Diritti all’oblio: perché invece dovremmo ricordare

24 Febbraio 2023 | di Raffaele Angius, Lorenzo Bagnoli, Riccardo Coluccini

«Tu che percorri gli atrii regali del grande palazzo, ricorderai i meriti del podestà Oldrado, cittadino lodigiano, difensore della fede e della spada, che costruì il palazzo e bruciò i Catari, com’era suo dovere»

Questa incisione è una fake news incancellabile. Campeggia su un fianco del Palazzo della Ragione di piazza Mercanti, a qualche decina di metri dal Duomo. Oldrado da Tresseno nell’anno del Signore 1233 è stato podestà di Milano. Si è guadagnato i posteri con un altorilievo che lo ritrae a cavallo, al di sopra di questa targa commemorativa con la quale si è fatto attribuire i meriti per la costruzione di un palazzo che ha solo ultimato e per la promulgazione di una legge contro gli eretici che non è mai stata applicata, ricorda il libro Il giro del mondo di Milano in 80 misteri. Tuttavia, perché la si tramandi nei secoli dei secoli, è bene che la balla abbia qualche attinenza con il vero e il verosimile; che sia manipolazione dei fatti, invece di pura finzione. Nel caso di Oldrado, l’interesse per il palazzo e per la guerra agli eretici erano veri, non altrettanto i risultati raggiunti.

A chi servono le fake news

Dalla notte dei tempi chi dispone del potere, politico o economico che sia, cerca di imporre la sua visione della storia. Prima lo si faceva con incisioni, statue, monumenti, oggi con radio, televisione e internet. Un tempo solamente pochissimi avevano accesso agli strumenti che permettevano di scrivere la storia, o verificarne l’attendibilità. Oggi, si dirà, internet, la rete, è a disposizione di tutti (o quasi) gratuitamente (o quasi).

Ma l’apparente partecipazione collettiva alla costruzione del registro dell’esperienza umana ha moltiplicato esponenzialmente gli Oldrado del mondo. Il debunking, la decostruzione delle notizie false è, d’altra parte, una pratica quotidiana sul web. Già nel 2017, però, il CssLab, centro studi che si occupa di disinformazione legato alla Scuola Imt Alti Studi di Lucca, ha analizzato gli effetti dell’infodemia sul pubblico cospirazionista:

«Le nostre analisi mostrano che i contenuti di debunking rimangono fondamentalmente confinati all’interno della camera dell’eco scientifica e che solo alcuni utenti di solito esposti ad affermazioni poco fondate interagiscono attivamente con questi post di correzione e spiegazione – si legge in Debunking in un mondo di tribù, ricerca basata su un campione di 50.250 post di Facebook, citata da Repubblica – l’informazione che dissente è ignorata e i sentimenti espressi [dopo la lettura] sono negativi».

Più che smontare, quindi, serve forse fornire le informazioni giuste e uscire dai recinti che le fake news costruiscono per i propri proseliti.

L’inchiesta #StoryKillers – progetto giornalistico coordinato da Forbidden Stories a cui hanno partecipato oltre cento giornalisti di trenta testate internazionali – ha invece raccontato, ancora una volta, quanto la disponibilità delle informazioni “libere” sia illusoria: la possibilità di trovare informazioni online è condizionata da un esercito di mercenari della disinformazione, teste di un’unica idra. Questi mercenari possono diffondere falsità oppure rendere irreperibili notizie “scomode”.

Per quanto sconfinati possano essere i territori del web la gran parte delle persone vi accede attraverso una sola porta: quella di Google. Sono quasi 5,6 miliardi i suoi utenti e le ricerche elaborate al giorno sono 8,5 miliardi. Ai risultati del motore di ricerca si sovrappone la diffusione delle notizie tramite i social network, programmati per propagare una verità “su misura” di ciascuno, purché l’utente rimanga incollato dentro la piattaforma. È il risultato di diversi studi condotti dal collettivo di Tracking Exposed, che in una serie di sperimentazioni – durante le elezioni francesi nel 2017 e in Italia nel 2018 – ha dimostrato che Facebook tende a sottrarre alla vista dell’utente le informazioni non affini con la sua visione politica o ideologica. Per la prima volta quella che già era la percezione comune degli utenti diventa un dato misurato e dimostrabile, che dà evidenza di come chi controlla la principale porta d’accesso a internet o le piattaforme di distribuzione, controlla di fatto ciò che gli utenti apprendono e conoscono.

Ma se l’accesso a Internet è un diritto umano (come stabilito, tra gli altri, dalle Nazioni unite nel 2012) chi ne fruisce ha diritto a possedere le chiavi di un archivio che sia prima di tutto affidabile e completo e non solo influenzato dai broker del listino di Google o Meta (gruppo che possiede Facebook, Instagram), che fanno salire e scendere gli url a seconda di quanto paga un cliente.

I bersagli della disinformazione

Mara è una cittadina italo-kenyana che abita a Nairobi. S’interessa di politica: legge i giornali spesso, s’informa, conosce il Paese – e le sue dinamiche – a menadito. Eppure non poteva avere idea che qualcuno stesse cercando di attaccare le elezioni intrufolandosi negli smartphone degli assistenti del candidato William Ruto, poi eletto presidente. Qualcuno poteva infatti leggere le email e scrivere direttamente ai contatti Telegram dei bersagli hackerati. Il lavoro è stato svolto da Team Jorge, il gruppo di mercenari israeliani della disinformazione scoperto dai colleghi di The Marker, Radio France e Haaretz, parte del consorzio #StoryKillers, di cui abbiamo parlato nella prima puntata.

Team Jorge crea eserciti di avatar, profili falsi e insospettabili agli occhi dell’utente comune, per manipolare le informazioni che girano sui social. Ma ancora, cerca anche di ottenere informazioni riservate da usare per attaccare i rivali dei propri clienti, attività che li ha visti coinvolti nel 2015 insieme a Cambridge Analytica nel tentativo di contribuire alla ri-elezione dell’allora presidente nigeriano, Goodluck Jonathan, contro il rivale Muhammadu Buhari. I documenti sarebbero poi stati forniti alla stampa ma non sembrano aver sortito l’effetto desiderato: Buhari ha vinto comunque. Il bersaglio di Team Jorge, organizzazione che secondo quanto ha ricostruito #StoryKillers era ingaggiata al prezzo di centinaia di migliaia di dollari, sono cittadini che si prestano a esprimere un voto e che per farsi un’idea della materia navigano online.

Per approfondire

Assassini di storie

Viaggio nell’industria globale della disinformazione. Un’inchiesta nata dall’omicidio di una giornalista in India che termina in Spagna, in una strana società che cancella contenuti online

Lorenzo Romani lavora per Ernst&Young e di mestiere fa due diligence: svolge cioè analisi da fonti aperte su commissione di grandi aziende o istituti finanziari e produce valutazioni sul rischio reputazionale relativo a partner o fornitori. Il lavoro degli analisti di open source intelligence (ricerche da fonti aperte – OSINT) consiste nel cercare di costruire un profilo di società o di privati attingendo prevalentemente da dati societari, visure camerali, bilanci e informazioni disponibili in rete.

«Anche se non quotidianamente – racconta -, capita con una certa frequenza di individuare contenuti positivi promossi solo per migliorare l’immagine pubblica di una persona o magari di riscontrare la rimozione di informazioni scomode che potrebbero affossarla. ll nostro lavoro consiste anche nel cercare di aggirare questi tentativi di manipolare la realtà attraverso la manipolazione di ciò che si trova in rete».

Naturalmente chi fa queste ricerche professionalmente sa come superare questi ostacoli, «utilizzando fonti d’informazioni diverse e anche, banalmente, diversi motori di ricerca in contemporanea», precisa l’esperto. A Romani e al suo staff si rivolgono grossi gruppi industriali ma sempre più spesso anche aziende medio-grandi, che richiedono una valutazione delle loro controparti. Più rare le richieste degli enti pubblici e dei privati, quasi nessuna invece da parte delle piccole medie imprese che in mancanza di un controllo approfondito potrebbero giudicare veritiere le credenziali digitali di chi si propone loro per un affare.

Come già raccontato da IrpiMedia, è quanto successo agli Ordini degli avvocati di Roma e Milano, che hanno stipulato una convenzione con un’azienda – che quindi ha goduto del prestigio dato dalla sua pubblicizzazione – senza nemmeno accertare che quanto dichiarava di se stessa fosse reale o meno.

Mara e Lorenzo sono ai due estremi dello spettro dei bersagli della disinformazione: da un lato chi le informazioni le consuma, dall’altro chi le impiega per lavoro. In mezzo non c’è alcun limite, regola o vigilanza possibile. E mentre l’Autorità garante per la protezione dei dati personali è l’istituto deputato a rendere concreto il diritto all’oblio, quindi decidendo in merito alle richieste di deindicizzazione di pagine e articoli, non sembra esistere una controparte: qualcuno in grado di sanzionare chi produce contenuti ingannevoli creati per manipolare la rete, né alcuno che possa multare un’azienda quando questa si finge un giornale nel chiedere a Google la deindicizzazione di un articolo. Esattamente quanto successo a IrpiMedia, che ha scoperto suo malgrado di essere titolare di quattro richieste di rimozione ai danni di un’altra testata – la violazione del copyright è il pretesto – senza che nessuno della nostra redazione ne fosse al corrente.

Su suggerimento di diversi esperti, IrpiMedia si è rivolta ad Agcom, autorità per le garanzie nelle comunicazioni, per chiedere se non fossero loro preposti a vigilare in tal senso. Come si legge nel sito della stessa organizzazione, retta da Giacomo Lasorella, l’autorità ha il «duplice compito di assicurare la corretta competizione degli operatori sul mercato e di tutelare i consumi di libertà fondamentali degli utenti», oltre a svolgere «funzioni di regolamentazione e vigilanza nei settori delle comunicazioni elettroniche, dell’audiovisivo, dell’editoria, delle poste e più recentemente delle piattaforme online». Nessuna risposta è mai pervenuta.

Nel frattempo Mara e Lorenzo saranno tanto più esposti a notizie false, quanto più il mondo di chi produce informazioni, il giornalismo in particolare, non cercherà di riacquistare la propria autorevolezza. Oggi le redazioni fanno costantemente uso di pubblicità redazionali – articoli di promozione commissionati a uffici stampa che cercano di dare positivo risalto a ciò che fa il loro cliente – senza che il pubblico di lettori ne sia pienamente consapevole. In fondo agli articoli si affastellano gli “strilli” che conducono a contenuti promozionali che servono solo a generare click, nella speranza di racimolare più pubblicità. Il confine tra marketing e giornalismo si è assottigliato con la creazione di ibridi che non sempre sono di facile comprensione per chi legge.

Le buone maniere dell’informazione

Dalle conversazioni con chi si occupa di reputazione online, si evince che deindicizzare e anonimizzare è prima di tutto un fatto di quieto vivere. Si accondiscende a queste richieste – noi stessi a IrpiMedia lo abbiamo fatto alcune volte – perché sottrarre un articolo ai risultati dei motori di ricerca è apparentemente meno lesivo dell’integrità del giornalista di quanto non sia cancellarlo del tutto. Deindicizzare o anonimizzare non significa modificare ciò che si è scritto, non è un’ammissione di colpa. Al contrario, queste due operazioni vanno incontro a una richiesta di una controparte e risolvono a monte una controversia che altrimenti potrebbe finire in tribunale. Qualsiasi cosa pur di evitare una querela, che nella gran parte dei casi punta a disincentivare la stampa a coprire una notizia, piuttosto che a raddrizzare un torto.

Tuttavia intervenire sull’indicizzazione o anonimizzare è molto più efficace oramai di una querela, perché mentre i giornalisti sono pronti a lottare contro un chiaro tentativo di censura, la richiesta apparentemente moderata di deindicizzazione punta sulla moral suasion e sull’inerzia delle testate giornalistiche, poco attrezzate per difendersi da questa forma di attacco “gentile”.

Senza dubbio, la prassi delle richieste di rimozione degli articoli ha il lato positivo di spostare le controversie fuori dai tribunali e renderle più “agili”. L’altra faccia della medaglia è che trasforma la decisione di mantenere o meno un’informazione in un semplice «favore» per evitare qualcosa di peggio. La querela non dovrebbe essere un’arma per minacciare, ma per difendere la vittima di un’ingiustizia commessa da chi riporta informazioni scorrette. Invece in questi anni ha sempre più assunto la forma di uno strumento intimidatorio. Questo non giustifica i giornalisti che talvolta si arroccano dietro al diritto di cronaca o alla lesa libertà di stampa per giustificare un lavoro superficiale e approssimativo.

