Una società accusata di deforestazione in Camerun ha beneficiato di ingenti sussidi pubblici

#DeforestazioneSpa

Una società accusata di deforestazione in Camerun ha beneficiato di ingenti sussidi pubblici

Edoardo Anziano

Il 16 gennaio 2023, il giornalista camerunense Martinez Zogo annuncia in diretta radiofonica di avere un intero dossier che proverebbe la corruzione del magnate delle televisioni Jean-Pierre Amougou Belinga. Entra nei dettagli, denunciando un flusso di denaro dalle casse dello Stato alle tasche di Belinga per oltre 70 milioni di euro negli ultimi dieci anni. «Ho le prove!», grida in trasmissione. «Le ho già inviate al presidente!». Zogo era noto per essere un fedele sostenitore dell’attuale presidente della Repubblica del Camerun, l’autocrate Paul Biya, che riteneva al di sopra degli scandali per corruzione da lui denunciati. 

Il 17 gennaio Zogo scompare. Cinque giorni dopo, il suo corpo, gravemente mutilato e con segni di tortura, viene ritrovato sul ciglio di una strada di un sobborgo di Yaoundé, capitale del Camerun.

Paul Biya, oggi novantenne, governa il paese da più di quarant’anni. Nonostante l’età, l’autocrate mantiene uno stretto controllo su ogni aspetto della vita pubblica. Il presidente non ha manifestato alcuna volontà di lasciare la presidenza nel 2025, quando scadrà il suo mandato e avrà 92 anni, ma la lotta per il post-Biya è già iniziata. Dietro la facciata del potere accentrato, si agitano infatti diverse fazioni politiche, in competizione per la successione. Uno dei possibili candidati è proprio Amougou Belinga: proprietario del canale Vision TV e del giornale l’Anecdote, è un uomo noto tanto per le sue potenti conoscenze politiche, quanto per le sue ambizioni di diventare il prossimo presidente dello stato dell’Africa centrale.

IrpiMedia è gratuito

Ogni donazione è indispensabile per lo sviluppo di IrpiMedia

L'inchiesta in breve
  • Camerun, 16 gennaio 2023. Il giornalista Martinez Zogo annuncia in diretta radiofonica di avere un intero dossier che proverebbe la corruzione del magnate delle televisioni Jean-Pierre Amougou Belinga: un flusso di denaro dalle casse dello Stato alle tasche di Belinga per oltre 70 milioni di euro.
  • Il giorno dopo Zogo scompare. Il suo corpo, mutilato e torturato, viene ritrovato sul ciglio di una strada di un sobborgo della capitale Yaoundé. La polizia non ci mette molto ad arrestare il mandante: è il tycoon Belinga, oggetto delle accuse del giornalista. 
  • Un’inchiesta sul campo ha scoperto che la storia dei pagamenti milionari al magnate era, seppur vera, una macchina del fango, orchestrata contro Belinga dai suoi avversari politici, per toglierlo di mezzo dalla corsa per la presidenza della Repubblica camerunense.   
  • La morte di Zogo ha portato però alla luce altro: un enorme flusso di soldi pubblici a favore di certe élites in Camerun. I beneficiari – che non hanno a che fare con l’omicidio del reporter – non sono solo camerunensi, ma anche nigeriani, ivoriani, statunitensi, francesi e italiani. 
  • I reporter hanno ottenuto un elenco che include ben 67 transazioni sospette provenienti dalle casse pubbliche, in corso di verifica da parte delle autorità. L’elenco copre un periodo che va dal 2017 al 2021, per un totale di oltre 600 milioni di euro.
  • Il maggior beneficiario sulla lista è un italiano, Eugenio Matarazzi, direttore generale dell’azienda di legnami Société Industrielle de Mbang (Sim). L’azienda avrebbe ricevuto oltre 250 milioni di euro per «lavorazione legname». L’azienda ha smentito di aver mai ricevuto alcun pagamento.
  • Da almeno un decennio, lo stato camerunense sembra supportare la Sim in vari modi, in particolare attraverso la concessione di licenze per lo sfruttamento di foreste pubbliche a prezzi vantaggiosi. Nonostante le ventennali accuse di deforestazione, mosse all’azienda da osservatori indipendenti e comunità locali

Quando la polizia, dopo pochi giorni di indagine, annuncia l’arresto del mandante dell’omicidio Zogo, in manette finisce proprio il tycoon Belinga. Persino il capo degli esecutori materiali, arrestato, accusa l’imprenditore di essere la mente dietro l’assassinio. 

Un’inchiesta sul campo – coordinata dal magazine ZAM e dal Network of African Investigative Reporters and Editors (NAIRE) con la collaborazione di altri partner internazionali, tra cui IrpiMedia per l’Italia – ha scoperto che la storia dei pagamenti milionari al tycoon era però una trappola. Una macchina del fango, seppur vera, orchestrata contro Belinga, per toglierlo di mezzo dalla corsa per la presidenza. Di questa lotta di potere interna alle fazioni politiche del paese centrafricano, il giornalista Martinez Zogo è stato – insieme – strumento e vittima.

La morte di Zogo ha portato però alla luce altro. Ha consentito infatti di far emergere un enorme flusso di soldi pubblici a favore di certe élites in Camerun, che non si limita a faccendieri e imprenditori camerunensi. I beneficiari sono infatti nigeriani, ivoriani, ma anche statunitensi, francesi e italiani. 

Un Arizona project per Martinez Zogo

Quando, il 12 aprile 2023, un team di membri Naire – David Dembele dal Mali, Selay Kouassi dalla Costa d’Avorio e Bram Posthumus, olandese che vive ad Abidjan – atterra a Yaoundé, in Camerun, l’obiettivo è quello di condurre un Arizona project. Qual è stata la storia che ha ucciso Martinez Zogo? È stata la sua denuncia della corruzione di Amougou Belinga? O c’è qualcos’altro che l’omicidio del giornalista ha messo a tacere?

Il modello dell’Arizona Project risale al 1976, quando il reporter del The Arizona Republic Don Bolles viene fatto saltare in aria da sei candelotti di tritolo piazzati sotto il sedile del guidatore della sua Nissan Datsun 710. In risposta all’omicidio, la Investigative Editors and Reporters Association mette insieme un team di 30 giornalisti che arriva a Phoenix per portare a termine il lavoro di Bolles, ucciso per le sue storie sulle frodi di terreni e la mafia italo-americana in Arizona. Si tratta del primo progetto di giornalismo d’inchiesta collaborativo su larga scala.

Un dossier confezionato ad arte

Con un mandante accusato dagli stessi esecutori e un movente così apparentemente chiaro, l’omicidio di Martinez Zogo, rispetto ad altri casi di giornalisti assassinati, sembra essere piuttosto lineare. Ai giornalisti che per questa inchiesta si sono recati in Camerun agli inizi di aprile 2023, tuttavia, viene raccontata una storia diversa da quella ricostruita dalla polizia. I colleghi di NAIRE sono arrivati alla conclusione che Amougou Belinga sia stato incastrato da alcune fazioni dell’élite politica, che volevano eliminarlo dalla corsa alla successione presidenziale. Martinez Zogo, infatti, aveva ricevuto un corposo dossier sul magnate, visionato dai reporter per questa inchiesta: oltre 130 pagine, con fotocopie di transazioni bancarie, elenchi di transazioni dal bilancio statale alle società di Belinga, istruzioni di pagamento firmate da alti funzionari pubblici. Tutte prove che Belinga era stato lautamente remunerato, almeno a partire dal 2013, con sovvenzioni statali.

La copertina del “dossier Belinga” in possesso del giornalista Martinez Zogo. 

A prescindere dai secondi fini con cui possa essere stato diffuso, il dossier è autentico. I giornalisti hanno scoperto che gran parte del “dossier Belinga” proviene dal Probmis, il sistema informativo del Ministero delle Finanze del Camerun. Si tratta chiaramente di un leak, una fuga di informazioni, proveniente da qualcuno con accesso ai sistemi informatici governativi. 

La pista più accreditata è che sia stato fatto filtrare per colpire Belinga. L’imprenditore, infatti, «stava diventando troppo grande per i suoi stivali», spiega un giornalista camerunense, la cui identità deve rimanere anonima per garantirne la sicurezza. «Questo non andava bene all’élite che circonda il Presidente […]. Si sentivano minacciati da quest’uomo». 

