Polonia, destre in bilico tra Oriente e Occidente

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Polonia, destre in bilico tra Oriente e Occidente

Fabio Turco

Come ogni 11 novembre Rondo Dmowskiego, il centro nevralgico di Varsavia, si riempie di persone. Sin dal mattino affluiscono senza sosta intorno a un grande palco allestito per l’occasione. Sono quasi centomila e arrivano da tutte le parti del Paese. È un profluvio di bandiere polacche, striscioni ed effigi religiose. Si celebra la festa dell’Indipendenza, che ricorda la ritrovata unità nazionale nel 1918, dopo 123 anni in cui la Polonia era sparita dalle carte geografiche, suddivisa tra l’Impero russo, Regno di Prussia e Monarchia Asburgica. Il viaggio alla scoperta della destra polacca non può cominciare che da qui, dalla sua esibizione più visibile e rumorosa.

L’11 novembre 2021 è stato particolare, essendo coinciso con i giorni più drammatici della crisi migratoria al confine con la Bielorussia. Migliaia di persone provenienti perlopiù dal Kurdistan iracheno, dalla Siria e dall’Afghanistan che cercavano di entrare in Europa sono state respinte coi cannoni ad acqua della guardia di frontiera polacca vicino al valico di Kuźnica, nel nord est del Paese. La situazione aveva spaccato l’opinione pubblica. La tensione al confine si era inevitabilmente riflessa anche negli umori che attraversano la Marcia dell’Indipendenza.

Quel giorno in piazza c’era anche Juliusz, arrivato da Poznań insieme alla moglie e ai due figli adolescenti: «Stiamo vivendo una situazione particolare – racconta -. I nostri confini sono in pericolo e per il nostro Paese è importante mostrare unità. La Polonia viene tormentata dall’Unione europea, con la regia della Germania. Vogliono farci fare quello che vogliono, ma noi vogliamo essere sovrani, non subalterni. Da un lato abbiamo l’Unione europea che impone sanzioni, da est i migranti attaccano le nostre frontiere». Quello di Juliusz non è un sentimento isolato: la sindrome dell’assedio si riscontra palpabile nella piazza. A un certo punto vengono bruciate una bandiera della Germania e una fotografia di Donald Tusk, leader dell’opposizione liberale.

Destra di piazza e di governo

La marcia dell’Indipendenza è una manifestazione relativamente recente se si considera che la sua prima edizione si è tenuta nel 2009. Ha conosciuto un rapido e tumultuoso consenso, passando da essere un evento di poche centinaia di persone a manifestazione di richiamo internazionale. Negli anni insieme alla destra radicale polacca hanno sfilato gli italiani di Forza Nuova, gli spagnoli di Vox, gli ungheresi di Mi Hazánk Mozgalom, recentemente approdati all’Assemblea nazionale magiara. Durante i primi anni ci sono stati episodi di violenza, sassaiole e scontri con la polizia. Una prima svolta avviene nel 2015, quando il partito nazionalista e conservatore di Diritto e Giustizia (PiS) vince le elezioni parlamentari dopo sette anni di governo a trazione liberale.

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Polonia, in alto a destra

Alcuni dei simboli della galassia dell’estrema destra polacca

Le istanze di Diritto e Giustizia e il radicalismo di quella piazza non coincidono, ma il leader del partito Jarosław Kaczyński capisce che può utilizzarla per rafforzare il proprio consenso. Nel 2018 in occasione del centenario dell’indipendenza il presidente polacco Andrzej Duda si trova a officiare le celebrazioni ufficiali a pochi metri dalle falangi del Campo Radicale Nazionale (ONR) una delle due anime dell’organizzazione. Sempre nel 2018 la presidenza dell’Associazione Marcia per l’Indipendenza viene assunta da Robert Bąkiewicz, fino a quel momento elemento di spicco di ONR, Bąkiewicz diventa uomo di riferimento per Diritto e Giustizia e negli ultimi anni la manifestazione si “ripulisce” dalle sue esibizioni più estreme. Allo stesso tempo ciò provoca una rottura con la sponda politica a cui prima Bąkiewicz apparteneva. Questo passaggio spiega molto delle dinamiche della destra polacca, assai meno compatta di quanto possa apparire dall’esterno.

La cosmologia dei nazionalismi polacchi, tra valori cristiani e conservatorismo

Quando Diritto e Giustizia vinse le elezioni parlamentari del 2015, Jarosław Kaczynski salutò la vittoria come l’avvento della Dobra zmiana (Buon cambiamento), la rivoluzione conservatrice che avrebbe riscattato il Paese dal tradimento avvenuto durante la transizione democratica. In questi anni, i governi guidati prima da Beata Szydło e poi da Mateusz Morawiecki, sono stati caratterizzati da riforme invasive, specialmente in materia di giustizia, che hanno portato la Polonia a una lungo braccio di ferro con Bruxelles. In campo economico invece si è puntato su alcune politiche di welfare che hanno consentito di risollevare un po’ il tenore di vita delle fasce meno agiate della popolazione.

A questa destra di governo, che potremmo definire sociale e populista, fa fronte in parlamento, sui banchi dell’opposizione, il partito nazionalista e turboliberista di Konfederacja. Nato nel 2018, come una coalizione di due partiti, KORWiN e Movimento Nazionale (Ruch Narodowy) ha via via raccolto per strada altri elementi della galassia radicale. Alle parlamentari del 2019 ha incassato il 6,8% dei voti e nei sondaggi i suoi consensi oscillano in una forbice tra il 5 e il 10%. Ferocemente critico nei confronti di Diritto e Giustizia, specialmente per le sue politiche in materia economica e per la gestione della crisi pandemica, nell’ultimo periodo sta vedendo un’erosione dei consensi a causa della sua presa di posizione sulla guerra in Ucraina. Konfederacja è stato l’unico partito dell’arco parlamentare a schierarsi contro l’accoglienza ai rifugiati ucraini e alcuni suoi esponenti si sono spinti in vere e proprie dichiarazioni filorusse.

Altri movimenti di una certa rilevanza ma fuori dal parlamento sono Młodzież Wszechpolska (Gioventù di tutta la Polonia), che insieme a ONR organizza la Marcia dell’Indipendenza, e Niklot un’associazione che coniuga ultranazionalismo e neopaganesimo.

Un manifestante indossa una bandana con il logo del Campo Radicale Nazionale (ONR) durante una protesta contro la comunità LGBT a Varsavia il 16 agosto 2020 - Foto: Omar Marques/Getty

Un manifestante indossa una bandana con il logo del Campo Radicale Nazionale (ONR) durante una protesta contro la comunità LGBT a Varsavia il 16 agosto 2020 – Foto: Omar Marques/Getty

Tra Diritto e Giustizia e le frange più radicali ci sono alcuni punti di contatto. Il primo è il tipo di linguaggio utilizzato, volto alla demonizzazione dell’avversario. I temi politici sono grosso modo gli stessi: la guerra alla cosiddetta ideologia LGBT, la posizione sull’aborto, un marcato antieuropeismo, la chiusura all’immigrazione specialmente in chiave antiislamica. Tuttavia il vero collante che accomuna tutte queste formazioni (con l’eccezione di Niklot) è un sentimento religioso molto forte, pervasivo, che permea gran parte delle decisioni e delle posizioni politiche. La Chiesa polacca rimane un attore importante sulla scena politica del Paese, nonostante la Polonia stia affrontando un rapido processo di secolarizzazione.