Ma nella lotta tra i due estremi, fra le querele minatorie e il pressapochismo acchiappa-click, il giornalista finisce per perdere il suo ruolo e valore sociale ed è invece sempre più percepito o come un martire o come un carnefice: mai come semplice fornitore di un pubblico servizio.
In questo contesto, assassinare una storia non è più considerato un “reato” perché abbiamo smesso di considerare la “verità” del suo contenuto come il suo vero valore per la collettività.

Si fa presto a dire libertà di stampa

C’è la falsa opinione che una volta che un articolo è online, ci resti per sempre. Invece agenzie come Eliminalia contribuiscono a seppellirli dove nessuno li trova, mentre l’incuria della gestione degli archivi in rete, che siano di giornali o di enti pubblici come i tribunali, contribuisce a “rompere” i link e renderli introvabili. A questo si aggiungono le maglie sempre più larghe dell’applicazione del diritto all’oblio o richieste di tutela dei propri dati che si scontrano con il diritto di cronaca (in Italia la riforma proposta dall’ex ministra della Giustizia Marta Cartabia sta creando molte perplessità tra chi deve occuparsi di cronaca giudiziaria).

Il problema della rimozione di contenuti online è noto da almeno vent’anni: l’associazione statunitense per i diritti digitali Electronic Frontier Foundation mantiene un archivio e già nel 2003 segnala l’abuso del copyright per silenziare articoli scomodi. Negli anni la situazione si è aggravata e oggi governi di Paesi come Nicaragua, Tanzania ed Ecuador sfruttano sistematicamente le violazioni di copyright come un’arma per silenziare critici e oppositori online.

Con la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 2014, in Europa è emerso anche un nuovo scenario: con il diritto all’oblio le piattaforme come Google devono rimuovere informazioni e dati personali quando ricevono una richiesta dall’interessato, soprattutto se le informazioni non sono più rilevanti. E proprio sulla rilevanza delle informazioni si apre una battaglia che procede a colpi di sentenze della Corte. Ci sarebbero delle linee guida per decidere come trattare una richiesta di diritto all’oblio, le prime pubblicate nel 2014 mentre le più recenti nel 2020, e dovrebbero offrire un aiuto ai Garanti per la privacy nazionali nel bilanciare il diritto all’oblio e il diritto all’informazione. Il tutto è però affidato alla discrezionalità non solo delle Autorità, i cui processi interni nascono e operano nell’alveo di un meccanismo di garanzia, ma anche delle stesse piattaforme, che possono decidere anche in assenza di un pronunciamento istituzionale.

Di fronte alla scomparsa degli articoli, già nel 2016 i giornalisti Mario Tedeschini-Lalli e Nicolas Kayser-Bril si sono posti il problema opposto: il “diritto a ricordare”. Avevano in mente di creare “paradisi del ricordo”, sullo stesso stile dei “paradisi fiscali”, luoghi dove salvare i contenuti dall’oblio dalle legislazioni che impongono la deindicizzazione.

L’iniziativa si chiamava Offshore Journalism Platform: «I giornalisti e gli editori non “scrivono più per il presente”, ma producono informazioni da consumare nel tempo, in contesti diversi e inimmaginabili. A tutti gli effetti, stanno “scrivendo per il futuro”- si legge nel manifesto del report finale, del 2018 -. Scrivere per il futuro significa dotare ogni informazione di tutti gli attributi che la renderanno reperibile e rilevante per un pubblico diverso, in un momento diverso. Che gli editori e i giornalisti siano o meno pienamente consapevoli di questa possibilità, si tratta di un passo da gigante nella ridefinizione della libertà di parola e di stampa».

In questi cinque anni non sembra che in molti si siano preoccupati di scrivere per il futuro. Inoltre le decisioni sugli archivi online della Corte europea dei diritti dell’uomo sono sempre più problematiche dal punto di vista di chi deve gestire un archivio.

È emblematico un suo pronunciamento del maggio 2021 contro il quotidiano belga Le Soir. Nel 2008 il giornale ha riprodotto nel proprio archivio online un vecchio articolo del 1994 in cui si parlava di un uomo che in un incidente ha provocato la morte di due persone e ne ha uccise altre tre. Condannato nel 2000, ha scontato la sua pena nel 2006. Il protagonista dell’incidente ha chiesto di essere anonimizzato, il giornale si è rifiutato. Il caso è andato fino alla Corte di Strasburgo e la decisione è stata contro l’editore di Le Soir. Questo però implica che qualunque articolo di cronaca giudiziaria sia in pericolo.

Nella sentenza si legge che un gruppo di esperti ha stabilito che la questione non riguardava la libertà di stampa «ma solamente la sua (dell’articolo, ndr) accessibilità sul sito del giornale». Come a dire che il diritto di informare non è intaccato dal momento che il giornalista è libero di scrivere, sebbene la notizia non sia leggibile da nessuno, producendo uno sbilanciamento dei diritti tutto a favore di aziende come Eliminalia, che sfruttano le fragilità del sistema dell’informazione a beneficio di clienti ricchi e potenti.

«Con [l’emergere] di queste aziende è diventato molto più efficace sfruttare le già presenti iniquità del sistema», sostiene Katherine Trendacosta, direttrice dell’area politiche e attivismo del Electronic Frontier Foundation: «Il modo più semplice per rimuovere qualcosa è presentare un reclamo per violazione del copyright». O sfruttando il diritto all’oblio. Vero o falso? Non è importante. Conta evitare grane, tanto più grandi quanto più sono ampie le disponibilità economiche di chi reclama il proprio diritto.

Foto: Illustrazione di Claudio Capellini
Editing: Giulio Rubino

I segreti di Eliminalia, la “lavanderia” della reputazione online

#StoryKillers

I segreti di Eliminalia, la “lavanderia” della reputazione online

Lorenzo Bagnoli
(con Raffaele Angius, Riccardo Coluccini)

La trama inizia a disvelarsi con l’inoltro di un’email alla mia casella di posta, il 2 febbraio 2021. Proviene dalla redazione di Osservatorio Diritti, testata online con cui spesso ho collaborato. L’oggetto è un’inchiesta che avevo scritto l’anno precedente. La pubblicazione, si legge, risale a «quasi un anno fa, quindi configura un profilo inadeguato». Il pezzo manca «di interesse sociale ad oggigiorno». Al netto dell’italiano un po’ traballante, il concetto è chiaro: la storia è vecchia e inattuale. La permanenza online delle notizie contenute nell’articolo, secondo l’obiezione del mittente, non è di alcun interesse e danneggia invece il protagonista dell’articolo a norma del Regolamento generale sulla protezione dei dati (Gdpr). Non è messa in discussione la verità dei fatti, quanto l’opportunità di rappresentarli in quel modo.

La missiva offre tre possibilità: la rimozione per intero dell’articolo, la deindicizzazione (ovvero l’oscuramento dell’articolo agli occhi dei motori di ricerca), oppure la sostituzione delle generalità dell’assistito con le iniziali di nome e cognome.

Le sfumature dell’oblio

Il General data protection regulation (Gdpr) è un regolamento europeo che disciplina il trattamento e la circolazione dei dati personali di cittadini e organizzazioni. In vigore dal 25 maggio 2018 in tutta l’Unione europea, si pone l’obiettivo di porre fine al Far West della gestione dei dati. Il termine comprende non solo informazioni anagrafiche e di contatto ma anche informazioni sanitarie, coordinate geografiche, informazioni storiche sulla nostra vita online, l’orientamento sessuale, le appartenenze politiche o religiose e molto altro.

Per quanto sia ancora difficile metterlo pienamente in atto, il regolamento Gdpr è la più avanzata legge in materia di tutela della privacy esistente. È anche la base su cui si poggia la richiesta di rimozione di articoli dal web. Il cuore è l’articolo 17: semplificando, afferma che quando i dati personali sono usati al di fuori dei confini stabiliti da chi li ha concessi, allora si può chiederne la rimozione. Tra le eccezioni, però, la prima riguarda il caso in cui un dato sia necessario per l’esercizio della libertà di espressione e di informazione. Quale diritto debba prevalere è spesso una decisione da prendere caso per caso. Qui però si apre il conflitto tra interpretazioni diverse di quali siano le implicazioni di deindicizzare o anonimizzare. La tendenza più recente, in Italia e in Europa, è spingere verso un’applicazione più ampia del diritto all’oblio. La riforma della Giustizia che porta il nome dell’ex ministra Marta Cartabia ha ulteriormente allargato l’ambito dell’oblio: dal primo gennaio 2023, chi è stato archiviato o assolto può chiedere la deindicizzazione dei propri dati personali.

La Corte europea dei diritti dell’uomo si è espressa due volte, nel 2021, sul limite tra libertà di espressione e diritto all’oblio. In entrambi i casi – uno riguardante il sito italiano (oggi chiuso) Prima da noi, l’altro riguardante l’archivio online del giornale belga Le Soir – ha stabilito che la deindicizzazione non è in contrasto con la libertà di espressione. In particolare, nella sentenza che riguarda Le Soir, ha affermato che la misura non ha modificato l’articolo in sé, in quanto l’originale cartaceo non era modificabile, «ma solamente la sua accessibilità sul sito del giornale». Il rischio però è stabilire per le notizie una “data di scadenza” e rendere sostanzialmente impraticabile la costruzione di archivi online con articoli di cronaca giudiziaria. Sul tema torneremo nell’ultima puntata della serie #StoryKillers.

Il pezzo della discordia, in realtà, è estremamente attuale, specialmente allora: parla di Piero Amara, ex legale esterno di Eni. La procura di Milano sospetta che abbia ordito, con altri complici, una trama per far deragliare il processo Opl 245. Le parole di Amara in quei giorni stanno spaccando la procura di Milano. Amara è la fonte che nel 2018 ha cominciato a rivelare i contorni di una presunta Loggia Ungheria, un sistema di potere che avrebbe avuto una grande capacità di influenzare la vita politica e giudiziaria del Paese, decidendo nomine e arrivando, in qualche caso, a influenzare l’andamento dei processi. Almeno fino al suo primo arresto nel febbraio 2018, è stato un depistatore reo confesso. Ancora nel 2023, le deposizioni di Amara continuano ad avere conseguenze giudiziarie. Resta ancora indagato o imputato in diversi procedimenti per calunnia, corruzione e frode fiscale.

Ho letto e riletto la mail, insieme a Marco Ratti, il direttore di Osservatorio Diritti. Non avevamo mai ricevuto un’email simile prima. Da un lato ci preoccupava, dall’altro, però, ci sembrava quasi “spam”. La firma in calce suonava posticcia:

Per quale motivo qualcuno di uno sconosciuto dipartimento che sembra legato alla Commissione europea avrebbe dovuto mandare un’email del genere? Perché non era un avvocato a prendersi carico della richiesta? Abbiamo così cominciato a cercare: l’indirizzo porta a un coworking di Bruxelles; Abuse-report.eu è un dominio inesistente; l’unico Raùl Soto di cui si trova traccia online è un deputato cileno che fa l’avvocato. Dopo una consulenza della legale dell’Ordine dei giornalisti di Milano, Marco ha deciso di ignorare la richiesta. Non c’erano scorrettezze, la notizia era ancora attuale.

Presa la decisione, l’email è finita immediatamente nel dimenticatoio sia per me, sia per Marco Ratti. A rileggerla oggi, appare invece come un presagio: messaggi simili sono diventati col tempo pressoché settimanali. Arrivano alle caselle di posta personali dei giornalisti e alle email delle redazioni, compresa la nostra. A volte sembrano “spam”, come quella di Raùl Soto; a volte prima di identificare l’articolo da rimuovere, cercano di instaurare un rapporto con i giornalisti, come se si trattasse di un favore da chiedere a un amico. Ogni email, che sia legittima o pretestuosa, va vagliata, perché contestare gli articoli è un diritto e correggerli in caso di errore è un dovere per chi scrive. Esiste il pericolo che altrimenti restino online dei contenuti effettivamente lesivi.

Trattare con attenzione i dati personali e glissare sugli aspetti del passato che non sono rilevanti per l’opinione pubblica sono due comportamenti prescritti dal Testo unico dei doveri del giornalista. Capita che, dopo la valutazione, qualche richiesta venga ignorata o che il nostro avvocato suggerisca una replica per respingere la richiesta al mittente. In entrambi i casi, segue spesso uno strano silenzio da parte degli scriventi.

L’inerzia, in realtà, è solo apparente: c’è un lavorio sotterraneo sugli url – le sequenze di lettere e numeri che identificano univocamente una pagina web – di cui nemmeno gli autori degli articoli o le testate si accorgono. È teso a “screditare” agli occhi di Google le notizie contestate, quindi farle scendere nella classifica dei risultati forniti dai motori di ricerca. Il lavoro è legale, per quanto a volte discutibile: chi cura l’immagine pubblica di aziende e volti noti può trovarsi a cercare di giustificare scelte ingiustificabili o cercare di cancellare indelebili macchie del passato. A svolgerlo al mondo ci sono circa duemila agenzie di “web reputation”.

