. […] è però rimasto del tutto inesplorato tutto il capitolo relativo alla provenienza di tali somme».

Riceviamo, pubblichiamo e rispondiamo alla replica del sig. Antonio Velardo

La replica

Antonio Velardo sperava non succedesse mai più di trovare il suo nome pubblicato sui giornali associato a fatti e crimini a cui la sua estraneità è stata provata su tutti i piani a partire da quello giudiziario. Il suo nome ancora qualche giorno fa è uscito tra quelli di 700 italiani che avevano dei conti segreti in banche svizzere, nel reportage conosciuto come Suisse Secret.
Questo ha fatto emergere rappresentazioni giornalistiche destituite di fondamento Siamo sicuri della buona fede dei giornalisti quindi abbiamo iniziato in questi giorni un percorso di verità di rispetto e di trasparenza.

  1. I tre conti in Credit Suisse, non erano segreti, nel 2010 Antonio Velardo aveva conti regolari in Credit Suisse, infatti, sono gli stessi messi a disposizione della magistratura italiana, la cui trasparenza è stata una dei fondamenti delle sue assoluzioni. Pensate che i conti sono stati verificati in Italia e le autorità svizzere hanno firmato il decreto di “abbandono” non avendo motivo di credere che il denaro potesse avere origini illecite.
  2. Quindi parlare di questi conti assimilarli a quelli segreti d’altri e alludere che possano essere fonte d’illeciti è un’azione priva di ogni fondamento.
  3. Di più la natura e l’origine del denaro posto nei conti della banca Credit Suisse sono leciti rintracciabili e giustificati niente di più che i dividendi delle attività di marketing e vendita sono alla luce del sole.
  4. Antonio Velardo ha subito due processi con accuse lunari che sono finite con piene assoluzioni e che hanno escluso ogni legame con organizzazioni criminali, questo non dovrebbe consentire a nessuno di dire il contrario.
  5. Sul suo caso stiamo preparando un instant book in cui pubblicheremo tutti gli atti del processo, delle banche per chiudere definitivamente lo strazio che viene compiuto periodicamente alla sua Reputazione. Un’azione che non solo devasta la sua vita e quella della sua famiglia ma impatta sulla sua attività internazionale in modo devastante.

La nostra risposta

Prendiamo atto delle repliche ricevute, facendo presente che fin dai momenti precedenti la pubblicazione ci siamo premurati di concedere spazio alle posizioni del Sig. Velardo. Tanto che queste trovano spazio proprio all’interno di questa stessa pagina.

Sui punti sollevati ci preme rilevare quanto segue: 

I conti in Credit Suisse sono definiti “segreti” nel testo, come per tutti gli altri clienti Credit Suisse citati nell’inchiesta internazionale nominata Suisse Secret, in quanto protetti dalla stringente norma sul segreto bancario della Svizzera. Inoltre, non tutti i conti in Credit Suisse di Antonio Velardo sono stati messi a disposizione della magistratura italiana: infatti, i magistrati non sono mai stati informati rispetto al conto aperto nel 2011 e chiuso nel 2012. 

Non solo, le informazioni che l’autorità giudiziaria svizzera ha mandato all’omologa di Catanzaro nel 2014, arrivano a procedimento penale già chiuso quando l’unica azione possibile era un congelamento del conto e non un’indagine sui flussi di denaro. Non risulta inoltre alcuna comunicazione rispetto a questi conti fatta alla autorità giudiziaria di Reggio Calabria, tant’è che il giudice di Locri nella sentenza di assoluzione dice che la mancanza di prove rispetto all’origine del denaro era dovuta alla scarsa collaborazione dei collaterali esteri. Come del resto risulta da alcuni passaggi della sentenza di assoluzione datata 26 gennaio 2016 allo stesso modo citata all’interno di questo stesso pezzo.

