Dubai svelata

#DubaiUncovered

Dubai svelata
Cecilia Anesi
Raffaele Angius
Edoardo Anziano
Francesca Cicculli
Carlotta Indiano
Fabio Papetti

Grattacieli spettacolari, lusso sfrenato, dune e spiagge assolate. Ecco i tre tratti distintivi di Dubai, centro finanziario mediorientale noto come parco giochi per i ricchi del mondo.

Ma l’elegante Emirato ha anche un’altra faccia: quella del riciclaggio di fondi neri, spesso tramite investimenti immobiliari. Ora un leak di dati ottenuto da OCCRP e condiviso con oltre 20 partner internazionali, tra cui IrpiMedia per l’Italia, tratteggia per la prima volta una panoramica completa di quanti abbiano acquistato proprietà a Dubai. Molti sono investitori legittimi, alcuni sono invece personaggi coinvolti in scandali giudiziari, criminali, oligarchi e politici sotto sanzione. Tra questi, anche vari membri dell’élite russa: legislatori, senatori, leader regionali e uomini d’affari vicini al presidente Vladimir Putin.

A Dubai non è difficile ottenere una residenza ufficiale, che a sua volta garantisce importanti vantaggi fiscali oltre che, almeno per i ricchi, un’alta qualità della vita e una notevole privacy, anche di fronte a indagini ufficiali. È anche per questo che la città è diventata uno degli approdi preferiti per persone politicamente esposte e latitanti in cerca di un porto sicuro. Tra chi ha scelto le dune come luogo per investire vi sono due oligarchi russi: Ruslan Baisarov, considerato vicino al dittatore ceceno sanzionato Ramzan Kadyrov, e Roman Lyabikhov, parlamentare della Duma. Al loro fianco, Alexander Boroday – l’autodichiarato “primo ministro” della Repubblica Popolare di Donetsk durante l’invasione dell’Ucraina del 2014. E poi due latitanti, il presunto narcotrafficante irlandese Daniel Joseph Kinahan che ha costruito un impero a Dubai come ricostruito da ICIJ, e Miroslav Vyboh, uno slovacco accusato di corruzione che si ritiene nascosto proprio a Dubai.

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I partner del progetto #DubaiUncovered
Questo progetto è stato coordinato dall’Organized Crime and Corruption Reporting Project (OCCRP) grazie alla condivisione del leak da parte del giornale norvegese E24 e dal Center for Advanced Defense Studies (C4ADS), un’organizzazione non profit che indaga sul crimine internazionale e conflitti, con sede a Washington. Il leak analizzato da OCCRP e dai partner, è una lista di 274mila persone e aziende da 197 Paesi per un totale di 883mila proprietà a Dubai.

Sulla lista degli italiani proprietari di immobili a Dubai, circa tremila, pur non essendoci profili rilevanti sul piano politico, spuntano una serie di nomi e vicende che sollevano dei punti di domanda rispetto all’origine dei capitali investiti. Molti sono perfetti sconosciuti, altri sono dirigenti di aziende del settore energetico, capitali quindi giustificati, anche se alcuni di loro sono rimasti coinvolti in scandali di corruzione. Non solo dirigenti, a possedere moltissimi immobili è anche la mega azienda di costruzioni Impregilo, a sottolineare quanto possa essere strategico avere un piede nel mercato immobiliare dell’impero delle dune. A vederla nello stesso modo sono stati, negli anni, una serie di imprenditori saliti all’onore delle cronache per casi di corruzione o per riciclaggio (anche in odore di mafia), faccendieri in cerca di terre vergini o imprenditori coinvolti in scandali di criptovalute in cerca di un luogo tranquillo in cui ricostruire una carriera.

Tra tutti gli italiani, spicca il caso di Francesco Giordano, imprenditore pugliese del settore commercializzazione carni che stando alle accuse della Direzione distrettuale antimafia di Bari avrebbe messo in piedi un milionario giro di evasione fiscale e riciclaggio con il supporto del clan Parisi. Grazie al leak, IrpiMedia ha tracciato cinque immobili a Dubai riconducibili a Giordano, e sconosciuti alle autorità italiane.

Lo skyline di Dubai, dove si stagliano i grattacieli e le costruzioni di maggior valore – Foto: Laszlo Szirtesi/Getty Images

Punto cieco del settore immobiliare

Dubai è parte degli Emirati Arabi Uniti ma gode di autonomia interna. Ha costruito identità ed economia attorno al concetto di “casa per gli espatriati”. Negli anni ‘90 le entrate petrolifere sono crollate e così, chi governava Dubai, ha voluto attrarre capitali stranieri edificando decine di nuovi complessi residenziali, l’edificio più alto del mondo e due penisole artificiali a forma di palma (una mai completata a causa della crisi finanziaria del 2008, quando molti progetti immobiliari si sono bloccati per effetto della mancanza di credito).

Da allora, il settore immobiliare è stato una significativa fonte di reddito per l’UAE: oggi Dubai ha tre milioni di residenti, di cui solo mezzo milione sono di nazionalità UAE. Qui i residenti non pagano tasse sul reddito o sulle plusvalenze; questo lo rende un luogo ideale per riciclare o per nascondersi al fisco europeo.

«Il settore immobiliare è perfetto quando si deve riciclare denaro perché, a differenza di qualsiasi altra forma di riciclaggio, si può allo stesso tempo fare affari e vivere nel posto in cui si ricicla il denaro», afferma Jodi Vittori, ricercatrice presso il Carnegie Endowment for International Peace.

«Il settore immobiliare è perfetto quando si deve riciclare denaro perché, a differenza di qualsiasi altra forma di riciclaggio, si può allo stesso tempo fare affari e vivere nel posto in cui si ricicla il denaro», afferma Jodi Vittori, ricercatrice presso il Carnegie Endowment for International Peace

Dubai è una delle giurisdizioni con più segretezza al mondo, principalmente a causa della mancanza di trasparenza finanziaria.