Solo che alcune, come quella dell’avatar Raùl Soto, adottano tecniche fraudolente per arrivare al loro obiettivo. Negli ultimi anni, l’azienda per cui “lavora” Soto non solo si è specializzata nel manipolare l’indicizzazione dei siti web, ma ha anche cercato in silenzio di acquisire una fetta del mondo dell’informazione. Ha anche gestito clienti “in subappalto”, senza che questi ultimi ne fossero al corrente. Per scoprirlo, però, c’è voluto un database di 50 mila documenti che Forbidden Stories, l’organizzazione che ha coordinato l’inchiesta #StoryKillers, ha messo a disposizione di oltre cento colleghi grazie al supporto tecnico di Occrp.

Il progetto #StoryKillers

La disinformazione è un mostro a più teste: censura, autocensura, minaccia fisica, minaccia legale. La disinformazione distorce i fenomeni, cambia la percezione dell’opinione pubblica sugli eventi, radica falsi miti nell’immaginario collettivo. Tra le teste dell’idra, c’è anche la deindicizzazione o la rimozione degli articoli, come dimostra un database di 50 mila documenti ottenuto da Forbidden Stories.

L’organizzazione francese ha coordinato più di cento giornalisti di trenta testate internazionali. L’inchiesta si intitola #StoryKillers, un progetto collaborativo che nasce per indagare i mercenari della disinformazione, a partire dall’omicidio della giornalista indiana Gauri Lankesh, editor del giornale Lankesh Patrike, avvenuto nel 2017.

Invisibile, scomparso, anzi peggio, in seconda pagina di Google

Qurium – The media foundation è un’organizzazione non profit registrata in Svezia che si occupa di proteggere media indipendenti e attivisti nel campo dei diritti umani. Tord Lundström ne è il direttore tecnico ed è stato consulente di Forbidden Stories per #StoryKillers. Insieme ai suoi colleghi, ha scoperto che le email di Raùl Soto e di altri alias partivano sempre dall’Ucraina, da un’organizzazione che si chiama Eliminalia ed è stata fondata nel 2013 dal giovane imprenditore Diego Sanchez Jimenez, meglio conosciuto come Didac Sanchez. Nel gennaio di quest’anno ha cambiato nome in iData Protection.

La sede principale è in Spagna, gli uffici sono in Italia, Ucraina, Messico, Bolivia, Repubblica Dominicana, Ecuador, Georgia, Portogallo, Taiwan, Turchia, Svizzera, Gran Bretagna e Stati Uniti. In un volantino pubblicitario del 2018, dichiaravano di avere oltre 900 clienti da tutto il mondo e di aver rimosso «10.000 link». La controlla una holding con sede a Kyiv, in Ucraina, la Maidan Holding, a cui appartiene una galassia che conta oltre 50 società impegnate in vari settori, con sedi in nove giurisdizioni diverse. La Maidan Holding controlla una fondazione, una banca, una società di analisi dei contenuti online, uno studio legale, una società d’investigazione privata e, sorprendentemente, anche delle cliniche per madri surrogate.

«L’orientamento e il contenuto della maggior parte delle vostre domande dimostra un approccio fazioso e disonesto», è stata l’unica risposta che hanno ottenuto i giornalisti dalla società.

Di certo, la mission di Eliminalia è far sparire ciò che non è gradito ai propri clienti. Cancellarli non è l’unica strategia. Infatti un contenuto è tanto più “di valore” – cioè in grado di ottenere più click – quanto più appare in alto nei motori di ricerca: il 92,81% degli utenti desktop, infatti, clicca solo le strisce che si trovano nella prima pagina di Google e fa lo stesso l’84,22% di quelli mobile, secondo il rilevamento del 2019 di Advanced Web Ranking. Stabilire che cosa esce nella prima pagina di Google significa quindi decidere che cosa la stragrande maggioranza della popolazione leggerà di un determinato tema.

Se Google fosse la Borsa dei contenuti online, quindi, le chiavi di ricerca sarebbero diversi listini “chiusi”, mentre gli url sarebbero i titoli azionari. Coloro i quali fanno scendere e salire le quotazioni degli url, gli operatori della Borsa di Google, sono i reputation manager. Secondo la percezione comune, l’algoritmo che stabilisce la classifica dei risultati del motore di ricerca è una cabala misteriosa. Almeno in parte, in realtà, esistono strumenti tecnici, come certi accorgimenti nel linguaggio o l’uso di certe parole chiave, che possono rendere un tema più o meno interessante per il motore di ricerca.

Un’altra credenza è che siano i personaggi popolari – i cosiddetti influencer – a rendere “virale” un contenuto. È vero per l’istante, ma non per il lungo periodo. I reputation manager sono i veri influencer di internet, professionisti che lavorano affinché i contenuti permangano stabilmente nella prima pagina dei risultati, e possibilmente fra i primi tre; sono ingegneri reputazionali, strateghi della comunicazione, broker che “vendono” al motore di ricerca le pagine web con i contenuti che più aggradano ai loro clienti.

Ma la Borsa ha impiegato secoli prima di dotarsi di un regolamento interno che proibisse la manipolazione del mercato, mentre internet solo adesso si sta accorgendo di quanto sia facile dirottare l’opinione pubblica dentro il mare delle pagine e post, troppo esteso e tempestoso per essere scandagliato in ogni angolo. Per ora quindi gli interventi sui motori di ricerca che abbiamo potuto rilevare non possono essere definiti illegali: sono acque ancora inesplorate, dove si sono avventurati solo alcuni pionieri.

Come opera Eliminalia

Eliminalia dispone di diversi strumenti per spingere o distruggere i contenuti.

Richieste di rimozioni articoli alle testate

Il primo strumento è il form utilizzato da Raùl Soto con Osservatorio Diritti. Anche IrpiMedia ne ha ricevuti diversi e non solo da Eliminalia. Il database di documenti ottenuto da Forbidden Stories conta centinaia di richieste simili inviate indicando come indirizzo email di contatto legal-abuse.eu@pec.it o italy@abuse-report.eu. La maggior parte sono a nome di Soto. Le richieste seguono un modello pre-configurato: la struttura e i riferimenti legali si ripetono e hanno un tono intimidatorio – anche l’indirizzo email indicato allude in modo fraudolento a un ufficio della Commissione europea.

A una lettura più attenta, però, le motivazioni della richiesta di diritto all’oblio non sono mai ben dettagliate tranne che per l’aspetto temporale: la notizia sarebbe «vecchia e irrilevante». Spesso non si specifica se effettivamente i dettagli relativi alla persona coinvolta siano scorretti o se la situazione processuale sia cambiata, sembra che nessuno abbia davvero letto il pezzo in questione. In alcuni casi, le richieste fanno riferimento a un potenziale reato di diffamazione, mentre in altri casi si parla solo di violazione dei dati personali in riferimento alla possibilità di esercitare il diritto all’oblio. Le richieste non sono accompagnate nemmeno dall’atto del cliente con il quale conferisce potere a Eliminalia di agire a suo nome, come è stato fatto notare dal Tribunale di Civitavecchia in una risposta inviata dopo aver ricevuto la richiesta da Raùl Soto.

Richieste di rimozione articoli a Google

Negli Stati Uniti la legge sul copyright si chiama Digital Millennium Copyright Act (Dmca). Dà la possibilità agli utenti di chiedere alle aziende con sede negli Usa che offrono servizi online, vedi Google, di rimuovere i link di contenuti copiati. Nel caso di Eliminalia, centinaia di richieste per rimuovere articoli in italiano sono state depositate spacciandosi per impiegati di gruppi editoriali, da Repubblica a Il Giornale, da La Stampa a Il Sole 24 Ore. Spesso Eliminalia copia e retrodata il contenuto che vuole sia rimosso.

Lo scopo è fare da esca con centinaia di blog e siti creati appositamente: attraverso l’articolo retrodatato chiedono la rimozione dell’originale. Se Google ci casca, l’obiettivo è raggiunto. Nel database di #StoryKillers risultano oltre duemila richieste di rimozione Dmca fatte da Eliminalia. Il proprietario della società di reputazione, Didac Sanchez, secondo diversi professionisti che abbiamo sentito, si è presentato come “l’inventore” dell’impiego delle false richieste per la violazione del copyright. Google, nelle risposte ai reporter di #StoryKillers, sostiene di opporsi attivamente alle richieste finte e afferma di accogliere principalmente quelle di giornalisti con un pregresso di domande già accolte. Ciò non toglie che Google, per il Dmca, possa ritenersi estraneo alla violazione solo se interviene dopo poco (l’azienda dichiara in media sei ore) che è al corrente di un contenuto copiato. Il fattore tempo, in casi “in bilico”, può quindi spingere per la rimozione. Rimettere online un contenuto rimosso è un procedimento molto difficile. Google riceve anche richieste di rimozione per violazione del Gdpr.

Secondo i dati della società, nel corso del 2022 sono state depositate 1,4 milioni di richieste per 5,3 milioni di link. Sono numeri doppi rispetto a quelli registrati nel 2017, e per i quali è impossibile stabilire gli effetti. L’aumento delle richieste è esponenziale, quello delle rimozioni ha una curva meno accentuata.

Costruzione e diffusione di fake news

Quando Eliminalia non riesce a far rimuovere i link allora cerca di farli scomparire “sotterrandoli” sotto una mole di articoli falsi che, sfruttando tecniche di posizionamento sui motori di ricerca, riescono a scalzare gli articoli legittimi spingendoli nel dimenticatoio della seconda o terza pagina di Google.

Qurium ha individuato oltre tremila articoli falsi, raccolti su 600 siti web, collegati ai nomi di 48 clienti di Eliminalia. Gli articoli includono il nome del cliente nell’url del link e riportano spesso il suo nome nel testo del pezzo. Il contenuto è totalmente inventato.

Tutti questi siti web presentano degli elementi in comune, come la stessa informativa privacy e pagina sui diritti d’autore, e tutti erano registrati in un primo momento a nome dell’azienda Communication Media Group Ltd, con sede in un business center del paradiso fiscale caraibico di Saint Kitts & Nevis. IrpiMedia ha verificato la presenza nel leak di screenshot che mostrano la tecnica in azione: in rosso sono indicati articoli negativi, in verde invece quelli positivi pubblicati su siti web sotto il controllo di Eliminalia che avanzano nei risultati di ricerca.

Backlinking

Tra le tecniche usate da Eliminalia per far scalare la classifica dei risultati ai propri articoli fasulli, c’è quella di condividere i link su forum e blog. Infatti, tra i fattori che Google tiene in considerazione per decidere la posizione di un link tra i risultati di ricerca c’è il backlink, ovvero quante volte quel link sia stato incluso in altri siti web. Un’inchiesta esclusiva finirà in alto tra i risultati anche perché tutte le altre testate includono il link all’inchiesta nei propri articoli. Per manipolare i risultati di ricerca si possono quindi creare backlink verso siti web fasulli. Qurium ha individuato un forum su cui Eliminalia ha postato migliaia di backlink per permettere di far scalare i risultati della ricerca ai propri articoli falsi. In questo modo le notizie rilevanti sarebbero sommerse dai risultati scelti da Eliminalia.

Come opera Eliminalia

Eliminalia dispone di diversi strumenti per spingere o distruggere i contenuti.

Richieste di rimozioni articoli alle testate

Il primo strumento è il form utilizzato da Raùl Soto con Osservatorio Diritti. Anche IrpiMedia ne ha ricevuti diversi e non solo da Eliminalia. Il database di documenti ottenuto da Forbidden Stories conta centinaia di richieste simili inviate indicando come indirizzo email di contatto legal-abuse.eu@pec.it o italy@abuse-report.eu. La maggior parte sono a nome di Soto. Le richieste seguono un modello pre-configurato: la struttura e i riferimenti legali si ripetono e hanno un tono intimidatorio – anche l’indirizzo email indicato allude in modo fraudolento a un ufficio della Commissione europea.

A una lettura più attenta, però, le motivazioni della richiesta di diritto all’oblio non sono mai ben dettagliate tranne che per l’aspetto temporale: la notizia sarebbe «vecchia e irrilevante». Spesso non si specifica se effettivamente i dettagli relativi alla persona coinvolta siano scorretti o se la situazione processuale sia cambiata, sembra che nessuno abbia davvero letto il pezzo in questione. In alcuni casi, le richieste fanno riferimento a un potenziale reato di diffamazione, mentre in altri casi si parla solo di violazione dei dati personali in riferimento alla possibilità di esercitare il diritto all’oblio. Le richieste non sono accompagnate nemmeno dall’atto del cliente con il quale conferisce potere a Eliminalia di agire a suo nome, come è stato fatto notare dal Tribunale di Civitavecchia in una risposta inviata dopo aver ricevuto la richiesta da Raùl Soto.