Protagonista determinante nella sequenza di eventi che hanno portato alla caduta del comunismo, negli ultimi anni l’Episcopato polacco ha svolto il ruolo di bastione di Diritto e Giustizia nelle campagne. In un contesto fortemente polarizzato tra città progressiste e aree rurali più legate alla tradizione cattolica, sono sono stati molti i casi in cui i preti hanno fatto campagna elettorale dall’altare. Il bacino di voti proveniente della campagna è stato fondamentale per le affermazioni alle elezioni del 2015 e del 2019. La moneta di scambio è stata l’approvazione di alcune leggi che la Chiesa polacca chiedeva da tempo, come la chiusura domenicale dei negozi. Anche la sentenza del Tribunale Costituzionale sulla legge sull’aborto è andata incontro a questo tipo di richieste.

Eppure Il potere della Chiesa è in costante erosione: oltre alla crisi di fedeli, c’è un forte calo nelle vocazioni, e gli scandali legati alla pedofilia nel clero hanno creato un danno d’immagine non indifferente. A compensare questo declino hanno fatto la loro comparsa dei nuovi soggetti con forti capacità di lobbying: associazioni pro-life e think tank di cui la più strutturata e potente è senza dubbio Ordo Iuris.

Ordo Iuris e le politiche ispirate al fondamentalismo religioso

L’Istituto Legale per la Cultura Ordo Iuris nasce nel 2013 a Varsavia su iniziativa dell’Associazione per la cultura cristiana Piotr Skarga, a sua volta connesso con il network brasiliano Tradizione, Famiglia e Proprietà (TFP), da molti collocato su posizioni di fondamentalismo religioso. L’agenda di Ordo Iuris si distingue per un carattere conservatore e oltranzista su temi come l’aborto, l’eutanasia, il divorzio, la contraccezione e quella che da loro viene definita “ideologia” LGBT. Alla base un’idea di mondo che poggia in maniera dogmatica sui valori cristiani e sulla difesa della cosiddetta famiglia tradizionale.

Nel 2016 ha portato avanti un’iniziativa di legge popolare per chiedere l’abolizione totale sul diritto all’aborto. La richiesta, giunta sui banchi del parlamento, ha mobilitato una massiccia protesta di piazza, conosciuta come Czarny Protest (Protesta Nera), e la nascita del collettivo femminista Strajk Kobiet. Il disegno di legge venne respinto. Nonostante questa sconfitta, Ordo Iuris ha continuato a portare avanti la sua agenda.

Un’altra proposta di legge presentata nel 2018 dall’associazione Zatrzymaj aborcję (Ferma l’aborto) approda sui banchi parlamentari, ma ancora una volta grazie all’opposizione della piazza tutto si risolve in un nulla di fatto. Anche grazie a questa attività di lobbying, 119 parlamentari di Diritto e Giustizia si sono rivolti al Tribunale Costituzionale per chiedere se la Legge del 1993 in materia di interruzione di gravidanza rispettasse la Costituzione. Nell’ottobre 2020 una sentenza ha stabilito che la normativa è incostituzionale nella parte in cui concede la possibilità di interrompere la gravidanza in caso di malformazioni del feto.

Di fatto oggi la legge polacca sull’aborto è la più restrittiva d’Europa, ma Ordo Iuris continua la sua battaglia per renderla ancora più stringente. Recentemente è finito sotto i riflettori il caso delle donne ucraine rifugiatesi in Polonia, rimaste incinta a seguito degli stupri subiti dai soldati russi. Ordo Iuris ha dichiarato di voler monitorare le richieste di interruzione di gravidanza, per appurare se effettivamente le donne sono state vittime di violenza.

Ordo Iuris è stata anche l’organizzazione che più si è spesa per chiedere la fuoriuscita della Polonia dalla Convenzione di Istanbul, la convenzione sviluppata dal Consiglio d’Europa per combattere la violenza contro le donne e la violenza domestica. Nel 2020 il ministro della Giustizia Zbigniew Ziobro ha dichiarato l’avvio di un processo di ritiro formale, sostenendo che il trattato richiede di educare i bambini in modo ideologico, senza considerare il sesso biologico. Il ritiro della Polonia dalla Convenzione tuttavia, non è ancora completato. Nel 2021 Ordo Iuris è dietro la fondazione del Collegium Intermarium, istituto conservatore di respiro europeo. La nuova università rafforzerà ulteriormente la posizione dell’organizzazione in Polonia e nella regione.

Civico vs etnico, nazionalismi nati nel Novecento

Eppure nonostante questi punti di contatto, all’interno della destra polacca esistono differenze profonde, che hanno radici lontane. Lo storico Dariusz Stola, in un’intervista rilasciata qualche mese fa a Rosita Rijtano di Lavialibera, ha avuto modo di affermare quanto segue: «In Polonia tutti i partiti sono a loro modo nazionalisti, perfino quelli che oggi stanno all’opposizione. L’origine del sentimento nazionalista è da ricercare nel periodo della spartizione della Polonia quando si creò un movimento di polacchi etnici, una nazione senza stato. La matrice etnoreligiosa si è fatta più marcata a partire dalla rivoluzione del 1905».

Il periodo interbellico fu caratterizzato da due diverse correnti di pensiero sulla direzione da dare a un Paese giovane e dai confini geografici ancora incerti. Due forme di nazionalismo: il primo civico, il secondo etnico. Il maresciallo Józef Piłsudski, padre fondatore della Polonia indipendente, capo di stato tra il 1918 e 1922 e dittatore de facto dal 1926 al 1935, aveva in mente uno Stato che raccogliesse l’eredità dell’antica Confederazione Polacco Lituana, e che si ponesse dunque a guida di una nuova entità dal mar Nero al mar Baltico, che si interponesse tra il mondo russo e quello germanico. Questo progetto aveva un nome: Intermarium in latino, Międzymorze in polacco. La Polonia doveva guardare dunque al di fuori dei propri confini, restando al suo interno un Paese multietnico. È il cosiddetto nazionalismo civico.

Il nazionalismo etnico segue al contrario il progetto di una Polonia unita, cattolica ed etnicamente coesa. Le varie minoranze che componevano il Paese (ebrei, ucraini, tedeschi, russi) dovevano porsi secondo questa teoria in posizione subalterna ai veri polacchi. Leader politico dei partiti che si rifacevano al nazionalismo etnico è stato Roman Dmowski, avversario politico di Piłsudski negli anni Venti e Trenta.

Venendo al giorno d’oggi la contrapposizione tra PiS e Konfederacja può essere ricondotta proprio a questa antica frattura. Il giornalista di Krytyka Polityczna Przemysław Witkowski, esperto nelle questioni della destra polacca, evidenzia queste differenze: «Diritto e Giustizia è un partito filo americano, strettamente connesso al partito repubblicano, in particolare l’area trumpiana, ed ha una forte connotazione anti russa. Konfederacja invece si caratterizza per una certa componente antisemita e filo russa».

Una protesta anti migranti nel centro cittadino di Gdansk da parte dei gruppi del Campo Radicale Nazionale (ONR) e Gioventù di tutta la Polonia il 23 gennaio 2016 - Foto: Michal Fludra/Getty

Una protesta anti migranti nel centro cittadino di Gdansk da parte dei gruppi del Campo Radicale Nazionale (ONR) e Gioventù di tutta la Polonia il 23 gennaio 2016 – Foto: Michal Fludra/Getty

«Ci sono radici storiche e geopolitiche dietro queste diverse visioni – spiega Witkowski – uno dei partiti che hanno dato vita a Konfederacja è il Movimento Nazionale, che a sua volta si richiama al partito Nazional democratico di Roman Dmowski. Dmowski sosteneva che il vero pericolo per la sovranità polacca fossero i tedeschi, forti di uno stato avanzato dal punto di vista tecnologico ed economico. Per loro sarebbe stato facile germanizzare i polacchi. Coltivando invece rapporti con la Russia, non si sarebbe corso nessun rischio di russificazione, in quanto la Polonia era un paese più avanzato». Dmowski sosteneva anche che la Germania cooperasse con l’Ucraina per creare una mitteleuropa a influenza tedesca: «Per questo – aggiunge Witkowski – oggi Konfederacja ha una connotazione antiucraina».

