Covid-19: il nodo carceri è una questione di diritti umani

7 aprile 2020 | di Lorenzo Bodrero, Matteo Civillini

Dal Garante dei detenuti alle associazioni, dagli avvocati ai familiari passando per i sindacati di polizia penitenziaria. L’appello è unanime: decongestionare le carceri prima che sia troppo tardi. L’emergenza sanitaria ha acuito la questione del sovraffollamento delle carceri, vecchio e irrisolto problema della giustizia italiana. Secondo il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale il tasso di affollamento è del 122%, con picchi oltre il doppio della capienza. A fronte di 50.931 posti disponibili ci sono 61.230 detenuti, oltre un quinto della capienza massima.

Il decreto cosiddetto Cura-Italia prevede l’assegnazione degli arresti domiciliari a coloro che devono scontare una pena o un residuo di pena entro i sei mesi. Tra i sette e i diciotto mesi è contemplato anche l’utilizzo del braccialetto elettronico. Fonti giudiziarie interpellate da IrpiMedia descrivono come a dir poco «oberati» gli uffici di sorveglianza, gli unici preposti a giudicare le richieste di scarcerazione provenienti dal detenuto, dai familiari, dai magistrati ma anche dal direttore del singolo carcere.

Indice di affollamento nelle carceri a febbraio 2020 (sopra) e andamento storico della popolazione e della capienza carceraria (sotto). Dati: Associazione Antigone, Istat

La misura denota «estrema timidezza da parte delle istituzioni nella gestione del problema», ha dichiarato a IrpiMedia Michele Miravalle, portavoce dell’associazione Antigone. La norma coinvolgerebbe meno di 4.000 detenuti ma «per rendere praticabili le condizioni minime di sicurezza sanitaria occorre liberarne almeno il doppio», ha aggiunto. E lamenta: «Inoltre, nessuno ha contezza del reale numero di braccialetti a disposizione».

Mentre il 2 aprile si è registrata la prima vittima per coronavirus tra i detenuti – 2 quelle accertate tra la polizia penitenziaria -, non mancano le perplessità intorno ai dati ufficiali. Al momento sono 140 le guardie carcerarie risultate infette, 26 i detenuti. «Non abbiamo motivo di non fidarci dei dati rilasciati. La domanda che dovremmo porci però – continua Miravalle – è: fin dove potranno arrivare quei numeri? Mai come oggi la “prevenzione” è tutto, se arriveremo alla “reazione” allora sarà troppo tardi».

Braccialetti elettronici, quell'appalto in parte inevaso

Da risorsa a ostacolo. Il mancato utilizzo di un numero adeguato di braccialetti elettronici è il più classico dei colli di bottiglia. Disporne a sufficienza porterebbe a decongestionare l’affollamento delle carceri e a un maggiore controllo nella diffusione del contagio. Il forte ritardo nell’esecuzione del contratto per la fornitura (l’installazione e l’attivazione mensile di 1.000 braccialetti vinto da Fastweb, insieme alla Vitrociset, risale ormai tre anni fa) è un nodo irrisolto, tornato a galla con le misure per contenere il coronavirus negli istituti di pena.

Il servizio sarebbe dovuto partire già a fine 2018 ma mancava ancora il via libera del ministero dell’Interno – allora guidato da Matteo Salvini – per la nomina della commissione di collaudo. «Ad oggi, dal sito della Polizia di Stato, risulta che la procedura di collaudo sia ancora aperta» ha rilevato il quotidiano Il Dubbio che ha dedicato una lunga inchiesta al tema. Secondo la relazione tecnica il contratto sarebbe partito a dicembre 2018 e in 15 mesi sarebbero stati attivati 5.200 braccialetti, 350 al mese, ben al di sotto degli accordi presenti nell’appalto.

La stessa relazione dice anche che fino a metà maggio ne saranno disponibili 2.600, un numero che forse spiega l’immobilismo istituzionale verso le esortazioni allo sfollamento dei penitenziari. In un’intervista a Radio Radicale del 27 marzo, il sottosegretario agli Interni Achille Variati ha detto che «da oggi verranno resi disponibili circa 5.000 braccialetti che saranno consegnati con un numero non inferiore ai 300 a settimana». Ancora poco: associazioni e garanti dei detenuti auspicano il rilascio tramite misure alternative alla detenzione di non meno di 10.000 persone.

Della stessa posizione è Mauro Palma, Garante Nazionale dei detenuti che si fa portavoce delle pressioni che arrivano dagli oltre 60 colleghi dispiegati sul territorio: «Quella norma è un primo passo ma perde di senso se non ne saranno presi ulteriori provvedimenti», dice Palma a IrpiMedia. «La priorità – continua – è allentare gli spazi, non farlo avrebbe forti ripercussioni, anche all’esterno, ma il governo deve decidere in fretta e ancora più celermente deve darne esecuzione».

L’opinione diffusa tra gli addetti ai lavori è che se all’esterno il picco dell’infezione sembra essere raggiunto, all’interno delle carceri sia invece ancora in piena crescita. E così i timori crescono, soprattutto alla luce delle condizioni delle strutture e della popolazione carceraria. Il 67% di loro, secondo Antigone, ha almeno una patologia, il 10% è sopra i 60 anni e quasi mille detenuti sono sopra i 70. Le misure intraprese fin qui per isolare le infezioni sono considerate ampiamente insufficienti. Scarso il numero di mascherine, personale sanitario ridotto all’osso, spazi di isolamento inadeguati e promiscuità con potenziali positivi creano forti tensioni tra i detenuti.