Richieste di rimozione articoli a Google

Negli Stati Uniti la legge sul copyright si chiama Digital Millennium Copyright Act (Dmca). Dà la possibilità agli utenti di chiedere alle aziende con sede negli Usa che offrono servizi online, vedi Google, di rimuovere i link di contenuti copiati. Nel caso di Eliminalia, centinaia di richieste per rimuovere articoli in italiano sono state depositate spacciandosi per impiegati di gruppi editoriali, da Repubblica a Il Giornale, da La Stampa a Il Sole 24 Ore. Spesso Eliminalia copia e retrodata il contenuto che vuole sia rimosso.

Lo scopo è fare da esca con centinaia di blog e siti creati appositamente: attraverso l’articolo retrodatato chiedono la rimozione dell’originale. Se Google ci casca, l’obiettivo è raggiunto. Nel database di #StoryKillers risultano oltre duemila richieste di rimozione Dmca fatte da Eliminalia. Il proprietario della società di reputazione, Didac Sanchez, secondo diversi professionisti che abbiamo sentito, si è presentato come “l’inventore” dell’impiego delle false richieste per la violazione del copyright. Google, nelle risposte ai reporter di #StoryKillers, sostiene di opporsi attivamente alle richieste finte e afferma di accogliere principalmente quelle di giornalisti con un pregresso di domande già accolte. Ciò non toglie che Google, per il Dmca, possa ritenersi estraneo alla violazione solo se interviene dopo poco (l’azienda dichiara in media sei ore) che è al corrente di un contenuto copiato. Il fattore tempo, in casi “in bilico”, può quindi spingere per la rimozione.

Rimettere online un contenuto rimosso è un procedimento molto difficile. Google riceve anche richieste di rimozione per violazione del Gdpr.

Secondo i dati della società, nel corso del 2022 sono state depositate 1,4 milioni di richieste per 5,3 milioni di link. Sono numeri doppi rispetto a quelli registrati nel 2017, e per i quali è impossibile stabilire gli effetti. L’aumento delle richieste è esponenziale, quello delle rimozioni ha una curva meno accentuata.

Costruzione e diffusione di fake news

Quando Eliminalia non riesce a far rimuovere i link allora cerca di farli scomparire “sotterrandoli” sotto una mole di articoli falsi che, sfruttando tecniche di posizionamento sui motori di ricerca, riescono a scalzare gli articoli legittimi spingendoli nel dimenticatoio della seconda o terza pagina di Google.

Qurium ha individuato oltre tremila articoli falsi, raccolti su 600 siti web, collegati ai nomi di 48 clienti di Eliminalia. Gli articoli includono il nome del cliente nell’url del link e riportano spesso il suo nome nel testo del pezzo. Il contenuto è totalmente inventato.

Tutti questi siti web presentano degli elementi in comune, come la stessa informativa privacy e pagina sui diritti d’autore, e tutti erano registrati in un primo momento a nome dell’azienda Communication Media Group Ltd, con sede in un business center del paradiso fiscale caraibico di Saint Kitts & Nevis. IrpiMedia ha verificato la presenza nel leak di screenshot che mostrano la tecnica in azione: in rosso sono indicati articoli negativi, in verde invece quelli positivi pubblicati su siti web sotto il controllo di Eliminalia che avanzano nei risultati di ricerca.

Backlinking

Tra le tecniche usate da Eliminalia per far scalare la classifica dei risultati ai propri articoli fasulli, c’è quella di condividere i link su forum e blog. Infatti, tra i fattori che Google tiene in considerazione per decidere la posizione di un link tra i risultati di ricerca c’è il backlink, ovvero quante volte quel link sia stato incluso in altri siti web. Un’inchiesta esclusiva finirà in alto tra i risultati anche perché tutte le altre testate includono il link all’inchiesta nei propri articoli. Per manipolare i risultati di ricerca si possono quindi creare backlink verso siti web fasulli. Qurium ha individuato un forum su cui Eliminalia ha postato migliaia di backlink per permettere di far scalare i risultati della ricerca ai propri articoli falsi. In questo modo le notizie rilevanti sarebbero sommerse dai risultati scelti da Eliminalia.

Riciclatori di reputazione

I segreti di Eliminalia sono stati svelati attraverso un database di 50 mila contratti, scambi di email, screenshot di richieste a testate e piattaforme online per rimuovere contenuti e altri documenti. Al loro interno sono nominati circa 1.500 clienti provenienti da una cinquantina di Paesi, datati per lo più tra 2017 e 2021. Dai dati, emerge che per rimuovere un singolo link si pagano cifre tra duecento e duemila euro, a seconda dei casi. Ci sono 25 clienti che hanno sborsato più di 50 mila euro per ripulire la rete dal loro nome.

Tra i clienti stranieri ci sono banchieri condannati per riciclaggio, corruttori, trafficanti di droga, uomini dello spettacolo accusati di molestie sessuali, professionisti coinvolti in frodi finanziarie internazionali. Tra le banche, due casi rilevanti riguardano la Compagnie Bancaire Helvetique e Bandenia Plc: la prima è stata accusata di non aver impedito alcune operazioni di riciclaggio di denaro sporco, il direttore della seconda è stato condannato a quattro anni di carcere per aver ripulito i soldi di una trafficante di droga a settembre 2022. Ci sono imprenditori con un passato controverso. Ci sono riciclatori di denaro sporco.

Un articolo falso creato ad hoc e pubblicato su un sito sconosciuto in modo da influire sui risultati proposti dai motori di ricerca
Questa tecnica, utilizzata qui per la società Area Spa, consiste nella creazione di una mole di articoli falsi in modo da “sotterrare” l’indicizzazione dei link reputati dannosi

Tra le decine di clienti italiani, ci sono soprattutto imprenditori, manager, avvocati, contabili. Fra coloro che hanno risposto alle nostre domande, nessuno però si era rivolto direttamente a Eliminalia. I loro contratti sono spesso firmati con altre agenzie: in fasi diverse, tra il 2017 e il 2021, Sofiswiss, ReputationUp e Digitallex. Dei rapporti tra queste diverse agenzie ed Eliminalia parleremo nella prossima puntata. Ora è importante dire che, ciascuna di queste, durante un preciso lasso di tempo, ha collaborato con Eliminalia nella gestione dello stesso cliente, offrendo servizi leggermente diversi. Per quanto è stato possibile ricostruire, la collaborazione tra le agenzie con cui si stipula il contratto ed Eliminalia non è comunicata ai clienti.

Lo ha confermato lo stesso Piero Amara, rispondendo alle domande di IrpiMedia: non conosce Eliminalia ma solo ReputatioUp, trovata online. Non era al corrente di metodi illegittimi o illegali e ha al contrario interrotto il rapporto ritenendo il servizio non soddisfacente.

Gli fa eco nelle risposte Leonardo Bellodi, ex manager di Eni e della Libyan Investment Authorities che dai dati a nostra disposizione risulta abbia cercato di far sparire gli articoli che raccontavano i suoi legami con il mondo della politica e dell’imprenditoria.

«Apprendo solo ora da voi delle attività svolte dalla società Eliminalia, che non conosco e con cui non ho mai avuto alcun tipo di rapporto. Nel 2020 ho stipulato un contratto con la società italiana Digital Lex – avente come ragione sociale Prontoavvocato Srl – che si occupa di tutela del diritto all’oblio, per alcuni articoli che contenevano informazioni inaccurate e superate, dunque non più coerenti con il mio posizionamento attuale», spiega Bellodi. «All’interno del rapporto di collaborazione stipulato con la società italiana Digital Lex – aggiunge – mi sono stati notificati gli articoli per i quali sarebbe stata richiesta la deindicizzazione». «Gli articoli – conclude Bellodi – contenevano, per ciò che mi riguardava, informazioni inaccurate e superate, dunque non più coerenti con il mio posizionamento attuale e con il mio piano di Personal Branding».

Per approfondire

L’idra della disinformazione

Giornalisti uccisi, campagne di delegittimazione, strumenti per insabbiare notizie negative, eserciti di avatar che alimentano finti dibattiti: come si mette il giornalismo sotto attacco

Tra i clienti italiani di Eliminalia, ci sono anche i fratelli Steinkeller, promotori finanziari finiti al centro della truffa con la moneta virtuale OneCoin, scoperta dalla Guardia di finanza di Bolzano nel 2019. C’è ArcelorMittal, il gruppo proprietario dell’ex Ilva di Taranto e la sua manager Lucia Morselli. Le chiavi di ricerca monitorate da Eliminalia erano “Lucia Morselli inchiesta”, “Lucia Morselli crisi”, “Lucia Morselli pagando”. Tra gli articoli bersaglio ci sono anche pezzi di cronaca sindacale di testate nazionali, come Repubblica. C’è Studium srl, società che offre servizi didattici e legali di proprietà della famiglia Polidori, neo proprietario del Gruppo Corriere dell’Umbria e di altre testate locali coinvolto in un’inchiesta per evasione fiscale attraverso le società che gestiscono un altro pezzo del suo impero, le università telematiche.

C’è Area Spa, la società che vende sistemi di sorveglianza, tra le poche ad aver contattato direttamente Eliminalia (lo scorso dicembre abbiamo raccontato la sua vicenda processuale in Italia, dove è stata archiviata). «Mancata completa veridicità ed accuratezza», degli articoli, spiegano dalla società in una nota di commento, sono i motivi per cui si sono rivolti al servizio. Area aggiunge di essersi rivolta a Eliminalia «affinché tale rimozione avvenisse esclusivamente in piena ottemperanza alle norme nazionali, comunitarie ed internazionali in materia di diritto all’oblio, alla tutela della vita privata delle persone coinvolte e alla protezione dei dati personali oltre che in ottemperanza agli obblighi deontologici del giornalismo».

La ricerca di Qurium è partita proprio da alcuni contenuti su siti sconosciuti in cui si descrive Area Spa, citata insieme al luogo dove ha la sua sede legale, Vizzola Ticino in provincia di Varese, come una scuola di danza o il suo manager Andrea Formenti come un esperto di intelligenza artificiale e smartphone. Sono temi completamente scollegati dal settore in cui opera Area. Il loro scopo è annegare il nome in una serie di parole chiave che non c’entrano nulla con le attività in Siria per cui Area Spa è finita al centro delle cronache internazionali.

Alla ricerca dell’oblio in rete

Alcuni dei personaggi e delle entità che hanno usufruito dei servizi di Eliminalia

«I contenuti restano online per sempre e ti marchiano in un certo senso – spiega Marisa Maraffino, avvocata specializzata nel digitale e nelle nuove tecnologie – però non tutti hanno disponibilità economiche per spendere quei soldi. I clienti di queste società di solito sono imprenditori che hanno certe disponibilità».

Aggiunge che dal suo punto di vista, il diritto all’oblio dovrebbe essere trattato come una materia per avvocati. È una materia in divenire: da un lato, se ne disegnano i confini con la giurisprudenza, prosegue, dall’altro è diventata legge con la riforma promossa dall’ex ministro della Giustizia Marta Cartabia, che ha introdotto dallo scorso ottobre la possibilità per chi è stato prosciolto di richiedere la deindicizzazione dei contenuti che lo riguardano. «Queste società però di base mandano pacchi di diffide, ma non so che effetto poi sortiscano», conclude.

Di parere diverso Stefano Sutti, avvocato che in passato ha lavorato in partnership con Eliminalia in Italia, oggi diventata una società indipendente, Ealixir (dello scontro tra Eliminalia ed Ealixir parleremo nella prossima puntata).

«I risultati [delle richieste dell’agenzia] sono spettacolari, nel senso che in tempi relativamente brevi e con dei costi che sono infinitamente inferiori a quelli che un qualsiasi studio legale presenterebbe [per gestire la rimozione o deindicizzazione di grandi quantità di link], risolvono il 90-95% dei problemi». Quel che resta finisce con i metodi tradizionali: querele per diffamazione oppure cause civili. La giurisprudenza, aggiunge, è relativamente scarsa «perché bisogna arrivare fino in fondo», in Cassazione. E se non c’è un business case (da intendersi come vantaggio economico, ndr) per entrambe le parti ad andare fino in fondo uno dei due si arrende». Il risultato, inevitabile, è che «sia per la diffamazione, sia per l’utilizzo delle immagini ci sono una serie di zone grigie», dice Sutti. Da un lato c’è il diritto della persona, dall’altro il diritto di cronaca. In mezzo, delle agenzie che gestiscono una massa enorme di richieste a fronte di pagamenti proibitivi. Il diritto all’oblio rischia così di configurarsi solo come un diritto per ricchi.