«Fino ad ora, nessuno aveva avuto questo tipo di informazioni sul mercato immobiliare in un paradiso fiscale così noto», spiega Annette Alstadsæter, professoressa di economia fiscale presso l’Università norvegese di Scienze della Vita (NMBU). Alstadsæter guida un gruppo internazionale di accademici che sta analizzando il materiale trapelato da Dubai, e presto pubblicheranno i risultati. Sulla base delle informazioni pubblicamente disponibili sui prezzi degli immobili, i ricercatori stimano che gli individui e le aziende straniere abbiano investito oltre 145 miliardi di dollari nel mercato immobiliare dell’Emirato.

«La proprietà investita in immobili è stata a lungo un punto cieco, con pochi o nessun dato reale sul valore degli immobili nei paradisi fiscali. Questa è la prima volta che abbiamo una somma effettiva del valore netto delle proprietà possedute da stranieri e da nativi in un paradiso fiscale», ha spiegato Gabriel Zucman, professore associato presso l’Università di Berkeley a San Francisco.

Zucman è uno dei maggiori esperti mondiali di paradisi fiscali. Dirige l’osservatorio fiscale dell’UE ospitato dalla Paris School of Economics e ha seguito la ricerca sui dati trapelati con il leak. «Fino a poco tempo fa non potevamo analizzare questo tipo di ricchezza nascosta con numeri concreti, ma questa fuga di notizie cambia le cose. Questo progetto è un primo passo per far luce sull’aumento degli investimenti immobiliari nei paradisi fiscali come parte della più ampia globalizzazione», conclude Zucman.
Stimare il valore degli immobili di Dubai

I valori degli immobili citati in questo articolo sono stati calcolati in due modi. Da una parte c’è l’analisi dei ricercatori dell’Università norvegese di Scienze della Vita (NMBU). Gli studiosi hanno stimato il valore netto di ogni immobile prendendo le transazioni d’acquisto registrate in modo anonimo nel 2020 e incrociandole ai dati delle località e ai metri quadri. Dall’altra, IrpiMedia ha ottenuto il valore a metro quadro per ogni quartiere di Dubai, e lo ha moltiplicato per i metri quadri. Questo conteggio, non considera il piano dell’immobile che chiaramente può incidere sul valore finale della proprietà. Inoltre, dal 2020 i prezzi del mercato a Dubai sono molto aumentati. Questo fa sì che i numeri qui pubblicati siano sottostimati rispetto al reale valore delle proprietà.

Mosca sul Golfo

Più di 3.500 nomi del leak sono connessi alla Russia e risultano proprietari di oltre 9.700 immobili, rendendo i russi il più grande gruppo di stranieri investitori nel mercato immobiliare di Dubai. Una moltitudine di sconosciuti, tra cui però spiccano pochi ma importanti politici, ufficiali e oligarchi.

Il legislatore russo Alexander Boroday possiede un appartamento di 104 metri quadrati – valore stimato almeno 400mila euro – nel complesso Grandeur Residences-Maurya a Palm Jumeirah, una delle due famose isole artificiali a forma di palma. Il passaporto che Boroday ha usato per registrare la proprietà suggerisce che lo abbia acquistato tra il 2012 e il 2017, un tempo che coincide con la sua rapida ascesa nella politica russa. All’inizio del 2014, dopo che i manifestanti rovesciarono il presidente ucraino Viktor Yanukovych, la Russia ha annesso la penisola di Crimea e ha organizzato una rivolta separatista nella regione orientale del Donbass. Pochi mesi dopo, a maggio, Boroday si è auto-proclamato “primo ministro” della Repubblica Popolare di Donetsk, uno staterello non riconosciuto a livello internazionale al confine tra Ucraina e Russia di cui tanto sentiamo parlare in questi giorni di guerra. Boroday ha mantenuto la posizione per circa quattro mesi, prima di cederla a un nativo di Donetsk e diventare il suo vice. Ma guidare uno pseudo-stato sostenuto dalla Russia può essere pericoloso: nel 2018 il successore di Boroday è stato assassinato insieme ad altri leader separatisti. Boroday è sfuggito a un simile destino, tornando in Russia dove, nel 2021, è stato eletto alla Duma di Stato. Attualmente è sotto sanzioni statunitensi, europee, britanniche, svizzere, canadesi e australiane.

Mappa di Dubai – Foto: OpenStreetMap
L’oligarca russo Dmitry Rybolovlev possiede invece una villa su uno dei rami della palma, la lingua di terra di Al Khisab. Valore stimato almeno tre milioni di euro. Cittadino europeo con passaporto cipriota, vive in Europa dal 2010, dopo essersi trovato costretto a vendere la quota di maggioranza di Uralkali, azienda russa leader nella produzione di fertilizzanti minerali. Alla fine dell’anno successivo diventa proprietario e presidente della squadra di calcio AS Monaco, dell’omonimo principato, che gioca nel campionato francese. Dall’altra parte dell’Oceano invece, in Florida, ha acquistato per 95 milioni di dollari nel 2008 la magione di Palm Beach dall’ex presidente USA Donald Trump. Finendo così sotto scrutinio per il sospetto che ci fosse sostegno e quindi influenza russa nella campagna elettorale dell’ex inquilino della Casa Bianca.
Il presidente dell’AS Monaco Dmitri Rybolovlev assiste alla finale della Serie A francese nel 2018, quando la sua squadra ha sfidato il Paris Saint-Germain – Foto: Xavier Laine/Getty Images

Ruslan Baisarov possiede invece cinque appartamenti nel Tiara Residences, un gruppo di grattacieli di lusso situati sul “tronco” di Palm Jumeirah, e una villa poco distante. In totale, le sei proprietà valgono circa otto milioni di euro. Baisarov è un oligarca molto legato al leader ceceno Ramzan Kadyrov, personaggio tristemente noto per le violazioni dei diritti umani e per avere sostenuto l’attuale invasione russa dell’Ucraina con soldati ed equipaggiamento bellico. Ancora, l’oligarca ha finanziato varie iniziative di Kadyrov, e l’amicizia tra i due è stata coronata dalla sponsorizzazione, da parte dell’oligarca, della prestigiosa stazione sciistica di Veduchi, costruita appena fuori la capitale cecena Grozny. Un regalo che ha assicurato a Baisarov un soprannome di tutto rispetto: “il portafoglio di Kadyrov”.