Diritto e Giustizia ha invece origine nell’altro campo, quello di Piłsudski, che percepiva la Russia come una minaccia mortale per l’indipendenza polacca. Anche il rapporto nei confronti della Germania è diverso: «Per il partito di Kaczynski la Germania non è un nemico, ma un competitor, a cui cerca di sottrarre influenza nell’area dell’Europa orientale», afferma il giornalista di Krytyka Polityczna.

Cerniera tra Oriente e Occidente

Per la destra radicale, la Polonia si contrappone agli imperi dell’est e dell’ovest: «La Russia – spiega Tomasz Szczepański, fondatore di Niklot, uno dei movimenti più estremi di questa galassia – è una minaccia permanente perché la sua cultura genera imperialismo. L’imperialismo russo non è di tipo politico come lo erano quelli francese o britannico. In Russia nonostante l’imperialismo non abbia portato nessun beneficio è continuato, dal momento che sia la Russia zarista, sia quella comunista hanno una cultura imperiale. Nonostante la fine del comunismo la Russia ha continuato a lottare per essere una potenza mondiale. Non cambierà, a meno che i russi non rifiutino le fondamenta della propria civiltà». Sul fronte occidentale, sostiene Szczepański, «dobbiamo fare i conti con l’imperialismo tedesco che sta cercando di recuperare dalla sconfitta della seconda guerra mondiale, controllando l’Unione europea. Si tratta di un imperialismo più leggero ma comunque pericoloso, dal momento che promuove l’ideologia demoliberale (democratica e liberale, ndr), che distrugge le fondamenta della società occidentale».

Il Międzymorze frapposto tra due superpotenze, la teoria politica nata con Józef Piłsudski, non si è mai realizzato per varie ragioni, prima tra tutte la mancanza di volontà di cedere sovranità da parte di entità nazionali come la Cecoslovacchia e l’Ungheria. Archiviato durante il comunismo, il progetto è riapparso con una forma diversa con il gruppo Visegrád, il patto di collaborazione politica ed economica che unisce Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia dal 1991. Si è visto alla prova della Storia, però, come interessi divergenti mettano in crisi alleanze ritenute inscalfibili sulla carta.

Bandiere polacche durante l'annuale manifestazione dello scorso anno per i Soldati Maledettti che si celebra ogni 1 marzo per commemorare i partigiani che hanno combattuto il comunismo nel secondo Dopoguerra - Foto: Omar Marques/Getty

Bandiere polacche durante l’annuale manifestazione dello scorso anno per i Soldati Maledettti che si celebra ogni 1 marzo per commemorare i partigiani che hanno combattuto il comunismo nel secondo Dopoguerra – Foto: Omar Marques/Getty

La costruzione di un’autonomia dalle sfere d’influenza a oriente e a occidente si persegue ancora in Polonia. L’anno scorso, ad esempio, è stata inaugurata un’università privata, il Collegium Intermarium, che si propone di riunire una nuova élite conservatrice di accademici nello spazio tra mar Baltico, mar Nero e mare Adriatico. Alla base, le comuni radici cristiane e gli stessi valori, al di là delle specificità dei singoli paesi. Nella mission dell’istituto c’è la volontà di tornare allo sviluppo umano integrale in contrapposizione a un’educazione unidimensionale, di massa e diffusa. Evidente la critica al sistema di istruzione occidentale.

La guerra in Ucraina sta offrendo una nuova prospettiva alla visione della Polonia come Stato-cerniera. Lo scontro frontale con la Russia e il supporto quasi incondizionato offerto all’Ucraina hanno permesso a Varsavia di riacquistare un ruolo centrale nella geopolitica regionale. Ai tempi dell’Euromaidan, la stagione di proteste a cavallo tra 2013 e 2014 che ha provocato la cacciata del presidente dell’Ucraina Viktor Yanukovich, l’allora ministro degli Esteri polacco Radosław Sikorski, si era recato più volte a Kiev insieme all’omologo francese Laurent Fabius e quello tedesco Frank-Walter Steinmeier per trovare una situazione politica alla crisi. L’avvento di Diritto e Giustizia ha poi fatto tramontare il prestigio politico polacco e dal 2015 in poi le missioni europee per risolvere le controversie tra Russia e Ucraina hanno escluso Varsavia.

La centralità di un tempo sembra essere stata ritrovata con il conflitto di oggi. A inizio maggio Enrico Letta ha incluso la Polonia nel novero dei grandi Paesi europei che dovrebbero recarsi a Kiev e poi a Mosca per trovare una soluzione diplomatica al conflitto. Un’affermazione che oltre a suonare come una riabilitazione, ricolloca la Polonia nel suo ruolo di Paese cerniera tra Oriente e Occidente.

CREDITI

Autori

Fabio Turco

Editing

Lorenzo Bagnoli

Infografiche

Lorenzo Bodrero

Foto di copertina

Bandiere polacche durante l’annuale manifestazione dello scorso anno per i Soldati Maledettti che si celebra ogni 1 marzo
(Foto: Omar Marques/Getty)

Zemmour – Le Pen: due facce della stessa medaglia?

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Zemmour – Le Pen: due facce della stessa medaglia?

Vincent Bresson

«Figlio di puttana», «feccia», «banda di bastardi». Nella Salle Debeyre, un complesso sportivo nella città operaia di Hénin-Beaumont, nel nord della Francia, volano gli insulti. Sono le 20:00, due donne sono molto arrabbiate: hanno appena saputo che Marine Le Pen, la loro candidata, per l’ennesima volta non è arrivata al potere. La più anziana, con i capelli tinti di biondo e il viso rosso di rabbia, grida: «È truccato, mi fa schifo». La più giovane, anch’ella bionda, fa il dito medio allo schermo che trasmette la notte elettorale, gridando che Emmanuel Macron è il «presidente dei ricchi».

Il video, condiviso da un giornalista locale francese, è diventato virale su Twitter. È stato persino acquistato e mandato in onda dal programma Quotidien, una trasmissione televisiva di infotainment che la rivista di estrema destra Valeurs Actuelles accusa regolarmente di imporre una «tirannia dei benpensanti». La delusione di queste due donne è stata ampiamente derisa. Ma, al di là dello scherno, la scena illustra il fervore che Marine Le Pen può suscitare in un elettorato popolare disorientato, un elettorato su cui la leader del Rassemblement National ha sempre puntato. Non è un caso, infatti, che questa scena sia stata girata a Hénin-Beaumont, una città che solo un decennio fa per i francesi era poco conosciuta. Marine Le Pen ne ha fatto la sua roccaforte e il simbolo di una Francia periferica che a volte si sente disprezzata da Emmanuel Macron.

Il Presidente della Repubblica è già stato protagonista di polemiche per alcune frasi sprezzanti nei confronti dei ceti più popolari. «Una stazione ferroviaria è un luogo dove si incontrano persone che hanno successo e persone che non sono niente», ha detto nel giugno 2017 quando ha inaugurato il più grande campus per start-up d’Europa, costruito in un ex deposito ferroviario. La frase, molto commentata dai analisti politici di destra e di sinistra, ha alimentato la reputazione di Macron presidente “delle élite” e massima espressione dell’establishment.

