Diritti all’oblio: perché invece dovremmo ricordare

24 Febbraio 2023 | di Raffaele Angius, Lorenzo Bagnoli, Riccardo Coluccini

«Tu che percorri gli atrii regali del grande palazzo, ricorderai i meriti del podestà Oldrado, cittadino lodigiano, difensore della fede e della spada, che costruì il palazzo e bruciò i Catari, com’era suo dovere»

Questa incisione è una fake news incancellabile. Campeggia su un fianco del Palazzo della Ragione di piazza Mercanti, a qualche decina di metri dal Duomo. Oldrado da Tresseno nell’anno del Signore 1233 è stato podestà di Milano. Si è guadagnato i posteri con un altorilievo che lo ritrae a cavallo, al di sopra di questa targa commemorativa con la quale si è fatto attribuire i meriti per la costruzione di un palazzo che ha solo ultimato e per la promulgazione di una legge contro gli eretici che non è mai stata applicata, ricorda il libro Il giro del mondo di Milano in 80 misteri. Tuttavia, perché la si tramandi nei secoli dei secoli, è bene che la balla abbia qualche attinenza con il vero e il verosimile; che sia manipolazione dei fatti, invece di pura finzione. Nel caso di Oldrado, l’interesse per il palazzo e per la guerra agli eretici erano veri, non altrettanto i risultati raggiunti.

A chi servono le fake news

Dalla notte dei tempi chi dispone del potere, politico o economico che sia, cerca di imporre la sua visione della storia. Prima lo si faceva con incisioni, statue, monumenti, oggi con radio, televisione e internet. Un tempo solamente pochissimi avevano accesso agli strumenti che permettevano di scrivere la storia, o verificarne l’attendibilità. Oggi, si dirà, internet, la rete, è a disposizione di tutti (o quasi) gratuitamente (o quasi).

Ma l’apparente partecipazione collettiva alla costruzione del registro dell’esperienza umana ha moltiplicato esponenzialmente gli Oldrado del mondo. Il debunking, la decostruzione delle notizie false è, d’altra parte, una pratica quotidiana sul web. Già nel 2017, però, il CssLab, centro studi che si occupa di disinformazione legato alla Scuola Imt Alti Studi di Lucca, ha analizzato gli effetti dell’infodemia sul pubblico cospirazionista:

«Le nostre analisi mostrano che i contenuti di debunking rimangono fondamentalmente confinati all’interno della camera dell’eco scientifica e che solo alcuni utenti di solito esposti ad affermazioni poco fondate interagiscono attivamente con questi post di correzione e spiegazione – si legge in Debunking in un mondo di tribù, ricerca basata su un campione di 50.250 post di Facebook, citata da Repubblica – l’informazione che dissente è ignorata e i sentimenti espressi [dopo la lettura] sono negativi».

Più che smontare, quindi, serve forse fornire le informazioni giuste e uscire dai recinti che le fake news costruiscono per i propri proseliti.

L’inchiesta #StoryKillers – progetto giornalistico coordinato da Forbidden Stories a cui hanno partecipato oltre cento giornalisti di trenta testate internazionali – ha invece raccontato, ancora una volta, quanto la disponibilità delle informazioni “libere” sia illusoria: la possibilità di trovare informazioni online è condizionata da un esercito di mercenari della disinformazione, teste di un’unica idra. Questi mercenari possono diffondere falsità oppure rendere irreperibili notizie “scomode”.

Per quanto sconfinati possano essere i territori del web la gran parte delle persone vi accede attraverso una sola porta: quella di Google. Sono quasi 5,6 miliardi i suoi utenti e le ricerche elaborate al giorno sono 8,5 miliardi. Ai risultati del motore di ricerca si sovrappone la diffusione delle notizie tramite i social network, programmati per propagare una verità “su misura” di ciascuno, purché l’utente rimanga incollato dentro la piattaforma. È il risultato di diversi studi condotti dal collettivo di Tracking Exposed, che in una serie di sperimentazioni – durante le elezioni francesi nel 2017 e in Italia nel 2018 – ha dimostrato che Facebook tende a sottrarre alla vista dell’utente le informazioni non affini con la sua visione politica o ideologica. Per la prima volta quella che già era la percezione comune degli utenti diventa un dato misurato e dimostrabile, che dà evidenza di come chi controlla la principale porta d’accesso a internet o le piattaforme di distribuzione, controlla di fatto ciò che gli utenti apprendono e conoscono.

Ma se l’accesso a Internet è un diritto umano (come stabilito, tra gli altri, dalle Nazioni unite nel 2012) chi ne fruisce ha diritto a possedere le chiavi di un archivio che sia prima di tutto affidabile e completo e non solo influenzato dai broker del listino di Google o Meta (gruppo che possiede Facebook, Instagram), che fanno salire e scendere gli url a seconda di quanto paga un cliente.

I bersagli della disinformazione

Mara è una cittadina italo-kenyana che abita a Nairobi. S’interessa di politica: legge i giornali spesso, s’informa, conosce il Paese – e le sue dinamiche – a menadito. Eppure non poteva avere idea che qualcuno stesse cercando di attaccare le elezioni intrufolandosi negli smartphone degli assistenti del candidato William Ruto, poi eletto presidente. Qualcuno poteva infatti leggere le email e scrivere direttamente ai contatti Telegram dei bersagli hackerati. Il lavoro è stato svolto da Team Jorge, il gruppo di mercenari israeliani della disinformazione scoperto dai colleghi di The Marker, Radio France e Haaretz, parte del consorzio #StoryKillers, di cui abbiamo parlato nella prima puntata.

Team Jorge crea eserciti di avatar, profili falsi e insospettabili agli occhi dell’utente comune, per manipolare le informazioni che girano sui social. Ma ancora, cerca anche di ottenere informazioni riservate da usare per attaccare i rivali dei propri clienti, attività che li ha visti coinvolti nel 2015 insieme a Cambridge Analytica nel tentativo di contribuire alla ri-elezione dell’allora presidente nigeriano, Goodluck Jonathan, contro il rivale Muhammadu Buhari. I documenti sarebbero poi stati forniti alla stampa ma non sembrano aver sortito l’effetto desiderato: Buhari ha vinto comunque. Il bersaglio di Team Jorge, organizzazione che secondo quanto ha ricostruito #StoryKillers era ingaggiata al prezzo di centinaia di migliaia di dollari, sono cittadini che si prestano a esprimere un voto e che per farsi un’idea della materia navigano online.