Il leader ceceno Ramzan Kadyrov mostra la sua estesa collezione di armi dal suo ufficio di Gudermes, nel 2005 – Foto: Oleg Nikishin/Pressphotos/Getty Images

Dal Belpaese a Dubai

Francesco Giordano, nato a Bitonto nel 1963 ma residente a Nerviano, provincia di Milano, vanta investimenti a Dubai almeno dal 2015. A luglio di quell’anno, Giordano viene fermato dalle dogane dell’aeroporto di Malpensa in partenza per gli Emirati Arabi Uniti con 33mila euro in contanti – per lo più in banconote da 500 – e tre assegni per un valore totale di 200mila euro. Parte una segnalazione di “operazioni sospette” e Giordano finisce sotto la lente degli inquirenti. Glielo spiega in una intercettazione un finanziere infedele, amico di Giordano: «però ti dico che qualcuno le fa le segnalazioni operazioni sospette su di te […] dove cazzo vai a Dubai con 30mila euro, ti beccano». Aggiungendo che la prossima volta lo avrebbe dovuto avvisare e lui si sarebbe prodigato per fargli passare i controlli aeroportuali senza problemi.

Nel 2018 però, Giordano viene arrestato dai finanzieri di Rho nell’indagine “The Butcher” (il macellaio) con l’accusa di avere architettato una frode milionaria, almeno 300 milioni di euro, con un consorzio di società operanti nel settore della macellazione delle carni. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, il consorzio riceveva in appalto dalle società del settore i servizi di lavorazione delle carni. Servizi che poi dava in subappalto alle consorziate che mettevano a disposizione i lavoratori. Da queste partiva la frode, ottenuta mediante l’indicazione di crediti di IVA fittizi, scaturiti da operazioni inesistenti.

Come ha poi scoperto l’inchiesta “Levante” della Direzione Investigativa Antimafia (DIA) e della Guardia di Finanza di Bari, i proventi dell’evasione – circa 170 milioni di euro – venivano auto riciclati da Giordano in un “accordo commerciale” con Emanuele Sicolo, membro del clan dei Parisi della Sacra Corona Unita. Infatti i guadagni illeciti venivano trasferiti dal consorzio milanese a delle aziende pugliesi riconducibili a Sicolo, e poi prelevati in contanti una parte ad uso di Giordano e una parte ad uso di Sicolo.

Le fasi del sequestro dei capitali di Giordano, trovati all’interno di una parete – Foto: GDF/DIA

La parte del clan Parisi veniva reinvestita in traffico di droga e contrabbando di carburante. La parte di Giordano invece, l’imprenditore la reinvestiva in attività per lo più all’estero: in Romania, Paese d’origine della compagna Larisa Andreea Hangiu, e a Dubai. Qui stando alle intercettazioni aveva anche avviato dei ristoranti [l’unico ristorante che IrpiMedia ha potuto identificare era però ai Parioli, a Roma] e investito nell’immobiliare, come confermano i dati del leak. Ben cinque appartamenti, tre posseduti assieme alla compagna Hangiu e uno da solo. Un quinto, invece, solo a nome Hangiu. Tutti gli appartamenti sono presso il complesso Golf Vita sulle dune di Damac Hills, due grattacieli circondati da campi da golf.
Secondo le indagini, è proprio a Dubai che Giordano voleva trasferirsi per operare indisturbato. Ma non ha fatto in tempo. A febbraio 2022 viene arrestato dall’antimafia di Bari ed è ora in attesa di processo. Il legale di Giordano non ha risposto a una richiesta di commento.

Tra gli italiani, due dei maggiori proprietari di immobili a Dubai sono due fratelli di Guidonia, periferia romana. Andrea Valelli ha intestati nove appartamenti al lussuoso grattacielo Pershing Luxury Beach, quaranta piani sul waterfront, costruito da un’alleanza tra ACI Real Estate e il noto gruppo Ferretti, leader nella costruzione di motor yacht di lusso. Andrea Valelli risulta proprietario anche di un appartamento nel grattacielo di 83 piani chiamato Ocean Heights sulla marina di Dubai. Fabiano Valelli risulta invece intestatario di 19 immobili, di cui nove al Pershing posseduti assiema al fratello, uno a Ocean Heights e il resto sempre alla marina, nell’Elite Residence, un grattacielo di 86 piani di fronte ad una delle due famose isole artificiali a forma di palma, la Palm Jumeirah.

I Valelli erano saliti all’onore delle cronache nel 2017 quando l’Antimafia di Roma aveva lanciato l’operazione Babylonia colpendo un imprenditore e riciclatore della Camorra, Gaetano Vitagliano, e il suo partner d’affari a Roma, l’imprenditore delle videolottery Andrea Scanzani. Tra i beni sequestrati, e poi definitivamente confiscati nel 2020, c’è anche il Dubai Palace Cafè in Via Tiburtina – una enorme sala giochi in stile Emirati inaugurata proprio dai Valelli.

