Il gran bazar delle certificazioni per le mascherine dalla Cina

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Il gran bazar delle certificazioni per le mascherine dalla Cina

Matteo Civillini
Lorenzo Bodrero

Dall’inizio dell’emergenza coronavirus, mascherine Ffp2 con la loro “certificazione di conformità” sono arrivate in mezza Europa. Migliaia ne hanno acquistate ospedali italiani, carceri, forze di polizia penitenziaria. Il documento correda la scheda prodotto di Ffp2 su diversi siti di e-commerce. Le mascherine in questione provengono dalla Cina e la loro patente di conformità è garantita dall’Ente Certificazione Macchine (Ecm), un’azienda bolognese riconosciuta dal Ministero dello Sviluppo Economico come organismo notificato. Si potrebbe pensare che questo pezzo di carta sia un bollino di qualità o un certificato che approva la vendita nell’Unione europea. Ma non è così.

Ecm non ha la licenza per certificare questo genere di dispositivi di protezione individuale (Dpi). È autorizzata per macchine industriali, apparecchiature radio, ascensori e altri dispositivi medici, ma non le mascherine Ffp2. Quel pezzo di carta scambiato per un lasciapassare è solo una pre-certificazione, un attestato volontario di revisione delle specifiche tecniche del prodotto. Ovvero una dichiarazione secondo cui per Ecm il dispositivo in questione potrebbe essere ammesso al vero processo di certificazione. Insomma, ciò che si ottiene è un bollino Ecm, inventato dall’azienda bolognese.

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Nel caos dell’emergenza coronavirus e nella corsa agli approvvigionamenti, le complessità della burocrazia europea e del suo mercato delle certificazioni hanno permesso a qualcuno di spacciare questo documento come una certificazione CE, il vero documento richiesto per essere commercializzati in Europa. Chi induce i clienti a pensare che il “bollino Ecm” valga come marchio CE sono i distributori, si difende l’azienda: «Noi facciamo un’attività di pre-verifica documentale su richiesta dei consulenti dei produttori – spiega Luca Bedonni, direttore servizi di Ecm -. Il certificato viene emesso su base volontaria e non è un certificato CE, come viene scritto a chiare lettere sullo stesso».

Per velocizzare la certificazione dei Dpi, con il decreto Cura Italia il governo ha attribuito all’Inail il compito di validare i dispositivi che non richiedono il marchio CE, come ad esempio le mascherine chirurgiche. Una sorta di procedura abbreviata che prevede l’invio di un’autocertificazione e della documentazione tecnica da parte di chi mette in commercio il Dpi e che non riguarda gli standard di qualità dei prodotti, bensì soltanto la procedura e la relativa tempistica.

In un report pubblicato il 7 maggio, l’Inail afferma che delle 2.458 verifiche condotte soltanto 96 sono risultate conformi: il 4%.

Le diffide delle agenzie di controllo europee

«Come la facciamo noi, questo tipo di certificazione viene fatta dagli altri organismi notificati in Italia e Europa», si difende Bedonni. Ciò non toglie che diverse autorità di vigilanza del mercato in Europa abbiano diffidato i propri consumatori dall’acquistare prodotti con queste certificazioni. La Sikkerhedsstyrelsen, ente governativo che si occupa della sicurezza dei prodotti in Danimarca, il 30 aprile ha fatto i nomi di «due organismi notificati che emettono certificati per Dpi senza averne i requisiti»: uno è Ecm, l’altro Icr Polska, ente certificatore polacco. La European Safety Federation (Esf), il corrispettivo europeo dell’agenzia danese, l’1 maggio ha detto di essere consapevole dell’esistenza di «“certificati” o altri documenti usati come base per la certificazione CE di dispositivi di protezione personale (incluse le mascherine Ffp2/Ffp3 e le protezioni agli occhi), nonostante questi “certificati” non abbiano valore legale e non possano essere usati per la validazione di conformità». Nella nota si legge un elenco di 13 aziende tra cui, di italiane, compaiono Ecm e Celab.

«È da 15 anni – risponde ancora Luca Bedonni di Ecm – che noi, come altri organismi notificati, emettiamo questi certificati in Cina. I produttori accettano i termini del nostro contratto quando li ricevono da noi. Se gli importatori hanno venduto di tutto e di più utilizzando i certificati di Ecm, e non rispettando la normativa, non è certo responsabilità nostra».

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Nelle prime settimane dell’emergenza, l’ente bolognese spiegava però sul proprio sito di essere pronto a «fornire un servizio di certificazione efficiente e mirato», che avrebbe incluso «mascherine, guanti, filtri per respiratori automatici».

Qualche giorno più tardi, il Resto del Carlino dedicava un articolo ai loro sforzi: «Si lavora a pieno ritmo alla Ecm, alle prese in questi giorni con una raffica di richieste dall’Italia e dall’estero per la certificazione di presidi di sicurezza», scriveva il quotidiano.