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Se il padre Jean-Marie Le Pen – presidente del Front National dal 1972 al 2011 – puntava a una Francia più benestante, Marine Le Pen, fin dal suo ingresso sulla scena politica nazionale francese, si è rivolta alle classi lavoratrici. «L’elettorato di Le Pen negli anni ’80 era una Francia cattolica e borghese e parte della sua base militante era composta da studenti delle écoles de commerce, scuole di specializzazione in economia», spiega Benjamin Tainturier, dottorando a Sciences Po, l’Istituto di studi politici di Parigi. Questo spostamento verso la classe popolare sembra essere stato un successo: al primo turno, il 35% dei lavoratori avrebbe votato per Marine Le Pen, riporta un sondaggio dell’Institut français d’opinion publique (Ifop), il principale istituto di sondaggi francesi.

Tainturier, specialista dell’estrema destra e della guerra di propaganda, ritiene che l’elettorato medio-borghese non sia tuttavia rimasto orfano alle presidenziali francesi 2022. È stato infatti il bersaglio principale del nuovo candidato dell’estrema destra, l’ex giornalista Éric Zemmour.

I manifesti elettorali precedenti al ballottaggio presidenziale tra Emmanuel Macron e Marine Le Pen ad aprile 2017 - Foto: John van Hasselt/Getty

I manifesti elettorali precedenti al ballottaggio presidenziale tra Emmanuel Macron e Marine Le Pen ad aprile 2017 – Foto: John van Hasselt/Getty

L’ultimo arrivato in questa singolare campagna presidenziale, non ha mai smesso di ricordare agli elettori che crede nel superamento della lotta di classe. Il suo messaggio ha avuto consenso tra gli imprenditori: l’11% ha votato per il suo partito Reconquête (secondo nelle preferenze dopo En Marche di Emmanuel Macron, per cui hanno votato il 52% degli uomini d’affari). La sera della sconfitta di Marine Le Pen al secondo turno, Zemmour si è affrettato a dichiarare: «Non ci può essere vittoria elettorale senza un’alleanza tra tutte le destre, tra le classi lavoratrici e la borghesia patriottica». Resta il fatto che Marine Le Pen, con un discorso più sociale, ha ottenuto più consenso al primo turno.

Radicalità contro forza tranquilla

Nonostante il déjà vu del ballottaggio, con il tanto atteso rinnovo del duello tra Marine Le Pen ed Emmanuel Macron, ci sono state diverse sorprese alle elezioni presidenziali francesi del 2022. La sinistra radicale ha sfiorato la finale contro Emmanuel Macron e i due storici partiti di governo della Quinta Repubblica, il Partito Socialista e Les Républicains, sono affondati. Ma c’è stato soprattutto un candidato che si è conquistato le luci della ribalta per gran parte della campagna elettorale. E questo candidato si chiama Éric Zemmour. «Rappresenta un enorme fenomeno mediatico – si stupisce ancora Benjamin Tainturier -. In proporzione, ha avuto un’esposizione sui mezzi di comunicazione maggiore rispetto al suo punteggio elettorale. Essendo un ex giornalista, ha un enorme seguito sui media. Ma è la conversione di questo capitale mediatico in capitale politico che ha causato diversi problemi».

La pesante sconfitta elettorale di Zemmour, che al primo turno si è fermato al 7%, dovrebbe far dimenticare la dinamica generata da questo nuovo candidato all’interno del contesto politico francese. Ma a fine febbraio l’istituto di sondaggi Ifop accreditava Éric Zemmour al 16% delle intenzioni di voto, alla pari con una certa Marine Le Pen. Il resto è storia: con la guerra in Ucraina, è emersa chiaramente la vicinanza di Zemmour alla Russia e al secondo turno, con l’inflazione, il potere d’acquisto è diventato il principale argomento di un’elezione presidenziale che in precedenza era stata molto incentrata sulle questioni di punta dell’estrema destra. Questo cambio di tematiche è stato fatale per Zemmour: «Il tema principale di queste elezioni non è stato la sicurezza o l’immigrazione, ma il potere d’acquisto», analizza Benjamin Tainturier. Il radicalismo di Éric Zemmour, il suo programma liberale e la sua ossessione per le questioni legate all’immigrazione e alla sicurezza non potevano vincere contro Marine Le Pen, che da anni costruisce l’immagine di una candidata popolare e sensibile ai problemi economici dei francesi.

Zemmour, l’ultima delle matrioske francesi

di Lorenzo Bagnoli

Fin dal 2014, l’allora Front National, il partito fondato da Jean-Marie Le Pen e poi guidato dalla figlia Marine, è sempre stato sostenuto dalla Russia. Il salto di qualità è avvenuto tra il 2011 («La Francia lascerà la Nato», prometteva Marine Le Pen all’epoca») e il 2014, gli anni dell’invasione russa della Crimea, della tessitura della trama ideologica identitaria nelle destre europee; l’inizio dell’Operazione Matrioska: il vestito nuovo per le vecchie idee nazionaliste e tradizionaliste, che in Vladimir Putin hanno trovato un nuovo riferimento mondiale, alternativo al “globalismo” liberal americano. Ad allora risale il tentativo (fallito) di costruire un’internazionale sovranista e identitaria tra le diverse destre europee, da Matteo Salvini ai Le Pen; da Viktor Orbàn in Ungheria a Geert Wilders in Olanda. Sotto al candidato di destra, c’era sempre la matrioska delle idee della Russia di Putin, c’era una rete di think tank, fondazioni e siti di presunta controinformazione che cercavano di stringere alleanze. Per le elezioni presidenziali del 2017, il partito di Marine Le Pen ha ottenuto 8 milioni di euro di prestito da un uomo d’affari francese attraverso una rete di società legate a interessi russi. L’origine del denaro è ancora sconosciuta.

Éric Zemmour non è da meno in termini di relazioni con la Russia. Riporta L’Obs che nel 2015 avrebbe incontrato Vladimir Yakunin, allora ministro uscente delle Ferrovie russe in ottimi rapporti con Vladimir Putin che quell’anno creava il suo think tank Dialogue of Civilizations Research Institute (Doc) e che oggi frequenta assiduamente l’universo pro-family e ultracattolico. Le Journal du Dimanche ha intervistato gli analisti del Dossier Center, diretto dall’ex oligarca ora in rotta con il Cremlino Mikhail Khodorkovsky, Zemmour rappresentava un valido megafono per le idee del Cremlino, un’altra pedina nella partita della propaganda. Con lo scoppio della guerra in Ucraina, mentre Le Pen ha cercato di proseguire nel suo tentativo di apparire più moderata, condannando l’invasione, il candidato di Reconquête non ha mai cambiato opinione su Putin, per quanto questa posizione sia probabilmente una delle cause del crollo di consensi al momento del voto. Già a fine 2021 sui media russi e nei centri di ricerca più vicini alle idee tradizionaliste di Putin si puntava su Zemmour come il nuovo candidato da sostenere.

Per occupare spazio, Éric Zemmour ha scelto di far parlare di sé in tutti i modi: chiedendo a una donna di togliersi il velo davanti alle telecamere del canale CNews (canale televisivo descritto come la Fox News francese), proponendo di abolire la patente a punti, inserendo nella legge l’obbligo di dare al proprio figlio un nome del calendario francese. «Éric Zemmour è un grande fenomeno mediatico – afferma Benjamin Tainturier -. Per trasformarsi in un personaggio politico, ha mantenuto la sua risorsa principale: il radicalismo politico».

Di fronte agli sfoghi mediatici di Éric Zemmour, Marine Le Pen ha scelto di apparire più calma. Senza volerlo, l’ex giornalista è persino diventato, suo malgrado, uno scudo protettivo per la candidata del Rassemblement National: «Lo ha lasciato in prima linea a prendersi le botte», ha analizzato Raphaël Llorca, esperto associato alla Fondation Jean-Jaurès e autore del libro Les nouveaux masques de l’extrême droite (Le nuove maschere dell’estrema destra). «Ha agito come un parafulmine. Tutti si sono concentrati su di lui ma non ci sono libri su Le Pen, né biografie, né inchieste sui suoi parenti». Non contento di non essere riuscito a soppiantarla nei consensi, Éric Zemmour ha persino contribuito, inconsapevolmente, a convalidare la strategia della leader del Rassemblement National: arrivare al secondo turno in un faccia a faccia con Emmanuel Macron in cui sarebbe apparsa, contrariamente alla sua battuta d’arresto del 2017, come meno estrema, più rigorosa e più pacata.