Il Dubai Palace Cafè a Roma, sequestrato e poi confiscato dalla Guardia di Finanza – Foto: Gdf

Era il due marzo 2013 quando Andrea e Fabiano Valelli avevano tagliato il nastro della gigantesca sala bingo, decorata con divani swarovski e altri lussi, presentandola come loro. In realtà, risultavano proprietari di facciata. Le società proprietarie del Dubai Palace risultano essere degli Scanzani e così, con l’operazione Babylonia, è finito tutto sequestrato. 

I Valelli hanno cambiato aria, trasferendosi in Ticino, Svizzera, dove hanno aperto quattro società che commercializzano articoli di abbigliamento. Nel frattempo, i profili social suggeriscono affari ancora in corso anche a Dubai. Resta solo un sogno irrealizzato, quello della politica: Fabiano Valelli era candidato sindaco di Guidonia con il PD, ma Babylonia aveva fermato la sua corsa. I Valelli, raggiunti via email, non hanno risposto a una richiesta di commento.

Allo skyline Burj Khalifa invece c’è odore di tangenti Mose. Secondo una puntata di Report di maggio 2018, alcuni imprenditori veneti avrebbero comprato otto appartamenti di mega lusso lì, per un valore totale di 8,5 milioni di euro, e una parte dei soldi sarebbero state anche le tangenti del Mose ricevute da Giancarlo Galan, il quale ha però negato: «A Dubai ci sono stato solo una volta». Come riporta il Corriere del Veneto, dietro all’operazione ci sarebbe Paolo Venuti, il commercialista padovano che fu arrestato proprio nell’inchiesta Mose con l’accusa di essere il prestanome di alcuni investimenti di Galan all’estero e che ne uscì patteggiando una pena di due anni, e il suo socio Guido Penso. Nel 2019 si scopre che Penso avrebbe aiutato anche l’imprenditore delle calzature Damiano Pipinato a fare investimenti immobiliari a Dubai, impiegando milioni di euro nascosti al fisco. Secondo ll Gazzettino, Pipinato avrebbe investito 33 milioni di euro in immobili a Dubai, senza però apparire formalmente. Il prestanome era Franco Casale Romei (mai indagato), un operatore del settore residente negli Emirati Arabi e parente del commercialista Penso (la moglie è sua cugina). Il leak oggi ci dice che Casale Romei è intestatario di sette immobili nel grattacielo di uffici chiamato “HQ” e posizionato nel Jumeirah Village Circle – il più esclusivo quartiere di “casette” di Dubai, costruito come un anfiteatro. Alcuni degli appartamenti di Casale Romei all’HQ sono di grande metratura, tra i 100 e i 200 metri quadri, per un valore tra i 400mila e gli oltre 700mila euro l’uno. Casale Romei risulta poi avere anche un appartamento di 100 metri quadrati a Ocean Heights, per almeno 300mila euro di valore, e un altro nel grattacielo The Pad, con vista canale nella Business Bay. Casale Romei, a cui IrpiMedia ha chiesto se le proprietà fossero sue o di Pipinato, non ha risposto.

Tra i più giovani proprietari immobiliari italiani a Dubai c’è invece Stephan Steinkeller, Italiano originario di Bressanone, in Sudtirolo, che con due fratelli ha un’agenzia di consulenza di sostenibilità ambientale, stando al loro sito web.

I tre Steinkeller sono finiti indagati per la presunta frode della criptovalute OneCoin. A settembre 2021, il Tribunale di Bolzano ha rinviato a giudizio 14 persone, sudtirolesi e venete, accusate di frode e intermediazione finanziaria illegale. Fra loro ci sono Steinkeller e i suoi due fratelli. Gli accusati avrebbero reclutato altre persone affinché investissero i loro soldi in OneCoin. Secondo quanto accertato dalla Guardia di Finanza di Brunico, 3.700 Sudtirolesi hanno investito un totale di cinque milioni di euro in OneCoin. Il danno causato dalla truffa a livello globale oscillerebbe fra gli 1.8 e i quattro miliardi di dollari. Ad architettare la frode sarebbe stata la bulgara Ruja Ignatova, che ha fondato OneCoin nel 2014, dopo essere stata condannata per frode in Germania nel 2012. Ignatova risulta irreperibile. Steinkeller non ha risposto alla richiesta di commento di IrpiMedia. A Dubai, secondo il leak, Steinkeller ha acquistato due appartamenti, per un valore di quasi due milioni di euro.

I “rami” di una delle due penisole a forma di palma, Palm Jumeirah, a Dubai – Foto: Stefan Tomic / Getty Images

E infine c’è Filippo Braghieri, coinvolto in un vecchio scandalo di corruzione legato all’ONU, seppure mai formalmente indagato. Negli anni ‘90, Braghieri operava con la Corimec Italiana, di proprietà del padre Leopoldo, e successivamente nella Cogim spa di cui è stato amministratore unico dal 2000 e presidente del consiglio amministrativo dal 2006 al 2009.

Entrambe le società si occupavano della costruzione di prefabbricati ed erano elencate nella lista dei fornitori ufficiali redatta dall’ONU. Nel 2005 La Task Force delle Nazioni Unite ha avviato un’indagine contro la Cogim e la Corimec con l’accusa di avere corrotto, tramite una serie di tangenti dal 1999 al 2002, il capo dell’Ufficio approvvigionamenti delle Nazioni unite Alexander Yakovlev. Sfruttando il periodo in cui era attivo il programma ONU Oil for Food nell’Iraq di Saddam Hussein vessato dall’embargo, Braghieri padre avrebbe contattato Yakovlev per farsi attribuire l’appalto dal valore di 27,5 mln per la fornitura di prefabbricati e aiuti umanitari. Dalle lettere intercettate e caricate su Wikileaks risulta che Leopoldo Braghieri avrebbe di fatto inviato oltre 700mila dollari ad un’azienda riconducibile a Yakovlev.

