Victor Dana, l’uomo che ha portato le criptovalute nel calcio italiano

#FuoriGioco

Victor Dana, l’uomo che ha portato le criptovalute nel calcio italiano

Lorenzo Bodrero
Simone Manda

«Il Rimini è la prima squadra di calcio a entrare nel mondo della criptoeconomia». Titolavano così alcuni giornali italiani alla fine di agosto 2018, parlando di «debutto assoluto». Il nuovo connubio tra calcio e monete digitali veniva celebrato su centinaia di giornali sportivi e siti specializzati in criptovalute. Quell’affare, che prevedeva l’acquisto del 25% delle quote del club romagnolo attraverso Quantocoin – allora nuova moneta virtuale- alla fine non andò in porto per motivi mai precisati. Nel frattempo si era comunque creato un precedente: le monete digitali erano sbarcate nel calcio italiano, inaugurando una stagione che oggi è in pieno svolgimento e – dicono gli esperti – aiuterà squadre italiane e europee a tamponare l’emorragia economica del mondo del pallone.

L’artefice del “nuovo mondo” era Pablo Victor Dana, imprenditore di lunga data nato a Ferrara e cresciuto in Svizzera, nel cantone di Vaud, partner della piattaforma di scambio di monete virtuali e amministratore delegato di Heritage Sports Holdings (HSH), società che sarebbe dovuta entrare nel capitale del Rimini. I tifosi del Milan lo ricorderanno perché fu colui che portò il broker thailandese Bee Taechaubol, detto Mr Bee, a proporsi per l’acquisto del Milan di Silvio Berlusconi, nel 2015. Un’altra trattativa fallita.

Bee e Dana erano amici di vecchia data e soci d’affari: Bee sponsorizzò la Global Legal Service, una società di cui Dana fu azionista, secondo la ricostruzione dell’agenzia di stampa Agi nel libro Diavoli e dragoni.

Giorgio Grassi, l’allora presidente del Rimini FC, contattato da IrpiMedia si dice indisponibile a parlare della trattativa fallita e, soprattutto, di Dana.

Il glossario delle criptovalute

Blockchain: immaginate una sequenza potenzialmente infinita di “blocchi” ciascuno dei quali contiene una serie di informazioni. L’acquisto di criptomoneta costituisce un blocco di informazioni, così come la vendita, l’aggiunta di un nuovo utente o di un wallet, la stessa cosa vale per una transazione economica. Chiunque può aggiungere nuove informazioni e a ciascun blocco, di default, è assegnato un codice univoco il quale “memorizza” e quindi verifica anche l’identità del blocco che lo precede. In questo modo è praticamente impossibile manomettere l’intera catena, motivo per il quale la blockchain è considerata sicura. In estrema sintesi, la blockchain è un enorme database controllato dai blocchi che lo compongono, immutabile, decentralizzato e altamente sicuro dal punto di vista informatico.

Criptovaluta: moneta virtuale, ossia che non esiste in forma fisica. Si genera e si scambia criptomoneta esclusivamente per via telematica e in modalità peer-to-peer, ovvero tra due dispositivi senza l’ausilio né l’intermediazione di autorità centralizzate. Le entità che danno vita allo scambio sono i “nodi”, nient’altro che dei computer gestiti da utenti all’interno dei quali sono continuamente all’opera software che svolgono la funzione di portamonete.

Fan Token: è un asset digitale creato sulla blockchain e collegato a una specifica squadra di calcio che permette ai detentori l’accesso di beni e servizi. Nel caso di Socios, principale emittente di questi prodotti, i fan token si appoggiano su Chiliz, una criptovaluta gestita da Socios stessa.

Meme coin: sono quelle criptovalute che nascono a seguito di fenomeni sociali, scherzi o contenuti diventati virali in rete. Il contenuto virale stesso diventa il volto, e spesso il logo, con cui è individuata la moneta. Il caso più celebre è Dogecoin, creata per scherzo nel 2013 e che si ispira all’ormai celebre cane Shiba Inu, razza giapponese dal pelo folto e di colore ocra. Simile è la genesi di Floki. Il nome del celebre personaggio della serie televisiva Vikings è quello con cui è stato battezzato il cane di Elon Musk. Floki Inu ha quindi raccolto l’eredità mediatica di due fenomeni diventati virali.

Non Fungible Token (NFT): sono dei certificati di proprietà di opere digitali ma non nella loro interezza. Un singolo NFT, infatti, corrisponde ad una frazione del bene/oggetto in questione il quale ha un valore determinato in base al valore dell’oggetto stesso. In sostanza, è come possedere una o più azioni di una società quotata.

Wallet: un portafoglio virtuale, simile a quelli più comuni associati, per esempio, alle app per i pagamenti in forma digitale. Sono necessari per immagazzinare e trasferire criptovalute.

L’imprenditore italo-svizzero fu il primo in Italia a intravedere lo spazio che il mondo delle monete virtuali si sarebbe ritagliato pochi anni più tardi all’interno del calcio professionistico. Il rapporto tra club calcistici e criptovalute oggi è imprescindibile per colmare i deficit di bilancio del mondo del pallone. La pezza in diverse occasioni si è però dimostrata peggio del buco.

Un caso riguarda la sponsorizzazione all’Inter di DigitalBits, moneta virtuale nata da una fondazione alle isole Cayman di cui abbiamo già parlato. La criptovaluta avrebbe dovuto portare alle casse dissestate dell’Inter 85 milioni in quattro anni, invece è già morosa per almeno 23 milioni di euro. Il club nerazzurro è alla ricerca di un nuovo sponsor, mentre a New York è in corso una causa civile contro la società canadese per truffa e appropriazione indebita. DigitalBits scomparirà dalla maglia entro la fine di ottobre, riporta Eurosport.

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Salvo qualche eccezione, nella stagione in corso sono ancora saldi i rapporti di sponsorizzazione tra club e società crypto avviati l’anno scorso. Gli accordi vanno dal nome sulle maglie al merchandising di prodotti digitali, come i fan token dedicati ai tifosi e alle tifose delle squadre e che possono essere scambiati come qualsiasi criptovaluta, e gli NFT. La crescita di queste sponsorizzazioni – che coinvolge anche altri campionati europei, tra cui spicca la Premier League in cui 19 club su 20 ne usufruiscono – è da individuare negli effetti del Decreto dignità, varato nell’agosto 2018 dal primo governo Conte, il quale vietava alle aziende di scommesse di investire nello sport lasciando un vuoto importante nei bilanci dei club (il think tank Nielsen Sports ha stimato in 633 milioni di dollari gli investimenti riversati dalle società di giochi e lotterie nei sei principali campionati europei nel decennio 2008-2017). Neanche un mese dopo la pubblicazione del decreto in gazzetta ufficiale, l’allora semi sconosciuto Pablo Victor Dana tentava senza fortuna di entrare nel Rimini FC, che riporterà nel bilancio 2019 un passivo totale di quasi 650 mila euro.

I cryptoasset come salvagente per i conti della Serie A, ma quanto durerà?

Con debiti che ammontano a 4,9 miliardi di euro* registrati al termine della stagione 2020-2021, effetto in parte della pandemia e della crisi economica, i club di Serie A hanno disperatamente bisogno di liquidità. Alla voce ricavi, la spina dorsale che ancora tiene in piedi un sistema che da anni ormai urge una riforma è rappresentata dagli introiti per la vendita dei diritti televisivi e radiofonici. Questi, con un’incidenza in crescita, costituiscono il 53% dei ricavi dei club. Vale a dire che il calcio italiano, o meglio il campionato di punta, non potrebbe reggersi senza le ricche commissioni che televisioni e piattaforme di streaming pagano ai club per trasmettere le partite.

Una tale “dipendenza” economica è comune anche ad altri campionati europei considerati, come la Serie A, di prima fascia e si fa sempre più rilevante dal momento che i costi relativi a stipendi e commissioni elargite a calciatori e agenti sportivi sono in crescita (+18% sulla stagione precedente), mentre sono in calo (-52%) gli introiti generati dalla vendita dei calciatori stessi. Insomma, calciatori (e agenti sportivi) vengono stipendiati sempre di più ma rivenderli ad altri club è sempre meno remunerativo.

Il calcio italiano, in sostanza, produce molti più debiti che profitti. La ricerca di nuove risorse finanziarie che permettano almeno di contenere le spese è dunque fondamentale. Dopo i diritti Tv, è il comparto “sponsorizzazioni” a occupare la fetta più grande (20%) alla voce introiti per i club di Serie A. Se pressoché costante negli anni come incidenza sul totale, il settore è però soggetto di anno in anno a importanti oscillazioni in valori assoluti, in Italia ma anche a livello internazionale: tra il 2019 e il 2020 il settore sponsor ha perso il 37% (da 46,1 a 28,9 miliardi di dollari)

Alla luce di questi dati – che andranno reinterpretati con il ritorno alla “normalità” della prima stagione calcistica post-Covid – il mondo crypto si sta ritagliando sempre più spazio.

Lo scorso anno in Serie A erano circa 180 i milioni di euro investiti nei club da parte delle aziende di cryptoasset e quest’ultime sono il terzo settore merceologico per investimenti nel calcio italiano, dopo abbigliamento e automotive. Ma in pochi anni le gerarchie potrebbero invertirsi: si stima che a livello mondiale il settore crypto aumenterà i propri investimenti in sponsorizzazioni nello sport del 780% entro il 2026, passando da 570 milioni di dollari a 5 miliardi. Ossigeno pure per quei club pesantemente indebitati. Ma i rischi corrono paralleli alle opportunità. Oltre il caso DigitalBits, ci sono altri episodi di sponsorizzazioni finite male: il meme coin Floki Inu è sparito dalle casacche del Napoli nel silenzio generale dopo un anno di sponsorizzazione, mentre la piattaforma Crypto.com ha di recente abbandonato un accordo da 480 milioni di euro con la Uefa. E questi sono solo alcuni esempi che dimostrano l’inaffidabilità degli operatori del settore. Le criptovalute ad oggi sono ancora estremamente volatili: da novembre 2021, il valore dei Bitcoin – la moneta più famosa – è crollato del 70%; Ethereum – altro big del mercato – ha subito un calo simile e la stessa Crypto.com lo scorso giugno ha licenziato il 5% del personale.