Una parte del modulo di Twitter per richiedere la rimozione di contenuti

La tana del bianconiglio

Database come quello di Eliminalia sono tane del bianconiglio: si continua a scavare, a scavare tanto che a volte sembra impossibile fermarsi, tanto che a volte sembra impossibile, alla fine, districarsi in mezzo a quella mole di informazioni. Il dettaglio che mi ha riportato fuori dalla tana è stato ritrovare il link del mio pezzo di Osservatorio Diritti tra i bersagli di Eliminalia. Mi ha dato una chiave per cominciare a trovare e non solo a cercare. Ho recuperato così tre contratti firmati da una società che non è mai finita tra i fascicoli giudiziari che riguardano Amara. Ha sede in Bulgaria, a Sofia, e si chiama Company H20 Ltd. Si occupa di assistenza nell’acquisizione di impianti di energia elettrica da fonti rinnovabili, spiega lo stesso Amara rispondendo alle domande di IrpiMedia attraverso il suo legale. È controllata da una società italiana il cui proprietario è il figlio dell’ex avvocato. Risulta che abbia pagato circa 82.800 euro in tre tranches, tra settembre 2020 e febbraio 2021. I soldi sono stati intascati almeno in parte da Eliminalia, anche se il contratto è con ReputationUp, una società che è stata partner di Eliminalia.

Nel corso di tutta la sua storia, la società di Didac Sanchez si è spesso appoggiata a terzi per la gestione di clienti in alcuni Paesi, come l’Italia. Secondo quanto raccolto attraverso le testimonianze di diversi dipendenti sparsi in tutto il mondo, Eliminalia si occupa della parte tecnica, mentre il recupero dei clienti passa per le altre agenzie oppure da altri professionisti. In un commento interno registrato nel database di Eliminalia insieme all’ultimo pagamento di Piero Amara, si legge che è stato «tolto il 10% per l’agente». Il 10% va inteso quindi come la quota riservata da Eliminalia a chi ha procurato il cliente.

IrpiMedia è gratuito

Ogni donazione è indispensabile per lo sviluppo di IrpiMedia

Per Piero Amara la decisione di rivolgersi a una società di reputazione online «è collegata alla comprensibile volontà di migliorare la propria immagine, anche per evitare la circolazione di informazioni improprie o distorte», spiega. Oggi è collaboratore di «almeno sei procure», scrive Il Riformista, per quanto le dichiarazioni di Amara, quando appaiono sulla stampa, vengano commentate spesso come un intreccio quasi inestricabile di vero, falso e verosimile. Vero o falso pentito? Nelle risposte che ha fatto pervenire a IrpiMedia tramite il suo avvocato, Piero Amara «affida il giudizio sulla sua credibilità alle sentenze dei Tribunali italiani e non ad altro» specificando «di non essere mai stato condannato per calunnia e le uniche sentenze che hanno valutato le sue dichiarazioni ne hanno ribadito la piena attendibilità».

Il lavorio sui link che lo riguardano è proseguito anche dopo il 2021. C’è stata per esempio un’improbabile segnalazione a Google che sarebbe stata inviata da Il Fatto Quotidiano per violazione di copyright da parte di Press reader, la piattaforma che permette di leggere online la versione cartacea di quotidiani. La richiesta è del settembre 2022, il pezzo è del 2020 e compare tra i bersagli di Eliminalia.

Uno scontro in atto

Nel novembre 2021 l’opinionista del Financial Times Jemima Kelly ha definito l’intera industria della reputazione «un business torbido». Alterare un contenuto online, a prescindere dalla sua attinenza alla realtà, è sempre un fatto grave. Esistono differenze tra chi sceglie di evitare alcuni clienti e alcune tattiche, ma l’attività è di per sé controversa, soprattutto dal punto di vista di chi produce informazione, la vittima di questa storia.

In Italia, grazie al lavoro di organizzazioni come Ossigeno per l’Informazione, è chiaro che le querele temerarie, procedimenti per diffamazione a mezzo stampa intentati solo a scopo intimidatorio, sono la principale arma di censura dei giornalisti, soprattutto freelance. È altrettanto un fatto che oltre la metà dei siti di fake news impiegati da Eliminalia tra quelli individuati da Qurium siano in italiano. Non è ancora chiaro come leggere questo dato, ma una valida ipotesi è che l’Italia sia tra i principali bersagli di questa forma di disinformazione che fa sparire dai primi risultati di Google gli articoli “scomodi” su un certo argomento.

In Messico, uno dei Paesi più pericolosi al mondo per i giornalisti, l’organizzazione per la libertà di stampa Articulo 19 ha evidenziato in un report tre casi di giornalisti che sono stati censurati attraverso false dichiarazioni di violazione del copyright. Il diritto all’oblio è già legge, ma farlo applicare in fretta alle aziende che fanno da piattaforme per i contenuti – da Google ai social network, per intendersi – implica due conseguenze: da un lato una delega alle piattaforme di decidere ciò che ha diritto e ciò che non ha diritto di essere dimenticato; dall’altro di ottenere risposte standardizzate per tutti i casi, a prescindere dal merito, dato che le aziende private non hanno alcuna voglia di entrare in conflitto con una controparte a difesa della legittimità di un contenuto giornalistico prodotto da terzi.

Fake news è un termine che è diventato di uso comune dall’inizio degli anni Duemila e da allora il mondo del giornalismo – soprattutto online – sta cercando, con fatica, di riaffermare la propria autorevolezza. Un ultimo studio del Reuters Institute pubblicato lo scorso settembre ha evidenziato come nei Paesi presi in esame – Brasile, India, Stati Uniti e Gran Bretagna – le piattaforme virtuali abbiano sempre meno credibilità dei media tradizionali. Le notizie sono una merce da quando sono stati fondati i giornali e fare il giornalista è una professione remunerata. Però nel contesto online la loro proprietà è sostanzialmente in mano alle piattaforme, più che agli editori o ai giornalisti. Farle apparire o farle scomparire, renderle facili o difficili da trovare, quindi, da trent’anni almeno non è più appannaggio di chi sta nelle redazioni. Ammesso che sia mai stato così, non è più una questione di deontologia professionale darle in modo corretto oppure no. È una mera questione economica: basta pagare tanto il tecnico giusto.

Il 18 febbraio il pezzo è stato modificato per chiarire la ragione sociale di Studium srl.

 

CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli
(con Raffaele Angius, Riccardo Coluccini)

Ha collaborato

Rita Martone
Simone Olivelli

Editing

Giulio Rubino

Infografiche

Lorenzo Bodrero

Illustrazioni

In partnership con

The Guardian
The Observer
Le Monde
The Washington Post
Der Spiegel
ZDF
Paper Trail Media
Die Zeit
Radio France
Proceso
Occrp
Knack
Le Soir
Haaretz
The Marker
El Pais
SverigesTelevision
Radio Télévision Suisse
Folha
Confluence Media
IrpiMedia
IStories
Armando Info
Code for Africa
Bird
Tempo Media Group
El Espectador
Der Standard
Tamedia
Krik

L’idra della disinformazione

#StoryKillers

L’idra della disinformazione

Riccardo Coluccini

Alle otto di sera del 5 settembre 2017 è stata assassinata con tre pallottole la giornalista indiana Gauri Lankesh. Si trovava appena fuori dall’uscio di casa, a Bangalore. Dal 2005, aveva creato un suo settimanale Gauri Lankesh Patrike, e si descriveva come giornalista-attivista. Era nota per le sue posizioni contro l’inarrestabile ascesa dell’induismo più radicale, spina dorsale del governo nazionalista indiano: combattere le fake news diffuse dal partito di governo Bharatiya Janata Party (BJP), guidato dal primo ministro Narendra Modi, era per lei parte di una più ampia azione di contrasto contro l’estrema destra indiana.

Quando è stata uccisa, stava lavorando alla pubblicazione di un editoriale dal titolo In the Age of False News, pubblicato poi postumo. Stava indagando sul sito Post card News, una delle «fabbriche di bugie» di cui si alimentano il BJP e gli ambienti di estrema destra.

«Il primo ministro Narendra Modi ha lasciato prosperare un clima di dominio delle gang in India, con i suoi sostenitori hindu che diffamano i “laicisti” – scrive il New York Times nell’editoriale L’omicidio di una giornalista indiana, pubblicato due giorni dopo -. Il veleno che i troll dei social media reazionari direzionano ai giornalisti, o “presstitute” (un gioco di parole tra press, stampa, e prostitute, ndr) come li chiamano loro, è particolarmente malvagio, ma non interamente nuovo. Almeno 27 giornalisti indiani sono stati uccisi dal 1992 «come conseguenza diretta del loro lavoro», secondo il Committee to Protect Journalists (Cpj). Il Cpj è un’organizzazione non profit che si occupa di libertà di stampa e sicurezza dei giornalisti.

L’omicidio è l’arma finale per silenziare un giornalista, ma ci sono altri metodi, più raffinati e meno evidenti con cui aggredire la stampa libera.

Gauri Lankesh – Foto: Sheethal Jain

La disinformazione è come un’idra, il velenoso serpente mitologico a più teste: ciascuna corrisponde a un mercenario assoldato per iniettare il veleno nel discorso pubblico, in modi più o meno brutali. È un mostro immortale, che esiste da quando c’è il giornalismo. È parte delle macchine della propaganda. Sembra non avere alcuna regia, invece il corpo a cui appartengono le teste diverse è sempre lo stesso. Ogni mercenario, dispone di molti modi per uccidere una storia, anche senza macchiarsi di omicidio.

#StoryKillers è l’inchiesta internazionale sui volti della disinformazione – da quelli più violenti, a quelli più tollerati, da quelli incontrovertibilmente illegali, a quelli che sfruttano a loro vantaggio dei vuoti legislativi – a cui hanno partecipato oltre cento giornalisti di trenta media internazionali.

I mercenari della disinformazione sono spesso invisibili. La loro industria globale – che ha preso sempre più piede anche in Italia – è però fiorente e redditizia. Non è facile capire quanti siano, tuttavia secondo un report pubblicato dal Oxford Internet Institute, nel 2020 in almeno 81 Paesi sia governi che partiti politici sono ricorsi a campagne di manipolazione sui social media. Durante sei mesi di ricerche, i giornalisti di #StoryKillers hanno scoperto e investigato sulle organizzazioni che offrono questo tipo di servizi a pagamento, manipolando i risultati di Google, cercando di influenzare l’esito di elezioni e inondando i social network di informazioni false.

«Graduale indottrinamento»

Il processo per l’omicidio di Gauri Lankesh è cominciato a luglio 2022 e ancora non si è concluso. Sono imputate 18 persone (una delle quali ancora latitante), tutte collegate a una setta nazionalista induista chiamata Sanatan Sanstha e una sua affiliata, la Hindu Janajagriti Samiti (HJS). L’organizzazione è legalmente registrata in India, ha un trust finanziario dal 1999 e un sito dove presenta i suoi corsi di meditazione e spiritualità, ma dal 2007 in avanti alcuni suoi affiliati sono stati arrestati e processati per aver fatto esplodere bombe e per aver ucciso attivisti e politici di sinistra.

Secondo i documenti giudiziari visionati da Forbidden Stories, Amol Kale, membro della setta, avrebbe pianificato l’omicidio della giornalista per più di un anno. Era da tempo che il commando di killer – frequentatori sia della setta, sia di gruppi di motociclisti – stava monitorando gli spostamenti della giornalista. A premere il grilletto sarebbe stato Parashuram Waghmore, un induista radicale.

Almeno cinque membri del gruppo omicida avevano visto un video su Youtube del 2012 in cui la giornalista metteva in discussione le origini dell’induismo. Secondo un investigatore che ha parlato con Forbidden Stories sotto garanzia di anonimato, il presunto sicario Waghmore conosceva a memoria alcuni passaggi di quel video. Gli inquirenti ipotizzano che il filmato abbia avuto un ruolo fondamentale nel percorso di «graduale indottrinamento» con il quale il gruppo di assassini si è persuaso che uccidere la giornalista fosse giusto.

Un’analisi online, condotta da Forbidden Stories con il supporto dei ricercatori del Princeton’s Digital Witness Lab, dimostra che quello stesso video, prima che l’assassinio fosse pianificato, è stato diffuso ampiamente nei gruppi di estrema destra, contribuendo in maniera sostanziale a trasformare la giornalista in una nemica dell’induismo. Solo che le parole di Lankesh sono state modificate: il discorso «è stato accorciato per includere solo la parte in cui dice che la religione indù non ha un padre o una madre. L’intenzione era quella di sottolineare la pluralità della religione. Ci sono migliaia di caste e diversi credi», ha spiegato a Forbidden Stories Kl Ashok, coordinatore dell’evento in cui Lankesh aveva tenuto il discorso.