L’unico indagato è Braghieri senior, tuttavia nell’interrogatorio l’ex ufficiale dell’ONU ha ammesso che padre e figlio gestissero le società insieme, e che il figlio era a conoscenza delle illegalità commesse. Da allora Filippo Braghieri ha fatto carriera nel settore petrolifero, ha società nel Bahrain, vive a Dubai e ha sposato l’ex coniglietta di Playboy Italia, Gloria Patrizi. Braghieri, raggiunto da IrpiMedia per un commento sui suoi due immobili a Dubai, ha risposto al nostro giornalista dicendo «ti sei sbagliato, sono dodici» per poi bloccarlo su Whatsapp dopo avere ricevuto una domanda sul caso di corruzione all’Onu.

CREDITI

Autori

Cecilia Anesi
Raffaele Angius
Edoardo Anziano
Francesca Cicculli
Carlotta Indiano
Fabio Papetti

Editing

Cecilia Anesi
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Immagine di copertina

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Migranti e gasolio, la rete degli armatori della flotta fantasma

#PiratiDelMediterraneo

Migranti e gasolio, la rete degli armatori della flotta fantasma

Lorenzo Bagnoli

APasquetta 2020 dodici migranti sono morti attraversando il Mediterraneo. I sopravvissuti sono stati riportati in Libia da un peschereccio appartenente a una flotta composta da tre imbarcazioni private, coinvolte in più occasioni dal gabinetto del primo ministro maltese in operazioni di questo genere. A coordinare le comunicazioni tra autorità maltesi e autorità libiche è stato Neville Gafà, da gennaio 2020 fuori dalle istituzioni maltesi ma sempre un punto di riferimento per i rapporti Malta-Libia: «Ho fatto tutto questo su istruzioni dell’Ufficio del Primo Ministro, dopo che il suddetto ufficio mi ha chiesto di aiutare attraverso il coordinamento diretto con il ministero degli Affari interni libico e la Guardia costiera libica – ha spiegato al giornale maltese Newsbook -. Mi è stato chiesto di farlo poiché sono stato coinvolto in queste operazioni negli ultimi tre anni».

Uno dei tre pescherecci privati intervenuti su richiesta dell’ufficio del primo ministro maltese, la Tremar , oggi continua a fare la spola tra Malta e Mazara del Vallo, città di una delle principali flotte pescherecce d’Italia dove ha anche sede il deposito di idrocarburi della Pinta Zottolo, coinvolto in varie inchieste sugli interessi di cosa nostra nel settore dei prodotti petroliferi.

Durante le operazioni di soccorso dei migranti avvenute a Pasquetta dello scorso anno, il comandante della Tremar era un certo Amer Abdelrazek. Egiziano di nascita, a Malta è titolare di due società armatrici: Daha Oil & Gas e Rema Fishing (diventata in seguito Rema Trading). A raccontare di essere al timone della barca era stato lo stesso Abdelrazek, intervistato dal New York Times. La barca – ha spiegato – non è intervenuta direttamente, è rimasta in acque internazionali in attesa di ordini. Però ha fatto parte della spedizione di salvataggio e poi di respingimento. A quello che un anno fa era il suo numero di telefono oggi risponde una persona che dice di non essere lui e di abitare in Turchia: «Da un anno continuano a domandarmi della stessa persona», scrive in arabo via WhatsApp. Nemmeno un vecchio datore di lavoro che ancora oggi si trova a Malta ha mantenuto i rapporti con il comandante, che non è stato quindi possibile rintracciare per porgli direttamente qualche domanda.

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Amer Abdelrazek è, insieme al fratello Khaled, l’uomo chiave per collegare l’episodio della strage di Pasquetta e il peschereccio Tremar alla rete dei presunti contrabbandieri di gasolio sulla quale sta indagando la Direzione distrettuale antimafia di Catania e al centro della quale sono rimasti, almeno fino al 2018, Gordon e Darren Debono, due imprenditori maltesi non accomunati da alcuna parentela e che negli anni sono diventati rivali, pur essendo parte di uno stesso cartello attivo proprio nel contrabbando di gasolio. Le forze dell’ordine europee che indagano su Malta ritengono Amer Abdelrazek un contrabbandiere di carburante, ma non accennano a ruoli nella gestione dei migranti.

L’uomo è collegato in particolare a Gordon Debono: tra il 2018 e il 2019 la società Daha Oils & Gas di Abdelrazek ha armato la Bonnie B , una delle navi nelle disponibilità di Debono e degli imprenditori con cui collabora

Legami in alto mare

Dal comandante della Tremar alle inchieste sul contrabbando di gasolio tra Libia, Malta e Italia. In mezzo, una rete di navi intercettate dalla Guardia costiera libica

Il Panel di esperti sulla Libia delle Nazioni unite indica la Bonnie B , smantellata nel 2019 ad Aliaga (Turchia), come una nave «d’interesse» in quanto appartiene a un gruppo di imbarcazioni che «mostrano rotte sospette che indicano attività illecite». In effetti la Bonnie B è una delle petroliere protagoniste dell’indagine Vento di Scirocco, condotta dall’antimafia di Catania, che nel gennaio del 2020 ha portato a quindici arresti. A dire di «averla messa in cammino» era stato Nicolò Alì, il quale considera la Bonnie B una sua nave.