* laddove non specificato, i dati qui riportati provengono dal Report Calcio 2022 della Figc

Da Publitalia a Quantocoin, chi è Victor Dana?

Classe 1967, dopo un breve periodo in Publitalia al fianco proprio di Silvio Berlusconi, all’inizio degli anni Novanta Dana inizia ufficialmente la sua carriera nel settore bancario in Svizzera. Per anni si occupa di private equity (l’acquisto di parti di aziende non quotate in borsa con potenziale di crescita da rivendere, ndr) a Losanna, attraverso la sua società Profile Finance SA, poi chiusa nel 2013. Secondo il media svizzero Bilan, la società aveva ricevuto una decina di denunce, perlopiù per aver falsificato firme su titoli bancari.

Nel 2005 Dana fonda la sua marca di orologi di lusso, la Instruments & Mesure du Temps (I&MT). Sempre secondo il media svizzero, la società fallisce nel 2009 lasciando debiti a numerosi fornitori. Tra gli amici del tempo che hanno indossato un orologio della I&MT ci sono Diego Armando Maradona e Michael Schumacher. Dopo la chiusura di questo esperimento economico, Dana decide di partire per Dubai. Qualche anno dopo, nel 2013, darà vita al fondo Heritage Wealth DWC, una società di gestione del risparmio con sede negli Emirati Arabi Uniti a cui appartiene anche Heritage Sports Holdings (HSH), la società che sarebbe dovuta diventare azionista del Rimini (sede legale nelle Isole vergini britanniche). La HSH ha lo scopo di acquisire o favorire le acquisizioni di squadre di calcio da parte di investitori stranieri. HSH possiede l’80% del Gibraltar United FC, il primo club a pagare gli stipendi dei suoi giocatori con una criptovaluta. Tra i soci di Dana nell’avventura in Gibilterra c’è Michel Salgado, ex difensore del Real Madrid, che lo accompagna anche in Quantocoin, divenendo uno dei volti della società insieme agli ex calciatori Roberto Carlos e Patrick Kluivert.

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L’esercito di hacker al soldo del Qatar

Assoldati attraverso investigatori privati, hanno colpito chi voleva scavare nella tangente pagata dall’emirato alla Fifa in cambio dei Mondiali. Un’inchiesta del Sunday Times e del TBIJ

Dana è diventato partner di Quantocoin nel 2017. Secondo il sito web – “in manutenzione” da diversi mesi – la piattaforma vuole sostituirsi alle banche tradizionali, nonché «tentare di ridurre la corruzione nel settore calcistico».

Gli interessi calcistici

Tra le avventure imprenditoriali dell’uomo d’affari italo-svizzero c’è il già citato Gibraltar FC, una delle squadre più antiche del piccolo territorio d’oltremare inglese con 75 anni di onorato servizio. Nel 2019, due anni dopo l’acquisizione da parte di Victor Dana e Michel Salgado, il club è stato escluso dalla lega nazionale poiché impossibilitato a pagare gli stipendi dei giocatori in tempo per l’iscrizione. Quegli stessi giocatori che dovevano ricevere lo stipendio tramite la moneta digitale di Dana, Quantocoin.

Sul continente europeo, le fortune di Dana sono alterne. Un anno dopo l’esperienza fallita con il Milan, nel 2016 veste di nuovo i panni dell’intermediario nella vendita dell’Olympique Marsiglia, ma anche qui il tentativo finisce in un nulla di fatto. Nel 2017 la sua Heritage Sports Holding riesce invece ad acquisire l’80% del capitale del club spagnolo Los Barrios. Nella cordata che precede l’acquisto, ad accompagnare Dana ci sono Salgado e il presidente del Gibraltar, l’immobiliarista Paul Collado. Subito dopo l’acquisizione, la società di Dana promette alla squadra di uscire presto dalla terza divisione in cui sono confinati ma, ad oggi, alle promesse non sono seguite i fatti.

Con le squadre di calcio italiane, Dana ha raccolto esperienze simili, quasi tutte fallimentari. Quella del 2018 per il Rimini FC alla fine è rimasta un accordo preliminare e nulla più. Subito dopo, tramonta anche una trattativa lunga due anni per l’acquisto del Pisa. Nel 2018 va invece in porto quella con il Mantova FC del quale, con la controllata Heritage Sports Europe Ltd registrata in Inghilterra, Dana acquista il 25% del capitale sociale. Una quota che scenderà al 12%, per effetto dell’aumento di capitale, quando entrerà in società l’ex presidente del Verona Maurizio Setti. Infine, voci di corridoio lo hanno accostato all’acquisizione della Reggiana e del Como, affari che termineranno tutti con una sconfitta per l’imprenditore.

Sia per il Mantova sia per la Reggiana, sembra che Dana sia stato favorito da un certo Federico Strafinger, imprenditore romano attivo nel settore della ceramica. Residente da anni a Pavullo, in provincia di Modena, Strafinger conosce l’ex patron del Reggiana Mike Piazza e intavola le trattative con lui per conto di Dana. Sulle pagine del Resto del Carlino Strafinger spiega, all’indomani della notizia di un interessamento di Dana verso la Reggiana: «La situazione è complicatissima. Non so come finirà, ci sono 5,8 milioni di debiti quindi per disputare il prossimo campionato ne servirebbero 12. […] Vedremo se il nostro gruppo riuscirà a darglieli». Alla fine, la HSH non troverà mai i soldi per l’acquisto della Reggiana.

Tra calcio e (cripto)finanza

Dana è anche nell’advisory board del World Football Summit, organizzazione che ha appena concluso la sua conferenza del 28 e 29 settembre a Siviglia. L’evento riunisce centinaia di stakeholder del mondo del calcio per, come si legge dal sito, «permettere di generare opportunità di business». È uno dei più importanti eventi mondiali sulla finanza calcistica.

Nel frattempo Dana continua a investire forte anche nelle criptovalute. La sua Quantocoin ha da poco lanciato il suo token digitale, QTC. Dopo un primo momento in cui il token si appoggiava alla criptomoneta Waves, dalla fine di settembre lo stesso sarà disponibile solo sul portale TimeX.io – almeno secondo le dichiarazione della società – senza però che sia specificato a quale moneta digitale farà riferimento. Mentre pubblichiamo, il passaggio non è ancora avvenuto e su Twitter l’account della criptomoneta fa sporadiche comparse, solo per ricordare l’imminente passaggio – ancora non materializzatosi – al portale TimeX.io. Sui principali portali di notizie riguardo alle criptomonete, come Coingecko.com, Quantocoin risulta essere disattivata «per inattività». IrpiMedia ha contattato sia Pablo Victor Dana sia Quantocoin, senza però ricevere risposte.

CREDITI

Autori

Lorenzo Bodrero
Simone Manda

Editing

Lorenzo Bagnoli

Foto di copertina

Pablo Victor Dana
(worldfootballsummit.com)

Quel che resta dopo il weekend nero delle criptovalute

Quel che resta dopo il weekend nero delle criptovalute

Raffaele Angius
Lorenzo Bodrero

«Ècome se avessi comprato un’auto nuova ieri e dopo 24 ore l’avessi schiantata contro un muro. Oggi mi sta andando male, ma vediamo come prosegue». Rocco la prende con filosofia ma in pochi mesi, a partire dall’inverno scorso, ha perso circa 30 mila euro, tutti investiti nelle criptovalute più blasonate. Il tempismo certo non ha aiutato: dopo il massimo storico raggiunto a novembre da Bitcoin ed Ethereum, è cominciata una spirale ribassista del valore delle monete digitali. Da allora e fino ai primi di maggio, la moneta più popolare del settore ha perso quasi il 50% del suo valore. Niente, però, in confronto allo scenario che si sarebbe palesato pochi giorni più tardi quando, tra l’8 e il 10 maggio un’altra criptomoneta, TerraUSD, ha registrato un crollo del 98% in un solo giorno, trascinando ulteriormente in basso tutto il settore.

«La tempesta perfetta», «Debacle», «Una settimana da incubo», erano i titoli di alcuni giornali all’indomani di quello che alcuni analisti stimano – un po’ frettolosamente – essere la fine del settore cripto. Nella loro visione più idealistica, le monete virtuali sono strumenti nati per garantire transazioni verificate da un sistema tecnologico all’avanguardia e decentralizzato che permette di aggirare i circuiti della finanza, circolo di potere che ha sulla coscienza tante delle crisi economiche degli ultimi anni.

Per una fetta di osservatori, questa crisi è la conferma invece che le cripto sono un mercato come tutti gli altri, incapaci di fuggire del tutto da squali e speculazioni. «Ho visto evaporare i risparmi di una vita», scrive un utente su Reddit, il social network a metà tra una piattaforma di discussione e un forum. «Ho perso 450 mila dollari, non posso pagare la banca e presto perderò la casa. L’unica via di uscita che vedo è il suicidio», si legge in un altro post. Esternazioni come queste hanno costretto i moderatori di Reddit a indicare in cima alle conversazioni in ogni Paese i numeri di assistenza da contattare in caso di panico.

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Il weekend nero delle monete virtuali si è materializzato con un attacco speculativo di cui ancora non si conoscono i responsabili. Nata per essere utilizzata per comprare e vendere “metabeni” nel metaverso, il conio virtuale TerraUSD è collegato a una moneta gemella, Luna. Terra è una stablecoin, cioè una moneta ancorata a un valore, in questo caso al dollaro, con un rapporto 1:1. La gemella Luna ha un valore che oscilla, come spesso accade nelle cripto. Il sistema Terra-Luna era concepito per mantenersi in equilibrio: nel caso di un attacco nei confronti di Luna, Terra avrebbe comprato e venduto automaticamente dalla sua gemella, per mantenerla in assetto. La criptomoneta però non è riuscita a salvare se stessa dalla speculazione: qualcuno ha infatti utilizzato enormi disponibilità di monete virtuali per abbassarne il prezzo e guadagnare dall’improvvisa perdita di valore, proprio come accade nella finanza offline.