Per approfondire

Assassini di storie

Viaggio nell’industria globale della disinformazione. Un’inchiesta nata dall’omicidio di una giornalista in India che termina in Spagna, in una strana società che cancella contenuti online

Lorenzo Romani lavora per Ernst&Young e di mestiere fa due diligence: svolge cioè analisi da fonti aperte su commissione di grandi aziende o istituti finanziari e produce valutazioni sul rischio reputazionale relativo a partner o fornitori. Il lavoro degli analisti di open source intelligence (ricerche da fonti aperte – OSINT) consiste nel cercare di costruire un profilo di società o di privati attingendo prevalentemente da dati societari, visure camerali, bilanci e informazioni disponibili in rete.

«Anche se non quotidianamente – racconta -, capita con una certa frequenza di individuare contenuti positivi promossi solo per migliorare l’immagine pubblica di una persona o magari di riscontrare la rimozione di informazioni scomode che potrebbero affossarla. ll nostro lavoro consiste anche nel cercare di aggirare questi tentativi di manipolare la realtà attraverso la manipolazione di ciò che si trova in rete».

Naturalmente chi fa queste ricerche professionalmente sa come superare questi ostacoli, «utilizzando fonti d’informazioni diverse e anche, banalmente, diversi motori di ricerca in contemporanea», precisa l’esperto. A Romani e al suo staff si rivolgono grossi gruppi industriali ma sempre più spesso anche aziende medio-grandi, che richiedono una valutazione delle loro controparti. Più rare le richieste degli enti pubblici e dei privati, quasi nessuna invece da parte delle piccole medie imprese che in mancanza di un controllo approfondito potrebbero giudicare veritiere le credenziali digitali di chi si propone loro per un affare.

Come già raccontato da IrpiMedia, è quanto successo agli Ordini degli avvocati di Roma e Milano, che hanno stipulato una convenzione con un’azienda – che quindi ha goduto del prestigio dato dalla sua pubblicizzazione – senza nemmeno accertare che quanto dichiarava di se stessa fosse reale o meno.

Mara e Lorenzo sono ai due estremi dello spettro dei bersagli della disinformazione: da un lato chi le informazioni le consuma, dall’altro chi le impiega per lavoro. In mezzo non c’è alcun limite, regola o vigilanza possibile. E mentre l’Autorità garante per la protezione dei dati personali è l’istituto deputato a rendere concreto il diritto all’oblio, quindi decidendo in merito alle richieste di deindicizzazione di pagine e articoli, non sembra esistere una controparte: qualcuno in grado di sanzionare chi produce contenuti ingannevoli creati per manipolare la rete, né alcuno che possa multare un’azienda quando questa si finge un giornale nel chiedere a Google la deindicizzazione di un articolo. Esattamente quanto successo a IrpiMedia, che ha scoperto suo malgrado di essere titolare di quattro richieste di rimozione ai danni di un’altra testata – la violazione del copyright è il pretesto – senza che nessuno della nostra redazione ne fosse al corrente.

Su suggerimento di diversi esperti, IrpiMedia si è rivolta ad Agcom, autorità per le garanzie nelle comunicazioni, per chiedere se non fossero loro preposti a vigilare in tal senso. Come si legge nel sito della stessa organizzazione, retta da Giacomo Lasorella, l’autorità ha il «duplice compito di assicurare la corretta competizione degli operatori sul mercato e di tutelare i consumi di libertà fondamentali degli utenti», oltre a svolgere «funzioni di regolamentazione e vigilanza nei settori delle comunicazioni elettroniche, dell’audiovisivo, dell’editoria, delle poste e più recentemente delle piattaforme online». Nessuna risposta è mai pervenuta.

Nel frattempo Mara e Lorenzo saranno tanto più esposti a notizie false, quanto più il mondo di chi produce informazioni, il giornalismo in particolare, non cercherà di riacquistare la propria autorevolezza. Oggi le redazioni fanno costantemente uso di pubblicità redazionali – articoli di promozione commissionati a uffici stampa che cercano di dare positivo risalto a ciò che fa il loro cliente – senza che il pubblico di lettori ne sia pienamente consapevole. In fondo agli articoli si affastellano gli “strilli” che conducono a contenuti promozionali che servono solo a generare click, nella speranza di racimolare più pubblicità. Il confine tra marketing e giornalismo si è assottigliato con la creazione di ibridi che non sempre sono di facile comprensione per chi legge.

Le buone maniere dell’informazione

Dalle conversazioni con chi si occupa di reputazione online, si evince che deindicizzare e anonimizzare è prima di tutto un fatto di quieto vivere. Si accondiscende a queste richieste – noi stessi a IrpiMedia lo abbiamo fatto alcune volte – perché sottrarre un articolo ai risultati dei motori di ricerca è apparentemente meno lesivo dell’integrità del giornalista di quanto non sia cancellarlo del tutto. Deindicizzare o anonimizzare non significa modificare ciò che si è scritto, non è un’ammissione di colpa. Al contrario, queste due operazioni vanno incontro a una richiesta di una controparte e risolvono a monte una controversia che altrimenti potrebbe finire in tribunale. Qualsiasi cosa pur di evitare una querela, che nella gran parte dei casi punta a disincentivare la stampa a coprire una notizia, piuttosto che a raddrizzare un torto.

Tuttavia intervenire sull’indicizzazione o anonimizzare è molto più efficace oramai di una querela, perché mentre i giornalisti sono pronti a lottare contro un chiaro tentativo di censura, la richiesta apparentemente moderata di deindicizzazione punta sulla moral suasion e sull’inerzia delle testate giornalistiche, poco attrezzate per difendersi da questa forma di attacco “gentile”.

Senza dubbio, la prassi delle richieste di rimozione degli articoli ha il lato positivo di spostare le controversie fuori dai tribunali e renderle più “agili”. L’altra faccia della medaglia è che trasforma la decisione di mantenere o meno un’informazione in un semplice «favore» per evitare qualcosa di peggio. La querela non dovrebbe essere un’arma per minacciare, ma per difendere la vittima di un’ingiustizia commessa da chi riporta informazioni scorrette. Invece in questi anni ha sempre più assunto la forma di uno strumento intimidatorio. Questo non giustifica i giornalisti che talvolta si arroccano dietro al diritto di cronaca o alla lesa libertà di stampa per giustificare un lavoro superficiale e approssimativo.

Ma nella lotta tra i due estremi, fra le querele minatorie e il pressapochismo acchiappa-click, il giornalista finisce per perdere il suo ruolo e valore sociale ed è invece sempre più percepito o come un martire o come un carnefice: mai come semplice fornitore di un pubblico servizio.
In questo contesto, assassinare una storia non è più considerato un “reato” perché abbiamo smesso di considerare la “verità” del suo contenuto come il suo vero valore per la collettività.