Alì è un imprenditore petrolifero già nominato (ma non indagato) nell’operazione Dirty Oil, il primo capitolo dell’indagine antimafia catanese sui legami tra cosa nostra e i presunti contrabbandieri di gasolio maltesi e libici, scattata nell’ottobre dell 2017. Secondo le ipotesi di Vento di Scirocco, la Bonnie B era tra le navi impiegate da un gruppo di imprenditori spregiudicati con i quali erano in affari anche uomini vicini al clan Mazzei di cosa nostra catanese. L’organizzazione, secondo quanto riporta l’ordinanza di custodia cautelare, importava prodotti petroliferi libici senza accise, grazie al contributo di colletti bianchi che lavoravano per favorire l’organizzazione criminale.

La replica di Nicolò Alì

Dopo l’uscita dell’articolo Nicolò Alì ha scritto a IrpiMedia alcune precisazioni. La prima riguarda la sua posizione giudiziaria: non è mai stato oggetto di misure cautelari o sequestri, né in Dirty Oil (dove non è nemmeno stato rinviato a giudizio), né in Vento di Scirocco. La seconda riguarda la Bonnie B: Nicolò Alì spiega di averla venduta alla Daha Oil and Gas nel novembre 2017. Per la conoscenza di Alì «la Daha Oil and gas risultava essere rappresentata da Norman Spiteri (persona di alto profilo sociale, è stato anche Presidente dell’Air Malta) che risultava essere, oltre amministratore unico, socio unico e anche segretario della Daha Oil and Gas, quindi nessun collegamento con Amir [Abdelrazek, ndr]/Gordon De Bono». In merito al rapporto con quest’ultimo, Alì scrive: «Con Gordon De Bono, non ho avuto alcuna relazione, se non un intervento di mediazione di lite» con un’altra società petrolifera che «non pagava e Gordon, che a sua volta non rilasciava la merce per la vendita…». Aggiunge che in quel momento aveva «in corso una trattativa per la vendita della mia società (Gori Petrol Group) che dopo 22 anni di attività, era devastata dalla concorrenza sul mercato della Maxcom [Bunker, ndr], guidata dall’amministratore delegato Marco Porta (indagato per commercio illegale di gasolio, inchiesta Dirty Oil)».

Aggiunge inoltre che con Gordon Debono «nessuna attività è andata a buon fine, per vari motivi incidentali che si verificavano, che facevano ritenere non convenienti». Nicolò Alì ha fornito anche informazioni rispetto al rapporto con Darren Debono: «L’ho conosciuto nel 2016, credo prima dell’estate, poiché si faticava a tenere il mercato, Darren si è presentato con un prodotto certificato della NOC (società petrolifera di Stato della Libia) il prezzo proposto, mi permetteva di difendere il mercato». La dogana italiana non ha eccepito la validità del documento e in quel momento «non si parlava di attività illecite nella zona Libia, non esisteva nessun embargo internazionale». In seguito, continua Alì, la società nazionale libica «ha reso noto che nessuno era autorizzato a commercializzare il prodotto della NOC» e quindi il prodotto di Darren Debono era illegale: «Sembra che avessero rubato, o falsificato, anche i timbri e carta intestata per riprodurre i documenti in originale». «Quindi – prosegue – ho interrotto i rapporti». Visto che il prodotto del presunto contrabbandiere maltese «metteva in crisi il mercato», le major del mercato (come Eni, Exxon Mobil, BP o Shell) sono state stimolate «a fare una denuncia alle Autorità Giudiziarie», denuncia che ha innescato il processo Dirty Oil. «Vi ricordo che il sottoscritto godeva, e gode tutt’ora, della piena fiducia della major Exxon Mobil, dalla quale ho attinto le informazioni della circolare della NOC», precisa ancora Alì.

Gli armatori “nigeriani” e le navi intercettate dalla Guardia costiera libica

Daha Oils & Gas appare nella lista dei “partner” della Pak Maritime & Shipping Services Ltd, una società di navigazione con sede a Lagos, in Nigeria. Vista la penuria di petroliere, nel 2015 le associazioni di armatori greci e nigeriani avevano sottoscritto un accordo per la fornitura di 40 imbarcazioni che in due anni sarebbero diventate di proprietà dei nigeriani. Alcuni armatori greci hanno così scelto di entrare in società di navigazione in Nigeria. La Bonnie B appare ancora sul sito della Pak Marine nonostante sia stata già demolita. La società non ha risposto alle nostre richieste di commento.

Il caso di cui IrpiMedia ha già scritto riguarda la Temeteron, una petroliera abbordata da Abdelrahman al-Milad, il famoso Bija, allora capo della cosiddetta Guardia costiera libica, oggi alla guida dell’importante Accademia navale di Zawiya, nella Libia occidentale, nonostante sia sotto sanzioni delle Nazioni unite per le accuse di traffico di esseri umani. C’è poi la San Gwann, che secondo le indagini catanesi è stata «utilizzata anch’essa per caricare in Libia il gasolio di provenienza illecita». È stata fermata dal «governo di Tripoli» con a bordo «certificati della raffineria di Zawiya», sostiene l’imprenditore Nicolò Alì, intercettato nell’inchiesta Dirty Oil.

Abdelrahman al-Milad, noto come Bija, trae in arresto i membri dell’equipaggio della Temeteron – Foto: Facebook della Guardia costiera libica

La Bonnie B non è l’unica petroliera di proprietà di una società di navigazione con queste caratteristiche e finita sotto indagine in Italia o sotto osservazione degli esperti delle Nazioni Unite, utilizzata da Gordon Debono o da imprenditori in affari con lui. Diverse di queste navi sono state intercettate dalla Guardia costiera libica e accusate di aver contrabbandato prodotti petroliferi.

Il fatto che a essere fermate in Libia fossero le navi “in orbita Gordon”, impiegate direttamente dal trader o da suoi partner, sembra una conseguenza del conflitto interno al cartello tra i due Debono. L’operazione della Guardia di finanza di Catania Dirty Oil aveva già individuato contese e fermi di navi, soprattutto tra aprile e luglio 2016.