Chiara* è la madre di Diego* e, come tutti gli altri famigliari, non vede suo figlio da oltre un mese a causa delle misure di prevenzione. I colloqui sono stati aboliti e avvocati e parenti possono comunicare solo via telefono. «Ieri abbiamo fatto la prima video chiamata», racconta Chiara a IrpiMedia, «mi ha detto “mamma la situazione è ben peggiore di quella che vi raccontano, sta degenerando”». L’area allestita per i contagiati è stata soprannominata “braccio Covid” dai detenuti. Ci vengono trasferiti esclusivamente quelli sottoposti a tampone, che viene somministrato quando ormai i sintomi sono palesi. Fino a un attimo prima, però, il detenuto divideva la cella con altre tre o quattro persone.

Ma la preoccupazione di Chiara è rivolta anche agli altri: «E se la situazione peggiora, come è probabile che sia? Si ribelleranno? Temo il peggio…». I colloqui virtuali con Diego continueranno una volta alla settimana. «Prima di salutarci mi ha detto “ti prego, mamma, siate voi la nostra voce, non fateci morire nel silenzio”».

Alta tensione

Scontri e sommosse sono già scoppiate all’indomani dell’emanazione delle prime contromisure volte a isolare il virus nei penitenziari italiani. Da Salerno a Modena, da Napoli a Vercelli, da Frosinone ad Alessandria, da Foggia a Pavia, i carcerati lamentavano non solo l’abolizione delle visite con i parenti ma anche, e soprattutto, l’alto livello di concentrazione di persone e l’impossibilità di mettersi al riparo dall’infezione. Le violente proteste hanno causato 13 morti, 77 invece i detenuti evasi.

È di pochi giorni fa un audio pubblicato dal Corriere della sera di alcune guardie penitenziarie registrato durante lo svolgimento degli scontri. Una di queste denuncia il tentativo messo in atto da alcuni ristretti di uccidere lui e i colleghi allagando i locali e mettendo a contatto l’acqua con dei fili elettrici. Un’altra si rivolge ai colleghi e in tono allarmato grida: «Hanno sfasciato tutto… Tutti fuori sono… Non c’è più controllo… Era inevitabile che succedesse».

Tutto questo, un mese fa. E oggi? Le proteste sono state sedate ma il malumore rimane. Sulle piattaforme di messaggistica cominciano a circolare appelli lanciati dall’interno dei penitenziari in cui si denunciano le pessime condizioni sanitarie e igieniche delle aree, in particolare, adibite alla gestione del contagio. Al quotidiano di via Solferino ha parlato anche il sostituto procuratore di Napoli, Catello Maresca: «La questione carceraria è molto grave e seria», dice il magistrato, «le carceri sono delle polveriere pronte a esplodere nuovamente dopo i fatti del 7 marzo. Gli interventi presi sono assolutamente insufficienti, bisogna fare i tamponi a tutti i detenuti e alla polizia penitenziaria».

I moniti del Consiglio d’Europa

La «questione grave e seria» richiamata dal procuratore Maresca ha origini lontane. Il sovraffollamento delle carceri è una costante da almeno dieci anni, con picchi come quello del 2010 che non ha precedenti nella storia della Repubblica (vedi infografica).

All’appello unanime sulla necessità di ridurre il numero di detenuti si è aggiunto quello del Consiglio d’Europa (Coe). Attraverso il proprio comitato anti tortura (Cpt), ha richiamato una serie di principi a cui tutti gli Stati membri devono attenersi per evitare il rischio di pandemia nelle carceri: «Tutte le autorità competenti dovrebbero compiere sforzi concertati per ricorrere ad alternative alla privazione della libertà. Questa esigenza diviene imperativa, in particolare in situazioni di sovraffollamento». Commutazione della pena, rilascio anticipato e libertà vigilata sono le soluzioni proposte dal Consiglio.

«Non si tratta di un amnistia, tento meno di un indulto come tanti sostengono», commenta Miravalle di Antigone. «Quello che chiediamo è un allargamento delle misure alternative alla detenzione per, almeno, tutta la durata dell’emergenza».

Sempre dal Coe sono arrivati, nel giro di un anno, due pareri negativi sul sistema carcerario italiano. Il primo nell’aprile 2019 quando l’Italia è risultata tra gli ultimi posti in Europa per il sovraffollamento delle carceri, preceduta solo da Macedonia del Nord, Francia e Romania. Particolarmente alta è risultata anche la percentuale di detenuti in attesa di giudizio, con il 34% della popolazione carceraria contro il 22% della media europea.

Il secondo, lo scorso gennaio, quando a termine di visite ispettive agli istituti di Milano Opera, Biella, Saluzzo e Viterbo il Cpt ha constatato la necessità di rivedere il regime di carcere duro cosiddetto 41-bis – giudicato carente nelle attività sociali – e di abolire l’istituto di isolamento diurno poiché «anacronistico» e dannoso per la salute psicologica del detenuto.

* Nome di fantasia | Foto: il corridoio di un carcere – Lorenzo Bodrero/IrpiMedia

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