Si fa presto a dire libertà di stampa

C’è la falsa opinione che una volta che un articolo è online, ci resti per sempre. Invece agenzie come Eliminalia contribuiscono a seppellirli dove nessuno li trova, mentre l’incuria della gestione degli archivi in rete, che siano di giornali o di enti pubblici come i tribunali, contribuisce a “rompere” i link e renderli introvabili. A questo si aggiungono le maglie sempre più larghe dell’applicazione del diritto all’oblio o richieste di tutela dei propri dati che si scontrano con il diritto di cronaca (in Italia la riforma proposta dall’ex ministra della Giustizia Marta Cartabia sta creando molte perplessità tra chi deve occuparsi di cronaca giudiziaria).

Il problema della rimozione di contenuti online è noto da almeno vent’anni: l’associazione statunitense per i diritti digitali Electronic Frontier Foundation mantiene un archivio e già nel 2003 segnala l’abuso del copyright per silenziare articoli scomodi. Negli anni la situazione si è aggravata e oggi governi di Paesi come Nicaragua, Tanzania ed Ecuador sfruttano sistematicamente le violazioni di copyright come un’arma per silenziare critici e oppositori online.

Con la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 2014, in Europa è emerso anche un nuovo scenario: con il diritto all’oblio le piattaforme come Google devono rimuovere informazioni e dati personali quando ricevono una richiesta dall’interessato, soprattutto se le informazioni non sono più rilevanti. E proprio sulla rilevanza delle informazioni si apre una battaglia che procede a colpi di sentenze della Corte. Ci sarebbero delle linee guida per decidere come trattare una richiesta di diritto all’oblio, le prime pubblicate nel 2014 mentre le più recenti nel 2020, e dovrebbero offrire un aiuto ai Garanti per la privacy nazionali nel bilanciare il diritto all’oblio e il diritto all’informazione. Il tutto è però affidato alla discrezionalità non solo delle Autorità, i cui processi interni nascono e operano nell’alveo di un meccanismo di garanzia, ma anche delle stesse piattaforme, che possono decidere anche in assenza di un pronunciamento istituzionale.

Di fronte alla scomparsa degli articoli, già nel 2016 i giornalisti Mario Tedeschini-Lalli e Nicolas Kayser-Bril si sono posti il problema opposto: il “diritto a ricordare”. Avevano in mente di creare “paradisi del ricordo”, sullo stesso stile dei “paradisi fiscali”, luoghi dove salvare i contenuti dall’oblio dalle legislazioni che impongono la deindicizzazione.

L’iniziativa si chiamava Offshore Journalism Platform: «I giornalisti e gli editori non “scrivono più per il presente”, ma producono informazioni da consumare nel tempo, in contesti diversi e inimmaginabili. A tutti gli effetti, stanno “scrivendo per il futuro”- si legge nel manifesto del report finale, del 2018 -. Scrivere per il futuro significa dotare ogni informazione di tutti gli attributi che la renderanno reperibile e rilevante per un pubblico diverso, in un momento diverso. Che gli editori e i giornalisti siano o meno pienamente consapevoli di questa possibilità, si tratta di un passo da gigante nella ridefinizione della libertà di parola e di stampa».

In questi cinque anni non sembra che in molti si siano preoccupati di scrivere per il futuro. Inoltre le decisioni sugli archivi online della Corte europea dei diritti dell’uomo sono sempre più problematiche dal punto di vista di chi deve gestire un archivio.

È emblematico un suo pronunciamento del maggio 2021 contro il quotidiano belga Le Soir. Nel 2008 il giornale ha riprodotto nel proprio archivio online un vecchio articolo del 1994 in cui si parlava di un uomo che in un incidente ha provocato la morte di due persone e ne ha uccise altre tre. Condannato nel 2000, ha scontato la sua pena nel 2006. Il protagonista dell’incidente ha chiesto di essere anonimizzato, il giornale si è rifiutato. Il caso è andato fino alla Corte di Strasburgo e la decisione è stata contro l’editore di Le Soir. Questo però implica che qualunque articolo di cronaca giudiziaria sia in pericolo.

Nella sentenza si legge che un gruppo di esperti ha stabilito che la questione non riguardava la libertà di stampa «ma solamente la sua (dell’articolo, ndr) accessibilità sul sito del giornale». Come a dire che il diritto di informare non è intaccato dal momento che il giornalista è libero di scrivere, sebbene la notizia non sia leggibile da nessuno, producendo uno sbilanciamento dei diritti tutto a favore di aziende come Eliminalia, che sfruttano le fragilità del sistema dell’informazione a beneficio di clienti ricchi e potenti.

«Con [l’emergere] di queste aziende è diventato molto più efficace sfruttare le già presenti iniquità del sistema», sostiene Katherine Trendacosta, direttrice dell’area politiche e attivismo del Electronic Frontier Foundation: «Il modo più semplice per rimuovere qualcosa è presentare un reclamo per violazione del copyright». O sfruttando il diritto all’oblio. Vero o falso? Non è importante. Conta evitare grane, tanto più grandi quanto più sono ampie le disponibilità economiche di chi reclama il proprio diritto.

Foto: Illustrazione di Claudio Capellini
Editing: Giulio Rubino

Il business della reputazione conquista l’Italia, la saga di Didac Sanchez e Enea Trevisan

#StoryKillers

Il business della reputazione conquista l’Italia, la saga di Didac Sanchez e Enea Trevisan

Raffaele Angius
Lorenzo Bagnoli

Aggiornamento 27 marzo 2023: vedi box a fine articolo

Come nella migliore tradizione dell’industria tecnologica, Diego Jiménez Sánchez ama rappresentare sé stesso come un imprenditore che si è fatto da solo, covando le idee migliori in uno scantinato o – come in questo caso – in un orfanotrofio. È qui che il trentenne imprenditore spagnolo sostiene di aver iniziato a smanettare con il computer per scappare dalla famiglia disagiata. A soli vent’anni, dice, ha avuto l’idea di costituire Eliminalia, società che da un decennio promette di cancellare dal web il passato dei suoi clienti, purché ben paganti, in tutto il mondo. La ragione è da trovarsi nelle sue vicende personali: abusi e violenze sessuali subìte e poi raccontate dai giornali. Informazioni erogate dai motori di ricerca non appena si inseriva il suo nome online e che, come raccontava lui stesso al Corriere della Sera, gli impedivano di trovare lavoro e acquisire clienti.

È il 2011 e sono gli anni in cui in Europa prende forma il tema della privacy, si configurano i prodromi del Regolamento generale per la protezione dei dati personali (Gdpr) e il diritto all’oblio è sempre più urgente nel dibattito pubblico. Da qui nascerebbe l’intuizione di Didac (Diego in catalano).