CREDITI

Autori

Cecilia Anesi
Ben Wieder (Miami Herald)
OCCRP

Ha collaborato

Rahma Behi (Al Qatiba)
Walid Mejri (Al Qatiba)

In partnership con

Editing

Giulio Rubino

Foto di copertina

Occrp

Suisse Secrets, i conti segreti da 88 miliardi di euro

#SuisseSecrets

Suisse Secrets, i conti segreti da 88 miliardi di euro
Cecilia Anesi
Lorenzo Bagnoli
Gianluca Paolucci

Un generale algerino che ha guidato le torture durante la guerra civile. Un imprenditore dello Zimbabwe noto come “il Napoleone d’Africa” accusato di sottrazione di fondi pubblici, corruzione, evasione e finanziamento del conflitto in Repubblica Democratica del Congo. Impiegati pubblici che hanno distratto milioni di fondi del Venezuela contribuendo all’attuale devastante crisi umanitaria. Cardinali accusati di aver sperperato soldi destinati alle opere pie. Medi e grandi evasori italiani, chi semplice delinquente, chi invece dalle amicizie importanti tra le file della ‘ndrangheta.

Questi sono solo alcuni degli oscuri personaggi che hanno avuto conti presso Credit Suisse, nonostante l’istituto bancario svizzero abbia più volte promesso una stretta su criminali e corrotti. Le loro identità sono emerse grazie ad un leak – una segnalazione anonima – che dimostra come Credit Suisse abbia gestito conti correnti dal valore di milioni di euro senza fare le dovute verifiche.

Suisse Secrets è un progetto di giornalismo collaborativo guidato dal Süddeutsche Zeitung e OCCRP che scardina i segreti di casseforti nascoste per decenni tra le Alpi. E rivela almeno due aspetti inquietanti: da un lato, nonostante il segreto bancario non sia più un dogma indiscusso, la cultura e la legge bancaria svizzera difendono ancora i patrimoni nascosti in quel paese, dall’altro i clienti più a rischio, lungi dall’essere analizzati più a fondo, beneficiano di un’attenzione particolare e i loro conti sono gestiti esclusivamente da un élite all’interno della banca stessa.

Miliardi di euro che potrebbero essere stati sequestrati su richiesta dei tribunali di mezzo mondo ma su cui non si hanno notizie certe: la banca non ha risposto alle domande puntuali dei giornalisti del consorzio. Alcuni conti, ad oggi, sono ancora aperti. «Credit Suisse – ha risposto la banca – opera nel rispetto delle regole internazionali e locali. Negli ultimi anni, la banca ha adottato una serie di misure significative in linea con le riforme finanziarie della Svizzera, che includono investimenti considerevoli specialmente nella compliance e nel combattere il crimine finanziario. Credit Suisse ha un serio dovere di confidenzialità e cura dei propri clienti, e siamo quindi impossibilitati a commentare dichiarazioni che riguardano individui, siano essi clienti o meno».Seppure la Svizzera si sia adeguata al sistema di scambio automatico di informazioni, a detta degli stessi consulenti bancari dell’ente, la riservatezza resta uno dei capisaldi dell’istituto di credito.

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L'inchiesta in breve
  • Suisse Secrets è un progetto di giornalismo collaborativo che indaga i proprietari di 18mila conti correnti segreti di Credit Suisse, la seconda banca svizzera, rivelati da un leak. 
  • Tra i correntisti ci sono politici, faccendieri, trafficanti, funzionari pubblici accusati di aver sottratto denaro alle casse del loro Paese, uomini d’affari coinvolti in casi di corruzione, agenti dei servizi segreti.
  • I residenti in Italia sono una ventina, gli italiani circa 700, tutti residenti all’estero (più della metà in Venezuela). Tra loro Mario Merello, imprenditore già noto per precedenti casi di frode fiscale. Ci sono anche i conti correnti del Vaticano coinvolti nello scandalo per l’acquisto dell’immobile di Londra. C’è poi un immobiliarista che ha fatto affari con un ex Ira irlandese e uomini della ‘ndrangheta, in Calabria. 
  • Credit Suisse incappa in patteggiamenti e procedimenti giudiziari a causa dei clienti a cui ha aperto rapporti finanziari da oltre vent’anni. È stata coinvolta nella sottrazione di fondi pubblici della Nigeria ai tempi di Sani Abacha, nelle tangenti Elf, nel riciclaggio della Lavanderia russa, nel caso di corruzione della Pdvsa in Venezuela. E i conti si trovano in Suisse Secrets. Ma la vicenda processuale più recente, tuttora in corso, riguarda un narcos bulgaro in contatto con la cosca Bellocco condannato in Italia. 
  • Tra i politici che hanno aperto conti in Credit Suisse ci sono il re Abdullah II, gli Obiang della Guinea Equatoriale e diversi eredi di leader destituiti con le primavere arabe. Alcuni di questi conti sono del tutto sconosciuti alle autorità fiscali e dimostrano quanto disattenta sia stata la verifica sui clienti. 
#SuisseSecrets, il progetto