Caricata più volte su YouTube, la versione manipolata delle parole della giornalista è stata diffusa su Facebook attraverso otto diversi link, ottenendo in alcuni casi complessivamente circa 100 milioni di interazioni, tra like, commenti e condivisioni. Gli amici di Lankesh ricordano costanti attacchi e molestie online ai suoi danni da parte di gruppi dell’estrema destra, durante gli ultimi mesi di vita. Erano la dimostrazione degli effetti della macchina del fango messa in moto per distruggere la sua credibilità.

La madre rende omaggio al feretro della figlia Gauri Lankesh, giornalista e attivista uccisa a settembre 2017 – Foto: AFP/Getty

La centralizzazione dei social media in poche grandi aziende ha creato il perfetto strumento per una delle teste dell’idra della disinformazione. Dopo essere stato modificato in modo da generare le reazioni più forti nel pubblico, il video da YouTube finisce con l’essere introdotto in pagine e gruppi Facebook, aumentandone esponenzialmente l’esposizione.

Negli anni successivi all’omicidio di Lankesh, Post card News, l’oggetto delle ricerche della giornalista, ha continuato a postare incessantemente false informazioni, sia per screditare altre testate e l’opposizione, sia per distogliere l’attenzione dai nazionalisti induisti, accusati per l’omicidio, e incolpare invece gruppi della sfera politica di sinistra.

L’arma della delegittimazione

Il ricorso alla violenza e gli attacchi fisici contro i giornalisti portano spesso a una reazione da parte dei colleghi e a un’attenzione maggiore alle notizie su cui le vittime stavano lavorando. Questi episodi sono però solo la più tragica ed estrema manifestazione di un processo di avvelenamento del dibattito pubblico che parte da molto più lontano. Un processo che è spesso invisibile perché fatto di tecniche e azioni più silenziose ma allo stesso tempo efficaci.

Ci sono infatti reti di bot (profili automatizzati e in grado di operare massivamente) costruite da aziende specializzate fatte apposta per manipolare l’opinione pubblica. In parallelo, i tentativi di censura “legale” attraverso l’abuso delle leggi sul diritto d’autore o sulla privacy spingono poi i giornalisti all’auto-censura per timore di costosi casi giudiziari. E se il fiorire di fake news già mette in crisi il mondo dell’informazione, allora le aziende che rimuovono contenuti online per proteggere la reputazione di un cliente non fanno altro che peggiorare questa situazione, andando a colpire e nascondere articoli e inchieste di notevole rilevanza per l’opinione pubblica.

«Queste campagne hanno l’obiettivo di distruggere la credibilità dell’interlocutore, e se non puoi distruggerla allora minacci la sua vita», ha dichiarato ai giornalisti di #StoryKillers la dottoressa Emma Bryant, fellow al Bard College e professoressa associata al Center for Financial Reporting and Accountability dell’Università di Cambridge, esperta di propaganda internazionale e information warfare.

Il mondo dell’informazione è sotto attacco anche a causa dell’effetto collaterale della presenza di monopoli sui bacini di informazione: chi riesce a manipolarli potrà ottenere risultati con estrema facilità. In breve, visto che i colossi che gestiscono la distribuzione globale delle informazioni sono fondamentalmente solo tre – Google, Meta e Twitter – capendo come manipolare gli algoritmi che “scelgono” per noi quali notizie finiscano in evidenza si può efficacemente determinare cosa appaia e cosa no, e di conseguenza, cosa è vero e cosa è falso, almeno nell’opinione pubblica.

Mercenari nell’ombra: il Team Jorge

Alcuni di questi mercenari sostengono di essere in grado di cambiare l’esito di tornate elettorali o referendarie, grazie alla loro capacità di condizionare l’opinione pubblica. I colleghi delle testate TheMarker, Radio France e Haaretz li hanno incontrati fingendosi un gruppo di interesse intenzionato a rimandare, a tempo indefinito, delle elezioni in un Paese africano. Gli incontri sono stati registrati con una telecamera nascosta e mostrano, per la prima volta, come si negozia a porte chiuse l’interferenza in un voto.

Il nome Team Jorge deriva dall’alias utilizzato da una delle persone che ha mostrato le capacità e i servizi a disposizione ai giornalisti sotto copertura. L’uomo che si fa chiamare Jorge è in realtà Tal Hanan, amministratore delegato dell’azienda Demoman, società israeliana specializzata in consulenza per agenzie governative di tutto il mondo su temi come il terrorismo e la sicurezza nazionale. Hanan non ha voluto rispondere a una serie di domande dettagliate inviate dal consorzio di giornalisti ma ha dichiarato di non aver commesso alcuna azione illecita.

Email ottenute dal Guardian e condivise con il consorzio di #StoryKillers mostrano che i servizi di Tal Hanan e del suo team erano stati persino offerti nel 2015 a Cambridge Analytica, l’azienda coinvolta nello scandalo dei dati sottratti a Facebook e usati per influenzare la campagna elettorale del 2016 di Donald Trump per la presidenza degli Stati Uniti e nel referendum sulla Brexit. Quell’accordo non sembra essere stato siglato, ma il Team Jorge ha continuato a cercare clienti in tutto il mondo.

I servizi offerti dal Team Jorge sono vasti ed è molto difficile verificarne l’efficacia: raccolta di informazioni su concorrenti e oppositori politici, pianificazione di strategie politiche, addestramento per personale in grado di produrre contenuti online, ma anche interferenze nelle elezioni e attività informatiche offensive come ad esempio ottenere dati bancari, smascherare l’identità di una persona dietro a un nickname, e accedere a caselle di posta elettronica. Hanan ha specificato di avere una presenza con varie aziende in diverse zone del mondo – sul sito di Demoman sono indicate sedi in Israele, USA, Svizzera, Spagna, Croazia, Messico, Colombia, e Ucraina – e i pagamenti per le campagne possono essere fatte tramite aziende di comodo in base a dove si trova il cliente.

Ma il vero veleno per questa testa dell’idra è la diffusione di notizie false. In uno dei meeting, Tal Hanan spiega le tre fasi per una campagna di successo: «Per prima cosa raccogliamo informazioni, un po’ dalle fonti aperte e un po’ usando le nostre capacità tecnologiche». A quel punto bisogna costruire la narrazione: «In base al nostro obiettivo, cosa vogliamo influenzare? Qual è la narrazione? Che cosa produrrà un impatto?», prosegue Hanan. Poi non rimane che disseminare queste informazioni in modo che tutti le leggano e le conoscano. Il vero potere di queste operazioni, spiega Hanan, è che sono fatte dietro le quinte: «L’altro lato non sa nemmeno che noi ci siamo».

Tra gli strumenti preferiti da Team Jorge c’è la piattaforma AIMS, che sembra essere stata sviluppata in parte internamente circa sei anni fa, il cui acronimo sta per Advanced Impact Media Solutions. Questo software permette di creare e gestire centinaia di finti profili social in tutto e per tutto simili a un qualsiasi account autentico. Per mostrare le capacità di AIMS, su richiesta degli intermediari-giornalisti, Team Jorge ha offerto un esempio attaccando con una campagna sui social un personaggio diventato virale nel 2022 su TikTok e Twitter: un uccello emù chiamato Emmanuel. La campagna di dimostrazione aveva anche un hashtag, ricondiviso dagli avatar di AIMS: #RIP_Emmanuel.

Un esempio di tweet per l’attacco social contro l’emù postati dai finti profili in mano a Team Jorge

Questa dimostrazione ha permesso di verificare le capacità di Team Jorge ma ha offerto anche indirettamente a Forbidden Stories la possibilità di tracciare a ritroso la rete di avatar virtuali utilizzati, scoprirne di nuovi che hanno collegamenti in comune e mappare così anche altre campagne di disinformazione attive in cui è stata utilizzata la piattaforma. L’analisi di Forbidden Stories ha individuato 16 campagne attribuite alla piattaforma AIMS, per un totale di circa 1.750 avatar coinvolti e quasi 110 mila tweet.

Come Team Jorge ha condizionato le elezioni in Kenya

Il 15 agosto 2022 sono stati ufficializzati i risultati delle elezioni presidenziali in Kenya. William Ruto è stato eletto presidente, vincendo contro l’avversario Raila Odinga (quest’ultimo sostenuto anche dal presidente uscente Uhuru Kenyatta). Nelle elezioni del 2007 sono morte oltre mille persone e in quelle del 2017 più di cento. Comprensibilmente, erano molti gli occhi puntati sulle elezioni e tra questi c’erano anche quelli di Team Jorge.

In quei giorni Tal Hanan ha mostrato infatti ai giornalisti sotto copertura di avere accesso ad alcuni account Gmail e profili Telegram appartenenti a membri della campagna elettorale di Ruto.

Hanan poteva leggere le email e scrivere direttamente ai contatti Telegram dei bersagli hackerati. «Questo è in diretta», dichiara Hanan in uno dei video registrati di nascosto dai giornalisti mentre scorre le chat Telegram del Digital Strategist della campagna di Ruto, Dennis Itumbi, «parlano del conteggio dei voti, che è ancora in corso. Dicono che per le 15:00 si dovrebbero avere i risultati finali – ne dubito, vedremo».

Il reale impatto di Team sull’esito delle elezioni è difficile da stabilire. Di certo però sui social sono apparsi video di origine sconosciuta che hanno cominciato a far girare informazioni false in merito a presunte pressioni occidentali sul voto. Inoltre, alcuni giorni dopo l’annuncio della vittoria, una delle vittime hackerata da Team Jorge è stata accusata per una presunta frode elettorale a favore di Ruto. John Githongo, giornalista attivo nella lotta alla corruzione che con il suo giornale The Elephant ha collaborato anche con IrpiMedia, è entrato in contatto con un whistleblower che ha dichiarato l’esistenza di brogli con i sistemi informatici della commissione indipendente per le elezioni.

Il whistleblower ha dichiarato di aver aiutato nell’attacco informatico e di aver falsificato i documenti insieme ad altre 56 persone. A guidare la frode sarebbero stati due membri della campagna del neo-eletto presidente Ruto, tra cui la persona il cui account Telegram è stato mostrato da Jorge. Il whistleblower si è però rivelato successivamente non affidabile.

I risultati dell’elezione avevano già prodotto violente proteste da parte della popolazione. Le notizie di brogli non hanno fatto altro che esacerbare una situazione già tesa. La Corte Suprema del Kenya è intervenuta sul caso ribadendo che i risultati sono legittimi e che le prove forensi offerte dal whistleblower non confermano alcun tipo di broglio o attacco informatico, ma sarebbero state create appositamente. La decisione della Corte non è servita però a placare la popolazione.

A inizio 2023 un nuovo sito web legato a un altro whistleblower che afferma di aver lavorato nella commissione elettorale ha pubblicato altre prove per confermare la tesi dei brogli elettorali. Anche in questo caso i documenti erano falsi, come hanno dimostrato una serie di analisi sui file.

Non è chiaro se esista un collegamento diretto tra questo whistleblower e Team Jorge ma Hanan ha dichiarato di poter creare siti che fanno il verso a Wikileaks per pubblicare documenti e informazioni con lo scopo di screditare gli avversari. Secondo Hanan tutto può essere usato come arma di disinformazione e pubblicato sui loro siti: «Una volta può trattarsi di foto, un’altra di scontrini, e un’altra ancora email».

La piattaforma AIMS è venduta come parte di un pacchetto di servizi, di solito dedicati a partiti politici. «La nostra competenza principale sono le elezioni, abbiamo completato 33 diverse campagne a livello presidenziale», ha spiegato Hanan in una presentazione. La maggior parte di queste campagne, sempre secondo le sue parole, hanno coinvolto Paesi del continente africano ma anche in Asia, America Latina e Europa dell’Est.

Secondo alcune biografie disponibili online, Hanan è un esperto di antiterrorismo e intelligence, ex membro delle forze speciali dell’esercito israeliano. Sin dal 1990 è coinvolto nell’industria della sicurezza e dell’intelligence. Sul sito web della sua azienda, Demoman, Hanan offre una piattaforma per il monitoraggio dei social media, ma sul sito non c’è traccia delle campagne di disinformazione messe in piedi con AIMS. Gli altri membri di Team Jorge sono tutti parte del settore della sicurezza ed ex ufficiali dell’esercito/intelligence israeliano.