La nave petroliera San Gwann – Foto: Facebook della Guardia costiera libica

Una terza nave, la Distya Ameya, «era entrata nel porto di Zawiya, gestito dalle autorità di Tripoli, in attesa di risolvere il contenzioso aperto con la compagnia petrolifera National Oil Company (Noc, ovvero la società petrolifera nazionale libica, ndr), che l’aveva accusata di aver acquistato illegalmente un carico di 650 mila barili di petrolio dal governo transitorio di Tobruk e da una sua società sussidiaria che non godeva del riconoscimento internazionale», scrivono gli inquirenti.

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Il caso Bonnie B e la flotta contesa

Da un procedimento giudiziario si scopre il tentativo di uomini di mare di aggiudicarsi alcune delle navi protagoniste di episodi di contrabbando tra Libia, Malta e Italia dal 2015 al 2017

La città è ritenuta da tempo uno snodo fondamentale per il traffico di droga da «Marocco, Siria, Libano, Europa (Grecia e Italia meridionale) e persino Sudamerica», scrive l’analista Mark Micallef nel report del 2019 Sabbie mobili: le dinamiche mutevoli del traffico di droga in Libia lungo i confini costieri e desertici. «Alcune droghe sono consumate nel mercato locale ma un volume consistente viene ri-esportato lungo rotte marittime verso l’Italia meridionale e i Paesi balcanici come Albania e Montenegro», proseguiva Micallef. Tobruk ha un contesto politico particolare: è sede della Camera dei rappresentanti ed è il porto più vicino all’Egitto, potenza regionale che ha cercato più volte di intromettersi all’interno dello scacchiere libico. Tobruk è la capitale della fazione che sostiene il generale Khalifa Haftar, l’uomo che guida l’opposizione al governo centrale di Tripoli. Questa osservazione conforta l’ipotesi che Gordon Debono stesse cercando di ampliare la sua rete di fornitori nell’est della Libia e lascia pensare che qualcuno all’interno della rete dei contrabbandieri, oltre al gasolio, si sia dedicato al traffico di droga.

L’abbordaggio della Transnav Hazel

Uno dei primi abbordaggi della guardia costiera libica ai danni di petroliere di cui si ha notizia riguarda la Transnav Hazel, una delle più grosse imbarcazioni tra quelle coinvolte nel contrabbando. Due elementi della sua storia ritornano con quelle precedenti: il riferimento alla Nigeria e il ruolo di una società di trading con interessi nell’est della Libia. La nave in questo caso non è stata poi tenuta sotto sequestro dalle autorità libiche.

Tra il 21 e il 22 aprile 2016 la Transnav Hazel stava navigando nelle acque antistanti Zuwara, 70 chilometri da Zawiya, dove aveva appena caricato del gasolio da bettoline e pescherecci: «L’equipaggio aveva appreso che il carico fosse destinato allo scarico in Nigeria», si legge nei documenti dell’ispezione delle autorità portuali maltese. Tuttavia, prosegue il rapporto, «la partenza è stata ritardata dal momento che i marittimi aspettavano il pagamento dalle parti interessate»: il carico di carburante, quindi, non era stato pagato ai fornitori libici. Questi ultimi avevano così deciso di impedire alla nave di riprendere il viaggio. A coordinare le operazioni di carico della merce dalla costa di Zuwara era un agente marittimo libico, “Mr Saleem”. Secondo le memorie dei membri dell’equipaggio della Transnav Hazel, indiani e pakistanie, e raccolte dagli ispettori marittimi, Mr Saleem è salito in diverse occasioni a bordo della Transnav Hazel insieme a sei o sette uomini armati.

Lo stallo a largo di Zuwara si è interrotto quando Mr Saleem ha chiamato da Malta un amico che avrebbe fatto da garante del carico: l’imprenditore Paul Attard, di cui IrpiMedia ha già scritto nel 2018 poiché coinvolto in un traffico di hashish e perché ha trainato anche altre due navi coinvolte nel contrabbando di gasolio con la Sicilia. Attard non ha risposto alle nostre domande per questa inchiesta. Per quanto risulta dalle precedenti inchieste, è tra i maltesi più agganciati ai guardacoste libici e questo lo rende un elemento importante dei presunti traffici tra Italia, Malta e Libia.

Di fatto, Attard, proprietario della Patron Group, viene chiamato dai libici, in accordo con l’armatore, per prendere il comando della Transnav Hazel: «Quattro uomini – si legge nel report degli ispettori maltesi – sono stati messi a bordo dell’imbarcazione dall’armatore. Due libici, un egiziano e un maltese, in particolare il comandante David Bonello della Patron Group (la società è chiusa dal 2020, ndr). […] Per quanto compreso dal primo ufficiale, l’imbarcazione (Transnav Hazel, ndr) era nel pieno controllo di parti terze (“sequestrata”)». Il piano era di rimorchiare la petroliera in acque maltesi ma l’operazione di rimorchio è fallita perché il cavo di traino si è spezzato.

La nave petroliera Trasnav Hazel – Foto: fleetphoto.ru

La Transnav Hazel ha fatto ingresso nella zona contigua maltese scortata a breve distanza dalla Sea Patron. Un elicottero della marina militare dell’isola ha assistito a tutto e un pattugliatore dei guardacoste ha ispezionato la Sea Patron in cerca di armi, senza mai controllare la bolla di carico della Transnav Hazel, secondo le testimonianze dell’equipaggio raccolte dagli ispettori. Eppure era stata falsificata – non è specificato in che modo – dopo minacce e intimidazioni di Mr Saleem. Il rapporto degli ispettori maltesi non spiega la ragione del mancato controllo.