Il progetto #StoryKillers ha scoperto come Eliminalia sia una delle aziende che più di tutte, negli ultimi anni, ha sviluppato capacità di reputation laundering, lavanderia reputazionale, su scala globale. Indispensabile precisare come il diritto all’oblio sia necessario per controbilanciare l’effetto che l’informazione può avere sugli individui, spesso fragili o vittime di un sistema che li ha portati a delinquere. Certamente a loro spetta il diritto, pagato il proprio debito con la società, di essere riabilitati. E non vi è dubbio che la possibilità di non essere costantemente associati agli errori del passato sia indispensabile a rendere concreto il principio secondo il quale la punizione deve «tendere alla rieducazione del condannato», come recita l’articolo 27 della Costituzione italiana. Ma non è questo il cliente-tipo di Eliminalia.

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L’inchiesta #StoryKillers

Due persone condannate per traffico di droga, una accusata di riciclaggio di denaro per un giro di prostituzione, altri due condannati per aver contribuito a realizzare una truffa sulle criptovalute che ha rubato miliardi di dollari agli investitori. Sono alcuni dei circa 1.400 clienti – tra cui dozzine di condannati o indagati – che hanno assunto Eliminalia (a fine dicembre 2022 ribattezzata iData Protection S.L.) per “cancellare il proprio passato”.

Cinquantamila documenti interni ottenuti da Forbidden Stories e condivisi con un gruppo di 30 testate, tra cui IrpiMedia, hanno permesso di mappare la rete di influenze digitali operate da Eliminalia in tutto il mondo. Oltre ai clienti, spesso insoddisfatti dai risultati dell’azienda, i documenti interni permettono di ricostruire anche le tecniche impiegate da Eliminalia, che fa ricorso alle leggi su privacy e diritto d’autore per intimidire i giornalisti e manipolare i risultati dei motori di ricerca, quando non impersonano membri dell’Unione europea per dare un tono più ufficiale alle diffide inviate alle testate giornalistiche. Metodi suggestivi e capaci di attrarre i peggiori criminali e cleptocrati, che per anni hanno potuto contare sui servizi offerti da Didac per dare un colpo di spugna al loro passato. Eliminalia è una delle teste dell’idra della disinformazione, l’industria sulla quale indaga il progetto #StoryKillers.

Una storia torbida

«Mi ha fatto molto male trovare riferimenti a ciò che era accaduto nella mia infanzia su internet – scrive Sanchez nella sua autobiografia, Il segreto del successo –. Ho iniziato a studiare come [cancellare i riferimenti] e in poche settimane sono riuscito a cancellare la maggior parte di ciò che era stato scritto. Così ho visto che c’era un mercato per questo e ho creato Eliminalia». L’intuizione funziona: i servizi dell’imprenditore prendono piede e questo gli permette di cambiare vita. Ville costose, auto di lusso e abiti eleganti ornano il piccolo impero di cui fa vanto nelle interviste che elargisce generosamente in giro per il mondo. Il matrimonio in Ucraina con una star della televisione locale, a giugno del 2021, è da rotocalchi.

Un’ombra dal passato turba però la favola di riscatto del giovane prodigio Didac Sanchez: porta il nome di un ricco notaio spagnolo, Jose Maria Hill Prados. Secondo quanto stabilito da un tribunale spagnolo nel 2007, ha abusato sessualmente di Didac Sanchez e di sua sorella. Era stato proprio Sanchez ad accusarlo, salvo poi ritrattare appena un anno dopo, sostenendo di averlo fatto sotto pressione da parte delle forze dell’ordine. Non è mai stato chiaro cosa sia successo tra i due, ma la corte spagnola non crede alla ritrattazione della vittima e respinge un ricorso presentato da Hill Prados.

Nonostante i trascorsi, durante il banchetto nuziale di Sanchez, Jose Hill Prados siede al tavolo degli sposi. I due sono soci in affari dal 2015, quando il notaio ha finito di scontare la sua pena in carcere. Il suo nome compare tra manager e azionisti di società in Ucraina che appartengono allo stesso gruppo di Eliminalia.

A sinistra un’immagine di Hill Prados e a destra un frame del matrimonio di Sanchez, confrontati per accertare che il notaio fosse effettivamente presente – Occrp
Jose Maria Hill Prados durante il matrimonio di Didac Sanchez – Screenshot da @JS_Wedding_Events/YouTube.com

Gli investigatori spagnoli sospettano che sia Hill Prados il vero responsabile delle fortune di Sanchez. A giudicare dalle ricerche che si possono effettuare su Google, potrebbe anche essere stato uno dei primi a utilizzare la lavanderia reputazionale: il motore di ricerca più famoso del mondo – titolare del 91,88% delle ricerche che avvengono sul web – non dà infatti notizie sul suo conto. I risultati sono stati rimossi o, come si dice in gergo, deindicizzati. Hill Prados e Sanchez non hanno risposto a una richiesta di commento.

Le accuse di traffico di bambini

Almeno fino a prima dello scoppio della guerra, l’Ucraina – Paese natio della moglie – è stato il cuore degli affari di Didac Sanchez. È a Kyiv che ha sede la Maidan Holding, società che controlla tutto il gruppo societario di Sanchez, con investimenti nel campo medico, nel marketing, negli strumenti finanziari e nelle nuove tecnologie.

Tra le varie aziende di Sanchez compare anche Subrogalia, società specializzata in maternità surrogata e che individua prevalentemente in Ucraina le donne in grado di condurre una gravidanza “conto terzi”. Secondo i registri commerciali, Sanchez apre Subrogalia in Spagna nel 2013. Poco tempo dopo Hill Prados esce di prigione e fondano assieme una società con lo stesso marchio in Ucraina. Poi Hill Prados acquisisce il controllo della maggioranza delle quote. Un impiegato della società ucraina contattato da Occrp sostiene di aver sempre ritenuto che Hill Prados fosse il suo capo. L’impresa viene coinvolta in alcuni scandali ed è stata indagata in almeno due Paesi per reati che includono la vendita di neonati e la fornitura a “clienti” di bambini non biologicamente loro. Subrogalia nel 2019 è stata obbligata a risarcire alcuni clienti per «grave inadempienza».

«Abbiamo pagato tutto due volte»

In un probabile tentativo di salvare il proprio business dalle polemiche, nel 2017 Subrogalia cambia nome: la società ucraina viene rinominata Eurosurrogacy, mentre quella spagnola diventa Gestlife.

