Così i narcos albanesi fanno affari con le organizzazioni criminali che dominano Roma

Così i narcos albanesi fanno affari con le organizzazioni criminali che dominano Roma

Maurizio Franco
Youssef Hassan Holgado
Filippo Poltronieri

Con un braccialetto elettronico Dorian Petoku, uno dei narcotrafficanti albanesi più noti della Capitale, sta scontando la sua pena in una piccola comunità di recupero. Dopo quasi tre anni di detenzione – di cui due scontati nelle prigioni della madre patria – Petoku, il cui nome è scritto nero su bianco in tre inchieste della Procura di Roma, è uscito dal carcere dopo una perizia medica che lo dichiara tossicodipendente.

È il risultato dell’analisi di un suo capello, condotta da dottori albanesi e confermata da quelli italiani. Le rimostranze della Procura di Roma sulla sua pericolosità non sono servite. Così come non sono stati ascoltati i dubbi degli inquirenti su una tossicodipendenza mai riscontrata in narcotrafficanti albanesi di questo calibro, non avvezzi al consumo delle droghe che trattano. Inoltre, in molti si chiedono come sia possibile che il suo esame tossicologico riveli livelli così alti di stupefacenti e come abbia fatto a procurarsi la sostanza.
Quando era libero, però, nessuno si sarebbe posto questa domanda. Perché la cocaina, l’eroina e la marijuana sono le merci che i narcos albanesi trattano quotidianamente in tutto il mondo. E Dorian Petoku, a Roma, si è dato da fare abbastanza, secondo gli investigatori.

A seguito di un processo di estradizione durato due anni e pieno di ostacoli, è stato condannato a 12 anni nell’ambito dell’operazione Grande raccordo criminale per traffico di sostanze stupefacenti. Ha iniziato a scontare la pena nella comunità di recupero la Linea Punto Verde a Morlupo, un paese a pochi chilometri a nord di Roma. Dopo la chiusura della struttura, a ottobre 2022, il narcos albanese è stato trasferito in un’altra comunità, vicino a Mondragone, in provincia di Caserta. La mancata reclusione in carcere e le resistenze opposte dalle autorità albanesi all’estradizione collocherebbero Petoku in un olimpo criminale dove siedono personaggi noti della malavita romana.

Sono tanti i volti della criminalità che, dopo un breve periodo di detenzione, sono finiti in un centro di recupero. Tra questi c’era anche il capo ultrà degli Irriducibili Lazio, Fabrizio Piscitelli, alias Diabolik: colui che, prima di essere ucciso a sangue freddo il 7 agosto del 2019 nel parco degli Acquedotti di Roma, aveva contribuito a rendere Dorian Petoku un criminale di spessore, in grado di tessere relazioni e affari con le più potenti organizzazioni presenti sul territorio romano.

Anche Michele Senese era finito in comunità: emissario della camorra all’interno dei confini del Grande raccordo anulare, è soprannominato O’pazzo proprio per le numerose (e discusse) perizie psichiatriche, con cui ha evitato a lungo il carcere. La detenzione in un centro di recupero non è l’unico comune denominatore tra Petoku, Piscitelli e Senese. I tre ras della criminalità romana si conoscevano e hanno lavorato insieme con un obiettivo comune: inondare di droga le piazze di spaccio della Capitale.

La tossicodipendenza come espediente

Sulle perizie mediche e la conseguente detenzione in comunità di diversi boss di mafia, la Procura di Roma ha voluto approfondire. Una lunga indagine ha portato nel 2019 all’acquisizione delle cartelle cliniche di 56 detenuti di Rebibbia, che negli ultimi anni avevano ottenuto un “certificato” di tossicodipendenza grazie al quale avevano lasciato la prigione. Sotto la lente degli investigatori ci sono referenti di camorra e ‘ndrangheta, trasferiti in comunità per seguire programmi di recupero, broker internazionali in affari con i Bellocco di Rosarno (famiglia, come vedremo, tra le prime a voler entrare in contatto con gli albanesi) e altri legati ai Giorgi di San Luca. Non mancano neanche membri legati a organizzazioni criminali attive in quartieri della periferia romana come Tor Bella Monaca, Tufello e San Basilio.

Dal Paese delle aquile a Roma

Arben Zogu, Dorian Petoku, Elvis Demce, Kolaj Orial, Bardhi Petrit e Yuri Shelever sono i nomi più noti della criminalità albanese a Roma. Tutti hanno fatto parte di quella che ormai gli investigatori chiamano “banda Diabolik”, nota alle cronache come la “batteria di Ponte Milvio”. All’ombra di Fabrizio Piscitelli gli albanesi si erano creati una vasta rete di contatti che ha permesso loro di “sopravvivere” anche dopo la morte del leader. Per conto di Diabolik facevano da “picchiatori”, recuperando i crediti delle estorsioni, smerciavano droga per le strade e fornivano protezione al capo. Ma la batteria era – come scrivono gli inquirenti – anche «al servizio dei “napoletani”, insediatisi a Roma Nord, tra cui i fratelli Esposito, Salvatore e Genny, facenti capo a Michele Senese».