«Queste informazioni erano già diffuse in tutto il Camerun», spiega un altro reporter. «Molti di noi ne erano a conoscenza». E, tuttavia, molti avevano lasciato perdere i documenti su Belinga. Non perché fossero contraffatti, ma perché – anche senza tutte le transazioni in dettaglio – la vicenda era già nota. Già un anno prima che il dossier iniziasse a circolare, Belinga era sotto inchiesta da parte delle autorità fiscali, per un importo persino superiore a quello scoperto da Zogo nel dossier. 

Quando i giornalisti di NAIRE chiedono al collega, che si occupa di inchieste sulla corruzione, quale sia il motivo della reticenza che aleggia intorno al tema, questi risponde: «Dovremmo guardare agli altri», dice, «quelli di cui nessuno parla».

Pagamenti sospetti

Indagando sul dossier, i reporter sul campo sono infatti entrati in contatto con fonti molto vicine all’agenzia delle imposte del Camerun, la cui attendibilità è stata verificata da altre personalità indipendenti. Tramite queste fonti hanno ottenuto un altro documento, che include ben 67 pagamenti sospetti, in corso di verifica da parte delle autorità. L’elenco, su cui è apposto il timbro della Direzione Generale delle Imposte, copre un periodo che va dal 2017 al 2021. La cifra totale dei pagamenti ammonta a oltre 600 milioni di euro. Questi pagamenti e i loro beneficiari non hanno alcuna connessione con l’omicidio di Zogo.

Il ritrovamento di questo secondo documento, però, complica ulteriormente il quadro della situazione. Se infatti il primo leak sembrava guidato dal desiderio di colpire una specifica fazione “scomoda”, il secondo mostra che molti altri soggetti avrebbero beneficiato, in maniera simile a Belinga, di pagamenti da parte dello Stato. La lista rivela cioè l’esistenza di un’altra indagine, o almeno di un tentativo di indagine, che starebbe provando a fare chiarezza sui rapporti fra Stato ed élites camerunensi.

Al momento i documenti non indicano nessuna accusa o reato specifico, e una verifica fiscale potrebbe ancora dimostrare giustificazioni perfettamente legittime per ciascun emolumento sulla lista. Eppure, quello che desta preoccupazione è il tentativo, da parte di alcuni pezzi dello Stato, di bloccare sul nascere qualsiasi indagine.

Il Camerun è un Paese dell’Africa centrale che nel 2021 aveva un PIL di 45 miliardi di dollari. Dei suoi 27 milioni di abitanti, il 55% vive in povertà e il 38% in grave povertà. Nel 2021 ha ricevuto un totale di 651 milioni di dollari in aiuti internazionali. Ovvero, quasi lo stesso importo – segnalato come sospetto dalle autorità fiscali – uscito dalle casse dello Stato fra il 2017 e il 2021 a beneficio di élites locali e straniere.

Ad accompagnare la lista infatti c’è una lettera di Mopa Modeste Fatoing, all’epoca a capo della Direzione generale delle imposte camerunense. L’ufficio di Fatoing è stato incaricato di indagare il caso dall’agenzia anticorruzione statale ANIF (Agence Nationale d’investigation Financière), con il sospetto che le 67 transazioni potessero nascondere possibili frodi e riciclaggio. 

Il tono della lettera, indirizzato al responsabile della divisione investigazioni, è chiaro: «vi avevo già incaricato di dare un seguito [all’elenco, ndr]», aveva scritto Fatoing. «Fino ad oggi, queste istruzioni non sono state seguite». Da allora infatti le autorità fiscali non hanno più avuto notizie dell’elenco dei 67 soggetti. 

L’uccisione di Zogo sembra aver ulteriormente ridotto le possibilità di un’investigazione sulle transazioni. Appena quattro giorni dopo il ritrovamento del corpo del giornalista, il direttore generale Fatoing è stato rimosso dal presidente Biya e assegnato a un ufficio del Fondo Monetario Internazionale a Washington, abbastanza lontano da non poter “far danni”. Contattato da ZAM, il Direttorato Generale delle Imposte non ha risposto in merito allo stato di avanzamento degli accertamenti. 

La lettera di Mopa Modeste Fatoing, ex direttore generale dell’autorità fiscale camerunense, che accompagna la lista delle 67 transazioni sospette

Oltre ai sospetti dell’agenzia anticorruzione e dell’ufficio delle imposte, a rendere la lista meritevole di ulteriori indagini ci sono diversi elementi inusuali: la maggior parte dei pagamenti è a favore di aziende private, per servizi poco chiari. In 29 delle 67 transazioni non c’è l’indicazione della causale, mentre per altre sette non è indicato neppure l’importo. I pagamenti vanno ad alberghi, money transfer, aziende minerarie e di trasporto, strutture turistiche e società di consulenza finanziaria.

Ci sono aziende basate in Nigeria e Togo, alcune in Francia e negli Stati Uniti. In un caso compare il nome di milionario, Baba Danpoulo, considerato uno dei dieci uomini più ricchi d’Africa e amico personale del presidente Paul Biya. 

Il maggior beneficiario sulla lista è però un italiano, Eugenio Matarazzi, direttore generale dell’azienda di legnami Société Industrielle de Mbang (SIM). L’azienda, che ha sede a Yaoundé, avrebbe ricevuto, in un’unica transazione, oltre 250 milioni di euro per «lavorazione legname». Secondo la lista, lo stesso Matarazzi avrebbe ricevuto personalmente più di 175 mila euro, con la causale «dipendente Société Industrielle de Mbang». 

Né Matarazzi né la Sim sono in alcun modo legati alla vicenda di Martinez Zogo e, lo ribadiamo, al momento neppure le transazioni puntano ad alcun reato preciso. Eppure la Société Industrielle de Mbang è da 20 anni al centro di diverse controversie tanto in Camerun che a livello internazionale: accuse di deforestazione, taglio illegale di legname e violazione delle leggi forestali, che però non sembrano aver mai portato a indagini approfondite da parte delle autorità locali.

Domande senza risposta

Due indagini, una della polizia e una della gendarmeria, sembrano non lasciare dubbi: Amougou Belinga è il mandante dell’omicidio di Zogo. Una confessione del tenente colonnello della polizia accusato di aver guidato il gruppo di assassini, Justin Danwe, lo nomina direttamente, così come le dichiarazioni degli altri esecutori materiali. Ci sono anche registrazioni di telefonate tra Danwe e Belinga e rapporti secondo cui Belinga avrebbe pagato sia Danwe che gli assassini. «È un delinquente. Potrebbe aver dato in escandescenze. E sa come convincere alcuni settori dei servizi segreti e della polizia ad eseguire i suoi ordini, con spacconate e ricatti e facendo leva su amici potenti», dice un giornalista che ha indagato a lungo sull’uomo d’affari.

Quello che rimane inspiegato, tuttavia, è il periodo di cinque giorni tra il rapimento e il ritrovamento del corpo di Zogo. Per quanto tempo Martinez è rimasto in vita dopo il rapimento? Cosa è successo esattamente? Domande che non sembrano interessare gli investigatori. «Alla luce del crescente volume di prove [contro il presunto mandante, ndr], una ricostruzione dell’omicidio – prevista nei giorni scorsi – non sembra più essere una priorità per gli inquirenti», ha scritto Reporters Sans Frontiere, citando una fonte della polizia.

Le accuse di deforestazione

Fondata nel 1995, la Société Industrielle de Mbang è una delle maggiori aziende di legname in Camerun, con oltre un migliaio di dipendenti. Nel 2014, l’allora ambasciatrice italiana in Camerun Samuela Isopi aveva visitato la sede della Sim, accompagnata da Matarazzi, e aveva dichiarato che «la società rappresenta un modello di cooperazione basato sulla duplice valorizzazione, delle materie prime locali e delle capacità umani del Camerun». L’anno successivo l’ambasciatrice Isopi aveva invitato Matarazzi e altri imprenditori italiani in Camerun a una cena per illustrare i successi economici dell’Italia in Camerun

Dopo un decennio la situazione sembra essere cambiata. Nel 2022 il tentativo di raccogliere l’equivalente di un milione e mezzo di euro fra gli azionisti, per varare un aumento di capitale, secondo i media locali è fallito. L’azienda smentisce a IrpiMedia che si sia trattato di un fallimento, spiegando che si sarebbe trattato semplicemente di un cambio di strategia. 