Una copia delle certificazioni rilasciate da Ecm

Le mascherine certificate Ecm negli ospedali italiani

In Italia le mascherine con la conformità Ecm sono state donate alle strutture ospedaliere di Viterbo e Sestri Levante. Il Cotugno, importante ospedale di Napoli, era in procinto di acquistarne 50mila al prezzo di 3,40 euro l’una in aprile. La Protezione civile ha ammesso di aver comprato partite di Dpi con quel certificato, che poi ha fatto analizzare al comitato tecnico-scientifico. La diffusione di prodotti “marcati” Ecm è diventata tanto prevalente, che in una seduta del comitato di inizio maggio tutte le mascherine in esame presentavano il documento dell’azienda bolognese. Tra queste anche le mascherine importate da Only Italia, la società di Irene Pivetti, oggi indagata per frode e ricettazione in seguito a un maxi-ordine proprio della Protezione civile.

«Certificare dispositivi per la protezione personale è una cosa seria – spiega a IrpiMedia Claudio Delaini, ingegnere e consulente specializzato in certificazioni CE -. Quel certificato è poco chiaro e può indurre in errore, è come se avessero vestito i panni di un ente preposto alla certificazione di Dpi quando invece non sono legittimati a farlo. Da quello che ho potuto osservare questo “certificato” ha invaso il mercato».

Come funziona la certificazione dei Dpi?

Molti prodotti necessitano del marchio CE per essere venduti nell’Unione Europea. Il marchio certifica che il prodotto in questione è stato valutato dal produttore e che rispetta i requisiti stabiliti dall’Ue in materia di sicurezza, salute e tutela dell’ambiente.

I dispositivi di protezione personale (Dpi) rientrano in questa fattispecie, come previsto dal Regolamento UE 245/2016. Sono suddivisi in tre categorie di rischio: Ffp2 e Ffp3 ricadono nella terza, dunque necessitano di marchio europeo fornito da un ente preposto.

La responsabilità sulla conformità del prodotto è di chi lo produce, ma la normativa impone a tutti i soggetti coinvolti nella catena di verificare sia la documentazione tecnica, sia la conformità del marchio CE prima della loro immissione nel mercato. Qualora uno dei soggetti della catena di controllo ritenga i Dpi non conformi, ha l’obbligo non solo di non commercializzarli ma anche di informare il produttore e l’autorità di vigilanza.

La marcatura CE, inoltre, può essere apposta sul Dpi solo dopo essere stato sottoposto a prove di laboratorio e a una procedura di valutazione da parte di un ente accreditato e registrato, una licenza che Ecm non detiene. Inoltre, il regolamento Ue sui Dpi riprende quello che disciplina l’accreditamento e la vigilanza del mercato, il quale all’articolo 30 specifica che «è vietata l’apposizione di marcature, segni o iscrizioni che possano indurre in errore i terzi circa il significato della marcatura CE o il simbolo grafico della stessa».

Le Ffp2 con bollino Ecm sono finite in mezza Europa: dalla Lituania alla Spagna, dalla Polonia alla Slovenia, dalla Repubblica Ceca alla Finlandia. La Romania, dicono fonti giudiziarie, ha allertato l’Interpol, che avrebbe già avviato accertamenti.

Il 7 aprile, però, la corsa alle certificazioni di Ecm si è interrotta. Quel giorno Accredia – l’ente a cui spetta vigilare sugli organismi certificatori – ha inviato una circolare per censurare il comportamento di alcuni suoi consociati impegnati a emettere attestazioni volontarie. Ecm è in cima alla lista, come ha spiegato l’ufficio stampa di Accredia a IrpiMedia: «In considerazione del fatto che l’emissione di tali documenti poteva portare discredito all’intero sistema delle Certificazioni Accreditate abbiamo adottato provvedimenti sanzionatori nei confronti di Ecm, consistenti nel blocco delle estensioni degli accreditamenti per un periodo di sei mesi e nella sorveglianza intensificata». Ecm, in sostanza, non può essere accreditata per certificare nuovi prodotti.

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Già in passato l’azienda bolognese è stata al centro di controversie relative a certificazioni per Dpi. Nel 2008 il Regno Unito bloccò l’importazione di indumenti di protezione per schermidori oggetto di una dichiarazione di conformità rilasciata da Ecm ma che non soddisfavano i requisiti di sicurezza. Un caso poi passato al vaglio della Commissione europea che definì «fuorviante» il fatto che l’Ente Certificazione Macchine avesse apposto sul certificato il numero di identificazione attribuito dalla Commissione. A Ecm fu poi imposto di cessare il rilascio di altre documentazioni simili.