All’epoca, era Arben Zogu, detto Riccardino, a coordinare la violenza schipetara in città. Ad Acilia, epicentro della comunità albanese romana e laziale, Zogu è riuscito a fare affari con il clan autoctono dei Guarnera, prima di conquistare Roma Nord. In quella parte di territorio ai margini della metropoli, i Guarnera insieme ai campani Iovine – contigui al clan dei Casalesi – hanno imposto agli esercizi commerciali le loro slot machines. Zogu, però, matura i contatti più importanti nel mondo della criminalità organizzata durante la sua permanenza in carcere nel 2013.

I calabresi

Tra le mura della casa circondariale di Avellino, Zogu fa amicizia con Rocco Bellocco, rampollo dell’omonima famiglia di Rosarno, attiva anche nel basso Lazio, con una storica roccaforte nei territori di Anzio e Nettuno (Comuni recentemente sciolti per mafia). Lo rivelano una serie di colloqui, avvenuti in carcere tra il 2013 e il 2014, con il cugino Petoku, convinto che, parlando in albanese, gli investigatori non potessero risalire al contenuto delle loro conversazioni.

Zogu sostiene di aver instaurato rapporti con “napoletani” e “calabresi”. Contatti che possono tornare utili al cugino al quale racconta: «Sono andato a mangiare con loro e c’è il vecchio e finché non diceva lui buona digestione non ci si può alzare dal tavolo… sono tutti così i calabresi… ma io sto solo con loro». La cosca è rinomata e Petoku ne è consapevole. E risponde: «Digli di venirmi a incontrare a questi… che già li conosco».

A Roma i Bellocco fanno affari per la distribuzione di droga con membri del clan Senese e con Fabrizio Piscitelli mentre per gli approvvigionamenti di stupefacente si rivolgono agli albanesi con regolarità. Anche dopo il trasferimento dal carcere di Avellino a quello di Rebibbia, Zogu riesce a mantenere le relazioni con esponenti di ‘ndrangheta, grazie al lasciapassare dei Bellocco «presso altri detenuti calabresi ristretti nel medesimo carcere», si legge nelle carte degli inquirenti. Ma i rapporti delle gang albanesi sono fluidi e vanno oltre le amicizie di Riccardino.

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Anche Bardhi Petrit, il pugile soprannominato Titi – già componente della banda Diabolik e “battitore libero” al servizio di altri gruppi criminali albanesi attivi su Roma – vanta conoscenze importanti nella cosca dei Pelle di San Luca. Petrit, in un’intercettazione, dice di aver fornito a un calabrese un rifugio in Albania, per quattro anni, a casa di un suo famigliare. Non è certo la prima volta che accade. Storicamente vari esponenti della Sacra corona unita e della ‘ndrangheta hanno cercato rifugio nelle montagne al di là dell’Adriatico.

«Io c’avevo pure un calabrese… per quattr’anni… da mio zio…», dice Petrit al suo interlocutore di cui gli inquirenti ignorano l’identità. «Quattro anni, poi si è venuto a consegnare da solo… perché in Cassazione è scesa (la pena, ndr) a sei anni». Il latitante calabrese, anche lui sconosciuto agli investigatori italiani, provava a mantenere un profilo basso. «Non voleva il casino… ma io lì al paese ho tutti i miei cugini… lo sapevano che lo avevo mandato io là e doveva stare lì, punto! A capo della zona lì», racconta Petrit.

Petrit è stato arrestato l’ultima volta nel marzo del 2022 per la collaborazione con il sodalizio capeggiato da Arindi Boci (detto Rindi) e Glend Burhanaj, attivo nell’organizzare e gestire il traffico di droghe nelle aree di Acilia e Primavalle. Secondo gli inquirenti, Petrit avrebbe «fornito i contatti degli acquirenti di sostanza stupefacente facendo valere la sua caratura e le sue conoscenze con soggetti di spicco della criminalità romana». In totale sono finite agli arresti 14 persone: otto albanesi e sei italiane. Una dimostrazione chiara della varietà demografica dei gruppi, che presentano al loro interno diverse nazionalità: uomini e donne fedeli al capo clan, uniti però nel perseguire un comune profitto.

Agli arresti eseguiti dalla Dda di Roma ci è finita anche Elsa Lila, accusata di aver svolto il ruolo di contabile per l’organizzazione. Di origini albanesi, Lila è stata per due volte concorrente al festival di Sanremo (2003 e 2007) sotto i riflettori del teatro Ariston. Nelle intercettazioni suggeriva al boss Arindi Boci di avvicinare uomini di Stato per oliare gli affari. «Io non ho soldi dello Stato ed a me non mi viene nessuno dallo Stato a controllarmi… mi conoscono…», diceva l’ex cantante facendo riferimento ad alcune relazioni che aveva con uomini legati alle forze dell’ordine. «Lo so tesoro che non ti fidi…ma un amico-aggancio dello Stato serve… come in Albania lo sai… l’amico-l’aggancio dello Stato è bene perché ti salva, qualsiasi sia il governo, bisogna avere uno anche lì, cosicché anche qui bisogna trovare il modo perché anche qui c’è molta gente venduta».