La manovra – eseguita vendendo e comprando miliardi di dollari di criptovalute da altri utenti, sia nell’ecosistema Terra-Luna sia in Bitcoin – è avvenuta off the chain, ovvero ricorrendo all’acquisto di valuta da altri utenti e non dai mercati, per evitare di essere notati. Raggiunto il valore record di 69 mila dollari lo scorso novembre, Bitcoin – capostipite e più diffusa valuta elettronica – oggi oscilla intorno ai 27 mila dollari. TerraUSD, il cui valore sarebbe dovuto restare fisso a un dollaro, al momento in cui scriviamo vale cinque centesimi.

Keep calm and buy crypto

In qualità di manager del reparto digitalization innovation di un’importante azienda italiana, Rocco, 34 anni, ha dimestichezza con il settore e il suo è un profilo atipico rispetto alla massa di utenti che popolano la galassia delle monete virtuali: «Gli alti e i bassi ci stanno in questo settore – ammette Rocco due settimane dopo il tracollo -. Come nel mercato tradizionale, l’importante è imparare a gestire il rischio, ad “assimilare la perdita” come si dice in gergo, e a diversificare». In parallelo alle criptomonete, Rocco investe da anni nel settore, con rendimenti importanti: «Sono arrivato anche a 200 mila euro di profitti e il guadagno iniziale mi ha consentito di parare il colpo», confessa. Alla base delle contropartite in criptovalute, c’è una serie di tecnologie che permette di strutturare i dati in modo innovativo: la blockchain. A differenza di un normale archivio di informazioni, nella blockchain (dall’inglese, catena a blocchi), ciascun dato inserito è convalidato da quello che lo precede e a sua volta convalida quello che lo segue: in questo modo, la perdita o l’alterazione di un’informazione sarebbe virtualmente impossibile in quanto invaliderebbe l’intera catena.

Il weekend nero

L’andamento del valore delle criptomonete Bitcoin, Ethereum e Terra-Luna nella finestra temporale tra il 1 novembre 2021 e il 30 maggio 2022 [Valori in USD]

«In un mondo in cui cresce la sfiducia verso le istituzioni tradizionali non dovrebbe stupire che le criptovalute, le quali offrono la piena libertà di gestire i propri risparmi, siano generalmente guardate con attenzione», spiega Federico Pecoraro, imprenditore e fondatore di Chainblock. Esiste sempre il rischio di «avventurarsi senza comprendere a pieno i rischi di un investimento sbagliato o incorrere in una truffa, ma in questo non vedo enormi differenze con i mercati tradizionali», conclude Pecoraro.

Secondo un recente sondaggio commissionato da Euronews alla Redfield and Wilton Strategies (società di consulenza del mercato finanziario) gli italiani sono i principali detentori di Bitcoin in Europa: ne possiede il 18% della popolazione ma solo l’8% di questi dichiara di conoscere bene il settore, e il 49% ammette di saperne addirittura poco.

L’ingresso nel mondo delle cripto è a portata di tutti: pochi click, una carta di debito, il minimo indispensabile di dimestichezza con smartphone o pc. Come nella finanza tradizionale, non serve nemmeno conoscere a menadito il funzionamento del sistema per cominciare a investire. I digital assets, inoltre, sono sempre più legittimati anche dalle istituzioni: in primis la Cina, che ne ha creato e lanciato una propria moneta; in secundis, Europa e Stati Uniti, dove sono in corso i preparativi per cripto dollari ed euro. Persino l’Ucraina, a un mese dall’invasione della Russia, ha deciso di ricorrere al mercato della moneta elettronica per raccogliere finanziamenti a sostegno del proprio sforzo bellico. Tra febbraio e marzo il governo ha lanciato Aid for Ukraine, prima campagna governativa volta alla raccolta, attraverso singoli sostenitori in tutto il mondo, dei fondi per l’acquisto di armi, elmetti, indumenti antiproiettile e, addirittura, veicoli militari. Un modo per aggirare la tortuosa e lenta diplomazia. Il 19 marzo, a un mese dal lancio, il governo dichiarava di aver raccolto criptovalute per il valore di 60 milioni di dollari (56 milioni di euro); il crollo del mercato in corso da maggio ne ha ridotto il valore intorno ai 51 milioni.

Bolla o non bolla

Con transazioni quotidiane nell’ordine dei 500 miliardi di dollari – su oltre cinquemila diverse valute – sembra che i digital assets siano qui per restare. Tuttavia, dare un numero alla quantità di reali utilizzatori delle criptovalute sembra un’impresa impossibile: i wallet – portafogli al portatore – al momento registrati si aggirano intorno ai 68 milioni ma, complice l’impossibilità di regolare un mercato autogestito, è possibile crearne sempre di nuovi in modo anonimo senza particolari difficoltà.

«Una delle tante caratteristiche che hanno segnato il successo di questa tecnologia e la mancanza di intermediari, che non attrae solo chi cerca l’anonimato, ma anche e soprattutto chi vuole esplorare nuove possibilità di investimento», spiega Stefano Capaccioli, commercialista e fondatore di Coinlex, società di consulenza e network di professionisti sulle criptovalute e soluzioni blockchain. «In qualche modo questo mi ricorda il passaggio dalla protezione dei signorotti locali, che offrivano protezione e un esercito in cambio delle tasse, all’avvento delle armi da fuoco, che di fatto segna la capacità anche del singolo cittadino di proteggere le proprie terre», chiosa.

Ma se da una parte è vero che alcuni wallet sono anonimi, dall’altra è pur vero che ogni transazione può essere pubblicamente monitorata da chiunque, semplicemente accedendo alla blockchain, il protocollo che governa ogni movimento e lo valida. Così è possibile essere a conoscenza in tempo reale di ogni informazione relativa alle transazioni dette crypto-whales (dall’inglese balene, o mostruosamente grandi) così come delle più minute.

«Sono in questo settore per rimanerci, nonostante qualche perdita qua e là – confida Rocco -. Il mio è un investimento frazionato, ne ho ritagliato una parte da investire nel mondo delle criptomonete e sono cosciente che il rischio sia alto, ma mi auguro che un giorno questi investimenti mi permettano di liberarmi economicamente dall’azienda per cui lavoro per crearmi la mia strada, con i miei progetti».

Un gettone è per sempre

Ma non tutto ciò che passa dalla blockchain riguarda il mondo della finanza: per sua natura, il protocollo “a blocchi” su cui si basa l’intero sistema ha dimostrato di poter funzionare in molti ambiti. Dalla registrazione di contratti immobiliari fino all’inserimento in anagrafe dei nascituri, la blockchain ha stimolato la curiosità dei tanti che ne hanno studiato il funzionamento, fino a far gemmare la tecnologia che, forse più di tutte, è stata protagonista nel 2021: gli Nft.

L’acronimo sta per Non fungible token, ovvero, letteralmente, gettone non sostituibile. Si tratta di strumenti che permettono l’emissione di un codice non replicabile che identifica un dato oggetto. Di particolare successo nel mondo dell’arte, gli Nft hanno ingenerato un movimento di piccoli o grandi investitori (qualcuno li chiama mecenati) in titoli di proprietà di opere digitali. Nulla impedisce che chiunque possa scaricare una copia di un’immagine presa dal web facendo uno screenshot o salvandola con un click destro del mouse, ma la proprietà virtuale di quella immagine, se ne è stato acquistato l’Nft, rimane a chi l’ha pagata.

Gianmaria, 32 anni, ha cominciato a osservare la galassia cripto già dal 2014 e a investirci i primi risparmi tre anni più tardi. In quanto creatore lui stesso di Nft, li conosce abbastanza bene: «Dal punto di vista artistico non sono un’innovazione poiché la logica di mercato è simile a quella delle opere d’arte, ma per una miriade di eccellenti artisti rappresentano una potenziale fonte di guadagno, prima impensabile».

La logica dietro gli Nft è tutto sommato semplice. Si assegna un codice univoco a un’opera – dal quadro a un’immagine in Jpeg – che ne rappresenta una sorta di certificato di identità. Chi acquista l’opera quindi non possiede l’opera in sé quanto invece la possibilità di esercitare un diritto di proprietà sull’opera stessa. L’Nft in questione tiene inoltre traccia dei passaggi di proprietà.

Gli Nft di Gianmaria decodificano immagini di news relative a un arco temporale di 365 giorni. «Per ciascuna notizia del giorno abbiamo creato un’immagine all’interno della quale sono codificate informazioni quali la data della notizia, le coordinate geografiche, l’autore dell’opera e la componente visuale basata sulla trasformazione della notizia in forme geometriche». La concorrenza è spietata, dice, ma il mercato offre ancora tanti spazi. Il suo obiettivo non è tanto il profitto quanto il lascito di un oggetto ai posteri: gli Nft sono una «navicella verso l’immortalità». «Per me – dice Gianmaria – vale il concetto del “lungo presente”: così come gli archeologici decodificano informazioni da reperti vecchi migliaia di anni, la nostra idea è trasferire informazioni che tra mille anni chi sarà su questo pianeta avrà la possibilità di decodificare».

Di tutt’altro avviso è Riccardo, docente di animazioni virtuali per il Politecnico di Torino. «Sono molto scettico sull’intero settore, Nft compresi», racconta. Da un lato, lo preoccupa l’impatto ambientale: i computer che macinano la tecnologia blockchain sono sempre più energivori. Dall’altro, sostiene che la logica di mercato resti la stessa che regola il mercato dell’arte attuale: «È completamente arbitrario, l’”opera” acquisisce valore solo nel momento in cui viene acquistata e quel che è peggio è che tu in quanto acquirente non la possiedi, non puoi dire che è tua, detieni invece il solo certificato di proprietà. Uno scontrino, insomma».

Successo e disciplina

La mancanza di regole e di paletti normativi è stato uno dei motivi per cui le criptomonete hanno generato fin dall’inizio tanto interesse. Con il successo, però, è arrivata anche la maggiore attenzione di enti regolatori internazionali. Da un approccio istituzionale indirizzato a scoraggiare la crescita degli asset digitali, si è passati a un improvviso e deciso tentativo di condurre il cripto-mercato verso canoni di compliance già riconosciuti. C’è un’ammissione implicita in tutto questo: la crescita del settore è ben più rapida del previsto e non rappresenta più un fenomeno di nicchia destinato a sgonfiarsi.