Éric Zemmour, campione degli identitari

L’estrema destra ha cominciato a mostrare i suoi dubbi su Marine Le Pen dopo il fallimento dell’allora Front National alle elezioni presidenziali del 2017. Mercoledì 3 maggio di quell’anno, il giorno prima dello scorso ballottaggio, Emmanuel Macron e Marine Le Pen si sono affrontati in un dibattito televisivo seguito da oltre 16 milioni di francesi. Tutta la stampa concordò sul fatto che il primo avesse vinto a mani basse. Marine Le Pen sembrava sicura dei suoi consensi: «Guardate, sono qui, sono nelle campagne, nelle città, sui social network!», aveva dichiarato all’improvviso con voce un po’ tremante, muovendo le braccia davanti a sé, da destra a sinistra. Pochi giorni dopo, però, solo un terzo degli elettori ha votato per la candidata dell’allora Front Nazional (diventato nel 2018 Rassemblement National). La sequenza è diventata un bad buzz: un fenomeno virale, ma in senso negativo. Riprendersi dopo quella sconfitta non era un’impresa semplice.

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La frangia più estrema della destra identitaria, da anni afflitta da alcuni dubbi, già prima del 2017 perdeva fiducia in Marine Le Pen, percepita da alcuni addirittura come «di sinistra». La maggior parte dei movimenti radicali rifiuta infatti la strategia di Marine Le Pen della cosiddetta de-demonizzazione, cioè il tentativo – che dura da anni – di epurare le frange più estremiste dal suo partito allo scopo di apparire più moderata e affidabile. Per questo molte voci importanti nell’universo dell’estrema destra francese si sono rivolte al candidato di Reconquête: «A partire dall’agosto 2021, l’influencer di estrema destra Thaïs d’Escufon ha iniziato a parlare di Éric Zemmour», analizza Marion Jacquet-Vaillant, dottoressa in scienze politiche. Il consenso per Zemmour della frangia identitaria, l’estrema destra che si riconosce soprattutto nell’anti-immigrazione e nel rifiuto del meticciato culturale, è cresciuto a poco a poco. Zemmour permette loro la mediatizzazione dei temi preferiti: la teoria della «grande sostituzione» (grand remplacement in francese) e della ri-emigrazione.

Generazione identitaria

di Lorenzo Bagnoli

Il tema del grand remplacement ha innervato la retorica contro “l’emergenza immigrazione” che ha dominato i discrosi dell’estrema destra europea almeno a partire dal 2015. Il termine è stato coniato da Renaud Camus, uno dei padri del pensiero identitario. Nel 2017 la missione Defend Europe organizzata dai giovani militanti di estrema destra di Generazione Identitaria (GI), i cui capitoli più rilevanti erano quelli di Francia e Austria, ha anche preso il mare per impedire alle ong di salvare i naufraghi. GI è nata nel 2012 con l’occupazione della moschea di Poitiers, luogo simbolico per l’immaginario identitario perché teatro nel 732 della battaglia con la quale Carlo Martello sconfisse Abd ar-Rahman, condottiero arabo e governatore di alAndalus, provincia tra Spagna e Francia.

Con l’emergere della candidatura di Zemmour, il termine «grande sostituzione» – una teoria complottista che ha raccolto molto successo tra le destre identitarie europee secondo la quale la popolazione francese ed europea sarebbe stata sostituita, con l’avallo delle élite, da una popolazione africana – occupa addirittura un posto centrale nella prima parte della campagna presidenziale. Durante le primarie del partito Les Républicains, che una volta fu di Nicolas Sarkozy, i giornalisti hanno chiesto ai candidati la loro posizione su questo tema e Valérie Pécresse, la candidata designata da quelle primarie, ha persino utilizzato questo termine in uno dei suoi comizi.

La sera della sconfitta di Éric Zemmour, Papacito e Baptiste Marchais, due attivisti identitari molto influenti sui social network, hanno postato dei video in cui condividevano la loro delusione, annunciando addirittura che avrebbero lasciato la Francia. Passata la delusione, però, gran parte di questa frangia radicalizzata ha infine sostenuto Marine Le Pen al secondo turno: «Finché hanno potuto scegliere tra i due candidati, hanno avuto il lusso di scegliere quello più vicino alle loro convinzioni – afferma Marion Jacquet-Vaillant -. Al secondo turno hanno perso l’alternativa, quindi sono tornati alle origini».

Una sconfitta, davvero?

Per un po’ di tempo, Zemmour è stato testa a testa nei sondaggi con Valérie Pécresse, Jean-Luc Mélenchon e Marine Le Pen per un posto al secondo turno contro Emmanuel Macron. Alla fine è crollato al 7%, il punteggio che ha raggiunto al primo turno. Lo schiaffo elettorale è stato violento e, per alcuni osservatori, ha segnato una totale sconfitta del polemista. «È comunque una vittoria ideologica – afferma Raphaël Llorca -. Ha banalizzato alcuni elementi del suo discorso e le differenze tra i due sono servite a Marine Le Pen. Quando per esempio non ha distinto tra Islam e islamismo o ha chiesto di vietare il velo. Per contrasto, Le Pen è sembrata più ragionevole».

Un momento del primo comizio della campagna elettorale di Eric Zemmour per la corsa alla presidenza francese lo scorso dicembre 2021 - Foto: Chesnot/Getty

Un momento del primo comizio della campagna elettorale di Eric Zemmour per la corsa alla presidenza francese lo scorso dicembre 2021 – Foto: Chesnot/Getty

Oltre a riuscire a portare le sue idee nello spazio mediatico, Éric Zemmour ha imposto la semantica dell’estrema destra, investendo massicciamente nei social network. E, anche se il risultato è stato lontano dalle aspettative, Benjamin Tainturier ci ricorda che non è poi così male: «Jean-Marie Le Pen ha impiegato quattro anni per accumulare del capitale politico non appena è apparsa sulla scena politica negli anni Ottanta. Invece Éric Zemmour in pochi mesi ha raggiunto il 7%».

Nella battaglia per l’egemonia culturale, Éric Zemmour ha segnato alcuni punti a suo favore. Il suo radicalismo ha ampliato la finestra di Overton, concetto che prende il nome dal suo inventore, il sociologo americano Joseph Overton, secondo il quale la finestra di opportunità per un discorso pubblicamente accettabile è in costante mutamento. L’ex giornalista l’ha spostato così tanto verso l’estrema destra che i commenti di Marine Le Pen sono apparsi molto meno radicali. «Ha introdotto cose che non esistevano nel dibattito pubblico», dice Raphaël Llorca. Oltre ad ampliare lo spettro dell’“accettabilità”, Éric Zemmour ha allargato l’elettorato dell’estrema destra. Lungi dall’indebolire questo campo, questa seconda candidatura lo ha rafforzato, riunendo un elettorato con un profilo diverso, più cattolico e più conservatore. Di conseguenza, al secondo turno, il campo di Le Pen ha ottenuto il miglior punteggio della sua storia, padre e figlia insieme.

«Uno dei modi migliori per leggere questo duello interno all’estrema destra è vedere Éric Zemmour come un nudge, cioè un meccanismo per incoraggiare le persone attraverso un suggerimento indiretto», dice Benjamin Tainturier. «Durante l’intera campagna elettorale, Zemmour ha fatto apparire Marine Le Pen come una soluzione più morbida… e lei ha ottenuto il 41% dei voti al secondo turno. È una pazzia!».