Pechino-Seychelles sola andata

Il Regno Unito ritorna in un’altra vicenda che ha visto protagonista uno dei due proprietari dell’ente certificatore bolognese, Andrea Secchi. L’imprenditore risulta infatti aver aperto tre società, una a Londra, le altre due con sede alle Seychelles, appoggiandosi a Formations House, agenzia inglese che apre società anche in paradisi fiscali per conto terzi. L’elegante palazzina al civico 29 di Harley Street, sede fino al 2017 della società inglese, è stata al centro dell’inchiesta #29Leaks, a cui IrpiMedia e La Stampa hanno partecipato lo scorso anno. Come dimostra il leak che ha dato avvio all’inchiesta, Formations House è stata spesso scelta dai propri clienti poiché faceva poca due diligence, anche quando chi voleva aprire aziende in Gran Bretagna o in giurisdizioni offshore aveva lo scopo di commettere reati fiscali.

Tra i documenti del leak di Formations House consultati da IrpiMedia e La Stampa ci sono due fatture emesse da una società di Shanghai, la Verna International Certification alla britannica Simple Consulting, la società aperta da Secchi a Londra. Verna International sembra una società fantasma. Tuttavia nell’intestazione della fattura compaiono come casella email e sede legale dell’azienda gli stessi indirizzi della sede cinese di Ecm.

Quindi una società cinese legata a Ecm ha fatturato a un’azienda di Secchi: a quale scopo? Secondo Luca Bedonni, Ecm non ha mai avuto filiali in Cina. Il diretto interessato, Andrea Secchi, contattato per mail, non ha risposto.

La versione originale del grafico di cui sopra che riprende i legami di Andrea Secchi con società registrate all’estero aveva, causa refuso, erroneamente riportato una delle società registrate alle Seychelles con il nome di Verma International Consulting, invece della versione corretta Verna International Consulting.

La replica di Andrea Secchi e la risposta di IrpiMedia

Simple Consulting Ltd. è stata chiusa nel 2016 in quanto non ha riscosso successo di mercato. L’oggetto era la vendita di servizi tecnici.

Le società Verma International ed ECO Information erano, a suo tempo, due clienti di Simple Consulting Ltd. e non hanno fatto fatture a Simple Consulting Ltd.

Queste due società NON sono a noi collegate, non sono di nostra proprietà diretta od indiretta, non sono di giurisdizione delle Seychelles e, a quanto mi risulta appartengono, a persone fisiche cinesi e sono od erano regolarmente registrate in Cina come si può riscontrare dalle Business Licenses emesse dal governo cinese. Quindi quanto riportato nel Flowchart è completamente errato e riporta un’informazione non corretta.

Più precisamente la Verma International ha come nome “Shanghai Oujie Testing Technology Co., Ltd” ubicata all’indirizzo Room 910, no. 2 building, Xinzhuyuan Mansion no. 539, East Xingjian Road – Shanghai ed oggi  all’indirizzo 1601-1602, No. 76, Jiuxin Road, Jiuting Town, Songjiang District, Shanghai.

Shanghai Oujie, a nostra insaputa e senza nessuna autorizzazione, ha realizzato il sito web http://ecmchina.cn.trustexporter.com/ ed il sito www.ecmchina.com. Come ci siamo accorti di questo abuso, il nostro legale in Shanghai, ha immediatamente notificato il fatto alla Società Oujie ed al Shanghai Supervision Market Bureau.

La società ECO Information era, all’epoca, ubicata all’indirizzo Unit C,12 F, World Plaza, No 855 Pudong South Road, Pudong New Zone, Shanghai. I rapporti con questa società sono terminati nei primi mesi del 2014 in quanto i proprietari di ECO Information, nel 2014, hanno acquistato l’Organismo Italiano di Certificazione 0865 ISET.

Ho ricevuto la Sua mail solamente ieri, 18/05/2020, rispondo oggi 19/05/2020 in quanto ieri ero fuori ufficio, sono rientrato oggi a fine mattinata. Sarei stato disponibile a chiarire questi aspetti prima della pubblicazione dell’articolo, ma non ho avuto il tempo materiale.

Gent. le dott. Secchi

Prendiamo atto di quanto da Lei esposto in merito alla vicenda della creazione del sito web. In seconda battuta teniamo a precisare che quanto esposto da noi all’interno dell’articolo è basato sul possesso di materiale documentale acquisito nel corso del lavoro giornalistico. In merito alle società citate nel flow-chart precisiamo inoltre che le società Verna International Consulting ed Eco Information and Consulting a quanto ci risulta (sempre da materiale documentale) avevano sede alle Seychelles e l’amministratore e principale azionista risulta il dott. Andrea Secchi.

Lorenzo Bodrero e Matteo Civillini

CREDITI

Autori

Matteo Civillini
Lorenzo Bodrero

In partnership con

Editing

Lorenzo Bagnoli

Illustrazioni

Lorenzo Bodrero