Il successore e le relazioni con i Casamonica

Con Zogu in carcere, a prendere le redini del potere e ad allargare la pletora delle collaborazioni, è proprio il cugino. Dorian Petoku aveva poco più di 24 anni quando ha ereditato, nel 2013, lo scettro criminale. E istantaneamente ha sfruttato la rete intelaiata da Piscitelli nella Capitale per espandere il cordone del narcotraffico albanese anche al di fuori del Grande raccordo anulare.

L’operazione Brasil Low Cost, condotta dalla Guardia di finanza, grazie a un infiltrato e ad alcuni agenti della Dea americana, non solo è degna delle migliori trame di film d’azione, ma mostra anche la capacità di Dorian Petoku di agire come broker internazionale: insieme al serbo Tomas Pavlovic e a Salvatore Casamonica, esponente dell’omonima famiglia condannata per mafia anche in appello, intendeva far arrivare dal Brasile sette tonnellate di cocaina a Roma. Un carico di polvere bianca, spropositato per la città, per un guadagno milionario.

Il progetto ha cementificato la triade: «Qua noi si lavora come squadra, ognuno fa l’interesse dell’altro…», dice infatti Salvatore Casamonica all’infiltrato riferendosi anche a Petoku. Secondo gli inquirenti, Petoku aveva la disponibilità della sostanza stupefacente, Pavlovic si occupava del trasporto fino in Europa e Salvatore Casamonica doveva farlo arrivare a Roma, dove poi sarebbe stato venduto dal clan.

Fare affari con i Casamonica non è da tutti. La famiglia, che per anni ha terrorizzato gli esercenti di Roma attraverso estorsioni e spedizioni punitive, è nota per essere molto chiusa ai gruppi esterni, indipendentemente che siano stranieri o meno. Nelle carte dell’operazione Gramigna, che ha portato all’arresto di 37 membri della famiglia, c’è solo il nome di un albanese che è riuscito a essere considerato come “intraneo” al clan. Si chiama Besim Skarra, classe 1978, legato a Luciano e Simone Casamonica. Per conto loro recuperava con la violenza i “crediti” di usura ed estorsioni in giro per Roma.

Dal Sudamerica all’Europa

«Se aprono questi telefoni, a Roma devono costruire un carcere nuovo», dice Bardhi Petrit, intercettato dagli inquirenti. «Costa mille euro sto’ telefono sà…!», gli risponde il suo interlocutore. «Mille cinque, ogni sei mesi devi far contratto…!», ribatte il pugile. La conversazione risale all’ottobre del 2018 e all’epoca l’esponente della batteria di Ponte Milvio è convinto che basti un cellulare criptato di ultima generazione per stare al sicuro da orecchie indiscrete.

Le indagini recenti hanno dimostrato il contrario. A quattro anni di distanza i database di quei cellulari da oltre 1.500 euro sono stati violati e gli inquirenti hanno delineato un quadro più chiaro del modus operandi e delle relazioni internazionali che i gruppi criminali albanesi avevano costruito. Ci sono riusciti anche grazie al lavoro dell’Europol, che ha avuto accesso ai server criptati di Sky ECC ed Encrochat, entrando nelle utenze di quasi 200 mila persone in tutto il continente.

Per approfondire

Estradato il narcotrafficante albanese che faceva affari con i clan romani

La presenza dei clan albanesi nel sottobosco della Capitale è un tema ancora poco noto. Grazie all’estradizione di Dorian Petoku, fornitore di cocaina per diverse gang romane, gli inquirenti puntano ad approfondire le indagini

Per quanto riguarda Roma, con questa operazione internazionale, sono state sgominate la banda di Elvis Demce e quella del suo ex collega in affari, diventato poi il suo principale nemico, Ermal Arapaj – per i quali sono stati chiesti 20 anni di reclusione. In una storia di reciproci tentativi di omicidio e violenza inaudita, Demce e Arapaj non sono né i primi né gli ultimi a sfruttare i contatti diretti con i grandi broker, connazionali, che controllano le tratte che portano la cocaina dal Sud America ai porti del Nord Europa.

Gli albanesi arrestati, così come gli ‘ndranghetisti di spessore, difficilmente parlano. Ma quando lo fanno rivelano informazioni preziose agli inquirenti, come quelle rilasciate dal narcotrafficante Erti Kjalliku che ha deciso di collaborare con la giustizia. Secondo quanto si legge nell’ultimo rapporto Mafie nel Lazio, le sue dichiarazioni sono state fondamentali per portare a termine le operazioni Aquila nera 1 e 2.

La Dda di Roma ha così smantellato l’organizzazione capeggiata da Daiu Lulzim, un narcotrafficante albanese che dal Sudamerica, passando per l’Olanda, era in grado di portare quintali di cocaina nelle piazze della periferia romana, già controllate da gruppi organizzati, come quelle dei quartieri di San Basilio e Tor Bella Monaca. Lulzim muoveva i carichi nei doppifondi di furgoni e automobili. Veicoli costruiti appositamente da un colombiano a Madrid. Ad aiutarli negli affari c’erano anche cittadini italiani, proprio come nel caso del gruppo di Boci. Tra gli arrestati anche Fabrizio Fabietti, braccio destro, all’epoca, di Diabolik.