CREDITI

Autori

Vincent Bresson

Adattamento in italiano

Lorenzo Bagnoli
Paolo Riva

Foto di copertina

Un momento del primo comizio della campagna elettorale di Eric Zemmour per la corsa alla presidenza francese lo scorso dicembre 2021
(Chesnot/Getty)

Destre d’Italia, la sfida senza confini tra conservatori e identitari

#DisegnoNero

Destre d’Italia, la sfida senza confini tra conservatori e identitari

Lorenzo Bagnoli
Paolo Riva

Il 21 aprile 2015, a Roma, la Lega si propose per la prima volta come “nazionale”. Cominciava quel giorno il convegno Verso una Lega nazionale, il debutto nella società politica della galassia di associazioni, fondazioni e think tank identitari italiani. A dicembre 2017 è nata la Lega per Salvini premier, orfana del nome Nord nel simbolo. Sette anni dopo, lo scorso 29 aprile, a Milano, Fratelli d’Italia ha lanciato la conquista al cuore dei conservatori d’Italia con la convention Italia, energie da liberare. «Appunti per un programma conservatore», la definiscono gli organizzatori: tre giorni di dibattiti e discorsi con i quali Fratelli d’Italia ha presentato la sua visione, più ancora che i suoi programmi. I post-fascisti presentano il conservatorismo come la loro rivoluzione per andare al governo.

E se la Lega che un tempo gridava «Roma ladrona» aveva scelto per la sua rifondazione il Dies Romana, il natale della Città eterna, il partito della Meloni, erede di Alleanza nazionale e casa storica dell’estrema destra, ha scelto la capitale del nord produttivo nel 47esimo anniversario della morte di Sergio Ramelli, il militante del Fronte della Gioventù deceduto a seguito dei traumi riportati per l’aggressione di un gruppo di militanti di Avanguardia operaia.

Di-segno nero, il progetto

Di-segno nero è un ciclo di conferenze sulle nuove destre organizzato dalla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. IrpiMedia cura gli approfondimenti su Italia, Francia, Germania e Polonia.

Sono due momenti di svolta nella storia della destra, sicuramente italiana e potenzialmente europea; due tentativi di costruire programmi alternativi a quelle che ormai sono percepite come le forze “globaliste” di governo, a Roma e a Bruxelles. Però sono anche due occasioni in cui si dimostra quanto la destra italiana oggi sia tanto in linea sul piano ideologico quanto divisa su quello politico. Nei principi, la destra si riconosce nella difesa della cristianità, della cultura di origine greca e latina e della famiglia tradizionale dagli attacchi di agenti esterni, siano essi migranti o funzionari di enti sovranazionali; nella pratica, si spacca in particolare sui modelli da adottare in politica estera e politica economica, come esemplifica il dibattito sulla revisione del patto di stabilità e crescita.

In Italia e non solo: le fratture di casa nostra si sommano a quelle europee. I partiti che si autodefiniscono «legati alla libertà delle nazioni e alle tradizioni dei popoli europei» sono numerosi e in crescita, ma altrettanto sparsi e divisi. Sia per le idee che portano avanti su alcuni temi cruciali – il rapporto con la Russia e il rispetto dello stato di diritto, su tutti – sia per i gruppi del Parlamento Europeo nei quali siedono.

Partiti ed eurogruppi

I gruppi di destra e centro-destra al Parlamento Europeo

ID: Identità e Democrazia unisce Lega, Rassemblement national, Alternative für deutschland e altre sigle minori. Contro l’integrazione Ue e per “un’Europa della nazioni”, è il gruppo più vicino alla Russia.

ECR: i Conservatori e Riformisti Europei sono anch’essi per “un’Europa delle nazioni”, come ID, ma la presenza del PiS polacco pone il gruppo su posizioni antirusse e pro Nato.

PPE: il Partito Popolare Europeo è, storicamente, il gruppo più importante ed europeista. Definibile di centro-destra, ha avuto però nelle sue file fino al 2021 Fidesz, il partito euroscettico del primo ministro ungherese Viktor Orbàn.

I partiti di destra ed estrema destra in UE

PiS: il partito Diritto e Giustizia (in polacco Prawo i Sprawiedliwość, PiS) guida la Polonia dal 2015 con tratti autoritari e illiberali. È atlantista, anti-immigrazione, cattolico tradizionalista.

Vox: partito di estrema destra spagnolo, nato solo nel 2014 ma cresciuto in fretta. I sondaggi lo danno terzo, dopo socialisti e popolari. Al Parlamento Ue siede nel gruppo ECR.

FPÖ: il Partito della Libertà Austriaco è una formazione di estrema destra che ha governato in Austria tra 2017 e 2019 insieme ai popolari. Al Parlamento Ue fa parte del gruppo ID.

Vlaams Belang: “interesse fiammingo” è un partito di estrema destra delle Fiandre, la parte Nord del Belgio. In testa ai sondaggi anche a livello nazionale. Membro del gruppo ID.

PVV: il Partito per la Libertà olandese è una storica formazione di destra nazionalista e populista. Il suo leader è Geert Wilders e la sua collocazione è dentro il gruppo ID.

Da un lato, ci sono i filorussi identitari del gruppo ID, guidato da Lega e Rassemblement National; dall’altro, i conservatori dell’ECR, la cui componente più numerosa è il PiS polacco, anche se la presidenza è nelle mani di Giorgia Meloni. E poi c’è il PPE, la più influente (ed “europeista”) famiglia politica europea che, dopo aver perso Angela Merkel, sembra in declino, anche a seguito della separazione da Viktor Orbán. Il PPE è sempre stato fortemente europeista mentre i partiti alla sua destra, da tempo, criticano aspramente l’integrazione Ue. Ma negli ultimi anni queste divisioni si stanno facendo meno nette. Nell’ultima legislatura, pur avendo avuto un buon risultato alle europee del 2019, ID ed ECR hanno influenzato in maniera solo marginale l’operato delle istituzioni Ue. Non è detto che sia così anche in futuro. E, in questo senso, le elezioni italiane del 2023 potrebbero essere uno snodo cruciale: stando all’opposizione, Fratelli d’Italia è cresciuta nei sondaggi e ora stacca la Lega di governo con un margine intorno ai cinque, sei punti.

«Se guardiamo i sondaggi, il centrodestra unito potrebbe vincere – sostiene Francesco Giubilei, presidente di Nazione Futura, “movimento di idee” nato nel 2017 -. «Il rischio, però, è che ci sia una competizione interna e che può essere davvero dannosa». Poi cita un concetto espresso più volte da Meloni alla convention di Fratelli d’Italia: «Bisognerebbe capire che l’avversario non è interno alla coalizione, ma è esterno». E questo vale sia in Italia, sia in Europa. «Prima delle elezioni europee (del 2024, ndr) – ragiona Giubilei – è molto complicato che possa nascere un progetto di un unico grande gruppo europeo».

Pontieri a Madrid, il leghista conservatore e il talebano

La foto sembra quella di un vertice governativo, e forse si tratta di un auspicio. Ritratti in piedi, ci sono il padrone di casa e leader del partito di estrema destra spagnolo Vox, Santiago Abascal, il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki, quello ungherese Viktor Orbán, la presidente del Rassemblement National Marine Le Pen e i rappresentanti di altre nove formazioni politiche europee.