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Nel primo trimestre del 2022 Unione europea e l’OCSE hanno accelerato il processo normativo e la definizione di nuove procedure di cooperazione fiscale internazionale. L’obiettivo è incanalare le cripto-attività all’interno di un filone con regole simili a quelle della finanza tradizionale, così da proteggere il mercato dai rischi relativi al riciclaggio di denaro, al finanziamento del terrorismo, truffe e altre attività criminali. Gli interventi in corso sono tanti e profondi e potrebbero mettere in discussione alcuni concetti – come l’autoregolamentazione, l’anonimato e l’assenza di autorità di vigilanza – su cui si fonda l’intero settore.

Il più impattante, secondo gli esperti, sarà l’applicazione della cosiddetta travel rule, l’obbligo per banche e società finanziarie di conservare per diversi anni le informazioni che “viaggiano” (travel, in inglese) tra pagatori e beneficiari di una transazione. La regola obbliga i prestatori di servizi cripto a verificare le informazioni sul proprio cliente, a trasmetterle alla controparte e a renderle disponibili alle autorità competenti in caso di indagine. Ogni convenzione internazionale per la lotta al riciclaggio di denaro sporco e all’evasione fiscale si basa su regole di questo genere. Ma il sistema cripto è per sua vocazione anonimo e quindi ostile al tracciamento di pagati e pagatori.

Il caso-scuola di Tether

Come TerraUSD anche Tether è una stablecoin ancorata al valore delle monete reali. Un Tether equivale a un dollaro e la riserva in dollari deve coprire l’intera disponibilità dei Tether in circolazione. La procura generale di New York nel 2017 aveva aperto un’indagine nei confronti di Tether Ltd (registrata alle Isole Vergini britanniche) e Bitfinex (una piattaforma di scambi online), entrambe controllate dalla holding iFinex Inc. Secondo la procura newyorkese, Tether e Bitfinex avrebbero operato troppo spregiudicatamente, con grossi rischi per gli investitori, dichiarando false capitalizzazioni per 850 milioni di dollari fornite dalla banca panamense CryptoCapital, in seguito fallita. Le indagini avevano svelato che la Tether Ltd non aveva alcun accesso a finanziamenti bancari e che quindi la dichiarazione secondo cui la società deteneva sufficienti riserve in dollari era semplicemente falsa. Un anno fa, le parti hanno raggiunto un patteggiamento: 18,5 milioni di multa e il divieto di operare negli Stati Uniti.

Il 14 marzo scorso, il Parlamento europeo ha dato il primo via libera al regolamento MICAR (Market in Crypto-Asset Regulation), proposto a settembre 2020 dalla Commissione europea. Il testo è stato oggetto di significativi emendamenti da parte del Parlamento rispetto alla versione originale. Le più rilevanti andranno a equiparare le cripto-attività a strumenti finanziari, fornendo definizioni (cosa si intende per crypto, per operatore, per wallet, ecc.) e obblighi (registrarsi presso l’autorità nazionale, fornire linee guida sulla tutela dei consumatori, obblighi di trasparenza, requisiti minimi per l’emissione di token, ecc.). Prima di diventare operativo, il MICAR passerà per un successivo round di negoziazioni tra Commissione e Parlamento.

Infine l’OCSE. L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico è in fase di progettazione di un sistema per lo scambio di informazioni tra autorità fiscali espressamente dedicato alle cripto-attività. In Italia è invece in fase di studio un regime fiscale che prevede anche un “criptocondono” per gli italiani che detengono criptovalute non ancora dichiarate.

Per gli amatori come Gianmaria, la questione è distinguere i professionisti dai ciarlatani e non farsi fregare dall’idea di soldi facili. La popolarità di una criptomoneta o di un sistema di blockchain non è per forza sinonimo di qualità nella sua componente tecnica. «Il problema è che ci sono dieci aziende che lavorano con tecnologie all’avanguardia e personale competente, che sono poi oscurate da altre mille aziende che si comportano in maniera opposta e screditano il sistema – ragiona -. Per me vale la logica del gioco d’azzardo: se investi 5 euro è un conto, se scommetti la casa di famiglia, allora, bisogna fare attenzione».

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DigitalBits, chi è il criptosponsor di Roma e Inter

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DigitalBits, chi è il criptosponsor di Roma e Inter

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Matteo Civillini

Il 5 febbraio scorso a San Siro si giocava un derby potenzialmente decisivo per le sorti della stagione. Sul campo, l’Inter si è fatta rimontare dal Milan che, così facendo, ha riaperto la lotta per lo Scudetto. Una delusione per i tifosi nerazzurri, che però prima della partita avevano ricevuto un insolito regalo: alcuni “gettoni” di una criptovaluta. Si tratta di DigitalBits (DB), moneta coniata dall’omonima fondazione creata alle Isole Cayman che dall’estate scorsa punta forte sul calcio italiano. Già main sponsor della Roma per la stagione in corso, il logo campeggerà anche al centro della maglia nerazzurra a partire dalla prossima annata.

Le due partnership, per un valore totale di oltre 110 milioni di euro, stanno portando notevole visibilità a DB, che ambisce a diventare “la blockchain per i brand”, cioè, in pratica, vuole applicare il modello delle “catene di blocchi” anche in settori che non sono quello tecnologico o finanziario. L’obiettivo, stando ai claim pubblicitari di DigitalBits, è cambiare il modo con cui consumatori e marchi interagiscono.

Il glossario delle criptovalute

Blockchain: immaginate una sequenza potenzialmente infinita di “blocchi” ciascuno dei quali contiene una serie di informazioni. L’acquisto di criptomoneta costituisce un blocco di informazioni, così come la vendita, l’aggiunta di un nuovo utente o di un wallet, la stessa cosa vale per una transazione economica. Chiunque può aggiungere nuove informazioni e a ciascun blocco, di default, è assegnato un codice univoco il quale “memorizza” e quindi verifica anche l’identità del blocco che lo precede. In questo modo è praticamente impossibile manomettere l’intera catena, motivo per il quale la blockchain è considerata sicura. In estrema sintesi, la blockchain è un enorme database controllato dai blocchi che lo compongono, immutabile, decentralizzato e altamente sicuro dal punto di vista informatico.

Criptovaluta: moneta virtuale, ossia che non esiste in forma fisica. Si genera e si scambia criptomoneta esclusivamente per via telematica e in modalità peer-to-peer, ovvero tra due dispositivi senza l’ausilio né l’intermediazione di autorità centralizzate. Le entità che danno vita allo scambio sono i “nodi”, nient’altro che dei computer gestiti da utenti all’interno dei quali sono continuamente all’opera software che svolgono la funzione di portamonete.

Fan Token: è un asset digitale creato sulla blockchain e collegato a una specifica squadra di calcio che permette ai detentori l’accesso di beni e servizi. Nel caso di Socios, principale emittente di questi prodotti, i fan token si appoggiano su Chiliz, una criptovaluta gestita da Socios stessa.

Meme coin: sono quelle criptovalute che nascono a seguito di fenomeni sociali, scherzi o contenuti diventati virali in rete. Il contenuto virale stesso diventa il volto, e spesso il logo, con cui è individuata la moneta. Il caso più celebre è Dogecoin, creata per scherzo nel 2013 e che si ispira all’ormai celebre cane Shiba Inu, razza giapponese dal pelo folto e di colore ocra. Simile è la genesi di Floki. Il nome del celebre personaggio della serie televisiva Vikings è quello con cui è stato battezzato il cane di Elon Musk. Floki Inu ha quindi raccolto l’eredità mediatica di due fenomeni diventati virali.

Non Fungible Token (NFT): sono dei certificati di proprietà di opere digitali ma non nella loro interezza. Un singolo NFT, infatti, corrisponde ad una frazione del bene/oggetto in questione il quale ha un valore determinato in base al valore dell’oggetto stesso. In sostanza, è come possedere una o più azioni di una società quotata.

Wallet: un portafoglio virtuale, simile a quelli più comuni associati, per esempio, alle app per i pagamenti in forma digitale. Sono necessari per immagazzinare e trasferire criptovalute.

Dietro alla scintillante campagna pubblicitaria, non è chiaro quanto sia davvero stabile DigitalBits. Negli Stati Uniti è in corso una causa civile in cui i vertici dell’azienda sono accusati da vecchi investitori di truffa e appropriazione indebita. Almeno due ex dipendenti lamentano di non essere stati pagati e denunciano presunte lacune tecniche del progetto. Insomma, a detta dell’accusa, DigitalBits sarebbe “un castello di carte”.

Uno dei primi investitori in DigitalBits, che ha portato in tribunale la fondazione, sostiene che il suo iniziale investimento di circa 200 mila dollari abbia finanziato il successo di DigitalBits senza che lui ne abbia poi potuto godere i frutti. Secondo l’accusa, il fondatore della società, il canadese Al Burgio, e il socio in affari Michael Gord, non avrebbero mai corrisposto l’oggetto dell’investimento, ovvero la criptovaluta coniata dall’azienda, arricchendosi invece personalmente. A detta dell’investitore, infatti, i vertici di DigitalBits avrebbero tenuto per sé le monete, dalla cui vendita avrebbero in seguito ottenuto profitti per centinaia di milioni di dollari. Soldi che sarebbero poi stati dirottati, oltre che sulle sponsorizzazioni dei club, su viaggi di lusso e investimenti immobiliari da parte di Burgio e Gord.

L’investitore della cripto-azienda nata nel 2017 chiede il risarcimento del corrispondente in criptovalute per 160 milioni di dollari. Alla lista dei creditori appartengono altri investitori, tra cui ex dipendenti dell’azienda.