Le organizzazioni albanesi di alto livello, disseminate in Europa, possono contare su broker e corrieri presso i principali cartelli di cocaina sudamericani, grazie a emissari in Ecuador e a relazioni strutturate con il Clan del Golfo in Colombia. I gruppi in Europa si servono poi di bande di connazionali, sparse sul territorio italiano, per fare arrivare e piazzare la cocaina nelle principali città d’Italia. I canali di approvvigionamento dei vari gruppi, spesso, sono gli stessi. Le gang sparse sul territorio, però, non sempre comunicano tra di loro. I singoli nuclei hanno legami stretti, spesso familiari, ma non sempre c’è una rete che li collega e sia gli “operai” che i “quadri” hanno un alto tasso di intercambiabilità.

In modo simile, ma su scala più ampia, agiva il cartello chiamato Kompania Bello, una capillare organizzazione criminale albanese, con tanto di timbro distintivo sulle confezioni di stupefacente, in grado di trasportare tonnellate di cocaina dall’Ecuador all’Olanda. L’organizzazione, coordinata dal carcere di Quito dal narcotrafficante albanese Dritan Rexhepi e che comunicava, anche questa, grazie a sofisticati sistemi di criptazione, riusciva a smistare la sostanza in dieci nazioni differenti.

A Roma, e in altre città italiane, Rexhepi faceva arrivare lo stupefacente grazie a una rete di corrieri. L’uomo aveva dato ordine a tre suoi sodali di attivare un nuovo punto di distribuzione della droga nella Capitale nel 2017. Un ulteriore tentacolo del narcotraffico di marchio albanese a Roma, mozzato sul nascere dagli 84 arresti eseguiti nel settembre 2020 con la maxi operazione internazionale Los Blancos. Per ora Kompania Bello è l’organizzazione albanese più simile a una mafia che sia mai stata scovata, ma gli inquirenti, anche se non ne hanno prove al momento, non escludono che ci siano casi simili.

La capitale del narcotraffico

Roma è un unicum a livello nazionale. Il mercato della droga è infatti estremamente vasto, e nella metropoli c’è spazio per tutti, come testimoniano le ultime relazioni antimafia e le indagini delle forze dell’ordine. Inoltre il rapporto tra le organizzazioni criminali è orizzontale e non gerarchico. Ogni gruppo ha una zona di competenza dove imporre il proprio predominio. Il dialogo è stato uno strumento indispensabile per preservare la cosiddetta pax romana.

Lo “sgarro”, però, è punito con il piombo delle pistole. I criminali albanesi sono entrati silenziosamente a Roma. E nell’indifferenza hanno compiuto la loro scalata. Lo hanno fatto cercando di non pestare i piedi a chi c’era prima di loro sul territorio che i vari gruppi riescono a rifornire con diversi canali di approvvigionamento. C’è chi proviene da famiglie con notevoli trascorsi criminali in Albania e ci sono, invece, organizzazioni gestite da narcotrafficanti giovani: parlano in romanesco, sono cresciuti in Italia e hanno consolidato legami con i clan autoctoni.

Sempre più albanesi hanno a disposizione contatti in Sudamerica e nel Nord Europa in grado di garantire loro la materia prima. La vendita di cocaina avviene sempre di più utilizzando la tecnica del “cotto e mangiato”, come la definiscono gli investigatori. Significa che il carico è già stato venduto alle organizzazioni che lo spacciano nelle piazze ancora prima di arrivare a Roma. Appena ricevuti, in poche ore, i panetti di cocaina sono quasi tutti consegnati e il denaro viene incassato rapidamente. Soldi che in parte gli albanesi reinvestono per comprare altra cocaina e in parte, fino a qualche anno fa, finivano nel giro del riciclaggio composto da club, bar, ristoranti e pompe di benzina.

Oggi i clan albanesi difficilmente lasciano traccia dei proventi delle attività criminali: un fenomeno che gli inquirenti vedono con sempre più frequenza a Roma. I guadagni milionari vengono fatti entrare in patria dove molti dei broker e narcotrafficanti hanno costruito interi villaggi e resort di lusso. Beni molto più complicati da raggiungere con ordini di confisca di natura internazionale.

L’ultimo degli albanesi

Uno degli ultimi membri della banda di Diabolik è Elvis Demce, un pluripregiudicato che aveva già scontato un periodo in carcere con una condanna all’ergastolo in primo grado – poi assolto dalla Corte d’Assise di Roma – perché ritenuto il killer di Federico Di Meo.

Federichetto – questo il nomignolo di Di Meo – è di origini calabresi. Nel 2013, a Velletri, cinque colpi di pistola lo colpiscono al torace e alla testa. Un omicidio per la conquista dell’egemonia del traffico di stupefacenti nel piccolo comune dei Castelli romani. Demce, accusato inizialmente come mandante dall’esecutore materiale dell’assassinio, viene poi scarcerato perché il fatto non sussiste.