Fonti locali autorevoli, sentite in Camerun, sostengono però che ci siano i problemi finanziari della Sim dietro i 250 milioni di euro di sussidi pubblici. Infatti, hanno spiegato le fonti, le sovvenzioni sarebbero state garantite dopo che la Sim avrebbe minacciato di dichiarare bancarotta, licenziando centinaia di dipendenti, a meno che lo stato non fosse intervenuto. L’azienda non ha risposto alla domanda di IrpiMedia su questo punto.

Tuttavia, almeno da dieci anni, lo stato camerunense sembra supportare la Société Industrielle de Mbang in vari modi. Nel 2013, Matarazzi e l’allora Ministro delle Foreste firmano una «convenzione provvisoria di gestione, della durata di 3 anni». Alla Sim è garantita una concessione di foresta pubblica di quasi 70 mila ettari nel dipartimento di Haut-Nyong, nell’est del paese. Sulla base dell’accordo – eccetto una tassa sul taglio e l’export, stabilita anno per anno dalla legge finanziaria – la Sim paga un affitto pari a 4.100 franchi all’anno per ciascun ettaro. Sono poco più di sei euro per ogni 10.000 chilometri quadrati di foresta. All’articolo 10 le parti concordano che «il Ministro delle Foreste si riserva il diritto di annullare il presente accordo prima della scadenza in caso di irregolarità debitamente rilevate da una commissione di esperti tecnici nominata a tal fine»

L’azienda spiega a IrpiMedia che quella concessione temporanea sarebbe stata trasformata in una “permanente”, della durata di 30 anni, a seguito dell’approvazione di un piano di gestione. Tale piano però risulta approvato solo nel 2020, mentre non è chiaro a che titolo la foresta sia stata sfruttata fra il 2016 e il 2020.

La concessione, alla fine, è stata comunque garantita, ma solo quest’anno. Questo nonostante le accuse di taglio illegale che, in altre aree del paese, avevano ripetutamente e da tempo investito la Société Industrielle de Mbang. 

Fra il 2003 e il 2004, osservatori indipendenti della ONG Global Witness autorizzati dal Ministero delle Foreste avevano trovato irregolarità in foreste dove la Sim lavorava in subappalto per conto di un’altra società. In un caso, questa società «attraverso la sua subappaltatrice Sim» era stata «trovata colpevole di estrazione di legname oltre i limiti [consentiti, ndr], [..], di mancata marcatura dei ceppi e degli alberi e di abbandono del legname prodotto». In un altro caso, Global Witness aveva raccomandato alle autorità di emettere una «dichiarazione ufficiale di infrazione nei confronti della società […] e della sua subappaltatrice Sim»

L’anno successivo, Greenpeace aveva pubblicato un briefing, esprimendo preoccupazioni per la distruzione della foresta pluviale camerunense. Secondo le accuse dell’associazione ambientalista, «la Société Industrielle de Mbang (Sim), azienda camerunense del legname, è coinvolta nel disboscamento illegale su larga scala in Camerun, sia direttamente che indirettamente. Questa società ha una storia di attività di disboscamento illegale e negli ultimi dodici mesi ha effettuato disboscamenti illegali al di fuori dei confini del suo permesso di taglio». Allo stesso tempo, attivisti di Greenpeace in Italia avevano iniziato a protestare contro l’importazione nel nostro paese di quello che accusavano essere legname illegale commerciato dalla Sim. L’Italia è, da almeno un ventennio, uno dei maggiori importatori di legname camerunense al mondo

Diversi media locali hanno ribadito nel tempo le presunte violazioni da parte della Sim delle leggi sul taglio del legname mosse dalle organizzazioni non governative. «La Sim […], nella regione di Mbam-et-Kim, detiene un monopolio virtuale sulle operazioni di disboscamento, conquistato grazie al sostegno attivo di un’élite locale molto influente», ha dichiarato a Cameroun24 un alto funzionario del Ministero delle Foreste. ​​«Si tratta di un’accusa pretestuosa che rasenta la diffamazione», ha ribattuto l’azienda contattata da IrpiMedia, aggiungendo che «la Sim è infatti un’azienda socialmente responsabile che opera nella massima trasparenza, nel rispetto di leggi e regolamenti».

Secondo le ricerche dell’Association des journalistes africains pour l’environnement, nel 2015, altri funzionari hanno definito le attività della Sim come «saccheggio illegale delle foreste». Anche le comunità locali hanno espresso le loro preoccupazioni, criticando la mancanza di compensazioni per i progetti di taglio dell’azienda. Una missione di osservazione indipendente condotta dall’ONG OIE Cameroun nel 2019 ha individuato un disboscamento non autorizzato nelle foreste pubbliche vicino ai villaggi di Kong e Mbasongo. Gli osservatori hanno concluso che «la Société Industrielle de Mbang (Sim) sarebbe responsabile dell’attività in corso nell’area», nonostante non abbia alcuna autorizzazione per operare nella zona.

Rispetto alle accuse mosse, la Sim ha dichiarato a IrpiMedia che: «È vero che gli ispettori hanno talvolta riscontrato infrazioni che, anche se di lieve entità, hanno portato a risarcimenti sotto forma di multe». In risposta a un’ulteriore richiesta di commento, l’azienda si è detta vittima di «campagne diffamatorie» comparse sulla stampa locale.

La fine dell’impero

Considerando le accuse che per quasi vent’anni si sono susseguite sulla gestione forestale della Sim, sarebbe fondamentale capire a quale titolo sarebbero stati erogati oltre 250 milioni di contributi pubblici, a cui si sommerebbe un emolumento personale al direttore della Sim Eugenio Matarazzi. Contattata via mail, l’azienda ha parzialmente risposto ad alcune delle domande di IrpiMedia, smentendo di aver mai ricevuto denaro pubblico. «Noi, Sim, non vendiamo nulla allo Stato del Camerun e non abbiamo mai richiesto né ricevuto alcuna sovvenzione dallo Stato. A titolo personale, il signor Eugenio Matarazzi non ha mai richiesto né ricevuto denaro dallo Stato camerunese». La Sim dichiara di essere creditrice nei confronti dell’amministrazione pubblica rispetto all’imposta sul valore aggiunto, per cui dice di aver ricevuto, fra 2020 e 2021, un rimborso di oltre 6.5 miliardi di franchi. Tuttavia, questo rappresenta solo una frazione dei 167 miliardi di franchi che, secondo la lista di transazioni in possesso di IrpiMedia, la Sim avrebbe ricevuto con causale «lavorazione legname». Secondo l’azienda, le autorità fiscali hanno compiuto una revisione dei conti della Sim dal 2017 al 2020, non riscontrando alcun illecito. 

Nel clima politico da “fine dell’impero” del quarantennale regime del presidente Paul Biya, le indagini sembrano però essere già state insabbiate. Nel silenzio caduto sui 67 beneficiari dell’equivalente di oltre mezzo miliardo di euro in sussidi statali, sono in pochi a parlare apertamente. 

Ai giornalisti recatisi sul campo per indagare sulla morte di Martinez Zogo, solo la leader dell’opposizione Kah Walla ha parlato on the record, dal suo ufficio di Douala. Nonostante sia stata arrestata già un paio di volte, dice: «Si può pensare che il regime di Biya sia pronto a crollare, ma dietro c’è tutta una sofisticata ingegneria politica. È una dittatura scientifica», afferma. «E quindi, quando è così, tutti hanno paura, perché nessuno conosce i limiti da non superare».

Walla è convinta che nell’omicidio del giornalista radiofonico, «uno dei clan al potere ha usato Martinez Zogo contro un altro, e voleva usare [il suo omicidio, ndr] per distruggere un’altra fazione. Questo è ciò che ha portato a tutti gli arresti a cui abbiamo assistito, arresti di alte personalità all’interno dei circoli del potere».

La conseguenza di tutto ciò, conclude la leader dell’opposizione, è che «tutto si è fermato all’improvviso. Come se ci fosse stato una sorta di accordo tra i rami in guerra; come se ci fosse stata una riunione notturna durante la quale avessero deciso di mettere la palla a terra. Come se si fossero detti: “Se cado io, cadete anche voi”. E all’improvviso, durante la notte, non ci sono stati più arresti». Pochi giorni dopo l’omicidio di Zogo, anche il direttore generale delle imposte, che aveva sollecitato a investigare sulle 67 transazioni sospette, è stato trasferito ad altro incarico. E della lista, così come dei suoi beneficiari, non si è più saputo niente.