IrpiMedia è riuscita a contattare una delle clienti di Gestlife, alla quale si è rivolta nel 2020 per affidare a una madre surrogata ucraina la propria gravidanza. Irene (nome di fantasia), accusa la società di truffa. Quando l’Ucraina è stata invasa dalla Russia, Gestlife ha chiesto ai propri clienti di pagare il trasferimento delle madri surrogate in Georgia, dove oggi opererebbe il gruppo di Hill Prados e Didac Sanchez. Nonostante avesse già pagato intorno agli 80 mila euro, Irene ha accettato: garantire la vita della gestante di suo figlio era la priorità. La preoccupava però il fatto che trasferendosi in Georgia sarebbe cambiato il contesto legale dell’affido di un figlio da una madre surrogata.

Andare all’estero per le famiglie italiane che vogliono un figlio in surrogazione è l’unica strada possibile, visto che la pratica è vietata nel nostro Paese. Mentre l’Ucraina è un Paese noto per la semplicità dell’affido dei neonati, la Georgia è un mercato meno esplorato. Gestlife aveva dato garanzia che non sarebbe cambiato nulla, invece le leggi georgiane si sono rivelate più stringenti. Irene si era premurata di avere conferma che in termini di costi e di procedure legali per ottenere l’affido del bambino il suo contratto rimanesse invariato. Non è stato così: «Tutto quello che era compreso dal nostro contratto, lo abbiamo pagato due volte. Alla fine abbiamo speso 14 mila euro che non erano preventivati», spiega.

Ha passato cinque mesi in Georgia aspettando di ottenere i permessi per rientrare in Italia e sostiene di aver dovuto coinvolgere un proprio team di avvocati per poter tornare in Italia con il proprio bambino. Irene ha già reso nota la sua vicenda su Il Fatto quotidiano e SkyTg24. Rendendo pubblica la sua vicenda, sta sfidando una «speciale clausola di confidenzialità, rispetto e non aggressione dell’immagine del cliente, dell’azienda e dei suoi dipendenti» la cui trasgressione comporterebbe una penale di ulteriori 14 mila euro, stando al contratto con Gestlife che IrpiMedia ha potuto visionare.

Dal registro imprese ucraino, risulta che Didac Sanchez non abbia ruoli in Gestlife dal 31 dicembre 2017. Tuttavia, documenti ottenuti da IrpiMedia dimostrano che il passaggio di mani non è stato lungo e anzi è rimasto in famiglia: a firmare il contratto di Irene è Alan Alexis Hill Prados, uno di quattro figli adottivi di origine russa adottati negli anni Novanta dal notaio spagnolo quando erano ancora bambini, attraverso una fondazione da lui stesso creata. Nel documento Alan Alexis è definito «amministratore della società Assistance Group Llc […] con sede legale a Vyshhorodska, Kyiv, Ucraina […] operante con il marchio Gestlife». Al matrimonio di Didac Sanchez, che più volte ha preso pubblicamente distanza dalla società, anche Alan Alexis risultava seduto al tavolo degli sposi. Raggiunto da Occrp, non ha risposto a una richiesta di commento.

Come opera Eliminalia

Eliminalia dispone di diversi strumenti per spingere o distruggere i contenuti.

Richieste di rimozioni articoli alle testate

Il primo strumento è il form utilizzato da Raùl Soto con Osservatorio Diritti. Anche IrpiMedia ne ha ricevuti diversi e non solo da Eliminalia. Il database di documenti ottenuto da Forbidden Stories conta centinaia di richieste simili inviate indicando come indirizzo email di contatto legal-abuse.eu@pec.it o italy@abuse-report.eu. La maggior parte sono a nome di Soto. Le richieste seguono un modello pre-configurato: la struttura e i riferimenti legali si ripetono e hanno un tono intimidatorio – anche l’indirizzo email indicato allude in modo fraudolento a un ufficio della Commissione europea.

A una lettura più attenta, però, le motivazioni della richiesta di diritto all’oblio non sono mai ben dettagliate tranne che per l’aspetto temporale: la notizia sarebbe «vecchia e irrilevante». Spesso non si specifica se effettivamente i dettagli relativi alla persona coinvolta siano scorretti o se la situazione processuale sia cambiata, sembra che nessuno abbia davvero letto il pezzo in questione. In alcuni casi, le richieste fanno riferimento a un potenziale reato di diffamazione, mentre in altri casi si parla solo di violazione dei dati personali in riferimento alla possibilità di esercitare il diritto all’oblio. Le richieste non sono accompagnate nemmeno dall’atto del cliente con il quale conferisce potere a Eliminalia di agire a suo nome, come è stato fatto notare dal Tribunale di Civitavecchia in una risposta inviata dopo aver ricevuto la richiesta da Raùl Soto.

Richieste di rimozione articoli a Google

Negli Stati Uniti la legge sul copyright si chiama Digital Millennium Copyright Act (Dmca). Dà la possibilità agli utenti di chiedere alle aziende con sede negli Usa che offrono servizi online, vedi Google, di rimuovere i link di contenuti copiati. Nel caso di Eliminalia, centinaia di richieste per rimuovere articoli in italiano sono state depositate spacciandosi per impiegati di gruppi editoriali, da Repubblica a Il Giornale, da La Stampa a Il Sole 24 Ore. Spesso Eliminalia copia e retrodata il contenuto che vuole sia rimosso.

Lo scopo è fare da esca con centinaia di blog e siti creati appositamente: attraverso l’articolo retrodatato chiedono la rimozione dell’originale. Se Google ci casca, l’obiettivo è raggiunto. Nel database di #StoryKillers risultano oltre duemila richieste di rimozione Dmca fatte da Eliminalia. Il proprietario della società di reputazione, Didac Sanchez, secondo diversi professionisti che abbiamo sentito, si è presentato come “l’inventore” dell’impiego delle false richieste per la violazione del copyright. Google, nelle risposte ai reporter di #StoryKillers, sostiene di opporsi attivamente alle richieste finte e afferma di accogliere principalmente quelle di giornalisti con un pregresso di domande già accolte. Ciò non toglie che Google, per il Dmca, possa ritenersi estraneo alla violazione solo se interviene dopo poco (l’azienda dichiara in media sei ore) che è al corrente di un contenuto copiato. Il fattore tempo, in casi “in bilico”, può quindi spingere per la rimozione. Rimettere online un contenuto rimosso è un procedimento molto difficile. Google riceve anche richieste di rimozione per violazione del Gdpr.

Secondo i dati della società, nel corso del 2022 sono state depositate 1,4 milioni di richieste per 5,3 milioni di link. Sono numeri doppi rispetto a quelli registrati nel 2017, e per i quali è impossibile stabilire gli effetti. L’aumento delle richieste è esponenziale, quello delle rimozioni ha una curva meno accentuata.

Costruzione e diffusione di fake news

Quando Eliminalia non riesce a far rimuovere i link allora cerca di farli scomparire “sotterrandoli” sotto una mole di articoli falsi che, sfruttando tecniche di posizionamento sui motori di ricerca, riescono a scalzare gli articoli legittimi spingendoli nel dimenticatoio della seconda o terza pagina di Google.