La sua attitudine alla violenza però è cosa nota agli inquirenti. Durante un pestaggio per un’intimidazione ha cavato un occhio alla vittima già agonizzante sull’asfalto. Il suo temperamento, molto apprezzato all’interno della banda Piscitelli, lo ha portato a fare affari con tutta la malavita romana dopo la morte del capo ultrà della Lazio, non solo nella parte Est della capitale.

Quando esce dal carcere decide di fare ritorno tra le rocche dei Castelli romani. Nel frattempo, però, il gruppo criminale capeggiato da Ermal Arapaj, un tempo compagno, adesso nemico di Demce, lo aveva soppiantato. La batteria Arapaj era ben organizzata – con legami in tutta Europa – e capace di importare in Italia chili e chili di cocaina. Arapaj si riforniva da alcuni connazionali presenti a Porto S. Elpidio ma aveva anche uomini in Germania e Olanda e tramite una broker colombiana di nome Fajardo Tellez Maribel aveva anche l’opportunità di far arrivare la cocaina a Roma direttamente dalla Colombia. Avrebbe «dovuto acquistare 50 pacchi (ragionevolmente 50 kg) di stupefacente su una fornitura complessiva, destinata anche ad un altro gruppo, di 150 pacchi», si legge nelle carte degli inquirenti.

L’ascesa criminale di Arapaj si scontra con il ritorno di Demce che vuole riprendersi il posto. A ogni costo. Uscito dal carcere Demce chiede a due suoi uomini (di origine italiana) di inviare un eloquente messaggio ad Arapaj: «Gli dici…è uscito il padrone di casa…è uscito l’isis…mo’ andatevi a chiudere tutti quanti».

I due gruppi arrivano subito allo scontro. Per risolvere i conti Demce pianifica una serie di attentati che non hanno successo. Il 9 luglio del 2020 sei dei suoi uomini attaccano Arapaj che si salva sparando a raffica contro gli aggressori. Qualche mese più tardi, il 5 settembre del 2020 Demce ci riprova: i suoi danno fuoco alla villa di Arapaj e alla sua automobile ma il nemico giurato fugge in Spagna, in cerca di rifugio. Dalla penisola iberica inizia a pianificare il suo contro-attentato, ma il piano viene vanificato dall’intervento delle forze dell’ordine.

Mitomane, egocentrico e con deliri di onnipotenza, Demce aveva anche intenzione di progettare un attentato insieme ad Alessandro Corvesi – pluripregiudicato che da lui acquistava ingenti quantità di stupefacente e lo distribuiva al dettaglio ai rispettivi clienti – contro il pm Cascini.

«Quando me parte a ciavatta co questo vado a sparare a Cascini fori a piazzale Clodio», dice il narcotrafficante in un’intercettazione. Francesco Cascini fa parte del pool antimafia del tribunale di Roma, mentre suo fratello Giuseppe è attualmente membro del Consiglio superiore della magistratura, considerato responsabile della condanna in primo grado di Demce per l’omicidio di Federichetto.

Non solo violenza nei confronti dei magistrati ma anche intimidazioni e ricatti attraverso la minaccia di diffusione di video compromettenti (da realizzare): «Queste tipo Nency (riferimento a escort, ndr) ce potrebbero da na mano – dice Demce in un’intercettazione – A questi per faje più male che sparaje, faje qualche video o avè qualche cosa per ricattarli e tenerli per le palle. Sarebbe il top». Ora sia Arapaj che Demce sono in carcere in attesa che si concluda il loro processo.

La scia di sangue

I procuratori non hanno subito ripercussioni ma la scia di sangue non si è fermata e un altro delitto di spessore ha fatto seguito all’assassinio di Piscitelli. A Torvajanica, sul litorale romano, presso lo stabilimento Bora bora, un sicario ha ucciso, il 20 settembre del 2020, Selavdi Shehaj con un colpo di pistola alla nuca. Un’altra mano esperta capace di uccidere a sangue freddo in pieno giorno, proprio come accaduto con Piscitelli l’estate precedente.

Shehaj aveva 38 anni quando è stato ucciso. Era legato al mondo del narcotraffico ma, a differenza di altri suoi connazionali, non era un nome di spicco della criminalità romana. Secondo gli investigatori sarebbe stato ucciso dallo stesso sicario di Diabolik. Stessa arma, movente differente.

A oltre tre anni dall’omicidio di Piscitelli, eluso il rischio di una guerra più cruenta su Roma, i vertici della banda di Diabolik si trovano ora in carcere. Ognuno di loro da luogotenente è diventato capo, sostituendo il proprio predecessore, finito agli arresti. È solo questione di tempo prima che il vuoto da loro lasciato venga colmato dal prossimo gruppo. La rete internazionale criminale e i suoi gangli sono sempre attivi e periodicamente nuovi personaggi e clan prendono il sopravvento, ereditando la ben oliata macchina che garantisce alla Capitale un flusso di droga costante.