La foto di gruppo del vertice di Madrid, del 29 gennaio 2022 - Foto: Facebook

La foto di gruppo del vertice di Madrid, del 29 gennaio 2022 – Foto: Facebook

È il 29 gennaio di quest’anno. A Roma, il presidente Mattarella sta per essere rieletto, creando l’ennesima spaccatura all’interno del centro destra. A Madrid, tredici partiti di destra ed estrema destra si ritrovano, mettendo allo stesso tavolo Lega e Fratelli d’Italia. A rappresentarli, rispettivamente, due eurodeputati: Paolo Borchia e Vincenzo Sofo che, nella foto di gruppo, compaiono plasticamente distanti, ai lati opposti della seconda fila. Pur non essendo dei nomi noti al grande pubblico, sono due figure utili per capire dove vanno le destre, in Italia e in Europa.

Borchia, nato nel 1980 vicino a Verona, è a Bruxelles dal 2010. Leghista dai tempi di Bossi, è stato assistente del vicesegretario della Lega Lorenzo Fontana, ha lavorato nel gruppo parlamentare delle destre e poi, alle ultime europee, è diventato lui stesso eurodeputato. Sofo, calabrese, è del 1986: c’era al convegno Verso una Lega nazionale in qualità di presidente di un think tank della galassia sovranista; c’era alla convention di FdI come eurodeputato.

«Ci sono degli spazi di cooperazione giganteschi per quello che definisco un centrodestra alternativo al Partito Popolare Europeo», spiega Borchia nel suo ufficio di Bruxelles a fine aprile, poche settimane dopo una trasferta a Budapest, all’indomani della vittoria di Orbán. In qualità di direttore del dipartimento Lega nel Mondo, Borchia viaggia per incontrare i leader degli alleati europei. Come spiega sul suo sito, dal 2013, si è dedicato «alle relazioni che sfoceranno nella creazione dell’alleanza identitaria con il Front National (oggi Rassemblement National, ndr), l’FPÖ, il PVV e il Vlaams Belang».

«Nelle ultime tre legislature – riprende – ho assistito a un progressivo e ingiustificato sbilanciamento verso sinistra del PPE». I temi cui fa riferimento vanno dai diritti civili alla transizione verde, dalla stessa integrazione Ue alla difesa dello stato di diritto in Paesi come Ungheria e Polonia. La sua posizione è condivisa da molti a destra, ma anche in netto contrasto con alcune letture accademiche. Cas Mudde, uno dei maggiori studiosi dell’estrema destra, per esempio, nel 2020 spiegava a VoxEurop che, a livello europeo, «tematiche, aspetti e protagonisti di estrema destra» sono diventati «convenzionali e normali, soprattutto a causa del Partito popolare europeo», rendendo l’intera politica europea più «autoritaria e nativista». Per Borchia, invece, la questione è soprattutto legata ai partiti nazionali che compongono il PPE, di cui fa parte Forza Italia. A suo parere, le delegazioni di alcuni Paesi, soprattutto nord europei, rappresentano «un centrodestra abbastanza annacquato, un po’ più liberale, meno ancorato ai valori cristiani, conservatori».

Le sfumature della destra, dall’Europa al caso Verona

PPE, ID e ECR corrispondono a tre differenti sfumature del centrodestra. Se il PPE è un gruppo parlamentare governativo, che lavora storicamente in coalizione, ECR e ID raccolgono invece forze più identitarie e radicali, che raramente collaborano con il centro e la sinistra dell’arco parlamentare europeo. Questa differente capacità di coalizzarsi e governare non corrisponde però a una vera differenza ideologica, per come descrive lo scenario Francesco Giubilei. Ci sono quindi proposte politiche diverse per raggiungere obiettivi che alla fine dei conti sono molto simili. Cas Mudde, professore della University of Georgia e grande esperto di populismo, sostiene che ormai si siano erosi i confini tra conservatori e liberali da un lato e estremisti dall’altro. I discorsi del grande insieme allargato dell’estrema destra – corruzione, criminalità, immigrazione, famiglia, difesa della tradizione – sono diventati sempre più popolari a tutto l’arco della destra.

Questo quadro teorico diventa pratica anche nel piccolo. Queste diverse anime della destra, in tutte le loro sfumature e contraddizioni, si vedono ad esempio nelle elezioni amministrative di giugno. Verona è un caso scuola: la città è storicamente una culla della destra, in particolare ultracattolica e tradizionalista. Anche per questo nel 2019 è stata scelta come casa del Congresso Mondiale delle Famiglie.

In questa tornata elettorale, il fronte della destra presenterà al primo turno tre candidati diversi. Sostenuto da Fratelli d’Italia e Lega – divisi al governo nazionale e nei gruppi parlamentari europei, ma uniti sul piano locale – c’è il sindaco uscente Federico Sboarina, tra gli speaker del convegno milanese di Fratelli d’Italia. A sfidarlo c’è l’ex sindaco Flavio Tosi. Già nel 2015 agli Stati Generali raccontava il suo tentativo di annacquare le simpatie per l’estrema destra per presentarsi come centrista. Ex leghista, oggi si presenta con una lista civica tutta concentrata sulla sua immagine di buon amministratore. Uno dei suoi hashtag è #tornailsindaco, per sottolineare l’incapacità della precedente amministrazione, in particolare in materia di sicurezza. A sostenerlo c’è una coalizione di cui fanno parte pezzi del centrodestra come Forza Italia o Coraggio Italia (il movimento del sindaco di Venezia Luigi Brugnaro e del governatore della Liguria Giovanni Toti) ma anche Italia Viva di Matteo Renzi. Il movimento di Tosi aveva già provato nel 2017 a esprimere una sua candidata ma non era riuscito a spezzare il fronte dei partiti tradizionali.

L’ultima formazione, la più radicale e minoritaria, è una lista civica che sostiene Alberto Zelger sindaco. Altro ex leghista, Zelger si definisce ultracattolico e portavoce del Coordinamento nazionale amministratori No Green Pass. Diverge con la Lega per l’appoggio a Draghi, con Fratelli d’Italia per il non essersi imposta contro le mascherine e vaccini. Nei suoi appuntamenti elettorali, ha dato ampio spazio alle voci di canali di disinformazione sulla guerra in Ucraina (come contro.tv) e alla scrittrice e giornalista Ornella Mariani, volto noto del mondo complottista rossobruno. È prevedibile che queste divisioni convergeranno su un unico candidato, nel caso di un ballottaggio, ma sono comunque il sintomo di una maggiore frammentazione rispetto al passato.

Probabilmente Vincenzo Sofo sorriderebbe a sentire il suo ex compagno di partito Borchia pronunciare l’aggettivo «conservatori». Rendere la Lega un partito più tradizionalmente di destra è stato il suo progetto fin da quando nel 2009 ha fondato il think tank dal nome Il Talebano (come si fa una destra). Il nome conferma quanto radicale sia la sua adesione al conservatorismo, da sempre. Direttore è il suo attuale assistente parlamentare locale, Fabrizio Fratus, ex Fiamma Tricolore, ex segretario di Daniela Santanché. Il Talebano, spiegava lo stesso Sofo in un’intervista del 2015 a Q Code Magazine, è nata «come ponte tra i movimenti identitari trasversali, per ampliare la base della Lega Nord». Obiettivo raggiunto, visti i risultati elettorali della Lega e il suo mutamento in partito nazionale.

Nel 2021 ha sposato la nipote di Marine Le Pen, quella Marion Maréchal che, dopo aver militato nel Front National, oggi è nel comitato esecutivo dell’alternativa a destra al RN, Reconquete!. Sofo è ormai un volto sempre più noto a Strasburgo e Bruxelles, ospite e commentatore molto richiesto. Intervistarlo è stato impossibile, quindi bisogna accontentarsi di quanto scrive. In merito alla sua scelta di passare dalla Lega a FdI, afferma sul suo sito che il motivo è il grado di adesione al «fronte identitario», e non i sondaggi, come si può maliziosamente pensare. Scrive Sofo che Salvini, entrando nel governo Draghi, l’ha abbandonato, mentre Meloni lavora per «la costruzione di un campo politico conservatore sufficientemente forte da impedire lo slittamento del centro verso la sinistra».