CREDITI

Autori

Edoardo Anziano

Editing

Giulio Rubino

In partnership con

ZAM
The Guardian
The Continent
Premium Times Nigeria
ICIR Nigeria
Diario Rombe
DeCive
Platform for Investigative Journalism Malawi
Makanday Zambia
GIJN Africa
New Crusading Guide
NRC
Africa Uncensored

Foto di copertina

Sindiso Nyoni, 2023

Legname insanguinato: la rotta del teak dal Myanmar all’Italia

#DeforestazioneSpa

Legname insanguinato: la rotta del teak dal Myanmar all’Italia

Edoardo Anziano
Fabio Papetti
Giulio Rubino

La nautica di lusso viene spesso raccontata come un “orgoglio italiano”. Nel concetto si incontrano il design, le nostre coste baciate dal sole, il turismo e quell’italianità che con tanta cura abbiamo imparato a vendere all’estero. Con un incremento del 31% rispetto al 2020 la nautica in generale è arrivata nel 2021 a fatturare oltre sei miliardi di euro, contribuendo per il 2,89‰ al Pil italiano.

“Lusso”, in questo caso, è davvero la parola chiave, ché a guardare ai dettagli del resoconto economico del settore, presentati a settembre scorso al 62° Salone nautico internazionale di Genova, l’Italia esporta yacht di lusso soprattutto verso paradisi fiscali: Isole Cayman, Isole Marshall e Malta compaiono infatti nei primi cinque Paesi di destinazione. E per quanto siamo secondi all’Olanda nelle esportazioni, in termini di saldo commerciale torniamo primi, con 3,1 miliardi di dollari.

L'inchiesta

#DeferestazioneSpa è un progetto coordinato da International Consortium of Investigative Journalists (ICIJ) a cui partecipano 40 testate. IrpiMedia e l’Espresso sono i partner italiani dell’inchiesta. Questa puntata della serie indaga sulle società italiane che continuano a importare legname burmese, nonostante non rispetti le regole europee sulla salvaguardia delle foreste e i due attori che hanno il monopolio dell’export in Myanmar siano sotto sanzione.

Un natante di lusso che si rispetti non può fare a meno di un bel ponte di teak. Lo riconosce Alessandro Calcaterra, presidente di Federcomlegno (associazione italiana degli importatori di legname che appartiene a Confindustria), che dice: «Il teak migliore, con l’effetto rigato, si ricava solo dagli alberi secolari della Birmania. Quindi il mercato della nautica ha continuato ad acquistarlo». E questo accade nonostante le alternative esistano e le importazioni di teak dal Myanmar, arrivino a un costo molto alto, specialmente negli ultimi anni. Il monopolio della gestione delle foreste nel Paese è infatti in mano ad entità di Stato, oggi gestite dal governo militare del generale Min Aung Hlaing, salito al potere con un colpo di Stato e colpevole di innumerevoli violenze e repressioni.

La giunta al potere in Myanmar

Il primo febbraio scorso è stato il secondo anniversario del colpo di stato che ha spodestato il partito NLD (National League for Democracy) con a capo la leader Aung San Suu Kyi, di recente condannata dalla giunta militare a 33 anni di prigione per corruzione, tra le proteste di gruppi di attivisti per i diritti umani.

Subito dopo il putsch nel Paese si sono diffusi movimenti di protesta e di resistenza al regime appena instaurato, con conflitti armati che continuano ancora oggi, specialmente laddove la presenza delle minoranze etniche è maggiore. La giunta militare ha represso nel sangue le prime manifestazioni e diverse Ong attive nel Paese hanno documentato torture, esecuzioni e arresti arbitrari. Secondo la Assistance Association for Political Prisoners (AAPP) sono quasi 20 mila i prigionieri politici in Myanmar e oltre tremila i manifestanti uccisi dalla violenza dell’esercito.

A livello internazionale, la reazione al colpo di Stato non è stata omogenea: Europa e Stati Uniti hanno condannato le violenze e persecuzioni perpetrate sotto Min Aung Hlaing, mentre nazioni come Cina e Russia si sono mantenute più neutrali, per ragioni principalmente commerciali. Sul versante occidentale, nel 2021 Stati Uniti e Unione europea hanno attuato una serie di sanzioni volte a indebolire la giunta e le entità, statali e non, che riforniscono economicamente l’esercito burmese.

Già nel 2007 il Paese asiatico era stato attraversato da proteste non violente contro la giunta militare. Dal colore delle vesti dei monaci buddisti – che si opponevano alle violazioni dei diritti umani con le armi della non violenza – le proteste anti-governative avevano fatto il giro del mondo col nome di “rivoluzione zafferano”. E già allora era emerso che l’export del legname era uno dei modi attraverso cui il governo si riusciva a sostenersi.

Porzione di foresta tagliata tra il 2018 e il 2019 nella Regione di Bago a nord di Yangon. Siamo nel sud del Paese a circa 100 km dalla capitale. Una volta abbattuti gli alberi vengono trasportati per la lavorazione nelle città più vicine e da qui proseguono il loro viaggio verso Yangon

I limiti del regolamento EUTR e delle sanzioni al Myanmar

Il 9 dicembre 2020 un documento redatto dalla Commissione di esperti sulla conservazione e il recupero delle foreste del mondo – organismo dell’Unione europea a cui appartengono diversi portatori di interessi che ha tra i suoi compiti l’implementazione del regolamento europeo che si occupa di proteggere le foreste di tutto il mondo – ha concluso che le due compagnie di Stato Myanma Timber Enterprise (MTE) e Forest Product Joint Venture Corporation Ltd (FPJVC) detengono di fatto il monopolio dell’esportazione del legname dal Myanmar. Nel rapporto il Paese è stato definito a rischio, perché lungo la filiera non esiste la possibilità di accertare se i tronchi siano stati tagliati in maniera legale o meno.

L’export del legname è una delle fonti di reddito più importanti per la giunta al potere in Myanmar. Un anno dopo il colpo di Stato con il quale ha preso il potere, nel febbraio 2021, il Consiglio europeo ha messo in piedi un sistema di sanzioni per contrastarla. Le misure prevedono il congelamento degli asset finanziari, restrizioni di movimento per le persone colpite dalle sanzioni e, la conferma di una misura che esiste fin dal 1996, un embargo su armamenti, apparecchi dual-use, equipaggiamento militare e per le comunicazioni. Tra i sanzionati, 93 individui e 18 entità burmesi in totale, ci sono anche gli esportatori di legname MTE e FPJVC.

“We want democracy”. Un grido per la democrazia scritto a caratteri cubitali per le strade di Yangon. Siamo nel febbraio 2021 e da pochi giorni il Paese è tornato nelle mani della giunta militare che, con un colpo di stato, ha deposto il governo guidato da Aung San Suu Kyi. La gente scende in piazza e riempie le strade di scritte pro-democrazia. Un movimento di opposizione che verrà represso con la violenza

Tuttavia le sanzioni non hanno messo fine agli scambi commerciali fra il Myanmar e l’Europa, soprattutto perché, diversamente da quanto non si sia fatto con la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina, non c’è un vero e proprio bando alle importazioni. A relazionarsi con i clienti esteri, più che MTE e FPJVC, sono infatti gli esportatori privati, che nonostante siano obbligati a rifornirsi dalle entità sanzionate, riescono a esportare lo stesso.

A questo si aggiunge il fatto che le zone più coinvolte nel conflitto, con una forte presenza di minoranze etniche, sono le stesse maggiormente colpite dalla deforestazione, facendo sorgere ulteriori dubbi sull’origine pulita del legname. Il documento conclude che gli operatori dovrebbero astenersi dal piazzare sul mercato europeo il legname burmese e i prodotti che ne derivano, salvo prova dell’origine controllata dei lotti: di per sé una contraddizione logica.

Per proteggere almeno dal punto di vista ambientale l’integrità delle foreste di Tectona Grandis, nome scientifico dell’albero di teak, l’Unione europea ha anche istituito il European Union Timber Regulation (EUTR), regolamento per contrastare l’importazione illegale di legname e a creare una filiera sostenibile che vige dal 2013.

L’articolo 4 dell’EUTR richiede alle aziende comunitarie che importano legname proveniente da fuori l’Ue di accertarsi della provenienza e della proprietà del prodotto importato tramite un sistema di due diligence (dovuta vigilanza). L’ambiguità della norma, unita alle recenti sanzioni, ha prodotto diverse interpretazioni del complesso di restrizioni agli import dal Myanmar. In Germania ad esempio ci sono stati casi di multe milionarie e reclusione per le persone coinvolte, come nel caso della WOB Timber di Amburgo, nell’aprile 2022. Nel verdetto della corte tedesca, la compagnia è stata costretta a pagare 3,3 milioni di euro per traffico di legname, e il direttore condannato a scontare 21 mesi di libertà vigilata e a pagare 200 mila euro di penale. In Italia, l’applicazione della norma non ha avuto finora effetti simili.