Dal momento degli arresti dei gruppi che facevano capo a Demce e Arapaj, gli investigatori hanno notato un crescente attivismo di criminali albanesi presenti sul territorio laziale che compaiono, a vario titolo, in nuove operazioni portate a termine nei quartieri della Capitale. Nel momento in cui un sodalizio criminale finisce in carcere, c’è pronta una nuova cellula completa che dal corriere arriva fino al vertice. D’altronde è sempre stato così. Morto un re, a Roma, se ne fa un altro. Anche quando si tratta di albanesi.

CREDITI

Autori

Maurizio Franco
Youssef Hassan Holgado
Filippo Poltronieri

Editing

Giulio Rubino

Illustrazioni

Estradato il narcotrafficante albanese che faceva affari con i clan romani

12 Ottobre 2021 | di Maurizio Franco, Youssef Hassan Holgado, Filippo Poltronieri

Dorian Petoku, uno dei narcotrafficanti albanesi più conosciuti a Roma, è stato estradato da Tirana. Secondo quanto appreso da IrpiMedia, dopo tre anni di querelle giudiziaria è stato consegnato alle autorità italiane lo scorso 7 settembre. A dare comunicazione della sua estradizione, finora tenuta riservata, è la procura generale di Tirana. La notizia è confermata anche dal suo avvocato Ardian Visha, molto conosciuto in Albania: tra gli altri ha difeso ex ministri e procuratori indagati per presunte connessioni con la criminalità organizzata.

La notizia della consegna di Petoku non passerà inosservata negli ambienti criminali della Capitale. Il suo nome appare nelle carte di diverse indagini condotte dalla Procura di Roma, tra cui Brasil low cost e Grande Raccordo Criminale.

Dorian Petoku, è nato in Albania nel 1988 a Lezhë (Alessio), un agglomerato urbano di circa 113 mila abitanti e teatro di una vivace scena criminale. Secondo un report del Global initiative against transnational organized crime network «i gruppi criminali di Lezhë sono stati attivi nel traffico di esseri umani, nel traffico di droga e nel traffico di armi». Alcuni di questi hanno operato anche in Italia e nei Paesi Bassi. I soldi derivanti da proventi illeciti vengono riciclati principalmente nel settore del turismo e nella ristorazione, vista la posizione strategica della cittadina sulla costa adriatica. Ma qui non ci sono solo criminali di medio calibro. Secondo il rapporto «le principali famiglie criminali dell’area hanno stretti legami con i politici».

Non si può dire lo stesso di Petoku, sconosciuto, a quanto si apprende, alla polizia locale. Ma all’ombra del Colosseo il narcotrafficante albanese è stato capace di fare affari con personaggi di spessore come Salvatore Casamonica, esponente dell’omonimo clan romano, Fabrizio Fabietti, considerato il braccio destro di Fabrizio Piscitelli, alias Diabolik, e Piscitelli stesso, uno dei fondatori del gruppo ultras Irriducibili che ha animato per anni la Curva Nord della Lazio fino al suo scioglimento nel febbraio 2020, legato alla camorra romana di Michele Senese e ucciso il 7 agosto del 2019 in un agguato nel parco degli Acquedotti di Roma.

L’iter giudiziario

A seguito dell’arresto in Albania nel gennaio del 2019, l’estradizione di Dorian Petoku si è rivelata tutt’altro che semplice, nonostante i vari accordi bilaterali in materia in vigore tra i due Paesi. Il motivo è dovuto ad alcuni rallentamenti burocratici prima e ad altri dovuti alla pandemia poi che hanno rischiato di far scadere i termini di custodia cautelare facendo automaticamente cessare la richiesta di estradizione. Si arriva così al 7 settembre del 2021 quando le autorità albanesi hanno consegnato ai loro omologhi il giovane narcotrafficante sulla base delle accuse contenute nell’operazione Grande Raccordo Criminale.

Anche a Tirana, come nel suo paese natale di Lezhë, il nome di Petoku è quasi sconosciuto. La stessa Spak, l’istituzione per la lotta al crimine organizzato e alla corruzione creata nel 2019, riferisce di non essere a conoscenza del caso di Dorian Petoku. Una cosa però è certa: la decisione finale della suprema Corte albanese, che dovrebbe contenere le ragioni per cui l’estradizione è stata accettata, ad oggi risulta ancora riservata.

Non deve stupire che Petoku, per quanto un ingranaggio cruciale in importanti strutture internazionali di narcotraffico, sia sconosciuto agli inquirenti albanesi. La sua carriera infatti nasce e si sviluppa principalmente in Italia, a Roma.

La sua ascesa nella Capitale parte dalla frazione di Acilia e nasce dai legami con alcuni dei suoi connazionali. Petoku è stato a lungo il luogotenente di Arben Zogu, alias “Riccardino” o “Ricky”, attualmente in carcere per vari reati tra cui estorsione e traffico internazionale di stupefacenti. Zogu, tra l’altro cugino di Petoku, era stato un vero e proprio pioniere della criminalità albanese in Italia. Era stato capace di integrarsi con facilità nella malavita romana grazie anche ai rapporti stretti nel carcere di Avellino nel 2013 con Rocco Bellocco, ritenuto uno dei boss dell’omonimo clan di Rosarno. Ad Acilia, Zogu era riuscito a fare affari grazie alle slot machines con l’aiuto dei fratelli Guarnera che, in collaborazione con la criminalità albanese, avevano replicato nei dintorni di Roma le stesse logiche delittuose del gruppo camorristico che faceva capo a Mario Iovine, affiliato ai Casalesi.