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Ogni donazione è indispensabile per lo sviluppo di IrpiMedia

Una brutta notizia per il mondo del calcio, gravato da pesanti debiti e alla ricerca di un settore ricco di liquidità per finanziare le sponsorizzazioni, dopo il divieto imposto nel 2018 alle società di scommesse per effetto dell’allora “Decreto Dignità”. Il calcio, con la sua endemica emorragia finanziaria in corso da anni, dovrà prima o poi fare i conti con il settore delle criptovalute, al momento completamente deregolamentato e sul quale ha puntato forte per far quadrare i bilanci, oltremodo in rosso per le restrizioni imposte dalla pandemia. Come già riportato da IrpiMedia sono almeno 16 i club di Serie A che hanno stretto accordi di sponsorship con società del settore delle criptomonete, a cui si aggiungono la Figc e la stessa Serie A Tim.

Ma i dubbi superano le certezze, come nel caso del Napoli e di Floki Inu, cripto-società gestita da un team pressoché anonimo e registrata in uno sperduto paesino della Georgia il cui azionista è una donna definita da un’operatore della società una «testa di legno». Il meme coin ha investito massicciamente in operazioni di marketing e sponsorizzazioni ma la sua operatività è ancora tutta da dimostrare.

Tra le società monitorate c’è anche lo sponsor della Lazio. La Consob, l’ente preposto alla tutela dei consumatori, lo scorso luglio ha segnalato con un warning la società Binance, sponsor del club biancoceleste da ottobre 2021, precisando che le società del gruppo «non sono autorizzate a prestare servizi e attività di investimento in Italia».

Come funzione una blockchain

Una blockchain è un registro contabile condiviso e distribuito che permette il tracciamento di transazioni. In questo sistema le informazioni vengono registrate in blocchi di dati che, una volta inseriti, si concatenano al blocco precedente. Da questo meccanismo deriva il nome blockchain, letteralmente catena di blocchi. La tecnologia blockchain viene impiegata in diversi campi, ma il suo utilizzo principale è legato al mondo delle criptovalute. Sulle blockchain (come Bitcoin o Ethereum) vengono infatti registrati gli scambi di moneta.

Una blockchain dovrebbe garantire trasparenza e sicurezza nell’esecuzione delle transazioni, poiché tutti i partecipanti hanno accesso al medesimo registro che non può essere modificato o manomesso. A fare da contraltare, tuttavia, c’è il significativo impiego di energia necessario per verificare le transazioni, creando un notevole impatto ambientale.

Fondata dal canadese Al Burgio nel 2017, DigitalBits propone di rivoluzionare in chiave crypto il mondo dei programmi fedeltà di hotel, ristoranti, compagnie aeree. In sintesi, marchi noti potrebbero utilizzare la blockchain gestita da DigitalBits per emettere dei propri gettoni (token, in gergo) da distribuire ai clienti più leali. Insomma, una versione digitale della vecchia raccolta punti a bollini. DigitalBits guadagnerebbe grazie alle commissioni che i marchi dovrebbero versare per l’utilizzo della blockchain. Un progetto che per ora però, a cinque anni dalla sua nascita, è rimasto soltanto sulla carta.

Nel variopinto mondo delle criptovalute Digitalbits ha avuto difficoltà a emergere, surclassata dalla popolarità di società ben più affermate. La notorietà arriva nell’estate 2021 quando, a fine luglio, l’azienda firma una partnership da 36 milioni di euro con la AS Roma diventandone il main sponsor e rimpiazzando così un colosso come Qatar Airways. Di questa cifra alla Roma è arrivata solo una prima tranche. La formula si ripete poche settimane dopo, a settembre. Questa volta è l’Inter ad annunciare DigitalBits quale “sleeve sponsor” (lo sponsor che compare sulle maniche delle squadre, ndr) per le successive quattro stagioni, intascando 85 milioni di euro dalla società cripto.

La doppia criptomoneta di DigitalBits

A gennaio Ephrat Livni insieme ad altri colleghi del New York Times ha intervistato l’avvocato Adam Ford, il quale rappresenta l’investitore che ha portato a processo DigitalBits negli Stati Uniti. Secondo quest’ultimo i grandi proclami di DigitalBits sarebbero solo fumo negli occhi: dopo anni di sviluppo, la blockchain non avrebbe ancora alcuna applicabilità concreta, né ci sarebbero grandi marchi che si sono affidati ad oggi ai servizi di DigitalBits. Tutto ciò mentre Al Burgio e il suo partner Michael Gord – i fondatori della società – vengono accusati di aver raccolto gli iniziali investimenti di soci della prima ora arricchendosi personalmente senza versare loro il corrispettivo in criptomonete.

Un momento dell'incontro di Coppa Italia tra Inter e Roma l'8 febbraio 2022 - Foto: Giuseppe Bellini/Getty

Un momento dell’incontro di Coppa Italia tra Inter e Roma l’8 febbraio 2022 – Foto: Giuseppe Bellini/Getty

Il contenzioso ruota attorna alle specifiche tecniche della criptomoneta XDB, coniata da DigitalBits.

A cavallo tra la fine del 2018 e i primi mesi del 2019, Mark Dorrell, imprenditore canadese e principale accusatore, ne aveva acquistati oltre 233 milioni per un controvalore di poco inferiore ai 200 mila dollari. Dorrell e gli altri investitori sostengono di aver accettato la proposta di investimento con la consapevolezza che sarebbe esistita una sola versione delle monete, chiamata, appunto, XDB.

Qualche mese dopo l’acquisto, tuttavia, Al Burgio avrebbe informato Dorrell dell’esistenza di una seconda variante della criptomoneta, cosiddetta XDB ERC-20, creata sulla blockchain di Ethereum (seconda piattaforma più rilevante nel mondo crypto, dopo Bitcoin), invece che su quella proprietaria di DigitalBits. Secondo Burgio, questa sarebbe stata una situazione temporanea, poiché in seguito i token XDB ERC-20 sarebbero stati tramutati in quelli ufficiali creati sulla blockchain di DigitalBits, i cosiddetti XDB MainNet.

La stessa informazione viene diffusa a partire dall’autunno 2019 sui social network di DigitalBits: l’azienda ha sempre avuto intenzione di lanciare due diversi asset (cioè le due versioni di XDB: ERC-20 e MainNet), dicono, e il Token Swap – l’evento attraverso cui una variante di criptomoneta è scambiata con un’altra – sarebbe stato annunciato a breve. Il problema è che «Dorrell mai prima era stato informato dell’esistenza di varianti differenti del token», si legge nella querela. L’esistenza di due token secondo l’investitore gli avrebbe causato un mancato guadagno potenziale di circa 160 milioni di dollari.

Ad aprile 2021, messo sotto pressione dalle insistenze dell’avvocato, Al Burgio dà il via libera per la consegna a Dorrell dei token dovuti: 200 milioni di XDB MainNet, la moneta “alternativa” a ERC-20. Questi token però non possono essere utilizzati né sulle piattaforme di scambio, né tantomeno possono essere integrati alle varie piattaforme di pagamento. In breve, non hanno alcuna funzionalità. Da anni – sostiene l’accusa – Burgio e i suoi soci annunciano che è ormai imminente il Token Swap ma, ad oggi, questo non è ancora avvenuto.

Al Burgio, creatore di blockchain

Cresciuto in una zona agricola dell’Ontario, in Canada, Al Burgio costruisce fin da giovanissimo una carriera imprenditoriale. Nel 1999, all’età di 22 anni, diventa presidente della Burgio Family Holding, cassaforte di famiglia che gestisce partecipazioni in diverse aziende. Tra di esse spicca la Loretta Foods, società che si occupa di produzione e vendita all’ingrosso di prodotti alimentari, di cui Burgio diventa amministratore delegato nel 2005. Successivamente, Burgio si tuffa nel settore tech fondando prima un fornitore di servizi di comunicazione VoIP e poi di un’azienda che facilita lo scambio di traffico internet. Dopo la cessione della società nel 2017, Burgio entra nel mondo di blockchain e criptovalute, lanciando poco dopo il progetto DigitalBits.

Il progetto DigitalBits è gestito attraverso una complessa rete di società dislocate tra paradisi offshore e giurisdizioni dalla scarsa trasparenza.

La capofila del gruppo è Fusechain XDB I Ltd, azienda con sede alle Isole Cayman, dove si trova anche la Digitalbits Foundation, suo braccio operativo. Scendendo di un livello, Fusechain XDB I risulta essere principale azionista di alcune filiali con sede nello stato americano del Wyoming, oggi uno dei principali paradisi fiscali al mondo. Tra di esse c’è Zytara, la società che ha stretto gli accordi di sponsorizzazione con Roma e Inter.

La struttura societaria del progetto DigitalBits

Quando il calcio affida le sponsorship a presunti truffatori

Secondo l’avvocato Adam Ford, la società avrebbe truffato i primissimi investitori – quando DB era ancora sconosciuta – raccogliendone gli investimenti senza corrispondere loro il controvalore in criptomoneta. I contratti stilati prevedevano che la criptovaluta da ricevere in cambio dovesse essere XDB, senza precisare di quale versione. Il capitale iniziale accumulato sarebbe poi servito, da un lato, per lanciare una diversa variante di XDB che sarebbe poi stata distribuita pubblicamente, e, dall’altro, creare altre società controllate così da dare all’azienda quella parvenza di legittimità con cui approcciare nuovi investitori.

«Ho personalmente tirato dentro alcune delle società più importanti al mondo, le quali erano pronte a firmare contratti di partnership con DB – ha spiegato un ex dipendente a IrpiMedia, – salvo poi venire bloccato da Al Burgio». Una sorte simile a quella toccata a Dorrell, laddove l’intenzione della società era «tenere per sé i token commerciabili e di più alto valore» – si legge nella denuncia. Con token commerciabili si intende la moneta ERC-20 scambiabile liberamente sul mercato, a differenza della MainNet. Secondo i querelanti, la società avrebbe venduto una parte dei token ERC-20 a una cerchia ristretta di clienti, tenendo l’altra per sé, allo scopo di condizionare l’andamento del valore della criptomoneta.

Mentre Dorrell altri investitori iniziali sono rimasti a mani vuote, il valore di quel token ha avuto una crescita vertiginosa, passando da circa 0,016 dollari nel settembre 2019 a un massimo di 0,81 dollari nel novembre 2021 (oggi vale 0,55 dollari). Gli investitori sostengono che se avessero ricevuto i propri token avrebbero potuto liberamente scambiarli sul mercato, realizzando un profitto potenzialmente enorme.