Suisse Secrets è un progetto di giornalismo collaborativo basato sui dati forniti da una fonte anonima al giornale tedesco Süddeutsche Zeitung. I dati sono stati condivisi con OCCRP e altri 48 media di tutto il mondo. IrpiMedia e La Stampa sono i partner italiani del progetto. 

Centocinquantadue giornalisti nei cinque continenti hanno rastrellato migliaia di dati bancari e intervistato decine di banchieri, legislatori, procuratori, esperti e accademici, e ottenuto centinaia di documenti giudiziari e finanziari. Il leak contiene più di 18mila conti bancari aperti dagli anni Quaranta fino all’ultima decade degli anni Duemila. In totale, lo scrigno è di oltre 88 miliardi di euro.

«Ritengo le leggi sul segreto bancario svizzero immorali – ha dichiarato la fonte ai giornalisti-. Il pretesto di proteggere la privacy finanziaria è semplicemente una foglia di fico che nasconde il vergognoso ruolo delle banche svizzere quali collaboratori degli evasori fiscali. Questa situazione facilita la corruzione e affama i Paesi in via di sviluppo che tanto dovrebbero ricevere i proventi delle tasse. Questi sono i Paesi che più hanno sofferto del ruolo di Robin Hood invertito della Svizzera».

Nel database di Suiss Secrets ci sono politici, faccendieri, trafficanti, funzionari pubblici accusati di aver sottratto denaro alle casse del loro Paese, uomini d’affari coinvolti in casi di corruzione, agenti di servizi segreti. Ci sono anche molti nomi sconosciuti alle cronache giudiziarie.

Agli italiani piace Credit Suisse

Sono poche le eccezioni in cui il segreto bancario può essere sospeso. Se lo richiede un tribunale svizzero, se lo richiede un tribunale straniero ma solo nel caso in cui il crimine presupposto sia riconosciuto in entrambi i Paesi (per esempio riciclaggio sì, mafia no) e, in ogni caso, solo se si conosce già il numero di conto bancario della persona indagata. Nel caso delle procure antimafia italiane, che sono ben coscienti di come una parte dei capitali delle mafie finiscano proprio in Svizzera, la collaborazione è da sempre problematica. 

«Le banche svizzere sono state e sono di importanza chiave per la ‘ndrangheta – spiega a IrpiMedia un inquirente che da anni cerca di tracciare i soldi dei clan – È un rapporto consolidato nel tempo, iniziato già dagli anni Ottanta con gli spalloni, che entrano in Svizzera con le borse piene di soldi». Nel 2009, immediatamente dopo una promessa di apertura da parte della Svizzera a marzo di quell’anno, la Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria ha chiesto al Paese elvetico di tracciare i soldi di un cittadino italiano sospettato di riciclaggio per la ‘Ndrangheta. L’autorità giudiziaria elvetica ha risposto però di poter agire solo se se si avevano in mano i numeri dei conti correnti, altrimenti la richiesta sarebbe stata una cosiddetta “ricerca generica”, non permessa. Oggi, grazie ai dati di Suisse Secrets, IrpiMedia può dimostrare come proprio Antonio Velardo, l’imprenditore indagato oltre 10 anni fa dai magistrati reggini, avesse vari conti in Credit Suisse rimasti al sicuro per tutti questi anni.

Sono poche le eccezioni in cui il segreto bancario può essere sospeso. Se lo richiede un tribunale svizzero, se lo richiede un tribunale straniero ma solo nel caso in cui il crimine presupposto sia riconosciuto in entrambi i Paesi

Credit Suisse, con la Calabria, ha avuto – seppur fugacemente – uno strettissimo legame. Nel 2004 infatti, grazie all’acquisizione del giocatore giapponese Shunsuke Nakamura, l’allora presidente Pasquale Foti riesce a strappare alla filiale di Hong Kong la sponsorizzazione della Reggina Calcio. Con tanto di magliette con il logo “CS” portate dai giocatori dell’allora serie A.