Le vite virtuali degli avatar di AIMS

AIMS (Advanced Impact Media Solutions) crea una sorta di album di figurine di account fasulli che possono essere usati a proprio piacimento. Per ciascuno di essi si possono scegliere l’etnia, la lingua, e un set di fotografie per il profilo. Queste foto sono spesso raccolte da database online o rubate da social network come il russo VK, come ha potuto confermare Forbidden Stories nel caso di un avatar che ha copiato le foto del profilo di una donna di origini ungheresi.

Ogni finto profilo ha un account Gmail con un numero di cellulare verificato e sono presenti sul web come una qualsiasi persona reale: profili su Facebook, Twitter, Instagram, Amazon, persino account per gestire criptovalute. Per crearli Jorge utilizza piattaforme online che offrono numeri di telefono virtuali e ciascun avatar, una volta programmato, interagisce sulle piattaforme nascosto dietro quelli che si chiamano residential proxies in modo da mascherare l’origine fasulla dei bot. Con i residential proxies il traffico internet passa attraverso degli intermediari, che sono spesso dispositivi di veri utenti ignari di ciò che sta avvenendo. In questo modo è possibile bypassare i controlli dei social media fingendo che i bot siano connessi da linee internet utilizzate da persone reali.

Le piattaforme come Facebook analizzano infatti diversi dettagli delle connessioni di un utente: se la connessione proviene sempre dallo stesso tipo di dispositivo, usando lo stesso browser e se l’indirizzo IP proviene da un operatore che offre servizi internet legittimi.

Tutti gli account che presentano segnali di attività sospetta e coordinata, come ad esempio quelli che si connettono dallo stesso indirizzo IP, vengono segnalati e bloccati dalle piattaforme.

Gli avatar della piattaforma AIMS sono poi usati dal Team Jorge per lasciare commenti sui social, condividere articoli e video creati in base alla narrazione che si vuole diffondere, o persino per acquistare prodotti su Amazon all’interno di strategie dirette a screditare particolari obiettivi. «Imitiamo il comportamento umano», dichiara Jorge in uno degli incontri.

Il consorzio di giornalisti ha condiviso alcuni dei bot con Meta, l’azienda proprietaria di Facebook, che ha provveduto a eliminarli dal social media. Secondo un portavoce di Meta, questi account sarebbero collegati a un altro network di bot individuati nel 2019 e gestiti da un’azienda israeliana che ora non è più attiva.

Screenshot da una presentazione del Team Jorge della piattaforma AIMS. Ogni avatar mostrato dispone di profili e account social. Le immagini sono state oscurate perché in alcuni casi possono essere state sottratte a profili di persone reali

Per creare i contenuti da diffondere Jorge ha a disposizione un altro strumento che crea post su blog messi in piedi appositamente, per poi passare i link agli avatar virtuali. L’obiettivo è avere quanti più articoli possibili da spammare: non interessa se Meta o Twitter rimuovono i link, ci sarà sempre un nuovo contenuto pronto da condividere. In questo modo i bot possono imprimere la storia con efficacia nella mente dell’opinione pubblica o semplicemente creare caos sui social media.

I servizi di disinformazione offerti da Hanan e il suo Team ricadono in una zona grigia ma in alcuni casi si spingono chiaramente oltre il limite della legalità, come nel caso di intrusioni informatiche e attacchi hacker. In alcuni degli incontri ha mostrato infatti di avere accesso diretto a caselle di posta, tra cui quelle di Gmail, e poter scrivere e cancellare messaggi dall’account Telegram di assistenti nella campagna elettorale del neo-presidente del Kenya, William Ruto.

Forbidden Stories è riuscita a confermare l’accesso abusivo agli account personali di posta elettronica e di alcune chat ma non è stata in grado di verificare cosa abbia fatto Jorge per ottenere l’accesso. Telegram ha confermato che gli account coinvolti non avevano attivato la password per l’autenticazione a due fattori, un metodo alternativo alla tradizionale verifica tramite SMS che si usa quando si aggiunge il proprio account a un nuovo dispositivo.

Secondo Jorge, come ha raccontato in uno degli incontri, non c’è nessun tipo di intrusione informatica nei dispositivi, non si tratta di spyware, né vengono inviati SMS e email di phishing per carpire le credenziali di accesso: «Per spiegarlo in parole semplici, copiamo l’identità del dispositivo e stabiliamo un collegamento con tutti i server che inviano i dati al dispositivo», dicono.

Uno degli aspetti più peculiari di questi mercenari della disinformazione sta nella loro capacità di creare disturbo, sia che si tratti di bot sui social sia ottenendo informazioni con attacchi informatici. In molti casi infatti non è necessario che tutti credano alla storia messa in piedi dai bot di Team Jorge, la sola presenza di questi contenuti può instillare il dubbio e produrre reazioni in alcune parti della popolazione.

«È possibile che l’impatto più grande delle campagne di disinformazione, come queste, sia nel pretendere di essere estremamente efficaci e spingerci a mettere in dubbio l’autenticità di tutto ciò che vediamo online», ha dichiarato a Forbidden Stories Nir Grinberg, professore associato al Dipartimento di Software and Information Systems Engineering presso l’Università di Ben-Gurion.

Sul sito di Demoman c’è una frase attribuita a Mark Twain che secondo l’azienda spiega l’importanza dell’intelligence online e dell’insegnamento di queste tecniche ai clienti: «È più saggio scoprirlo che supporlo». Un messaggio che sembra piuttosto un monito per tutti i giornalisti che cercano di contrastare la disinformazione.

Le teste dell’idra, infatti, preferiscono essere semplici supposizioni nella testa dei cittadini, rimanere nell’ombra, aggirarsi nei vicoli più nascosti delle piattaforme online per poi colpire sfruttando proprio quei monopoli digitali che tengono insieme le nostre vite. Ma rivelare questi meccanismi e puntare l’attenzione sui punti di congiunzione tra le diverse strategie dei mercenari della disinformazione permette di comprendere in anticipo quali sono i pericoli che le nostre democrazie devono affrontare e, forse, evitare che una nuova storia venga lasciata incompiuta.

Condizionare le opinioni è un servizio che può acquistare solo chi se lo può permettere. È un bene di lusso che serve sia a chi vuole condizionare consultazioni elettorali, sia a chi vuole ripulirsi la reputazione, sia a chi vuole trasformare chi la pensa diversamente da lui in un nemico da abbattere. Il luogo dove è più facile incidere sulle opinioni è la rete, dove il giornalismo è già avvelenato dallo strapotere delle piattaforme online: Google, Facebook, Twitter e gli altri giganti del web, sono interessati più a evitare conseguenze legali che a migliorare il modo di fornire e rettificare le informazioni che il pubblico consuma. È così che, accanto alle tecniche di manipolazione degli algoritmi, nel tempo sono andati sviluppandosi metodi più subdoli, paralegali e solo apparentemente legittimi, che sfruttano le vulnerabilità del diritto alla privacy o dei diritti d’autore.

Togliere o insabbiare un’informazione può diventare quindi un servizio, piuttosto costoso, accessibile solo a chi si può permettere di ripulire la propria reputazione web. Questa testa dell’idra è la protagonista della seconda puntata di #StoryKillers, che, come IrpiMedia ha scoperto, in Italia è la più insidiosa.

CREDITI

Autori

Riccardo Coluccini

Ha collaborato

Raffaele Angius
Lorenzo Bagnoli

Editing

Giulio Rubino

Illustrazioni

In partnership con

The Guardian
The Observer
Le Monde
The Washington Post
Der Spiegel
ZDF
Paper Trail Media
Die Zeit
Radio France
Proceso
Occrp
Knack
Le Soir
Haaretz
The Marker
El Pais
SverigesTelevision
Radio Télévision Suisse
Folha
Confluence Media
IrpiMedia
IStories
Armando Info
Code for Africa
Bird
Tempo Media Group
El Espectador
Der Standard
Tamedia
Krik

La rete di Guo Wengui, il miliardario cinese in affari con Steve Bannon

11 Novembre 2020 | di Lorenzo Bodrero, Silvia Pittoni

Èil tardo pomeriggio del 4 giugno quando a New York una mini flotta di aerei monoelica sorvola ripetutamente la Statua della Libertà. Sono ben visibili sullo sfondo dell’inquadratura, che in primo piano riprende Guo Wengui, miliardario cinese ricercato in Cina, e Steve Bannon, ex stratega della campagna presidenziale del 2016 di Donald Trump. I velivoli trascinano grossi banner che celebrano la nascita del Nuovo Stato federale della Cina, auto proclamato tale dalle parole solenni dei due. La nuova entità politica ha come obiettivo principale «rovesciare il governo cinese». Il giorno scelto per l’inaugurazione, il 4 giugno, è l’anniversario delle proteste di piazza Tienanmen, evento simbolo della repressione cinese in tema di diritti umani.

Non riconosciuta da nessun Paese, la strana entità politica è stata bollata dalle autorità cinesi come «una farsa che non merita di essere commentata». Nata con l’intento di raccogliere intorno a sé quella parte della diaspora cinese critica nei confronti della Repubblica Popolare, è riuscita nell’intento di creare un movimento che si è espanso oltre i confini americani fino a raccogliere adesioni in Australia, Spagna, Regno Unito, Giappone, Nuova Zelanda e Italia. L’inaugurazione a New York viene trasmessa in diretta streaming sulle numerose piattaforme online create dallo stesso Wengui.

In Italia, il gruppo ha trovato nell’estrema destra un alleato in grado di darle visibilità, abile a cavalcare l’onda anti-cinese e il dissenso esacerbato dalla crisi sanitaria.

Guo, da imprenditore edile a dissidente politico

Prima di trovare riparo negli Stati Uniti, nel 2014 Guo Wengui risultava essere il 74esimo uomo più ricco della Cina, con un capitale superiore ai due miliardi e mezzo di dollari accumulato nei settori finanziario ed edile. Fin dal suo auto esilio, nel gennaio 2015, si proclama whistleblower informato sui segreti dei governanti e della élite politica cinese.

Nel 2017 raggiunge la popolarità anche negli Stati Uniti diventando membro dell’esclusivo club Mar-a-Lago, di cui proprietario è il presidente uscente Donald Trump. Nello stesso 2017 rilascia un’intervista al canale in mandarino della radioemittente pubblica Voice of America (VoA), che è interrotta dopo un’ora. La durata concordata era di tre. L’episodio ha messo in imbarazzo VoA: la portavoce del canale Bridget Serchak indicava in «problemi di comunicazione» il motivo dell’incidente. VoA, però, ha anche raccontato del fitto scambio di messaggi con emissari del governo cinese, che premevano per impedire che l’intervista andasse in onda del tutto.

L’Interpol aveva da poco emanato una “red notice” a suo nome, una richiesta a tutte le forze dell’ordine del mondo di arrestare un latitante, su richiesta del governo cinese. Pechino accusava Guo di aver corrotto l’ex vice ministro della sicurezza nazionale in un caso di appalti mai del tutto chiarito. Da allora, data anche la mancanza di accordi di estradizione tra Usa e Cina, le sue critiche verso il Partito comunista si sono intensificate, in attesa di una domanda di asilo negli Stati Uniti di cui non si conosce ancora l’esito.

Disinformazione e anti-Cina, i punti d’incontro con le tesi di Donald Trump

Nel 2017 Guo è entrato nell’industria dei media con la piattaforma di video-streaming GNews. Il ricco imprenditore dirige il suo piccolo impero mediatico da un lussuoso appartamento da 67 milioni di dollari al 18esimo piano di un grattacielo di Manhattan. Insieme a lui, alla guida del gruppo mediatico c’è Steve Bannon, il guru del sovranismo mondiale, tra i più accesi promotori delle politiche anti-cinesi degli Stati Uniti.

Lo scorso aprile i due hanno fondato il GTV Media Group, una società di informazione in cui convergono diverse piattaforme, sia di notizie sia di video in streaming. I contenuti veicolati sono spesso ripresi da giornali vicini a Trump, come Fox News o il New York Post, mentre altri media come il New York Times e il Washington Post tendono a trattare i presunti scoop di GTV come uno degli elementi della propaganda di disinformazione. Il voto per l’elezione del presidente degli Stati Uniti del 3 novembre è stato uno dei temi più trattati sul sito. Per quanto gran parte dei video siano in lingua cinese, infatti, il programma di punta di GTV è “War Room”, appuntamento quotidiano condotto da Steve Bannon destinato a raggiungere un pubblico internazionale.