Destinazione Italia, nonostante tutto

I tronchi abbattuti nelle foreste del Myanmar passano per molte mani, lungo un viaggio che può durare anni. Dalla foresta arrivano alle segherie, viaggiano poi lungo il fiume Yangon fino all’omonima città portuale. Una volta venduti all’asta agli esportatori aspettano stoccati in depositi lungo il fiume, prima di prendere il mare diretti in genere verso Singapore, dove vengono poi caricati su navi dirette in Italia. All’arrivo in porto, i carichi non vengono immediatamente sdoganati del tutto, ma stoccati in depositi doganali e “importati” un pezzetto alla volta. Ognuno di questi “pezzetti” corrisponde a un controllo, e un singolo carico può essere “importato”, e quindi controllato, nel corso di diversi mesi, secondo le necessità commerciali.

Legno insanguinato

Valori in euro delle importazioni in Italia di legname (tronchi e segati) dal Myanmar (i dati 2022 si fermano a novembre)

Documenti confidenziali dell’agenzia fiscale del Myanmar, condivisi con ICIJ dagli attivisti di Justice for Myanmar e Distributed Denial of Secrets, rivelano che Comilegno Srl – azienda a conduzione familiare con sede a Rivignano Teor, in provincia di Udine – negli ultimi due anni, ha comprato più di 80 tonnellate di doghe e tavole in teak attraverso una società intermediaria del Myanmar: la Win Enterprise Ltd. Fino almeno all’inizio di febbraio 2023, quando il riferimento è scomparso dal loro sito, Win appariva sul sito di MTE come una controllata della Forest Products Joint Venture Corp Ltd (FPJV), cioè una delle due aziende di Stato sotto sanzioni. Win enterprise nega ogni connessione, derubricando l’informazione sul sito di MTE a «un errore».

Min Thaw Kaung, azionista di Win Enterprise, è diventato direttore di FPJV a luglio 2021, sei mesi dopo il colpo di stato. In risposta alle domande di ICIJ ha dichiarato che avrebbe dato le dimissioni due mesi dopo, a settembre 2021, e che da allora «non è più coinvolto né con MTE ne con FPJV».

Le bolle d’accompagnamento ottenute da ICIJ, spedizioni fra Win Enterprise e Comilegno, contengono documenti in carta intestata di MTE datati fino a aprile 2022. NRC, partner olandese di questo progetto, ha ottenuto prove che la spedizione di aprile era diretta a una una società dei Paesi Bassi che rifornisce l’industria degli yacht: si trattava di un container di doghe e tavole in teak.

Comilegno era già stata accusata dall’ong britannica Environmental Investigation Agency (EIA), tra le più autorevoli in questo campo, di aver importato da Win Enterprise dopo il colpo di Stato. Nel 2022 ne aveva parlato anche il quotidiano Domani, a cui Comilegno aveva risposto: «Non abbiamo mai violato le sanzioni e il nostro fornitore non ha mai avuto contatti con il regime». Il teak inviato dopo il colpo di Stato sarebbe inoltre già stato pagato dal fornitore a MTE, e quindi si sarebbe trattato «di materiale non sanzionato». Anche in questo caso, l’esistenza di almeno cinque passaggi nella filiera di approvvigionamento, con intermediari in Croazia, India, Singapore e Myanmar, rendeva la catena di custodia del legname difficile da accertare.

Interpellato da ICIJ, un rappresentante di Win Enterprise ha dichiarato che hanno «venduto solo teak tagliato prima di febbraio 2021» e sempre «in conformità con l’EUTR», il regolamento europeo sul commercio del legname delle foreste. Non ci sarebbe «alcuna influenza governativa» sugli affari della società e il suo essere indicata come controllata dello Stato è semplicemente «un equivoco nella comunicazione pubblica».

Fabrizia Comisso, azionista di maggioranza di Comilegno Srl, ha chiarito a ICIJ che Win Enterprise, «il loro fornitore, è una società privata non controllata da nessun altra società né pubblica, né privata» e che, ad ogni modo, Comilegno non importa «più teak birmano».

La città di Mandalay lungo il corso del fiume Irrawaddy è uno snodo nevralgico nel commercio del teak e del legno pregiato. Nell’immagine del 2022 una grande quantità di legname attende di essere sistemata sulle chiatte per proseguire il viaggio verso sud

Il trasporto del legname dalle zone di taglio alla capitale Yangon avviene quasi esclusivamente per via fluviale utilizzando chiatte di grandi dimensioni. Nell’immagine due chiatte viaggiano in direzione sud lungo il corso del fiume Irrawaddy con i suoi 2.170 km di lunghezza, il principale canale commerciale del Myanmar. Entrambe misurano oltre 170 metri di lunghezza per un superficie complessiva di cinquemila mq
Il teak ha una proprietà che lo rende perfetto per la nautica: il suo contenuto di resina oleosa lo rende resistente all’acqua. Per questo a Yangon nessuno si preoccupa di stiparlo in magazzini. Il legame in arrivo da tutto il Paese attende all’aperto di essere caricato sulle navi che lo porteranno a Singapore e da qui in tutto il mondo

Come Comilegno, parecchi dichiarano di aver rinunciato al teak burmese. Non la Arredoteak Srl di Viareggio, che risulta essere a oggi una delle poche aziende italiane che ancora importa direttamente dal Myanmar. Impegnata nella costruzione di coperte per navi e yacht, sul sito della compagnia toscana si legge ancora: «Importazione di teak proveniente dalla Birmania per arredi navali di qualità». L’azienda specifica che i loro prodotti sono in regola con le normative europee e che effettua la dovuta due diligence per garantire la provenienza legale del teak, senza tuttavia citare il «partner storico» con sede in Myanmar a cui Arredoteak si affida per l’ordine dei lotti.

Interpellata da IrpiMedia e L’Espresso sulla provenienza e sui fornitori di teak, l’azienda non ha rilasciato dichiarazioni.

Dai dati doganali ottenuti da IrpiMedia e L’Espresso, è evidente che le importazioni di legname dal Paese del sud est asiatico continuano, raggiungendo quota 14 milioni di euro nel 2022 per il solo teak. Una volta arrivata in Italia, la merce viene poi rimessa in vendita e finisce il suo ciclo nei depositi delle compagnie nostrane ed europee. Una di queste ri-esportazioni è stata oggetto nel 2019 di un’indagine da parte del governo tedesco contro la Alfred Neumann GmbH, società basata sull’import-export di legname.

In generale però, assicurano le autorità italiane, tutte le importazioni di teak che il consorzio #DeforestazioneSpa ha potuto verificare, riguarderebbero acquisti effettuati prima di giugno 2021 e delle sanzioni. Se può sorprendere che a fine 2022 ancora arrivino carichi pagati un anno e mezzo prima, questo dipenderebbe dal sistema della logistica del legno e dai suoi tempi.

Il porto di Trieste, insieme a quello di Livorno, sono i due terminal più importanti d’Italia per l’importazione e il commercio di legname. Passando il mouse sopra l’immagine si può scorgere nel dettaglio una nave carica di legname (l’immagine è stata scattata l’8 agosto 2018 al Molo II del porto di Trieste) intenta nelle operazioni di scarico. Da qui passano parte delle importazioni di teak destinate non solo all’Italia ma a diversi Paesi europei

Trent’anni di denunce

I legami fra Italia e importazione di legname dal Myanmar risalgono a oltre trent’anni fa. I report dell’Ong EIA documentano come, già all’epoca, il taglio e il traffico illegale di legno pregiato fosse fuori controllo. A metà degli anni ‘90, l’export di legname illegale verso Cina e Thailandia generava profitti per 86 milioni di dollari l’anno. È in questo periodo che alcune aziende italiane aprono i loro uffici in Myanmar, per approvvigionarsi direttamente del teak locale, mentre l’Unione europea già imponeva le prime sanzioni ad aziende legate al regime militare.