Ma calcio a parte, sono almeno 700 gli italiani che hanno scelto di portare i propri soldi in Credit Suisse. I nomi che si ritrovano non sono particolarmente famosi, ma rivelano uno schema: sono quasi tutti residenti o domiciliati all’estero, in alcuni casi per davvero – come nel caso degli italiani che operano nel settore petrolifero o minerario e legname in Africa, o nel gaming in Asia, – in altri solo perché fiscalmente più conveniente.

I correntisti italiani più ricchi

I Paesi dove sono domiciliati i correntisti italiani più ricchi

I venezuel(itali)ani

Tra gli italiani domiciliati all’estero, quasi un terzo abita in Venezuela. Tra loro, anche Valentin Josè Bagarella Gleim che in Credit Suisse ha avuto 14 milioni di euro: un immobiliarista che assieme al petroliere italo-venezuelano Josè Francisco Arata possiede un borgo-castello in Toscana come ha già svelato IrpiMedia nell'inchiesta #OpenLux. 

Ma il più facoltoso tra i correntisti “venezuelani” è Mario Merello, imprenditore noto alle cronache rosa per essere il marito della cantante Marcella Bella e per le sue frequentazioni del mondo delle showbusiness, i cui patrimoni all’estero sono noti dal 2009 grazie alla lista Pessina. Secondo l’accusa, Merello era a capo di un’associazione per delinquere che tra il 2000 e il 2009 avrebbe frodato al fisco circa 450 milioni di euro. Creava società offshore a cui faceva emettere fatture per consulenze, polizze assicurative e prestazioni mai effettuate. Con questo castello di carte, spostava il denaro oltreconfine e abbatteva l’imponibile delle imprese.  Tra i dati di Suisse Secrets, emergono 13 conti - oggi tutti chiusi - che sommati hanno avuto un patrimonio massimo di oltre 24 milioni di euro. 

Alcuni patrimoni degli italiani in Svizzera sono stati dichiarati al fisco a fronte di ampi sconti su sanzioni e potenziali procedimenti penali, attraverso strumenti come la voluntary disclosure e lo scudo fiscale, in particolare negli anni tra il 2009 e il 2015. Mario Merello è stato tra quelli che sono riusciti ad aggirare lo scudo: con una mano faceva rientrare una parte dei capitali, con l’altra ne manteneva una parte offshore, trasformata in quote di una società schermata da un trust. Anche volendo utilizzare i dati dello scudo fiscale, nessuno sarebbe riuscito a individuare il beneficiario effettivo.

Nei casi in cui è stato possibile approfondire le informazioni ricevute con le autodichiarazioni, gli inquirenti si sono ritrovati di fronte non solo a conti cifrati ma anche a polizze assicurative trasformate in conti deposito nei quali investire e prelevare esentasse, in qualche paradiso offshore. Le hanno definite “polizze mantello”, come vedremo nei prossimi capitoli di questa inchiesta.

Vent’anni di scandali 

«La cultura del malaffare è radicata in profondità in Credit Suisse», spiega un ex banchiere Credit Suisse basato a Zurigo e che ha accettato di parlare anonimamente con il team di Suisse Secrets. «Le regole sono semplici. Il dipartimento di compliance della banca è maestro nella negazione plausibile (cioè nel dichiararsi estraneo a misfatti commessi da terzi sotto i suoi occhi, ndr): non si appunta nulla che potrebbe esporre un conto corrente non in regola e non si chiede mai nulla di cui non si vuole sapere la risposta. E certamente, non si scava a fondo».

Secondo questa e altre fonti, Credit Suisse non solo accettava, ma incoraggiava i propri dipendenti a fornire servizi a clienti con fondi di dubbia provenienza. In questi casi, spiega l’ex banchiere, i conti erano gestiti direttamente dalla direzione della banca, i conti più ricchi e al tempo stesso più a rischio erano «isolati e gestiti dagli alti dirigenti».