L’Europa delle nazioni

All’indomani delle europee 2019, le destre avevano accarezzato l’idea di unirsi in un solo gruppo parlamentare, ma distanze ideali e interessi particolari hanno fatto naufragare il tentativo. La cosiddetta internazionale sovranista non è mai nata e i partiti che ne avrebbero potuto fare parte si sono distribuiti tra i gruppi ID, ECR e, in parte, PPE. Poi, con l’uscita del Fidesz di Orbán dal Partito Popolare Europeo e l’acuirsi dello scontro tra Ue, Ungheria e Polonia sullo stato di diritto, si è tornato a parlare di «Europa delle nazioni».

Lo scorso luglio, sedici partiti, tra cui Rassemblement National, Fidesz, PiS, Lega e Fratelli d’Italia, hanno firmato una Dichiarazione sul futuro dell’Europa per «legittimamente resistere» alla creazione di «un superstato europeo». «La cooperazione delle nazioni europee – si legge nella Dichiarazione – deve basarsi sulla tradizione, sul rispetto della cultura e della storia delle nazioni europee, sul rispetto dell’eredità giudeo-cristiana dell’Europa e sui valori comuni che uniscono le nostre nazioni, non sulla loro distruzione».

Geert Wilders, Matteo Salvini, Marine Le Pen, Veselin Mareshki, Jaak Madison e Tomio Okamura durante il comizio "Prima l'Italia! Il buon senso in Europa" a Milano, il 18 maggio 2019 - Foto: Emanuele Cremaschi/Getty

Geert Wilders, Matteo Salvini, Marine Le Pen, Veselin Mareshki, Jaak Madison e Tomio Okamura durante il comizio “Prima l’Italia! Il buon senso in Europa” a Milano, il 18 maggio 2019 – Foto: Emanuele Cremaschi/Getty

Le due pagine di documento sono poco concrete, ma del resto i punti in comune tra un cartello di organizzazioni così numerose e diverse sono più culturali che politici. «Il dialogo con gli altri partiti europei mi ha portato la consapevolezza che l’agire europeo e globale è necessario anche per i partiti che rivendicano le autonomie territoriali. “Think local, act global”, invertendo quello che era uno slogan di sinistra», ragiona Davide Quadri, international secretary della Lega Giovani che lavora al Parlamento europeo per il gruppo ID; altro tessitore di relazioni che ha iniziato giovanissimo a frequentare le segreterie politiche dei sovranisti d’Europa.

Dopo la Dichiarazione sul futuro dell’Europa, ci sono stati altri incontri d’area, fino a quello di Madrid. Qualche settimana dopo, è iniziata l’invasione dell’Ucraina. Le fratture esistenti sui rapporti con la Russia di Putin sono tornate ad allargarsi, rischiando di diventare insanabili. Da un lato, il PiS polacco è diventato il primo sostenitore dell’Ucraina. Dall’altro, Orbán e Fidesz, pur approvando i primi round di sanzioni, hanno mantenuto uno degli atteggiamenti più ambigui di tutta l’Ue, secondo diversi commentatori di destra anche per motivi storici di contrasto con l’Ucraina.

«Un vento di cambiamento»

In questo contesto, il messaggio che il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki ha inviato alla conferenza programmatica di Fratelli d’Italia assume particolare rilevanza. L’esponente di PiS prima si augura che gli «ottimi risultati nei sondaggi» portino «un vento di cambiamento nella politica europea» e, subito dopo, ringrazia Meloni per la posizione che ha assunto nei confronti della Russia: «Grazie Giorgia per non aver esitato a fare una netta distinzione tra bianco e nero».

Fin dai primi giorni del conflitto, Meloni si è schierata apertamente. «Oggi è il momento di restare uniti e prendere posizione. E sappiamo molto bene che la nostra parte è il mondo occidentale» ha detto a Orlando, in Florida, intervenendo il 27 febbraio al Conservative Political Action Conference (CPAC), incontro annuale dei conservatori Usa. «Leggo sulla stampa di una presunta svolta atlantista di Giorgia Meloni. Vorrei ricordare che dal Msi a oggi la destra è sempre stata atlantista», ha ribadito la leader di FdI il 6 aprile, dimenticandosi come nella destra radicale ci sia fin dalle origini del Movimento sociale una corrente che non vuole stare con la Nato. In pubblico, però, il risultato è coerenza contro compromissione: a differenza della sorella Lega, i Fratelli d’Italia non hanno mai sfoggiato magliette con il volto di Putin o siglato accordi con il suo partito Russia Unita.

Nello scacchiere politico attuale, Morawiecki è per FdI un alleato più spendibile di quanto non lo sia Orbán per la Lega. La guerra in Ucraina sta allontanando Ungheria e Polonia, con la prima che sembra guardare sempre più ad est e la seconda che invece ha migliorato le sue credenziali nei confronti di Bruxelles. Nel 2023, dopo le elezioni italiane di maggio, ci saranno quelle polacche di novembre: «L’Italia ha bisogno del vostro successo. L’Europa ci conta», si augura il primo ministro polacco.

Le radici

«Voi cercavate di dipingerci come retrogradi che scimmiottano altri tempi, altre storie, e non vi accorgevate che intanto noi costruivamo una storia tutta nostra completamente nuova, disperatamente ancorata al nostro tempo». Giorgia Meloni, dal palco milanese della convention di FdI, rivendica e attacca. Il fascismo è il convitato di pietra del suo discorso. Il “voi” è l’appellativo per rivolgersi all’indistinta schiera di nemici sulla quale FdI ha costruito la sua ascesa. Nemici esterni ma anche interni, che hanno preso le distanze da un partito a lungo ritenuto impresentabile in quanto di estrema destra: «Voi sognate una detra sfigata nostalgica, cupa, perdente e invece noi siamo una destra vincente, siamo una destra seria, moderna, seria, credibile, rispettata, che non si è fatta mettere all’angolo – declama -. […] Continuate a raccontarvi le vostre favolette che noi intanto facciamo la storia».

«L’ideologia mondialista – prosegue – ha bisogno di privarci delle nostre radici». Queste sono il tesoro da difendere per la destra conservatrice. In quelle radici c’è anche il fascismo, come reso evidente da tutta la simbologia che accompagna una parte della militanza di FdI, come la commemorazione di Ramelli. La loro santificazione è un modo per riappropriasi di un pezzo di identità, per screditare gli accusatori e per scongiurare la profezia per cui i post fascisti non possono guidare un governo. L’ultima volta s’è avverata in Francia: per quanto impensabile anche solo cinque anni fa, il consenso di Marine Le Pen non è andato oltre il 40%. E ancora più a destra, Eric Zemmour di Reconquête!, l’intellettuale prestato alla politica con una storia molto diversa da Le Pen e Meloni, sostiene che a perdere sia stata la candidata e non le idee.

«So bene dove è piantata Fratelli d’Italia – dice ancora Meloni -, non so benissimo dove siano piantati gli altri. Spero che vogliano stare con noi». Ancora una volta, coerenza contro compromissioni. Il concetto è benedetto anche dalla vecchia guardia: «Gli alberi senza radici non crescono – ha riferito al Corriere della Sera lo storico portavoce di Giorgio Almirante, Massimo Magliaro -. Noi veniamo da una storia difficile, una storia che nessuno vuole restaurare e nessuno vuole rinnegare». In quelle radici, scommette Fratelli d’Italia, si ritroverà l’intera destra italiana.

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Autori

Lorenzo Bagnoli
Paolo Riva

In partnership con

Fondazione Feltrinelli

Editing

Giulio Rubino

Foto di copertina

Emanuele Cremaschi/Getty