Qurium ha individuato oltre tremila articoli falsi, raccolti su 600 siti web, collegati ai nomi di 48 clienti di Eliminalia. Gli articoli includono il nome del cliente nell’url del link e riportano spesso il suo nome nel testo del pezzo. Il contenuto è totalmente inventato.

Tutti questi siti web presentano degli elementi in comune, come la stessa informativa privacy e pagina sui diritti d’autore, e tutti erano registrati in un primo momento a nome dell’azienda Communication Media Group Ltd, con sede in un business center del paradiso fiscale caraibico di Saint Kitts & Nevis. IrpiMedia ha verificato la presenza nel leak di screenshot che mostrano la tecnica in azione: in rosso sono indicati articoli negativi, in verde invece quelli positivi pubblicati su siti web sotto il controllo di Eliminalia che avanzano nei risultati di ricerca.

Backlinking

Tra le tecniche usate da Eliminalia per far scalare la classifica dei risultati ai propri articoli fasulli, c’è quella di condividere i link su forum e blog. Infatti, tra i fattori che Google tiene in considerazione per decidere la posizione di un link tra i risultati di ricerca c’è il backlink, ovvero quante volte quel link sia stato incluso in altri siti web. Un’inchiesta esclusiva finirà in alto tra i risultati anche perché tutte le altre testate includono il link all’inchiesta nei propri articoli. Per manipolare i risultati di ricerca si possono quindi creare backlink verso siti web fasulli. Qurium ha individuato un forum su cui Eliminalia ha postato migliaia di backlink per permettere di far scalare i risultati della ricerca ai propri articoli falsi. In questo modo le notizie rilevanti sarebbero sommerse dai risultati scelti da Eliminalia.

Italian connection

Il burrascoso e opaco passato di Hill Prados e Sanchez dimostra che la manipolazione della reputazione online è indispensabile per nascondere il passato delle stesse persone che la vendono. Numerose persone informate sui fatti raggiunte da IrpiMedia sostengono in realtà che Eliminalia non fosse nemmeno realmente in grado di raggiungere i risultati promessi. Tuttavia, secondo quanto osservato per i clienti italiani – il secondo mercato di Eliminalia dopo la Spagna, stando ai dati di #StoryKillers – diversi beneficiari dei servizi dell’azienda di Didac Sanchez da clienti sono diventati a loro volta portavoce, tessitori di relazioni, intermediari pagati su commissione. Non è del tutto chiaro come questo avvenga, ma i dati raccontano che se un banchiere si rivolge a Eliminalia, allora è possibile che ne diventi ambasciatore negli ambienti della finanza. Altrettanto avviene quando il cliente viene dal mondo dello spettacolo.

Tra i tanti che cercano un posto all’ombra nel solleone dell’attenzione mediatica c’è Enea Angelo Trevisan, imprenditore originario di Pordenone. Come in una storia che si ripete, anch’egli racconta di essersi fatto da solo e, ancora una volta, attribuisce la sua intuizione nel campo della gestione reputazionale all’esigenza di far sparire gli articoli che lo riguardano.

È dal primo decennio degli anni Duemila che la stampa friulana racconta la cronaca di tre aziende di famiglia, di cui era stato amministratore unico e amministratore di fatto. Dopo il loro fallimento, Trevisan è stato indagato per bancarotta fraudolenta e condannato in via definitiva (la Cassazione ha dichiarato inammissibile il suo ricorso nel 2022). Trevisan, si legge nel dispositivo, è sempre stato il «dominus» delle operazioni.

Dal database dei documenti di #StoryKillers, risulta che Trevisan abbia firmato un contratto con Eliminalia nell’ottobre del 2016 per rimuovere o deindicizzare sei articoli di testate locali pubblicati qualche anno prima. Nello stesso periodo esce la notizia che la sua Sabra Holding ha ricevuto da Eliminalia il compito di procurare clienti dall’Italia e dalla Svizzera. L’articolo sarà poi eliminato nel 2020, stando a quanto riporta il database. Ancora, in un contratto ottenuto da IrpiMedia, risalente al 2017, si legge che il servizio viene erogato dalla società Sofiswiss, parte del gruppo Sabra Holding, e titolare dell’esclusiva per l’Italia e la Svizzera dei servizi a marchio Eliminalia.

In una mail tra il country manager italiano e i colleghi della sede spagnola di Eliminalia è chiarito l’accordo tra i due: «Come al solito ti ho indicato quello che per noi è il prezzo da dividere al 50% Enea e 50% Didac». In pratica, Enea Trevisan procurava alcuni clienti, in special modo provenienti dal mondo delle imprese, e li passava a Eliminalia che poi faceva il lavoro vero e proprio. In cambio, prendeva una quota del 50% sul singolo cliente. I contratti stabiliti da società di Trevisan, negli anni di collaborazione con Eliminalia, sono circa un centinaio. Il sodalizio tra Sanchez e Trevisan si conclude in tribunale per divergenze di visione sul futuro della società tra la fine del 2017 e i primi mesi del 2018: Trevisan trasforma la milanese Eliminalia IT srl in una nuova società, Ealixir, mentre Sanchez continua a lavorare con il brand Eliminalia, di cui diventa l’unico proprietario.

I riferimenti alla collaborazione tra Trevisan e Sanchez, durata diversi anni, sono stati almeno in parte rimossi dalla rete. L’imprenditore friulano promuove la sua azienda ribadendo anche lui la stanca narrativa dell’uomo che si è fatto da solo e – come Didac Sanchez – elargisce interviste e nel 2019 pubblica un’autobiografia dal titolo Volevo essere nessuno. Qualunque riferimento all’impresa con Sanchez ed Eliminalia è omessa. Ealixir in una mail a IrpiMedia dichiara di operare in 28 Paesi, con sei uffici e circa 50 dipendenti.

A differenza di Eliminalia, Ealixir ha però stipulato prestigiose convenzioni con gli Ordini degli avvocati di Roma e Milano. Tuttavia non è chiaro come sia possibile che Ealixir – che dichiara di avere al suo interno un dipartimento legale – possa essere promossa dagli Ordini senza che questo attesti un conflitto d’interessi inappropriato per degli enti pubblici. Contattato per un parere, l’avvocato Aldo Luchi, già presidente dell’Ordine degli avvocati di Cagliari, precisa che per quanto le convenzioni di un ordine professionale vengano stipulate a titolo gratuito, la loro sola esistenza conferisce all’azienda convenzionata un’apparenza di affidabilità in quanto gli iscritti danno per presupposto che l’Ordine abbia effettuato una due diligence prima di stipulare la convenzione.