L’arresto di Zogu, secondo gli inquirenti che hanno condotto l’operazione Brasil low cost, avrebbe aperto un vuoto che ha facilitato l’ascesa di Dorian Petoku a capo di un’organizzazione albanese dedita al narcotraffico nel litorale romano e nello specifico nelle aree di Acilia, Ostia e Infernetto. Un potere, quello di Petoku, ostentato anche sui social network, in particolare su Instagram, dove fino al 2018 pubblicava foto di pistole semiautomatiche e mazzette di banconote.

Grande raccordo criminale

Stando alle carte della Procura di Roma, Petoku è uno dei fornitori di cocaina del sodalizio romano al cui vertice c’erano Fabrizio Fabietti e Fabrizio Piscitelli. Sulla morte di Piscitelli le indagini sono ancora in corso ma tra le piste setacciate dagli investigatori, una conduce proprio a Tirana. Secondo quanto riportato dal L’Espresso l’uomo, vestito da runner, che ha sparato in pieno giorno a “Diabolik” seduto su una panchina, sarebbe un cittadino albanese. Non solo. Si tratterebbe della stessa persona che ha giustiziato Selavdi Shehaj in spiaggia a Torvaianica, nel settembre dell’anno scorso. D’altronde i legami tra Piscitelli e le gang albanesi venivano già menzionati nell’indagine Mondo di Mezzo, in cui emergeva come il noto capo ultrà si servisse spesso di un gruppo di picchiatori albanesi.

Chi era Fabrizio Piscitelli?

Fabrizio Piscitelli, conosciuto meglio come “Diabolik”, nasce a Roma il 2 luglio del 1966 e viene ucciso da uomo libero il 7 agosto del 2019 in pieno giorno su una panchina nel parco degli Acquedotti di Roma. Gli inquirenti stanno ancora indagando su mandanti ed esecutori di un omicidio di cui si è parlato a lungo negli ambienti criminali – e non solo – della Capitale. L’unica certezza, per ora, è che il killer di Piscitelli è un professionista esperto, capace di uccidere con un solo colpo sparato alla nuca da una pistola calibro 7,65 e dileguarsi senza lasciare traccia. Secondo quanto rivelato da L’Espresso il killer sarebbe di origine albanese e sarebbe stato torturato e ucciso in madrepatria, punito per l’omicidio di Piscitelli e per l’esecuzione in spiaggia a Torvaianica di Selavdi Shehaj, seconda vittima del presunto assassino venuto dall’Est. Notizie che però non sono ancora confermate in maniera ufficiale dagli investigatori.

Il nome di Fabrizio Piscitelli a Roma nord lo conoscono tutti. Tra i fondatori del gruppo ultras di ispirazione neofascista degli Irriducibili che supporta la squadra della Lazio, la sua fedina penale comincia a riempirsi con l’arresto avvenuto nel 2013. L’accusa in questo caso era quella di gestire un giro di traffico di stupefacenti tra l’Italia e la Spagna. Per quell’indagine i giudici lo hanno condannato a 4 anni e 2 mesi. Ma non è l’unica condanna che riceve. Nel gennaio del 2015 infatti, viene condannato in primo grado a tre anni e due mesi di carcere insieme ad altri ultras per tentata e reiterata estorsione nei confronti del presidente Claudio Lotito. Secondo l’accusa, Piscitelli e i suoi compagni hanno cercato di denigrare la figura del patron della Lazio attraverso cori e striscioni esposti in Curva Nord oltre che con minacce rivolte a lui e alla moglie, con l’obiettivo di fargli pressione per cedere alcune quote societarie ad una società farmaceutica ungherese.

Secondo gli investigatori, Piscitelli ha avuto legami importanti con la famiglia dei Senese a partire dai primi anni Novanta. Relazioni che lo hanno consacrato nello scenario criminale romano, tanto che il suo nome spunta anche nelle carte dell’indagine Mondo di Mezzo per le sue relazioni con la batteria di Ponte Milvio, una squadra di picchiatori dedita al recupero crediti.

Il suo passato criminale sembrava concluso ma dopo la sua morte il nome di Diabolik spunta in altre due indagini della procura di Roma: quella relativa all’operazione Grande Raccordo Criminale e quella dell’operazione Tom Hagen. Riguardo alla prima indagine, Piscitelli è accusato di essere a capo, insieme a Fabrizio Fabietti, di un sodalizio dedito al narcotraffico e alle estorsioni, e in cui Petoku è uno dei più importanti fornitori di cocaina. Nel secondo caso, invece, secondo le ipotesi degli inquirenti Piscitelli avrebbe trattato una pace tra la famiglia degli Spada di Ostia e il gruppo criminale di Marco Esposito, detto Barboncino, uomo legato al clan dei Triassi. Una pace per cui sia Piscitelli che Salvatore Casamonica, esponente dell’omonimo clan romano, avrebbero fatto da garante. Questa sua mediazione tra i due diversi clan è stata per mesi al centro delle ipotesi degli investigatori che stanno indagando sulla sua morte, di cui, ad oggi non se ne conoscono né il mandante e né il killer.