Bisogna aspettare il 2007, anno in cui la giunta al potere reprime le proteste della “Rivoluzione zafferano”, perché l’opinione pubblica italiana si accorga del problema. La momentanea indignazione fa calare drasticamente le importazioni dal Myanmar dai 60 milioni del 2007 a soli tre milioni di euro fra 2008 e 2009. Ma negli anni successivi riprendono. Un’analisi condotta da EIA nel 2014 sui dati pubblicati dal governo del Myanmar stima che il 72% di tutte le spedizioni di legname fra il 2000 e il 2013 non sono state «ufficialmente autorizzate», secondo quanto emerge dalle statistiche ufficiali.

Nel 2016 arrivano anche le prime accuse formali nei confronti di aziende italiane. È di nuovo EIA a denunciare come, nella costruzione di A – all’epoca lo yacht più grande al mondo, lungo 150 metri e alto 100 – per il miliardario russo Andrey Melnichenko (sequestrato nel 2022 a seguito delle sanzioni UE che hanno colpito diversi oligarchi russi), tre aziende italiane, fra le altre, non fossero riuscite a «garantire che legname tagliato illegalmente non fosse entrato nei loro flussi di approvvigionamento». 

IrpiMedia è gratuito

Ogni donazione è indispensabile per lo sviluppo di IrpiMedia

In sostanza, queste aziende non avrebbero condotto la più basilare delle due diligence: informazioni sulla fonte del teak e sul diritto al taglio legale sarebbero state del tutto «irreperibili e non verificabili». Secondo le ricostruzioni dell’EIA, diverse aziende legate all’imprenditore triestino Luca Rossi, tra cui Timberlux Srl, avrebbero importato, negli anni precedenti al colpo di Stato, teak dal Myanmar all’Europa «per molti anni, acquistandolo da operatori legati a» Cheng Pui Chee, definito «il secondo Ministro delle Foreste del Myanmar» per la sua capacità di corrompere ufficiali del regime per bypassare le aste della Myanma Timber Enterprise e ottenere, a prezzi stracciati, teak della più alta qualità.

Le importazioni di Timberlux, accusa l’EIA, avrebbero violato gli obblighi di controllo della catena di approvvigionamento stabiliti dall’EUTR. L’Espresso ha contattato Timblerlux per una richiesta di commento. Matteo Rossi, fratello di Luca e amministratore unico della società, ha dichiarato che la sua società «ha interrotto gli acquisti dal colpo di Stato, fin dal febbraio 2021», e ha poi rivenduto solo «importazioni effettuate in precedenza». In merito al report dell’EIA, spiega che «mi sono già trovato a rispondere nelle dovute sedi di competenza e non entro quindi nel merito».

I casi di possibili violazioni del regolamento europeo mostrano come il teak del Myanmar molto difficilmente sia conforme all’EUTR. A marzo 2020, EIA ha fatto richiesta al ministero dell’Agricoltura croato dei documenti relativi a dieci spedizioni di teak dal Myanmar. Fra il 2017 e il 2019 al porto di Rijeka, in Croazia, arrivano 144 tonnellate di teak Burma, valore totale: un milione di euro. Sono destinati a un intermediario croato, che poi rivende il legname in tutta Europa. Inclusa l’Italia, dove ad acquistarlo è un’azienda di Udine. I documenti allegati alle spedizioni, secondo l’EIA, non contengono alcuna informazione sulla legalità del teak. Inoltre, le variazioni nel peso, nel valore del legname spedito e nei codici che individuano la tipologia di prodotto fra Yangon, il porto di partenza, e Rijeka, quello di arrivo, potrebbero far pensare a una possibile evasione fiscale. Il Myanmar, infatti, applica tasse più alte per prodotti in legno più grezzo, così prodotti partiti da Yangon come «altamente lavorati» sono arrivati in Croazia come «tavole di teak, non piallate o levigate».

Il porto di Livorno
Il porto di Trieste

Primo: proteggere l’industria degli yacht di lusso

Diverse ong internazionali accusano l’Italia per essere tra i principali Paesi importatori di teak del mondo: 1.783 tonnellate solo nel 2022. Dal giugno 2021, «in teoria, non si potrebbe più importare nulla dal Myanmar, neppure un truciolo – riconosce Alessandro Calcaterra, il presidente di Fedecomlegno -. In realtà tra gennaio e novembre 2022 l’Italia ha continuato ad acquistare l’83% del teak birmano arrivato in Europa».

La giunta militare ha dichiarato di aver incassato 106 milioni di dollari, nel 2022, con le esportazioni di questo legno. «Secondo i nostri dati – aggiunge Calcaterra -, le imprese italiane hanno versato almeno 18,2 milioni di euro su un totale europeo di 22,5». «Noi di Fedecomlegno abbiamo fatto una grande azione di convincimento sui nostri iscritti: molte aziende hanno scelto di non acquistare più teak da foresta. Solo nel corso del 2022, grazie alla nostra moral suasion, molte società italiane hanno optato per legni sostitutivi. Ma un gruppo di aziende è uscito dalla nostra associazione», conclude.

Myanmar & Italia

Al contrario di diversi Paesi europei che hanno immediatamente recepito le sanzioni e le regolamentazioni, bloccando del tutto le importazioni (almeno quelle dirette) dal Myanmar, l’Italia ha infatti valutato la non retroattività della legge. Un principio più che legittimo, ma che ha permesso che «gli eventuali approvvigionamenti di legname prelevato nelle foreste del Myanmar commissionati e pagati in data antecedente alla pubblicazione della norma sulla Gazzetta ufficiale dell’Ue (21 giugno 2021)» entrassero liberamente, come ci spiega il Dipartimento del ministero dell’Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste (MASAF). È proprio a questo principio che si sono appellate tutte le aziende interrogate nel corso di questa inchiesta.

Certo, c’è da tenere presente che l’Europa ha prodotto sanzioni deboli, non ha voluto fare un bando vero e proprio e ha integrato i regolamenti con elementi di soft legislation che non sono legalmente vincolanti per gli Stati membri. Come spiega il MASAF, «mentre i Regolamenti sono direttamente applicabili, […] le raccomandazioni soggiacciono alle regole degli ordinamenti giuridici nazionali. È altrettanto noto, e non solo nel caso dell’EUTR, che proprio questo aspetto rende di fatto difficile l’uniforme applicazione delle normative comunitarie».

Sempre il MASAF non nasconde però gli aspetti pragmatici sottesi all’applicazione di queste regole e aggiunge: «Un altro aspetto da considerare per inquadrare il fenomeno è che le importazioni che avvengono prevalentemente attraverso uno Stato membro sono legate all’attività imprenditoriale di quello Stato» e cioè, in questo caso, alla nostra preziosa nautica. Il Ministero punta poi il dito contro il modo con cui altri Paesi Ue applicano le sanzioni, non solo contro la giunta del Myanmar: «Nel caso delle più recenti Sanzioni Ue nei confronti di Russia e Bielorussia, sono altri gli Stati membri che nonostante le sanzioni registrano elevati numeri di importazione di altri prodotti EUTR diversi dal teak birmano».

L’analisi multispettrale realizzata da PlaceMarks mette a confronto due immagini – relative al 2019 e al 2023 – di una stessa area, nei pressi di Myitkyina, nella regione di Kachin: le aree verdi indicano la presenza di vegetazione, mentre quelle bianche la presenza del suolo nudo o di strade. Come si può notare anche solo a colpo d’occhio nel periodo preso in esame c’è stato un consistente deterioramento delle aree verdi

Le multe? 50 mila euro

Per capire come si lavora sul fronte del porto, la soglia d’ingresso del teak del Myanmar in Italia, abbiamo incontrato il Comandante del Reparto pperativo del raggruppamento Carabinieri CITES (Convention on International Trade in Endangered Species) , il Ten. Col. Claudio Marrucci. Spiega che i carichi di legname arrivano assieme a migliaia di pagine di documentazione, di cui buona parte scritte in burmese, che vanno ogni volta analizzate nel dettaglio. «Siamo riusciti quest’anno – dice il colonnello Marrucci – a far pagare almeno 50 mila euro di multe» emesse in seguito ai controlli. «Facciamo controlli tutti i giorni – prosegue -, abbiamo 35 nuclei e 300 unità completamente dedicate a questo».