Se l’avessero fatto avrebbero scoperto che l’azienda non è «quotata al Nasdaq di New York», come si legge nella proposta inviata da Trevisan ai due ordini per ottenere la convenzione, concetto ribadito dall’imprenditore a IrpiMedia. Ealixir risulta quotata nel «listino rosa» Otc Markets Group – una sorta di listino delle piccole e medie imprese Usa – in cui gli scambi a basso prezzo impongono obblighi di rendicontazioni molto più leggeri rispetto al Nasdaq. Gli Ordini degli avvocati di Roma e Milano non hanno risposto a una richiesta di commento.

Ma le ambizioni di Ealixir non sembrano trovare requie e adesso è la volta delle testate giornalistiche che, forti del loro posizionamento privilegiato agli occhi dei motori di ricerca, «costituiscono una risorsa di incalcolabile valore per chi si occupa di reputazione online e per chi vuole manipolare i risultati dei motori di ricerca», ha spiegato a IrpiMedia un esperto.

Ed è precisamente questa l’intenzione con cui, nel 2020, Ealixir ha tentato di acquistare la testata online Dagospia. Tuttavia l’affare è saltato, apparentemente a causa delle indiscrezioni pubblicate su alcuni quotidiani in merito alla trattativa. «Magari ai primi di gennaio vi daremo questa bella news», dice Trevisan. IrpiMedia non ha più ricevuto notizie.

La contesa sulle tecniche e sui clienti

In un colloquio con IrpiMedia, Trevisan riconosce di aver acquisito le tecniche di Eliminalia, così come parte dei suoi dipendenti. «Però noi lo facciamo in maniera diversa: loro facevano esattamente quello che fanno le nostre competitor in Italia. Arriva un cliente, mandano una letterina al giornale e mandano una letterina a Google, punto. Noi questa cosa qui l’abbiamo portata molto avanti. Stiamo lavorando con l’intelligenza artificiale e la ricerca semantica», chiosa: «Ci sono anni luce rispetto a quello che facevano in Eliminalia rispetto a quello che facciamo noi oggi».

Dalla sua posizione privilegiata, Trevisan ha modo di osservare in prima persona le tecniche di Eliminalia. Comprese quelle chiaramente illegali come il fingersi l’autore originale di specifici articoli per farli rimuovere da Google. «È una truffa per cui la Comunità europea ha sanzionato Eliminalia – spiega Trevisan -. Quando i banditi imparano una strada cercano di ripercorrerla molte volte. [È bastato che Google] facesse una telefonata al giornalista chiedendo quale dei due era stato pubblicato prima. È venuto fuori un mezzo casino». L’imprenditore sostiene che Didac Sanchez raccontasse di fatturare 60 milioni di euro: «L’ha scritto anche il Corriere della Sera, ma è una balla clamorosa, fatturava 800 mila euro». Ciononostante Trevisan, che riferisce di essere laureato in economia alla Bocconi, entra in società con lui: «Capisco immediatamente se uno fattura 60 milioni o 900 mila». Evidentemente però l’ha capito tardi, o non gli interessava.

«Quando incontro questo ragazzo [Didac] di tre link uno me lo toglie lui», riferisce Trevisan descrivendo la nascita del rapporto con l’imprenditore catalano: «Così io gli compro il 50% di Eliminalia». Dai registri imprese non emerge che Trevisan abbia acquistato delle quote della società di Sanchez, tuttavia in Svizzera risulta l’amministratore di Eliminalia Holding, società svizzera attiva per meno di due anni, tra il 2017 e il 2019, di cui non si conosce il nome dei soci in quanto il capitale è suddiviso in azioni al portatore. Sono proprio gli anni in cui sarebbe avvenuta l’acquisizione. Trevisan addebita la successiva rottura con Sanchez al tentativo di quest’ultimo di rubargli i clienti per estrometterlo dal business. A una ulteriore richiesta di chiarimenti riguardo le tecniche fraudolente adottate da Eliminalia per la rimozione dei contenuti online, Trevisan non ha commentato.

Tra i clienti più noti entrati in Eliminalia nel periodo di Trevisan c’è il broker Gianluigi Torzi, attualmente coinvolto in diverse indagini per frode e a processo in Vaticano per l’acquisto dell’immobile di Sloane Avenue con i soldi dell’Obolo di San Pietro. Dal database di #StoryKillers risulta che Torzi sia stato cliente di Eliminalia tra novembre 2017 e gennaio 2018. I sei contenuti che Torzi voleva rimuovere attraverso Eliminalia, tra cui c’è anche una sentenza su Italgiure, il sito della Cassazione, a oggi sono quasi tutti eliminati o deindicizzati.

Anche Enrico Danieletto, come Torzi, è un broker italiano di casa a Londra. La sua firma e il suo documento di identità compaiono nella procura conferita a Eliminalia da Pairstech Capital Management LLP. Nel 2019 e nel 2020 Pairstech ha pagato Eliminalia per tentare (invano) di deindicizzare due link de Il Sole 24 Ore. Nel 2020 la stessa Pairstech ha sottoscritto un accordo di placement and arrangement agreement, per ottenere un aumento di capitale di cinque milioni di euro a favore di Ealixir, la società di Trevisan. Torzi e Danieletto sono stati contattati via email ma non hanno dato alcun riscontro alle nostre domande.

Eliminalia dopo Trevisan

Dopo Ealixir, Eliminalia ha trovato nuovi partner per procacciarsi clienti sul mercato italiano. Alla fine del 2018, nel database di #StoryKillers appare il primo contratto firmato da ReputationUp. L’amministratore delegato è l’imprenditore italiano Andrea Baggio. È sua la società alla quale si era rivolto Piero Amara, come abbiamo raccontato nella puntata precedente. In diverse conversazioni via email con IrpiMedia, Baggio ha spiegato di conoscere Eliminalia «perché in passato, dopo essersi avvicinata a noi, si è avviata una collaborazione, da noi interrotta dopo poco tempo». Da quanto risulta nel database di #StoryKillers però, ci sono contratti di ReputationUp che risalgono alla fine del 2020. Ha aggiunto di aver «deciso di bloccare qualsiasi tipo di rapporto non appena ci siamo accorti che il loro modo di operare non era congruente con le nostre best pratices», da intendersi come pratiche con le quali vengono gestiti i clienti.

In una conversazione telefonica, Baggio ha precisato che mentre ReputationUp si è sempre dedicata solo e soltanto alle richieste per chi rientra nella casistica del diritto all’oblio, Eliminalia non faceva lo stesso. Non ha però commentato sul fatto che nessuno dei clienti contattati dai giornalisti tra coloro che hanno firmato contratti con ReputationUp fosse a conoscenza del fatto che Eliminalia avesse svolto per loro qualche servizio. Dal database risulta che lo stesso Baggio sia stato cliente di Eliminalia nel 2020 allo scopo di eliminare il proprio numero di telefono da siti come chi-michiama.it o telspy.org.