I conti più ricchi e al tempo stesso più a rischio, racconta una fonte che vuole restare anonima per ragioni di sicurezza, «non passano attraverso il normale processo di apertura di un conto bancario. Accedono ad un sistema separato, la loro documentazione è tenuta a parte, in cartelle che non accessibili al sistema standard. Solo i dirigenti sono a conoscenza di questi conti»

Sono vent’anni che Credit Suisse è costretta a rispondere ad autorità giudiziarie che la accusano a vario titolo di non aver fatto le verifiche necessarie sui propri clienti, favorendo di fatto dei reati finanziari: riciclaggio, corruzione, appropriazione indebita, peculato. 

Il primo scandalo della banca risale al 2000: il dittatore nigeriano, il generale Sani Abacha, era morto da due anni. È allora che viene a galla come Credit Suisse abbia aiutato Abacha a nascondere almeno 200 milioni di dollari che gli Abacha avevano sottratto al proprio Paese. Per cercare di tamponare lo scandalo, l’amministratore delegato dell’epoca nel 2000 dichiarò che la banca aveva «continuamente migliorato le proprie procedure di controllo e compliance».

Credit Suisse ha anche aderito, l’anno successivo, all’associazione di 13 banche internazionali che promuove gli standard dell’industria finanziaria, le politiche di verifica del cliente e il contrasto al riciclaggio, il Wolfsberg Group. Le banche si impegnano ad accettare «solo clienti di cui l’origine della ricchezza possa essere tracciata come legittima».Eppure da allora gli scandali in cui è stata coinvolta Credit Suisse sono innumerevoli.

Gli ultimi vent’anni di Credit Suisse

La banca, spesso insieme ad altri istituti di credito elvetici, è stata al centro di contenziosi giudiziari in tutto il mondo

Sempre nel 2001 viene a galla un importante caso di corruzione legato all’azienda petrolifera pubblica francese Elf. Secondo la procura francese, tra il 1989 e il 1993, alcuni dirigenti della società si sono appropriati di oltre 300 milioni di euro della società per pagare tangenti a politici in Francia e in diversi Paesi africani dove la compagnia petrolifera doveva acquisire licenze, ville private, gioielli e altri beni di lusso. È stato uno dei peggiori scandali politico-finanziari del dopoguerra.

Tra i politici che hanno potuto approfittare delle prebende dei manager, c’è stato anche l’ex ministro dell’Interno Charles Pasqua: un politico di lunghissimo corso scomparso nel 2015 lasciandosi dietro un alone di mistero. È stato infatti il protettore politico di Robert Feliciaggi, “Bob l’Africano”, uomo d’affari corso e politico dell’Assemblea nazionale con lo stesso partito di Pasqua, ucciso nel 2006 all’aeroporto di Ajaccio. Anche lui fu implicato nel caso Elf e in altre vicende giudiziarie in cui è stato coinvolto anche il suo socio Michel Tomi, «il padrino dei padrini» della Corsica. Il nipote di Feliciaggi, Romain, da quando è un adolescente è titolare di un conto corrente milionario in Credit Suisse, che dai dati di Suisse Secrets risulta ancora aperto. 

Nel 2009 la banca viene multata dagli Stati Uniti per 536 milioni di dollari per non avere rispettato le sanzioni e avere gestito fondi di individui e aziende provenienti da Iran, Sudan e altri Paesi sulla lista nera delle sanzioni USA. Il procuratore generale Eric Holder all’epoca disse che «l’ampiezza e la complessità dell’atteggiamento criminale di Credit Suisse in questo caso è semplicemente sconvolgente».

Nel 2011 comincia l’odissea dei soldi in Svizzera di Sergey Magnitsky,  l’avvocato russo che ha svelato una devastante frode fiscale da 230 milioni di dollari, in parte dirottati in Svizzera, morendo poi misteriosamente in carcere nel 2009. Dei 18 milioni di franchi inizialmente sequestrati da una procura svizzera a seguito delle indagini per riciclaggio, nove erano in Credit Suisse. La vicenda, dieci anni dopo, è stata archiviata.

Nel 2009 la banca viene multata dagli Stati Uniti per 536 milioni di dollari per non avere rispettato le sanzioni e avere gestito fondi di individui e aziende provenienti da Iran, Sudan e altri Paesi sulla lista nera delle sanzioni USA

Nel 2014, la banca patteggia per avere aiutato cittadini americani ad evadere il fisco, con tanto di false dichiarazioni dei redditi, venendo multata 2,6 miliardi di dollari. Due anni dopo, viene accusata di riciclare soldi di mazzette di funzionari della Petróleos de Venezuela, S.A (PDVSA), l’azienda petrolifera di stato. Si parla di miliardi di fondi pubblici distratti e poi reinvestiti nell’immobiliare in Florida. 