Non mancano però le difficoltà: «Noi siamo degli esecutori del legislatore nazionale e lavoriamo con gli strumenti che abbiamo», spiega il comandante del CITES, che descrive anche la complessa suddivisione delle responsabilità del sistema italiano. In breve, le sanzioni vengono valutate dal Comitato di sicurezza finanziaria, che dipende dal MEF, poi applicate, in questo caso, dal MASAF che coordina le dogane (che si occupano delle verifiche sulle sanzioni vere e proprie), e dai Carabinieri Forestali (che controllano l’EUTR). Comitato di Sicurezza Finanziaria e Dogane non hanno risposto alle domande del consorzio.

L’immagine, risalente al febbraio 2022, mostra un’area di circa 150 ettari di foresta che è stata abbattuta nella regione di Sagaing, non distante dalla città di Pyaungbok. Con tutta probabilità il legname è stato portato verso sud sfruttando il fiume Chindwin, il maggior affluente del fiume Irrawaddy

I tronchi degli alberi abbattutti sono ancora a terra, in un’area di 129 ettari di foresta tagliata tra il 2016 e il 2017 nella regione di Bago. La zona si trova nel cuore del Myanmar a circa 215 km in linea d’aria dalla capitale Yangon

Nonostante tutto, la pressione dei controlli sembrerebbe aver comunque indotto diverse aziende a rinunciare al teak burmese, almeno come importatrici. Infatti, una volta che il teak è arrivato in un qualsiasi Paese Ue, i controlli finiscono e il legname si sposta liberamente all’interno dell’Unione. «Ho visto come operatori italiani aggrediti, diciamo così, dai continui controlli finiscano per cambiare metodo – spiega Marrucci -. “Spostiamo l’operatore dall’altra parte”, dicono (cioè spostano l’importazione in un altro Stato membro, ndr). Quindi triangolazioni all’interno dell’Europa sicuramente ce ne sono».

Il Ministero precisa che gli importatori rischiano «multe fino a mezzo milione e la confisca del legname», cifre teoriche molto lontane dai 50 mila effettivamente comminati quest’anno, mentre l’armonizzazione del sistema italiano a quello europeo ancora non è arrivata. «C’è sul tavolo l’elaborazione di un nuovo regolamento – aggiunge il colonnello Marrucci-. Mi sembra però che per il momento il discorso sia fermo a un annetto fa», conclude.

Al momento è difficile approfondire le indagini, sempre per ragioni legislative: il colonnello Marrucci in merito spiega che «tutte le sanzioni basate sul regolamento EUTR, anche quando sono penali, sono comunque contravvenzionali. Non è un delitto, non è qualificato come un crimine serio. È soggetto a termini di prescrizione più bassi, ha limitazioni per quello che riguarda le indagini, alla non possibilità di svolgere delle intercettazioni o di fare tutta una serie di cose che invece posso fare con delitti». Il reato, quindi c’è, ma è qualificato come l’uccisione di uccelli, e punito in modo relativamente blando.

Morale: non c’è alcun effetto deterrente, nonostante gli sforzi di chi controlla. Così la rotta del legname insanguinato del Myanmar continua senza sosta.

Il 7 marzo l’articolo è stato aggiornato per precisare i legami tra le società Win Enterprise Ltd e Forest Products Joint Venture Corp Ltd.

CREDITI

Autori

Edoardo Anziano
Fabio Papetti
Giulio Rubino

Fotografie ed elaborazioni satellitari

Map data

Google/Maxar

Editing

Lorenzo Bagnoli

Ha collaborato

Scilla Alecci
Paolo Biondani
Michele Luppi, Federico Monica (PlaceMarks)
Gloria Riva
Leo Sisti

Infografiche

Edoardo Anziano
Lorenzo Bodrero

In partnership con

Le certificazioni di sostenibilità non fermano la deforestazione

2 Marzo 2023 | di Edoardo Anziano, Fabio Papetti, Giulio Rubino

Dal 1990 a oggi, un’area di foreste grande come l’Europa intera è scomparsa. Prima nell’indifferenza generale, poi, quando finalmente gli allarmi degli scienziati sulla crisi climatica e la perdita di biodiversità hanno cominciato ad essere trattati con più serietà, nel generale sconcerto. Senza che però si facesse nulla di concreto per mettere un freno a questa distruzione.

Lo sfruttamento industriale delle foreste è una delle cause principali dei cambiamenti climatici. Tagliare gli alberi, però, ha sempre delle conseguenze negative: gli scienziati stimano che il 10% delle emissioni climalteranti di tutto il mondo derivino da queste attività. La distruzione delle foreste inoltre aumenta il rischio di frane, allagamenti, e contribuisce in modo sostanziale all’estinzione di massa in corso della fauna silvestre. In aggiunta al danno ambientale, secondo alcuni, è anche una delle cause dell’aumento del rischio di epidemie. Con meno habitat forestale a disposizione, infatti, è più facile che patogeni sconosciuti vengano in contatto con umani o con animali da fattoria, entrando in questo modo nella catena alimentare umana.

Quindi, nonostante l’incapacità di intervenire degli Stati e delle organizzazioni internazionali, oggi resta impossibile per l’industria della deforestazione continuare a negare l’esistenza del problema. Come spesso accade in questioni che riguardano l’ambiente, i gruppi privati hanno ribaltato la narrazione presentandosi come “parte della soluzione”: per ottenere il risultato basta cambiare nome alla propria attività allo scopo di presentarla al pubblico come “verde”. Per questo è nata l’industria delle certificazioni di sostenibilità.

Le certificazioni di sostenibilità sui prodotti forestali (legno, carta, mobili e quant’altro) sono nate negli anni ‘90, in risposta all’impossibilità di creare accordi internazionali efficaci per arginare la deforestazione. Le più importanti sono Forest Stewardship Council (FSC), e Programme for the Endorsement of Forest Certification (PEFC), ma l’opportunità di business è stata prontamente colta dal più grande settore delle certificazioni industriali. Infatti da un lato giganti come KPMG e PwC (PricewaterhouseCoopers) hanno aperto divisioni specifiche per questo tipo di certificazioni, dall’altro sono sorte decine di aziende più piccole che fanno lo stesso, per un giro d’affari complessivo da 10 miliardi di dollari all’anno.

I certificati, è importante ricordarlo, sono del tutto volontari. Avere un certificato verde non semplifica le procedure di controllo, né protegge dalle verifiche delle forze dell’ordine. Il loro effetto è però molto importante, in primis per il consumatore finale, abituato oggi a trovare confortanti bollini verdi anche in fondo ai taccuini che compra, o sulla sovracopertina dei propri libri preferiti. Anche JK Rowling, dando alla stampa il settimo libro della saga di Harry Potter (oltre 500 milioni di copie vendute nel mondo) ha concordato con l’editore che la carta fosse certificata FSC.

Dato il prestigio di alcune delle grandi aziende che le emettono (KPMG, PwC), il ruolo e l’impatto di queste certificazioni si espande rapidamente anche a tutta la catena produttiva. La speranza velata delle aziende certificatrici è che, prima o poi, i loro bollini vengano sempre di più richiesti anche a livello ufficiale, come accade per altri settori.

L’inchiesta

#DeferestazioneSpa è un progetto coordinato da International Consortium of Investigative Journalists (Icij). L’inchiesta si interroga su come la deforestazione a livello globale continui, favorita anche dal greenwashing di cui, grazie a certificazioni carenti o inefficaci, molte aziende si rivestono per ingannare i propri clienti. Al progetto partecipano 40 testate da 27 Paesi. Per l’Italia, fanno parte di #DeforestazioneSpa IrpiMedia e l’Espresso.

Le certificazioni sfoggiate dalle aziende che lavorano il legname delle foreste dovrebbero accertare il rispetto degli standard ambientali, sociali e lavorativi, nonché il rispetto dei diritti umani di lavoratori e popolazioni indigene impattate dall’industria. Quando sono inaffidabili o falsificate, possono quindi causare enormi danni.

Stando ai risultati delle nostre ricerche, è difficile sentirsi rassicurati dagli effetti delle certificazioni di sostenibilità. I giornalisti di #DeforestazioneSpa hanno verificato che molte aziende apparentemente sostenibili hanno ripetutamente violato gli stessi standard che si erano date.

Ad esempio, un’azienda brasiliana che lavora nella foresta amazzonica è stata certificata «a pieno titolo», come dice il suo stesso sito, nonostante sia stata multata 37 volte dal 1998 a oggi per aver stoccato e trasportato legname senza autorizzazione. Un’azienda giapponese che opera in Cile ha ricevuto la certificazione nonostante si sia rifornita da aziende che hanno usato documenti falsi per l’origine del legname. Un altro gruppo di aziende canadesi condannate da un tribunale per aver danneggiato territori indigeni erano comunque certificate per utilizzare un «piano sostenibile di gestione delle foreste».