Dal 2019 in avanti a fornire clienti a Eliminalia c’è anche Digitallex: «Cancelliamo il tuo passato per proteggere il tuo futuro» è il claim del sito web. Era la società a cui si è rivolto l’ex manager di Eni Leonardo Bellodi, che ha dichiarato a IrpiMedia di non sapere che alcuni servizi per l’eliminazione dei contenuti a suo carico venissero subappaltati a Eliminalia. Il brand per un primo anno è stato di proprietà di Studium srl, anch’essa cliente di Eliminalia tra il 2019 e il 2020. Le indagini della Guardia di finanza di Roma citano Studium srl in un’inchiesta che riguarda Francesco Polidori, fondatore dell’istituto di formazione CEPU. L’imprenditore, assieme ad altri, ha commesso reati di bancarotta fraudolenta, auto-riciclaggio e sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte.

Dal 2020, il marchio Digitallex è di proprietà di Prontoavvocato, società che si occupa di mediazioni e altri servizi legali. È controllata da due membri della famiglia Polidori e da Monte Finanziario Europeo srl, sempre di proprietà della famiglia dei fondatori di CEPU. Nessuna società del gruppo Polidori ha voluto rispondere alle domande del consorzio di giornalisti. Polidori è anche proprietario di Polimedia, società che ha acquistato Corriere dell’Umbria, Corriere di Siena, Corriere di Arezzo e Corriere della Maremma a dicembre 2022. I desideri degli imprenditori della reputazione, in fondo, sono sempre gli stessi.

 

L’articolo è stato corretto in data 20 luglio e 11 settembre. In una prima versione, due link de IlSole24Ore erano stati cancellati da Eliminalia, mentre c’è stato il tentativo di deindicizzarli.

 

Aggiornamento: Google ci ha notificato che questo articolo è stato rimosso dai risultati di alcune stringhe di ricerca

Non sono passati nemmeno trenta giorni dalla pubblicazione di questo articolo, che Google ne ha disposto la deindicizzazione dal suo motore di ricerca, «ai sensi delle leggi europee per la protezione dei dati». Lo ha appreso la redazione di IrpiMedia alle 12:12 del 23 marzo 2023, quando una email inviata dal colosso di Mountain View ci ha informati che «a seguito di una richiesta presentata ai sensi delle leggi europee per la protezione dei dati, Google non può più mostrare una o più pagine del tuo sito nei risultati della Ricerca Google».

Una piccola censura dunque, quella adottata da Google (che poi è tornata sui suoi passi, come vedremo), che non ha reso irraggiungibile l’inchiesta, ma l’ha sottratta alla vista dell’utente che dovesse cercare una specifica stringa di testo (a noi sconosciuta) nel motore di ricerca: quasi certamente il nome di uno dei protagonisti della nostra storia.

Ed ecco verificarsi ancora una volta quanto racconta l’inchiesta #StoryKillers: sfruttando le falle del Regolamento generale per la protezione dei dati personali, alcune aziende e professionisti hanno perfezionato l’arte del manipolare i risultati forniti dal motore di ricerca, così da risultare immacolati a chiunque ne cerchi il nome online. «Google interviene immediatamente così come dispone la normativa statunitense – spiega a IrpiMedia un esperto – ma soprattutto lo fa perché non si dica che occorre una vigilanza esterna».

E di certo non è questo il caso in Italia, dove l’agenzia titolare di questo tipo di controlli dovrebbe essere Agcom, che non ha mai risposto a una nostra richiesta di commento.

A un primo controllo su Google, è stato possibile riscontrare che dei protagonisti della nostra inchiesta, l’unico nome che tra i risultati ha smesso di produrre l’articolo di IrpiMedia sia stato quello di Enea Angelo Trevisan. L’imprenditore, originario di Pordenone, racconta di sé di essere specializzato nel diritto all’oblio e nell’arte di far sparire i contenuti sgraditi dalla rete. È lui il principale promotore dell’espansione di Eliminalia tra Svizzera e Italia in affari con l’imprenditore spagnolo Didac Sanchez. Poi scaricato, quest’ultimo, così che Trevisan potesse espandere in autonomia il suo business personale sotto le insegne della società Ealixir. Con quest’ultima l’imprenditore ha millantato una quotazione al Nasdaq e ottenuto crediti tali da diventare un interlocutore per enti pubblici come gli Ordini degli avvocati di Roma e Milano, che con lui hanno persino stipulato delle convenzioni professionali.

Le sue vicende sono centrali nell’inchiesta di IrpiMedia deindicizzata da Google. Cercando il nome di Trevisan, abbiamo riscontrato la presenza del nostro articolo fino alle 15:40 del 23 marzo. Da quel momento e per le 24 ore successive, qualsiasi stringa di ricerca inerente Trevisan ometteva la nostra inchiesta, anche se venivano utilizzati gli apici (Enea Trevisan “IrpiMedia”) che forzano il provider a fornire esclusivamente risultati contenenti quella specifica parola. In fondo alla pagina di Google, si legge che «Alcuni risultati possono essere stati rimossi nell’ambito della normativa europea sulla protezione dei dati», formula standard che segnala la scomparsa di qualche risultato dal motore di ricerca.

Solamente dopo una richiesta di commento inviata a Google, per la quale IrpiMedia ha dovuto condividere con l’azienda i dettagli della deindicizzazione, il giorno dopo il motore di ricerca ha iniziato nuovamente a mostrare il nome di Trevisan associato all’inchiesta di IrpiMedia, tra i primi risultati. Il tutto è avvenuto informalmente e in modo arbitrario, senza che la testata adisse la procedura di contestazione della decisione di deindicizzare l’articolo. Non è chiaro sulla base di quali regolamenti Google abbia adottato la misura censorea, né quale sia stato il processo che ha portato il motore di ricerca a smentirsi, annullando la deindicizzazione.

Contattato da IrpiMedia, Enea Trevisan non ha voluto rispondere a una richiesta di commento. Google non ha mai risposto alle domande di IrpiMedia. Anche Occrp, partner del consorzio #StoryKillers, ha ripreso la vicenda della strana deindicizzazione dell’articolo di IrpiMedia.

CREDITI

Autori

Raffaele Angius
Lorenzo Bagnoli

Ha collaborato

Riccardo Coluccini

Editing

Giulio Rubino

Infografiche

Lorenzo Bodrero

Illustrazioni

In partnership con

The Guardian
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