L’avvocato aggiunge che la conversione dei token XDB dalla variante ERC-20 a quella MainNet, nonostante i numerosi annunci pubblici, non è mai stata realizzata «intenzionalmente, così da impedire a Dorrell di convertire la criptomoneta e mantenere bassa la quota di moneta in circolazione e di conseguenza un prezzo più alto del token stesso».

IrpiMedia ha contattato più di una volta DigitalBits e il suo fondatore Al Burgio senza ricevere alcuna risposta.

Movimenti notevoli di moneta sono stati notati nelle settimane a cavallo degli accordi chiusi con Inter e Roma. In due occasioni, tra agosto e settembre 2021, (vedi grafico) gli scambi di XDB hanno registrato due salti improvvisi: rispettivamente per 85 e 110 milioni di token che hanno cambiato mano nel corso di una giornata. Difficile interpretare le ragioni dietro movimenti così massicci di criptomoneta. Successivamente, due mesi dopo gli accordi con le squadre italiane, il numero di monete in circolazione (circulating supply, in gergo) ha subito un’impennata improvvisa: da circa 770 milioni di unità a 880 milioni. Una circostanza su cui l’avvocato Adam Ford vuole vederci chiaro.

La AS Roma, interpellata da IrpiMedia, ha precisato che la sponsorship non prevede il pagamento in token: «Il corrispettivo del contratto è esclusivamente in euro […] ed è equivalente all’intero valore dell’accordo, come comunicato al mercato». Quel che è certo, continua l’avvocato, è che «nessuno degli investitori con cui sono entrato in contatto ha ricevuto un solo token».

Per società di questo tipo è comune organizzare eventi – online e dal vivo – attraverso cui non solo promuovere l’utilizzo della propria criptomoneta ma anche aumentarne la circolazione (supply, in gergo) e incentivarne, così, l’uso tra i propri utenti, in questo caso i fan. Nel gergo crypto, l’occasione prende il nome di airdrop.

Durante il derby di Milano dello scorso 5 febbraio, i tifosi nerazzurri presenti allo stadio Meazza hanno avuto la possibilità di ricevere dei DigitalBits gratuitamente. A questo tipo di iniziative si presta anche Francesco Totti, ex capitano e bandiera del club giallorosso, diventato ambasciatore di DigitalBits a dicembre 2021 con un compenso da – scrive Il Tempo – 5 milioni di euro. Alla prima della pellicola cinematografica Uncharted del 17 febbraio a Roma il pubblico ha potuto incontrare l’ex numero 10 del club capitolino, ma non prima di aver aperto un proprio account sulla piattaforma di DigitalBits.

Nella sua scia si è accodato David Beckham: l’ex capitano della nazionale inglese è infatti diventato global ambassador di DigitalBits lo scorso 24 marzo. Due mesi prima, a fine gennaio, l’Inter aveva ulteriormente rafforzato la sua partnership con l’azienda crypto. L’annuncio era arrivato in concomitanza con le dichiarazioni dell’amministratore delegato nerazzurro Giuseppe Marotta il quale, al Sole24Ore, dichiarava che «il calcio è un sistema sull’orlo del baratro»: dalla prossima stagione calcistica, il logo di DB passerà dalle maniche al petto, diventando così main shirt sponsor e scalzando l’altro colosso crypto, Socios.com.

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Lo sleev sponsor DigitalBits sulle maglie dell’Inter in occasione del match Inter – Bologna il 18 settembre 2021
(Jonathan Moscrop/Getty)

Calcio e criptomonete: l’abbuffata della Serie A

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Calcio e criptomonete: l’abbuffata della Serie A

Raffaele Angius
Lorenzo Bodrero
Matteo Civillini

Il 28 novembre scorso il Napoli ospita in casa la Lazio. È la serata del ricordo di Diego Armando Maradona, l’idolo di casa scomparso un anno prima. In attesa del fischio d’inizio una statua di bronzo del Pibe de Oro, a grandezza naturale, sfila davanti agli oltre 40 mila tifosi presenti per l’occasione. Il busto di Maradona adorna anche la maglia speciale che l’undici partenopeo indossa per l’occasione. Quella, però, non è l’unica novità che appare sulla divisa di gioco. Sul retro, sotto i numeri dei giocatori, fa capolino per la prima volta la scritta “Floki.com”. Al fianco l’immagine di un cagnolino con l’elmo da vichingo.

L’insolito jersey back sponsor compare pochi giorni dopo l’annuncio dell’accordo del Napoli con Floki Inu, un cosiddetto “meme coin”, ovvero una criptovaluta nata per scherzo. Prodotti che basano il proprio valore non su una reale utilità, ma sulla viralità e sull’attivismo della comunità che spinge la diffusione della valuta stessa per provare a far salire le quotazioni. Una sorta di gioco d’azzardo collettivo in cui il rischio di scottarsi è molto alto: un mercato estremamente volatile che conta diversi tentativi di frode.

Tuttavia dall’inizio della stagione calcistica in corso, i club di mezza Europa sono impegnati a rastrellare sponsorizzazioni dal mondo delle monete digitali per far fronte a una lunga tradizione di conti in rosso, oltremodo esacerbata dalle conseguenze della pandemia. E le squadre di Serie A non sono da meno. Secondo una ricerca di IrpiMedia, sono almeno 16 i club con rapporti commerciali in essere con il mondo criptomonete. Nella Premier League inglese, sono 17 su 20. È la risposta delle società calcistiche alla crisi, una mancanza di liquidità che il “doping amministrativo” e le plusvalenze gonfiate non possono risolvere da sole.

Lo shopping compulsivo nel settore delle criptomonete da parte del calcio nostrano ha coinvolto anche due degli organi che ne sovrintendono la gestione e che più dei club dovrebbero raccomandare prudenza: da quest’anno, infatti, anche la Lega Serie A e la Figc si fregiano delle sponsorship, rispettivamente, di crypto.com e Socios.

La grande abbuffata

Le sponsorizzazioni tra società del mondo delle criptovalute e i club di Serie A durante la stagione 2021/2022

A richiamare l’attenzione «sugli elevati rischi connessi con l’operatività in cripto-attività» sono sia Banca d’Italia sia la Consob. Un portavoce dell’organo di controllo per la tutela degli investitori ha dichiarato a IrpiMedia che «il tema è attenzionato dai nostri uffici e non possiamo che raccomandare agli investitori la massima cautela, visti i rischi altissimi in cui possono incorrere». La stessa Consob, lo scorso luglio, ha segnalato con un warning la società Binance, sponsor della Lazio da ottobre, precisando che le società del gruppo «non sono autorizzate a prestare servizi e attività di investimento in Italia».

Ma gli interventi delle autorità avvengono in ordine sparso anche nel resto d’Europa: il 21 dicembre, nel Regno Unito, l’autorità nazionale che controlla la liceità dei contenuti pubblicitari (Advertising Standards Authority, Asa) ha sanzionato due pubblicità per l’acquisto dei fan token dell’Arsenal che permette principalmente di acquistare prodotti dai suoi negozi online. Come con Floki, anche i fan coin sono strumenti a rischio basati sulla blockchain e scambiabili utilizzando altre criptovalute. Nel dispositivo adottato dall’Asa si legge che il club londinese stava «approfittando dell’inesperienza o della credulità dei consumatori, banalizzando l’investimento in attività cripto, ingannando i consumatori sul rischio dell’investimento e non rendendo chiaro che il token è un asset cripto»

Tornando a Floki Inu, dal giugno scorso, data della sua creazione, la criptovaluta ha lanciato una campagna di marketing senza precedenti nel mondo crypto. Oltre al Napoli, altri storici club europei come Bayer Leverkusen, Spartak Mosca, Fenerbahce e Twente hanno stretto accordi commerciali con la criptovaluta. Il pugile inglese Tyson Fury ha pubblicato un video promozionale sulla sua pagina Instagram in cui si definisce «orgoglioso di essere un vichingo Floki».

I festeggiamenti del post-partita Milan-Napoli il 19 dicembre 2021 – Foto: MB Media/Getty

Endorsement di alto livello che hanno contribuito, almeno sulla carta, a creare un’aura di legittimità intorno a Floki Inu. La criptovaluta vanta oltre 370 mila possessori e un valore di mercato di 1,2 miliardi di dollari (al 21 dicembre 2021). Ma cosa c’è davvero dentro? Uno dei progetti che promettono di sviluppare sarà “Valhalla”, un luogo virtuale ribattezzato in onore dell’aldilà di tradizione vichinga in cui sarà possibile acquistare e scambiarsi Non Fungible Tokens (NFTs). Un NFT corrisponde alla frazione di un bene – a cui è associata una stringa di codice univoca – per acquistare il quale un utente deve sborsare un determinato valore in criptovaluta. La società è inoltre attiva in attività benefiche attraverso il sostegno alla creazione di scuole elementari in Ghana, Guatemala e Laos, come confermato a IrpiMedia dalla organizzazione non governativa Pencils of Promise.

Il glossario delle criptovalute

Blockchain: immaginate una sequenza potenzialmente infinita di “blocchi” ciascuno dei quali contiene una serie di informazioni. L’acquisto di criptomoneta costituisce un blocco di informazioni, così come la vendita, l’aggiunta di un nuovo utente o di un wallet, la stessa cosa vale per una transazione economica. Chiunque può aggiungere nuove informazioni e a ciascun blocco, di default, è assegnato un codice univoco il quale “memorizza” e quindi verifica anche l’identità del blocco che lo precede. In questo modo è praticamente impossibile manomettere l’intera catena, motivo per il quale la blockchain è considerata sicura. In estrema sintesi, la blockchain è un enorme database controllato dai blocchi che lo compongono, immutabile, decentralizzato e altamente sicuro dal punto di vista informatico.

Criptovaluta: moneta virtuale, ossia che non esiste in forma fisica. Si genera e si scambia criptomoneta esclusivamente per via telematica e in modalità peer-to-peer, ovvero tra due dispositivi senza l’ausilio né l’intermediazione di autorità centralizzate. Le entità che danno vita allo scambio sono i “nodi”, nient’altro che dei computer gestiti da utenti all’interno dei quali sono continuamente all’opera software che svolgono la funzione di portamonete.