Nel 2017, altri due scandali. Da una parte fondi pubblici rubati dal primo ministro della Malesia, Najib Razak, e riciclati a Singapore. Dall’altra 160 milioni di franchi sequestrati all’allora CEO del Banco Espirito Santo in Angola, accusato di frode miliardaria basata su prestiti senza garanzie. Come se non bastasse, sull’altra costa del continente africano, tre bancari di Credit Suisse in Mozambico vengono arrestati per distrazione di fondi del Fondo Monetario Internazionale che Credit Suisse doveva girare al governo mozambicano per finanziare la costruzione di un impianto di allevamento del tonno.

Nel 2018 finirà in carcere con una sentenza di cinque anni Patrice Lescaurdon, relationship manager - una sorta di consulente dei clienti - di Credit Suisse. Lavorava in particolare con i clienti dalla Russia e da Paesi confinanti. Il tribunale di Ginevra ha stabilito che la banca dovesse restituire 120 milioni di dollari a diversi clienti frodati dall’ex manager. L’uomo si è poi tolto la vita nell’agosto 2020 poco dopo la sua scarcerazione anticipata, riporta il Financial Times.

Conti globali

La distribuzione per macro-aree degli oltre 30.000 correntisti

Non ultimo poi, nel 2019, lo scandalo vaticano. Ben 242 milioni di euro di fondi dell’Obolo di San Pietro - che servono per le opere pie - vengono spesi dal cardinale Becciu, firmatario del conto della Segreteria di Stato presso Credit Suisse, in investimenti immobiliari di lusso a Londra. In uno scambio con i giornalisti del consorzio, Raffaele Mincione, uno dei broker che ha partecipato all’investimento, ha spiegato tramite i suoi avvocati che il suo fondo è stato coinvolto direttamente da Credit Suisse e che «non fu fatta menzione né della provenienza dei fondi dal Vaticano, né dello scopo dei fondi investiti». 

Nel 2020 poi, una procura svizzera ha aperto un fascicolo su un caso di riciclaggio milionario da parte di un gruppo di narcos bulgari e italiani guidati da Evelin Banev. Tra i suoi clienti c’era anche la costola piemontese della cosca Bellocco. «Una decina di alti dirigenti del Credit Suisse, così come il suo dipartimento legale, era a conoscenza del fatto che un gruppo di clienti erano criminali trafficanti di droga, ma hanno approvato milioni di euro di transazioni per loro prima di congelare i loro conti», riporta il Financial Times

«Alla banca piace dire che è solo questione di alcuni bancari delinquenti - ha detto Jeff Neiman, l’avvocato americano che difende diversi whistleblower di Credit Suisse - ma quanti bancari delinquenti servono prima che si possa dire che è delinquente la banca stessa?» Neiman non rappresenta la fonte all’origine del leak di Suisse Secrets. Rappresenta però l’ex dipendente  che a novembre ha raccontato a un tribunale statunitense come Credit Suisse abbia continuato ad aiutare clienti americani a nascondere illecitamente milioni di dollari offshore, in paradisi fiscali

Se confermato, questa sarebbe una violazione della promessa che nel 2014 la banca aveva fatto alla giustizia americana, nel patteggiamento delle accuse dell’epoca. Attualmente, la commissione finanza del Senato sta indagando.

Grazie al leak di Suisse Secrets emergono i nomi di una serie di correntisti che fanno scattare l’allerta rispetto alle procedure di due-diligence (valutazione della clientela) seguite dalla banca negli anni passati

Conti ad alto rischio

Grazie al leak di Suisse Secrets emergono i nomi di una serie di correntisti che fanno scattare l’allerta rispetto alle procedure di due-diligence (valutazione della clientela) seguite dalla banca negli anni passati. Questi conti non sono emersi in scandali precedenti. Sono rimasti protetti dentro la “gestione separata” di cui erano a conoscenza solo i dirigenti della banca. È il caso del conto dell’ex capo dei servizi segreti venezuelani, Carlos Luis Aguilera Borjas, che dopo avere servito Hugo Chávez per un anno ha lasciato la posizione governativa entrando nel mondo degli affari e accumulando una ricchezza che pochissimi venezuelani possono anche solo immaginare.