Stando alle carte, Petoku organizzava e gestiva la consegna della cocaina attraverso corrieri fidati. Ma il suo coinvolgimento andava ben oltre. Secondo le intercettazioni degli investigatori italiani avrebbe partecipato a una delle spedizioni punitive con l’obiettivo di riscuotere un credito di centinaia di migliaia di euro dovuto al gruppo capeggiato da Fabietti. Un rapporto di fiducia, quello tra Petoku e Fabietti, che offriva a sua volta al sodale albanese i servigi dei suoi picchiatori: una squadra che annoverava tra le sue fila anche ex pugili, assoldati per il recupero crediti.

La droga arrivava a fiumi e i panetti di cocaina dell’organizzazione erano molto apprezzati dalla clientela romana di Monte Mario e dintorni. Gli affari del gruppo di Fabietti però sono stati interrotti nel novembre del 2019, quando la Guardia di Finanza, su mandato della Procura di Roma, ha eseguito 51 ordinanze di custodia cautelare e sequestrato circa 250 kg di cocaina e 4.250 kg di hashish per un giro di affari che avrebbe fruttato circa 120 milioni di euro. A gennaio 2021 i pm romani hanno chiesto un totale di 400 anni di carcere per 37 imputati che hanno scelto il rito abbreviato. Sono accusati a vario titolo di associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga aggravata dal metodo mafioso, estorsione, riciclaggio e possesso di armi.

Brasil low cost

Chi fossero, risalendo la catena, i fornitori di cocaina di Petoku è un po’ meno chiaro, ma un’altra operazione italiana offre un indizio importante. L’operazione Brasil low cost, eseguita il 30 gennaio 2019, sembra la trama di un film d’azione americano. Agenti infiltrati svizzeri e della Drug enforcement administration (Dea), un informatore italiano, detto il “francese”, tutti intenti nel bloccare uno dei più grossi carichi di cocaina mai tracciati: 7 tonnellate che dal Sud America avrebbero inondato le strade di Roma.

Ai vertici dell’organizzazione che si preparava a importare questo carico così importante, secondo gli inquirenti italiani, c’erano Salvatore Casamonica (arrestato prima di questa operazione, nell’ambito dell’indagine Gramigna contro il clan autoctono romano), Tomislav Pavlovic e infine Dorian Petoku.

Anche il nome di Pavlovic, montenegrino, non è nuovo. Emerge nell’indagine Mondo di mezzo come un profilo criminale di primo livello. In Brasil low cost sono coinvolti anche Silvano Mandolesi, braccio destro di Salvatore Casamonica, e Marcello Schiaffini. Attraverso un aereo in partenza da San Paolo, in Brasile, la droga doveva giungere in Europa per poi essere smistata a Roma e dintorni. Per eludere il controllo delle forze dell’ordine, Petoku e gli altri sodali comunicavano con telefoni BlackBerry contenenti un sistema sofisticato di criptazione denominato PGP (Pretty good privacy) che rende illeggibili i testi dei messaggi in caso di intercettazioni. Neanche questo però è bastato per metterlo al sicuro. Dorian Petoku è stato arrestato dalla polizia albanese che ha eseguito un mandato di cattura internazionale nel cuore di Tirana, in un ristorante nell’area dell’ex Block, come riportato da media locali.

L’indagine Brasil low cost non arriva ad accertare chi fossero i nomi dei fornitori di cocaina sudamericani a cui Petoku e gli altri si appoggiavano, ma Pavlovic viaggiava frequentemente in Sudamerica, specialmente in Perù, Ecuador e, ovviamente, Brasile. Lo scalo scelto per la partenza della droga inoltre, l’aeroporto di Sao Paulo, è notoriamente sotto il controllo del Primeiro Comando da Capital (PCC) uno dei più importanti cartelli di trafficanti di tutto il subcontinente Latino-Americano.

A oltre un mese dalla sua estradizione, la consegna di Petoku e una sua eventuale collaborazione con gli investigatori italiani è l’occasione giusta per fare luce sulle rotte internazionali del narcotraffico, indagare sui legami tra gruppi organizzati italiani e stranieri, e ottenere maggiori informazioni sull’ascesa della criminalità albanese, a Roma e in Europa. Questa, dopo anni di manovalanza al servizio di organizzazioni criminali storicamente operanti nel settore, sembra essersi ritagliata un ruolo di primo piano nel mercato mondiale delle sostanze stupefacenti, con broker fidati nei Paesi produttori in Sud America, e una presenza sempre più importante nei porti di Rotterdam e Anversa, primi in Europa per sequestri di cocaina.

Le gang albanesi garantiscono efficienza, omertà e un pugno di ferro nel gestire i traffici, e si propongono ormai come attori protagonisti negli equilibri del narcotraffico internazionale.

Ha collaborato: Centro di Giornalismo Permanente | Foto: Tirana – Filippo Poltronieri | Editing: Giulio Rubino