Fan Token: è un asset digitale creato sulla blockchain e collegato a una specifica squadra di calcio che permette ai detentori l’accesso di beni e servizi. Nel caso di Socios, principale emittente di questi prodotti, i fan token si appoggiano su Chiliz, una criptovaluta gestita da Socios stessa.

Meme coin: sono quelle criptovalute che nascono a seguito di fenomeni sociali, scherzi o contenuti diventati virali in rete. Il contenuto virale stesso diventa il volto, e spesso il logo, con cui è individuata la moneta. Il caso più celebre è Dogecoin, creata per scherzo nel 2013 e che si ispira all’ormai celebre cane Shiba Inu, razza giapponese dal pelo folto e di colore ocra. Simile è la genesi di Floki. Il nome del celebre personaggio della serie televisiva Vikings è quello con cui è stato battezzato il cane di Elon Musk. Floki Inu ha quindi raccolto l’eredità mediatica di due fenomeni diventati virali.

Non Fungible Token (NFT): sono dei certificati di proprietà di opere digitali ma non nella loro interezza. Un singolo NFT, infatti, corrisponde ad una frazione del bene/oggetto in questione il quale ha un valore determinato in base al valore dell’oggetto stesso. In sostanza, è come possedere una o più azioni di una società quotata.

Wallet: un portafoglio virtuale, simile a quelli più comuni associati, per esempio, alle app per i pagamenti in forma digitale. Sono necessari per immagazzinare e trasferire criptovalute.

Scavando poco più a fondo, però, si incontrano più ombre che luci. Partendo dal team, quasi esclusivamente anonimo, che gestisce il progetto. Passando dai forti dubbi sulle caratteristiche tecniche della valuta. E arrivando, infine, alla società dietro a Floki Inu: una “scatola vuota” con sede in un paesino sperduto della Georgia est-europea.

Secondo Patrick Boyle, ex hedge fund manager e oggi professore di finanza derivata al King’s College di Londra, i meme coin come Floki Inu sono assimilabili a degli schemi di pump and dump: un antico meccanismo di manipolazione finanziaria per far lievitare in maniera artificiosa il valore di un asset per poi scaricarlo. Chi vende al momento giusto (solitamente i promotori del progetto) realizza un profitto, tutti gli altri rimangono con il cerino in mano.

«Di Floki Inu non è chiara la strategia d’investimento né cosa dovrebbe spingere la crescita del denaro investito», spiega a IrpiMedia Silvia Bossio, dirigente operativa di Chainblock: «Quasi per un fenomeno di isteria collettiva, dettata dalla speculazione, le persone si muovono in massa verso il nuovo miracolo cripto, quindi decidono di mettere i propri risparmi in questa impresa, convinti di fare un affare. Quei soldi sono stati in larga parte reinvestiti in campagne pubblicitarie e sponsorizzazioni che servono ad aumentare la platea di quanti sono convinti di avere davanti l’occasione del secolo». Il riferimento è alla cosiddetta “fomo”, fear of missing out, ovvero la paura di mancare un’occasione imperdibile e di restare fuori da una squadra vincente. «Floki Inu nasce per gioco, ma non ci è dato sapere se farà le cose seriamente in seguito, ad oggi le intenzioni del team sembrano chiare, marketing e sponsorizzazioni: vedremo se poi daranno un’utilità al proprio sito web», chiosa l’esperta.

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Pecunia non olet e per i proprietari dei club – ricchi e meno ricchi – non è il momento di sottilizzare troppo sull’origine di ricche sponsorizzazioni. E così la rapida diffusione e le repentine capitalizzazioni (seppur virtuali) delle società inducono i club a chiudere un occhio verso un mercato giudicato particolarmente instabile. Di ricchi sponsor si sente particolarmente bisogno dal luglio 2018 quando, con l’entrata in vigore del Decreto Dignità da parte del governo Conte I, alle aziende operanti nel settore delle scommesse è vietato sponsorizzare club e atleti. Nel campionato 2017/2018 – l’ultimo in cui le società di scommesse hanno solcato i campi di calcio – erano 12 le squadre di Serie A con accordi di sponsorizzazione in corso con il comparto.

A lungo infatti il settore ha tenuto a galla il mondo del pallone, e non solo in Italia. Un report di Nielsen Sports – think tank del mondo dei media – ha stimato in 633 milioni di dollari gli investimenti riversati dalle società di giochi e lotterie nei sei principali campionati europei nel decennio 2008-2017. Da qualche parte, quindi, bisogna pur trovare fonti di ricavo alternative per far fronte ai debiti che stagione dopo stagione crescono, guidati in gran parte dal lievitare dei costi dei cartellini, degli stipendi e dai compensi elargiti ai potenti agenti sportivi. Sorprende quindi fino a un certo punto la sommaria due diligence da parte dei club, cioè la valutazione, della reale natura di uno sponsor e dei milioni che porta con sé. Ne sanno qualcosa il Manchester City e il Barcellona.

Il precedente: Il Manchester City e l’azienda fantasma
A metà novembre i Citizens avevano annunciato una nuova partnership con 3Key Technologies, misteriosa società nel mondo delle criptovalute. L’impossibilità di trovare alcun profilo reale delle persone alla guida della società ha scatenato una “caccia all’uomo” in rete, con migliaia di supporter del City impegnati a dare un volto al management. Tutto invano. I siti della 3Key Technologies sono andati misteriosamente offline per circa 18 ore dall’avvio della due diligence popolare. Gli unici nomi associati al personale della 3Key sono poi risultati finti, mentre la richiesta di provvedere alla pubblicazione di elementari documenti che provassero l’esistenza dell’azienda è andata inevasa. Quattro giorni dopo l’annuncio, il Manchester City ha quindi fatto un clamoroso passo indietro, dichiarando sospesa la partnership.

Il caso ha del paradossale ma offre la misura dei rischi che le società di calcio sono disposte a correre pur di incassare qualche milione di euro in sponsorizzazioni. E se a correrli al punto da firmare un accordo commerciale pressoché in bianco sono i campioni d’Inghilterra in carica nonché la sesta squadra più ricca d’Europa con entrate commerciali nel 2020 per 285 milioni di euro (dati Deloitte) c’è da domandarsi quale sia la natura delle partnership con società cripto in Italia.

«Il mio nuovo Shiba Inu si chiamerà Floki»

Floki Inu arriva sull’affollato mercato delle criptovalute nel giugno scorso. La sua nascita non deriva da un sofisticato piano imprenditoriale, ma da un semplice tweet di Elon Musk. «Il mio nuovo Shiba Inu si chiamerà Floki», scrive il fondatore di Tesla – il riferimento è alla razza di cane di origine giapponese – causando un piccolo terremoto nel mondo cripto.

Musk è una figura di culto nella comunità cripto dopo aver spinto – sempre a colpi di cinguettii – la vertiginosa crescita di Dogecoin, il capostipite dei meme coin. Creato nel 2013 per scherzo da due programmatori americani, Dogecoin è sopravvissuto per diversi anni solo all’interno di una ristrettissima nicchia. Poi, sull’onda di più ampi fenomeni speculativi sui mercati finanziari e del sostegno di vip come Musk, il valore della criptovaluta satirica è schizzato alle stelle: da 0,005 dollari registrato al 1 gennaio 2021 a un massimo di 0,72 dollari l’8 maggio successivo, con una crescita del 12.000%, secondo le stime di Cnbc. Più tardi nell’anno Dogecoin è comunque crollato, di circa il 70%, ma nel frattempo è nata una leggenda. I forum di Reddit e i canali Youtube dedicati al mondo cripto vengono inondati dalle storie di decine di personaggi che sostengono di essere diventati milionari grazie al meme coin. Tra gli adepti del mondo cripto parte una caccia frenetica alla prossima valuta satirica destinata al successo.

Tra le decine di monete spuntate come funghi immediatamente dopo il tweet di Musk c’è anche Floki Inu. Le informazioni disponibili sul progetto sono però scarne. Sviluppatori e promotori sono protetti da profili anonimi, con la sola eccezione del programmatore, Jackie Xu. Il white paper – documento che delinea le finalità della moneta – dice che «la missione di Floki è di diventare parte della famiglia dei dog token» e gli sviluppatori «sperano di creare una comunità positiva».

Le prime burrascose settimane di vita di Floki Inu

Nata intorno alla mitologia norrena – prima che del cane di Musk, Floki è il nome di un personaggio della serie Vikings – la criptovaluta ha dovuto affrontare gravi difficoltà fin dalle prime settimane, nelle quali si sono susseguite accuse di furto, litigi, riorganizzazioni e almeno due rug pull: truffe nelle quali gli sviluppatori drenano a loro vantaggio liquidità dal protocollo. Ma una narrazione epica della comunità, che si definisce come un’orda di vichinghi buoni il cui obiettivo è divertirsi nel mondo cripto, ha permesso di rafforzare la base anche nei momenti più difficili.

Come ogni epopea che si rispetti, c’è bisogno di un cattivo. Ed è così che il primo sviluppatore di Floki Inu diventa “the villain”, contro il quale la comunità ha dovuto lottare: «In stile Robin Hood al contrario, lo sviluppatore stava tassando i possessori del 20% sulle transazioni per incanalare i loro fondi nel suo portafoglio, tenendo questi fondi per il riscatto e facendo gonfiare velocemente l’offerta», ammette il team sul blog che ricostruisce i primi giorni di Floki Inu.

Anche questa vicenda finisce per consolidare l’immaginario di comunità che sostiene il meme coin dalla base: «I vichinghi di Floki sono stati implacabili e si sono radunati insieme, facendo pressione sullo sviluppatore affinché usasse questi fondi per il bene della comunità, ma alimentato dall’avidità, ha invece scelto di disfarsene», continuano nella loro narrazione: «La comunità è stata quindi lasciata con il corpo morente di Floki V1 (versione uno, ndr) con le sue metriche rotte e nessun leader in vista», prosegue la saga: «Ma sapevano che si poteva fare di più, non c’era modo di fermarli, non si sarebbero mai arresi e così inizia la vera storia…».