Nel 2007, si assicura un contratto senza gara per rinnovare la metro di Caracas guadagnando, come commissione, 90 milioni di dollari. I dettagli dell’accordo emergono in una nota interna di CBH, una banca svizzera dove Aguilera aveva aperto un conto nel 2011. Nella nota, la banca lo descrive come «un cliente di qualità, che non rappresenta un rischio di livello per la banca».

Credit Suisse sembra essere giunta alla stessa valutazione, poiché sempre nel 2011 l’istituto di credito ha aperto due conti su cui sono stati versati almeno otto milioni di euro e che risulterebbero tuttora attivi. 

Un soggetto come Aguilera Borjas «è per definizione ad alto rischio» ha commentato Graham Barrow, esperto di crimini finanziari e compliance bancaria. Che ha aggiunto come le banche siano responsabili di assicurarsi che l’origine dei soldi di persone politicamente connesse sia legittima.

«Non dovrebbero poter accedere al sistema bancario se portano soldi sporchi. La gente del venezuela e di altri luoghi resterà povera, se le élite continueranno a distrarre risorse», ha aggiunto.

Un whistleblower, e che ha lavorato nella filiale di Zurigo, ricorda come la direzione spingesse i bancari a cercare rapporti con clienti “ad alto rischio”. «La direzione incentivava l’offrire servizi per soldi la cui origine era dubbia, mettendo pressione ai bancari, soprattutto i più giovani, per mantenere conti tossici. O si sarebbero pagate le conseguenze, che erano licenziamento o blocco dell’aumento dello stipendio».

Aguilera era in ottima compagnia. Infatti, i dati di Suisse Secrets mostrano una serie di altri clienti “ad alto rischio” in mezzo mondo. Un funzionario dell’intelligence egiziana che ha torturato persone sospettate di terrorismo dalla C.I.A., un dirigente della multinazionale tedesca Siemens che ha corrotto ufficiali nigeriani, il re di Giordania Abdullah II che aveva - con la regina e i figli - sette conti milionari in Credit Suisse, di cui uno che è arrivato a valere oltre 200 milioni di euro. II re è stato al centro di proteste che lo accusavano di essere un cleptocrate. Il re Abdullah II ha risposto alle domande dei giornalisti del consorzio dicendo che questi conti in Credit Suisse contengono ricchezze personali guadagnate fuori dalla Giordania e pertanto non soggette a tassazione in Giordania.

Un whistleblower, e che ha lavorato nella filiale di Zurigo, ricorda come la direzione spingesse i bancari a cercare rapporti con clienti “ad alto rischio”

Accanto ad Abdullah II, c’è anche la famiglia presidenziale della Guinea Equatoriale - largamente criticata per avere sottratto ricchezze a uno dei popoli più poveri della terra. Il dittatore Teodoro Obiang Nguema non mostra compassione: «Il petrolio della Guinea Equatoriale appartiene a me e alla mia famiglia», disse all’inizio degli anni Novanta, poco dopo che le compagnie petrolifere americane scoprirono i primi giacimenti del Paese.

Gli Obiang risultano avere un conto in Credit Suisse, intestato alla moglie del dittatore e ai due figli gemelli. Dentro pochi soldi, il picco massimo è di 700mila euro, ma secondo il partner Diario Rombre questa è una traccia importante: oltre a quella liquidità, potrebbero contenere metalli preziosi, polizze assicurative o addirittura criptovalute.

Affinché la verifica fiscale di un conto offshore possa portare qualche risultato, però, al di là dei nominativi dei proprietari, le autorità devono ripercorrere tutte le tappe della presunta fuga di capitali. Il conto corrente “segreto” potrebbe essere solo la prima. Come è accaduto per gli altri leak, fin dal 1932, la lista di Suisse Secrets sarà solo l’inizio della prossima battaglia fiscale.

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Autori

Cecilia Anesi
Lorenzo Bagnoli
Gianluca Paolucci

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Giulio Rubino

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Occrp
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