Dal 1998, oltre 340 aziende del legno certificate sono state accusate di crimini ambientali e altre violazioni da comunità locali, gruppi ambientalisti e agenzie governative, fra gli altri. Circa 50 di queste aziende possedevano certificati di sostenibilità quando sono state multate o condannate.

Greenwashing con il bollino

Gli enti certificatori, in tutto ciò, sono raramente chiamati in causa quando si verificano casi di questo tipo. Mancando ancora regole precise per l’assegnazione delle certificazioni, anche quando le ditte certificate vengono multate, spesso chi ha dato il “bollino verde” se la cava senza conseguenze, a prescindere dalla qualità delle verifiche effettuate.

Le sole certificazioni più importanti e riconosciute, Forest Stewardship Council (FSC), e Programme for the Endorsement of Forest Certification (PEFC) a oggi hanno certificato come “sostenibili” circa 320 milioni di ettari di foresta e migliaia di prodotti in tutto il mondo. Il loro ruolo è pervasivo in buona parte del mondo, ma in mercati specifici, anche molto importanti, sono sorte piccole aziende specializzate, come PT Inti Multima Sertifikasi in Indonesia, che certifica buona parte del legname tropicale esportato da quel Paese, molto richiesto in occidente.

Secondo la Forest Monitoring Network, un’organizzazione ambientalista di base a Bogor, nella provincia occidentale di Giava, in Indonesia, gli ispettori delle aziende di certificazione indonesiane hanno mancato di segnalare violazioni delle leggi ambientali per almeno 160 aziende. Si parla di permessi di taglio falsi, deforestazione illegale e distruzione di habitat protetti per animali come tigri ed elefanti. In alcuni di questi casi, inoltre, gli ispettori non hanno fatto nulla per impedire che queste pratiche continuassero.

Le organizzazioni internazionali si affidano a enti terzi per verificare che i loro clienti – produttori di legname, di olio di palma e altri prodotti derivanti dalla gestione delle foreste – raccolgano la materia prima in modo sostenibile e non usino materiali provenienti da deforestazione illegale. Gli ispettori degli enti terzi, che lavorano sul campo per documentare il lavoro di chi opera nelle foreste, controllano le segherie, intervistano gli impiegati dell’azienda e verificano tutte le condizioni che fanno parte delle dichiarazioni volontarie di sostenibilità.

Gli esperti, per quante criticità ci siano, concordano che in assenza di leggi nazionali in molti Paesi fornitori di legname, le certificazioni possono contribuire a mitigare i rischi di deforestazione. Ovviamente non possono dare il via ad azioni repressive contro le pratiche illegali, ma dovrebbero favorire sul mercato, grazie alla pressione dell’opinione pubblica, i soggetti che le hanno, i quali in teoria dimostrerebbero una maggiore trasparenza e attenzione all’ambiente.

In Brasile ad esempio, dove larga parte dell’industria in Amazzonia opera nell’illegalità più totale, poche sono le aziende che permettono a ispettori di enti terzi di controllarle. Anche quelle che si aprono possono però restare, almeno parzialmente, opache. Marcos Planello, ispettore forestale di base a Sao Paulo confessa ad ICIJ i limiti del suo lavoro: «Noi ispettori controlliamo solo quello che le aziende ci permettono di controllare, se un’azienda vuole fare qualcosa di illecito di nascosto, lo farà».

L’illusione di poter fare la differenza

Negli ultimi anni le certificazioni FSC e PEFC sono finite sotto accusa a causa di una sostanziale mancanza di trasparenza rispetto ai criteri e i risultati delle ispezioni, di scandali che hanno coinvolto aziende da loro certificate e di presunti conflitti di interessi.

Tre ex-ispettori intervistati da ICIJ hanno detto che avevano inizialmente scelto questo lavoro per l’impatto positivo che speravano di poter avere, ma che gradualmente hanno perso le speranze rispetto al sistema. Le testimonianze sono concordi: mano a mano che le certificazioni si sono diffuse e sono aumentate le aziende pronte a pagare per la certificazione volontaria, gli standard si sono abbassati e il metodo ha perso di efficacia. Nel 2021, alcune associazioni di consumatori in Olanda e in Gran Bretagna hanno esaminato centinaia di siti di aziende che vendono prodotti che definiscono “ecosostenibili”. Nel 40% dei casi esaminati, sostengono, l’affermazione «potrebbe indurre in errore i consumatori».

«In molti hanno pensato che questi standard sarebbero stati una buona idea, a fronte degli scempi fatti nell’industria – spiega Bob Bancroft, biologo ed ex-ispettore forestale canadese -. Ora la vista dei bollini verdi sui prodotti di supermercato tranquillizza le coscienze dei consumatori, e questo è il problema».

Kim Carstensen, direttore generale di FSC, risponde alle critiche in un’intervista con i colleghi della televisione tedesca WDR. «Crediamo di essere un buon marchio per molti motivi. Abbiamo un sistema di governance che include diversi portatori di interesse e abbiamo rigidi regolamenti ambientali e sociali». In un mondo ideale, spiega Carstensen, i governi dovrebbero avere un ruolo più attivo nella protezione delle foreste. «Ma la situazione non è ideale – ragiona – quindi quando ci sono dubbi sulla sostenibilità o meno della gestione delle foreste, le certificazioni sono ancora importanti». FSC, quindi, continua a sopperire ad un vuoto di leggi internazionali in certe occasioni.

In quanto “strumento volontario”, aggiunge un portavoce di FSC in risposta alle nostre domande, «FSC non pretende di poter essere una soluzione ad un problema complesso come la deforestazione». «La credibilità di PEFC – ha dichiarato invece il suo portavoce Thorsten Arndt – e di altre certificazioni è stata riconosciuta molte volte», aggiungendo che le Nazioni Unite considerano PEFC come un «indicatore di progresso rispetto ai Sustainable Development Goals (SDGs)», ha spiegato riferendosi all’agenda 2030 delle Nazioni Unite per la sostenibilità ambientale in cui, dal 2015, sono definiti degli obiettivi intermedi che dovrebbero contribuire allo sviluppo globale, promuovere il benessere umano e proteggere l’ambiente.

Arndt ha anche risposto alle critiche, mosse da diverse associazioni ambientaliste, che gli standard di PEFC siano sbilanciati a favore dell’industria. Le aziende, replica il portavoce, sono solo uno dei nove stakeholder che stabiliscono gli standard di PEFC, assieme alle comunità indigene, i sindacati e altri attori.

Alcune aziende certificatrici contattate da ICIJ hanno ammesso che possono esserci stati casi di sviste o leggerezze da parte dei loro ispettori, ma che questi casi rimangono isolati rispetto alla maggioranza del loro lavoro. «Alle accuse di greenwashing – ribatte Linda Brown, co-fondatrice dell’azienda di certificazioni americana SCS Global Services – rispondo che [quelli che ci attaccano] stanno cercando di usare l’eccezione per smontare la regola».

Nei fatti, tuttavia, la deforestazione non accenna a fermarsi, nonostante le ambiziose dichiarazioni delle aziende certificatrici di voler «proteggere le foreste» o di volerne «favorire lo sfruttamento sostenibile». L’approccio lassista sui controlli ha permesso ad aziende del legname di ottenere permessi di esportazione in Paesi dove è più difficile che i compratori siano a conoscenza dei reati commessi all’inizio della catena di approvvigionamento.

Ma anche in quei pochi casi in cui le violazioni vengono sanzionate, spiega Danial Dian Prawardani dell’ONG ambientalista indonesiana Forest Monitoring Network, le multe e le condanne raramente possono compensare la perdita di habitat per la fauna, la distruzione delle terre indigene e quella delle foreste primarie. «Le vere perdite [per la collettività] sono molto più alte delle multe emesse, perché il danno sociale ed ecologico è impossibile da calcolare», conclude.

Non solo, il danno causato dalla deforestazione è impossibile da riparare, almeno nel corso di una generazione, e ha conseguenze tuttora difficili da prevedere.

Foto: Veduta aerea di una segheria sulle rive del fiume Madeira nello stato dell’Amazzonia, in Brasile – Foto: Mauro Pimentel/Getty
Editing: Lorenzo Bagnoli
Hanno collaborato: Scilla Alecci, Paolo Biondani, Gloria Riva, Leo Sisti
In partnership con: ICIJ