La strategia è di realizzare una versione 2 di Floki Inu, salvando la comunità che si era raccolta fin dalla prima ora a sostegno del progetto. Due nuovi rug pull – dall’inglese “tirare via il tappeto da sotto i piedi” di chi investe – caratterizzano le prime settimane di vita del meme coin, che per essere salvato riceve un’iniezione prima di 550 mila dollari dai fan e poi di 450 mila dollari dagli stessi amministratori, una volta costretto all’uscita l’ennesimo sviluppatore inaffidabile.

I raggiri non mettono la parola fine al progetto Floki Inu, come molti si sarebbero aspettati. Gli sviluppatori creano un nuovo contratto e modificano alcune specifiche tecniche per assicurare – a detta loro – che il progetto sia più solido e sicuro.

A parlare tramite Twitter è uno dei padri di Floki Inu, l’utente “B (Da Viking)”, che spiega di aver fatto implementare misure indispensabili per tutelare i vichinghi di Floki. Tra queste una liquidità bloccata per 265 anni – che impedisce agli sviluppatori di svuotare la cassa nella quale gli investitori mettono i propri soldi – e la corresponsabilità di tutti gli amministratori del team che devono essere concordi per operare sulla valuta. Contattato da IrpiMedia, “B” ha confermato che ora Floki Inu gode di caratteristiche di sicurezza nel pieno interesse degli investitori. Tuttavia, non è stato possibile sapere quanti wallet sono controllati da chi amministra Floki e a quanto ammonta il loro numero di token. In poche parole, non è possibile sapere se una sola persona o un piccolo gruppo avrebbero il potere di controllare le quotazioni della valuta in modo massivo.

“B” sostiene che gli sviluppatori di Floki Inu non hanno nessuna intenzione di vendere i propri token – incassando i guadagni – e che stanno facendo numerosi sacrifici per portare avanti il progetto.

Tra blogger nigeriani e scatole vuote in Georgia

«Chiunque potrebbe creare un meme token in qualsiasi momento e proporne l’acquisto», osserva Stefano Capaccioli, dottore commercialista e fondatore di Coinlex, società di consulenza e network di professionisti sulle criptovalute e soluzioni blockchain: «Ma l’intero mercato dei meme coin si compone di strumenti complicati, wallet e volatilità: tasselli di un puzzle estremamente complesso che non sempre è originato da persone competenti o in buona fede», osserva.

Per avere un’idea più precisa sull’affidabilità di Floki Inu, IrpiMedia ha provato a scavare un po’ più a fondo su chi ci sia realmente dietro questo progetto. L’unico nome reale che Floki Inu ha pubblicato è quello del lead developer Jackie Xu, ingegnere informatico con base in Olanda. A capo degli aspetti tecnologici, Xu sembra invece poco impegnato nella promozione di Floki al pubblico.

A trainare queste attività è una serie di profili Twitter in cui le reali identità sono nascoste da alias. Un membro del team di Floki spiega che questa è una scelta dettata dal fatto che nel mondo delle criptovalute «il focus non dovrebbe essere sulle singole persone, ma sulla comunità intera e sui processi tecnologici».

Un utente di nome “Sabre” si definisce “direttore marketing” di Floki Inu. Un presunto imprenditore di base a Londra, sarebbe stato lui a occuparsi delle sponsorizzazioni con le società di calcio. “Sabre” sostiene di voler mantenere l’anonimato perché non vuole la notorietà che ne deriverebbe.

Altro profilo particolarmente attivo è quello dell’utente “B Da Viking”, che si autodefinisce “stratega” di Floki Inu. IrpiMedia ha scoperto che dietro questo alias c’è un 27enne blogger e scrittore freelance nigeriano. Prima di dedicarsi a tempo pieno al mondo delle criptovalute, fino a febbraio scorso “B” (come è noto online) gestiva un sito web in cui dispensava consigli su come fare soldi tramite blogging e ghostwriting. «Ci sono sicuramente innumerevoli modi per fare soldi online ma scrivere per altri è uno dei metodi più remunerativi per fare un bel gruzzolo», si leggeva sulla pagina, ora rimossa. “B” sosteneva di guadagnare uno stipendio a sei cifre attraverso la propria attività. Sul suo sito era inoltre possibile acquistare un e-book, al prezzo di 29,99 dollari, con una guida per diventare uno scrittore freelance di successo.

Affianco alla carriera da blogger, il capo delle operazioni di Floki si era cimentato nell’allevamento di pesce gatto alle porte del suo paese natìo, con il quale progettava di «risolvere il problema della fame in Nigeria e in vari Paesi africani, e infine nel mondo». Ha aggiunto di non voler rivelare la propria identità perché teme per la propria incolumità fisica. «In Nigeria il pericolo di rapimento è molto elevato», spiega.

Il team di Floki ci tiene a precisare di essere un progetto votato alla decentralizzazione le cui operazioni si compiono quasi esclusivamente sulla blockchain. Quello è il futuro, sostengono loro. Ma, nel mondo di oggi, per finalizzare gli accordi pubblicitari si è resa necessaria la presenza di un’entità legale.

Un video promozionale della partnership tra Floki Inu e SSC Napoli | Fonte: Twitter

Così, i promotori di Floki hanno scelto di mettere radici in Georgia. Il Paese est-europeo è da anni diventato una destinazione preferita dei cripto-imprenditori attratti dalla bassa tassazione e da un regime regolatorio molto permissivo. Floki Ltd viene fondata lo scorso primo ottobre a Marneuli, cittadina da poco più di 20 mila abitanti situata al confine con Armenia e Azerbaigian. Nell’azienda non compaiono i membri della dirigenza di Floki. Ma l’unica amministratrice e azionista è una donna georgiana di 52 anni con nessuna apparente esperienza nel mondo finanziario.

“B” ha inizialmente spiegato che la proprietaria di Floki Ltd è una persona «collegata al management di Floki». Alla successiva domanda di IrpiMedia se la donna fosse una testa di legno che cura gli interessi dei reali beneficiari dell’azienda, “B” ha risposto: «Esatto, questo è il miglior modo di definirla».

La spinta mediatica di Floki Inu

Nella sua terza reincarnazione Floki si lancia in un’imponente campagna pubblicitaria. A finanziarla – dicono – è una tassa sugli acquisti della valuta da parte degli investitori. Una maggiore esposizione mediatica porta a più transazioni che a loro volta fanno lievitare il budget per le attività di marketing in un ciclo continuo.

Verso la fine di ottobre sui mezzi pubblici di diverse metropoli europee compaiono cartelloni con il messaggio “Ti sei perso Doge? Prendi Floki”. Un chiaro riferimento al meme coin originale, Dogecoin, e, ancora, alla fear of missing out, i presunti guadagni dovuti alla crescita del valore della moneta. Diventata presto virale, la campagna suscita controversie. A Londra, in seguito alla denuncia di un consigliere comunale, l’Advertising Standards Authority (l’equivalente britannica dell’Agcom) fa scattare un’indagine nei confronti dei messaggi pubblicitari. Floki Inu dichiara alla BBC di aver rispettato tutti i requisiti legali e sposta la propria attenzione su un nuovo fronte della campagna marketing: gli accordi con top club del calcio europeo.

Il 23 novembre il Napoli annuncia che Floki Inu diventa il nuovo sponsor sul retro della maglia azzurra. Il primo comunicato pubblicato dal club partenopeo cita un portavoce di Floki, secondo cui l’obiettivo è «di diventare la criptovaluta più conosciuta e più utilizzata al mondo». Il Napoli, invece, spiega di «aver scoperto che il nostro club e Floki hanno in comune gli stessi valori e le stesse aspirazioni di crescita». Quali siano i valori e le aspirazioni non è chiaro: il club ha declinato di rispondere a questa domanda, come alle altre poste da IrpiMedia. Nel frattempo, il comunicato è stato successivamente sostituito sul sito del Napoli da uno più stringato in cui i virgolettati sono scomparsi.

Lorenzo Insigne e Mario Rui durante la partita Napoli-Lazio del 28 novembre 2021 | Foto: BSR Agency/Getty

All’accordo con il club partenopeo si sono susseguite in breve tempo le sponsorizzazioni con il Bayer Leverkusen in Germania, il Twente in Olanda, lo Spartak Mosca in Russia e il Fenerbahce in Turchia. I promotori di Floki Inu celebrano ogni annuncio, esaltando l’esposizione mediatica che ne deriva. «La partnership strategica è una grande vittoria per il mondo crypto», dice Floki Inu in occasione dell’accordo con il Bayer Leverkusen, «perché introduce le criptovalute a milioni di persone nella Bundesliga e nell’Europa League, al contempo legittimando il settore agli occhi di centinaia di milioni di persone».

Per Boyle, professore di finanza derivata del King’s College, attraverso queste sponsorizzazioni i club espongono i propri tifosi a grossi rischi. «Credo che sia sbagliato spingere il proprio pubblico verso questi prodotti, soprattutto senza fornirgli informazioni adeguate», dice Boyle. «Promuovere un prodotto di investimento, in particolare uno speculativo e non convenzionale come una “nuova forma di denaro”, potrebbe mandare le persone in bancarotta».

IrpiMedia ha chiesto a Napoli, Bayer Leverkusen e Twente dettagli rispetto alle verifiche effettuate su Floki Inu prima di firmare i rispettivi accordi. Nicola Lombardo, addetto stampa del Napoli, ha dichiarato di non avere altro da aggiungere rispetto al comunicato stampa pubblicato sul sito. «Il comunicato è pienamente esaustivo. I dubbi sono suoi (degli autori, ndr)», ha aggiunto Lombardo. «E ricordo che in questa gestione societaria, il Napoli ha sempre fatto tutto quello che doveva fare nella massima correttezza». A IrpiMedia non sono pervenute risposte alle domande inviate al Bayer Leverkusen e al Twente.

CREDITI

Autori

Raffaele Angius
Lorenzo Bodrero
Matteo Civillini

Infografiche

Lorenzo Bodrero

Editing

Luca Rinaldi

Foto di copertina

Lorenzo Insigne e Mario Rui durante la partita Napoli-Lazio del 28 novembre 2021.
BSR Agency/Getty