GTV e l’universo mediatico intorno a Guo Wengui hanno fatto da sponda all’area pro Trump nel tentativo di screditare Joe Biden. In particolare giocandosi la carta delle relazioni di Biden senior a Pechino durante gli anni trascorsi in qualità di vicepresidente di Barack Obama. La tesi è che Biden abbia ricevuto pressioni da parte di suo figlio Hunter per ammorbidire i rapporti Usa-Cina a seguito di “mazzette”, a favore proprio del figlio. La vicenda è stata twittata anche da Trump, all’inizio della lunga campagna elettorale: «Ha preso un miliardo e mezzo di dollari dalla Cina, nonostante la mancanza di esperienza [di Hunter Biden, ndr] e senza alcun motivo apparente».

Che il figlio del presidente Joe Biden avesse interessi privati in Cina, e non solo, è cosa nota. Fino ad oggi non sono però emerse prove contro il neoeletto presidente, né su condotte illecite del figlio Hunter.

L’impianto dell’accusa è identico a quello già usato per il caso Ucraina, che ha tenuto banco durante una prima fase della campagna elettorale, nel 2019, momento a cui risale il tweet di Trump. L’ex presidente e i suoi alleati, infatti, accusavano Biden senior di aver fatto pressioni volte a rimuovere il procuratore generale ucraino Viktor Shokin nel periodo in cui il magistrato aveva un fascicolo aperto nei confronti della Burisma Holdings, società di cui il figlio Hunter era consigliere d’amministrazione. Secondo Trump, il comportamento dei Biden rientra nei reati di abuso di potere e conflitto di interessi.

Tuttavia la richiesta al governo ucraino era stata appoggiata anche da altri Paesi occidentali i quali giudicavano il procuratore troppo morbido nella lotta alla corruzione. A fine settembre, un’indagine sul ruolo di Biden in Ucraina condotta dal comitato del Senato americano per la sicurezza nazionale, a guida repubblicana, pur rimarcando «l’imbarazzo» causato dal figlio per i ruoli ricoperti in società estere, ha escluso ogni illecito da parte dei Biden. A dispetto dell’esito dell’indagine, Bannon ha continuato a dedicare al tema intere puntate del suo War Room.

Altro tema imprescindibile della trasmissione è il coronavirus, secondo Bannon prodotto e inoculato dalla Cina. Presenza fissa in trasmissione è la dottoressa Li-Meng Yan, personaggio ormai celebre in una larga fetta della comunità negazionista che si è conquistata qualche citazione anche sui media italiani. La presunta dottoressa sostiene che il virus sia stato creato in un laboratorio di Wuhan. I suoi “studi” sono apparsi su “Rule of Law Society” e “Rule of Law Foundation”, due associazioni non scientifiche finanziate da Guo Wengui e guidate da Steve Bannon. Lo scorso 21 ottobre, la CNN ha sottoposto gli studi a vari ricercatori e virologi che ne hanno sottolineato le criticità metodologiche, e ha inoltre scoperto che i documenti riportano frasi, grafici e teorie copiate per intero dal post di un blogger anonimo su GNews, il sito di Guo e Bannon. Nel frattempo, però, era passato oltre un mese dall’annuncio della dottoressa Yan, abbastanza perché la sua teoria fosse ripresa dai media di tutto il mondo e diventasse uno dei cavalli di battaglia dei complottisti.

L’alleanza, e i guai, con Steve Bannon

Poche settimane dopo la proclamazione del Nuovo Stato federale della Cina sono però cominciati i guai per entrambi. Secondo il Wall Street Journal, lo scorso agosto la Security and Exchange Commission (Sec), l’ente preposto al controllo dei mercati finanziari americani, ha avviato un’indagine sui 300 milioni di dollari di finanziamenti raccolti da GTV, a seguito di una segnalazione inviata da alcuni investitori che non avevano ricevuto la documentazione ufficiale dell’avvenuto investimento. Nel dicembre 2018, Guo aveva inoltre annunciato una donazione da 100 milioni di dollari a un’associazione no-profit guidata da Bannon per finanziare un’indagine con cui smascherare i crimini perpetrati dal Partito comunista cinese.

Anche la Consob, l’Autorità di vigilanza della Borsa italiana, sulla scia dell’omologa canadese ha segnalato GTV Media tra le società che offrono servizi di investimento senza le autorizzazioni necessarie. Guo, tramite i suoi canali, ha smentito tutto.

Un prestito di 150 mila dollari da Guo Wengui a Steve Bannon sarebbe all’origine dei loro legami, secondo il New York Times. Inoltre Bannon avrebbe offerto servizi strategici di consulenza per un milione di dollari all’azienda Guo Media nell’agosto 2018. Anche l’Fbi, secondo il Wall Street Journal, starebbe indagando sui conti di GTV, per quanto la società abbia smentito la ricostruzione del quotidiano di Manhattan. In un caso del marzo 2018 di fronte alla Corte della Florida meridionale, gli avvocati di Guo hanno querelato Michael Wolff, autore del bestseller Fire and Fury, per aver indicato il miliardario cinese come finanziatore di Bannon già nel 2018.

Il consulente politico americano è stato arrestato lo scorso 20 agosto quando la polizia postale dello Stato di New York lo ha prelevato con l’accusa di frode. Secondo le autorità statunitensi avrebbe utilizzato parte dei 25 milioni di dollari raccolti per il progetto We Build the Wall per usi personali. Al momento dell’arresto si trovava a bordo dello yacht di Guo Wengui, lo stesso da cui due mesi prima avevano annunciato il nascituro Nuovo Stato Federale della Cina.

Da Trump a Salvini passando per lo scandalo Cambridge Analytica, le alterne fortune di Steve Bannon

Bannon e Trump si conobbero nel 2010. A fare colpo sul futuro presidente americano furono le posizioni di Bannon sulla Cina e sulle politiche commerciali. I due si piacquero a tal punto che nella primavera del 2016 lo “stratega” fu chiamato a far parte della campagna presidenziale di The Donald. È ancora oggi considerato uno degli artefici principali della sorprendente vittoria alle presidenziali americane di quattro anni fa. Poi, il matrimonio volse a termine a causa di un’intervista in cui contraddiceva il presidente sulla questione Corea del Nord e, a seguito delle pressioni di Ivanka Trump e Jared Kushner, Bannon fu accompagnato alla porta. Ma la strada era già tracciata. Avrebbe portato, nel 2018, alla fondazione di The Movement, un’organizzazione per la promozione del nazionalismo economico e del populismo.

Dopo aver lasciato BreitBart (sito dell’estrema destra americana) ed essere stato coinvolto nello scandalo Cambridge Analytica, l’intento di Bannon era di replicare in Europa quello che Trump e il Tea Party avevano appena avviato negli Stati Uniti.

Identità, famiglia, protezione dei confini, cristianità, euroscetticismo, sono alcuni dei temi al centro di un movimento, presi in prestito dall’ “internazionale sovranista”, dentro cui convergere la narrazione delle nuove destre in giro per il mondo. Una retorica che comprende anche un nuovo modo con cui direzionare il discorso politico scalzando, così, radicate abitudini giudicate ormai inefficaci: lo scontro frontale in luogo del dibattito, una massiccia presenza sui media (tradizionali e social), l’utilizzo delle istituzioni per fini politici, un nuovo “nemico” da identificare a intervalli regolari e su cui convogliare l’attenzione pubblica. Tra adesioni formali e interesse apparente, The Movement ha attirato le attenzioni di Marine Le Pen (Francia), Viktor Orban (Ungheria), Geert Wilders (Paesi Bassi), Nigel Farage (Regno Unito), Jair Bolsonaro (Brasile) e, naturalmente, Matteo Salvini e Giorgia Meloni.

Tre giorni dopo la vittoria del M5S e del Centrodestra alle elezioni politiche del 2018, la Lega di Salvini si univa formalmente a The Movement. Da lì a poco vi sarebbe entrato anche Fratelli d’Italia quando, sul palco di Atreju in occasione della festa nazionale del partito, Giorgia Meloni accolse Bannon, il quale dichiarava che «dal vostro governo partirà la rivoluzione».

Sebbene The Movement non abbia portato a concrete azioni politiche, rappresenta comunque una sintesi tipica del modus operandi di Steve Bannon e delle forze politiche a cui la sua ideologia è destinata, individuabili nella parte destra ed estrema destra dell’emiciclo politico.

Gli ammiccamenti all’estrema destra italiana

A pochi mesi dalla sua nascita, il movimento politico del duo Bannon-Guo è arrivato fino alle piazze italiane. Ad accoglierlo, l’estrema destra. È successo lo scorso 1 ottobre quando in Piazza dell’Esquilino a Roma si sono radunate poche decine di persone dietro lo slogan «Take down the CCP!» (rovesciamo il partito comunista cinese) per protestare contro «le politiche dittatoriali del Partito e la sua strategia di distruzione delle economie mondiali».

Sul palco è intervenuto Giuliano Castellino, tra i volti più influenti di Forza Nuova a Roma e presentato come «una persona che lotta contro il comunismo in ogni forma da tanti anni». Castellino, onnipresente nelle manifestazioni no-mask e condannato in primo grado a cinque anni e mezzo di reclusione per l’aggressione a danni di due giornalisti de L’Espresso nel gennaio 2019, è vice segretario del Comitato Bocca della Verità, una delle strutture di punta del Movimento No Covid.

La partnership tra Guo Wengui & Steve Bannon: da Trump all’estrema destra italiana e i movimenti anti-Covid

In Italia la galassia dei negazionisti del Covid-19 è composta da realtà molto variegate. Dietro l’opposizione alle politiche di controllo sanitario e di chiusura delle attività economiche si raccolgono istanze che vanno dal sostegno a teorie complottiste alla “dittatura sanitaria”, dalla battaglia per la libertà a quella per il reddito, per il lavoro e per la presunta perdita di sovranità. Da una delle prime manifestazioni no-mask, quella dello scorso 5 settembre, è nato il “Comitato Bocca della Verità”, creato da Forza Nuova, che si definisce come “coordinamento composto da associazioni e uomini liberi”.

Non è un caso che l’iniziativa sia scaturita da un partito di estrema destra, storicamente abile a convogliare attorno a sé un malcontento generalizzato, unico vero trait d’union all’interno di una comunità le cui posizioni sono spesso confuse e in contraddizione tra loro.

Al suo interno convergono realtà anti-Covid tra cui i gilet arancioni del generale Antonio Pappalardo, con l’appoggio di ex esponenti del Movimento 5 Stelle, e alcuni personaggi come il filosofo Diego Fusaro e l’arcivescovo Carlo Mario Viganò, ex ambasciatore del Vaticano negli Stati Uniti, che ha paragonato la pandemia da Covid-19 a una «colossale operazione di ingegneria sociale» architettata dai nemici di Trump.

Dal palco che celebrava la nascita del nuovo stato ombra cinese, Giuliano Castellino dichiarava: «Nazioni e popoli sono sotto attacco della tirannia globalista di Bill Gates e Pechino che con il Covid hanno accelerato il loro progetto di dominio mondiale. Questo Nuovo ordine mondiale filocinese vuole trasformare tutto il pianeta in una grande dittatura comunista, una grande dittatura sanitaria. Oggi saremo a sostegno dello Stato Federale della Nuova Cina fondato il 4 Giugno 2020 da Mr. Guo, uomo libero oggi esiliato negli Usa a causa della sua eroica protesta contro il PCC».

Secondo la piattaforma GNews le manifestazioni in corso contemporaneamente in Nuova Zelanda, Corea del Sud, Giappone, Spagna, Regno Unito, Stati Uniti, Canada e Italia sarebbero state seguite da «milioni di persone» attraverso “War Room”.

A Roma tra gli striscioni esposti spiccava il nome di Himalaya Italy, il sito italiano di propaganda di GTV Media Group. Il movimento italiano ha una presenza costante su Twitter con diversi profili (come Himalaya_italia, HimalayaItaly, Himalaya_Italy, ItalyHimalaya), due dei quali (HimalayaItalia e ItaliaHimalaya) sono stati sospesi recentemente per aver violato le regole di Twitter. Himalaya Italy ha inoltre all’attivo due canali YouTube – in un video viene mostrata l’opera di volantinaggio a Roma e Milano nelle cassette postali e per strada – due profili Instagram (HmalayaItaly e Himalaya_Italia), un gruppo e due profili su Facebook dove vengono postati video di GTV e tweet di Matteo Salvini.

Alla manifestazione del 5 ottobre a Roma erano presenti anche esponenti dell’Associazione l’Eretico, punto di riferimento del complottismo italiano, tra cui il fondatore Pasquale Bacco, medico contrario alla “dittatura sanitaria del Covid-19” ed ex candidato nelle liste di Casapound nel 2013 e de La Destra – Fiamma Tricolore nel 2008.

Editing: Lorenzo Bagnoli | Foto: elaborazione IrpiMedia su immagini pandemicwarroom.org e gnews.org

Share via