Un’ipotesi possibile è la collusione fra trafficanti e controllori: come spiegato da una fonte interna alle forze armate maltesi alla newsletter specializzata African Energy poco dopo l’omicidio di Daphne Caruana Galizia «la mancanza di controllo da lungo tempo indica che il contrabbando potrebbe essere stato favorito da protezioni politiche di alto livello».

Hurd’s bank, la secca dei trafficanti

I trasferimenti dei carichi di carburante dalle petroliere di piccole dimensioni a quelle più grandi destinate ai porti europei avvengono in un’area che si trova all’interno della zona contigua di Malta, Hurd’s bank, una secca a 16 miglia a sud est della costa maltese che per ragioni morfologiche rende semplici queste operazioni. Solo che la zona contigua è un’area fuori dalle acque territoriali ma dove uno Stato può esercitare poteri di controllo anche sulle navi che battono bandiere straniere. L’attività ispettiva non è tuttavia obbligatoria e va giustificata. Un Paese troppo zelante può quindi farsi una cattiva pubblicità agli occhi di broker e armatori per i quali ogni controllo è una perdita di tempo se in buonafede o un impedimento se in malafede . Il centro studi statunitense Hudson, di ispirazione conservatrice, nel 2015 scriveva che l’inerzia maltese su Hurd’s Bank è funzionale a mantenere in Libia «la guerra civile a lenta combustione in corso». Per il Tesoro americano, Hurd’s bank «è un noto luogo per trasferimenti marittimi illeciti». L’analista norvegese Andreas Hobbelin sul sito Finextra scrive a luglio 2021: «Almeno dal 2015, Russia, Venezuela, Iran, Siria, Libia e persino Corea del Nord, nonché organizzazioni terroristiche come Hamas e Hezbollah, hanno utilizzato Hurd’s bank per aggirare le sanzioni, in particolare quelle statunitensi».

Secondo quanto ricostruito dal Times of Malta attraverso una serie di testimonianze di ufficiali e ispettori nel 2018, Hurd’s bank è diventato il punto di riferimento dal momento in cui è stato possibile implementare i controlli a Malta: il fatto che le operazioni fossero fuori dalle acque nazionali «era visto con favore da parte nostra», spiega una fonte anonima all’interno del governo maltese.

La bolla di carico mai controllata indica che la società che spedisce il gasolio ha sede a Dubai, crocevia di proventi di origine sospetta secondo diverse inchieste che riguardano presunti crimini finanziari commessi da maltesi (vedi box di questo articolo), compreso Gordon Debono. Il Patron Group di Paul Attard è il destinatario ma l’indirizzo di notifica, cioè quello da avvisare una volta che il carico è consegnato, appartiene alla Volont Shipping and Trading Sa, una società indagata nel 2017-2018 dagli esperti Onu perché aveva cercato di stringere un accordo di fornitura di gasolio con l’entità “separatista” della National Oil Corporation (Noc), quella di Tobruk. Solo la Noc di Tripoli, infatti, è autorizzata a vendere petrolio e prodotti petroliferi dalla Libia.

Oggi l’armatore Paul Attard è in attesa di giudizio a Catania, dove è accusato di traffico di hashish. La Quest, la nave che aveva a bordo la droga, era stata trainata sempre da un altro suo rimorchiatore. Attard nega di essere responsabile del carico. MeridioNews ha scovato l’imprenditore maltese anche nell’indagine Borderless, condotta dalla Guardia di finanza di Catania nel 2019. L’obiettivo in quel caso era la nave Aquarius dell’ong Medici senza frontiere, accusata di smaltimento illegale di rifiuti e rinviata a giudizio, insieme a quattro persone, a marzo 2021. L’agente marittimo al centro dell’inchiesta, intercettato, parlava di un maltese «noto per le sue implicazioni in traffici criminali», riferendosi proprio ad Attard, come ha verificato MeridioNews.

Le doppie registrazioni dei pescherecci

Tra i più importanti partner di Paul Attard c’è un mediatore marittimo che in una vecchia intervista con IrpiMedia l’imprenditore maltese ha definito «il migliore che conosco». È Joseph O’Connor, irlandese trapiantato a Malta, titolare della società Britannia Shipping con alle spalle una lunghissima carriera: acquista ferri vecchi, li rimette a nuovo e li rivende sul mercato. Base delle sue operazioni è tal-Pont, uno dei moli di Marsa, il principale porto di Malta. Britannia Shipping ha armato decine di navi e tra loro, stando ai documenti giudiziari che riguardano un debito contratto dalla compagnia nel 2014 con le autorità doganali maltesi, intorno al 2010-2011 c’è anche la Anna Maria. Consultando il registro navale di Malta si scopre che la Tremar «in precedenza era stata registrata a Cipro come Anna Maria». Eppure per Malta gli unici due nomi dell’imbarcazione sono Tremar o, prima del 2018, Agostino Padre.

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Lo scopo della doppia o tripla registrazione delle imbarcazioni è quello di opacizzare la catena di controllo di un’imbarcazione per rendere impossibile alle forze dell’ordine ricostruire chi sia l’armatore in caso di sequestro.

Non a caso anche un altro peschereccio che ha partecipato alle operazioni di salvataggio e respingimento nel corso della strage di Pasquetta ha una doppia se non tripla registrazione: la Dar al salaam 1 al registro navale libico è battezzata infatti Mae Yamanye. Secondo fonti sentite dal giornalista del New York Times Patrick Kingsley ha anche un terzo nome: Maria Cristina, con Las Palmas come porto di riferimento.

Dal 1986 esiste una Convenzione Onu per la registrazione delle navi che tuttavia non è mai stata implementata dai Paesi membri. L’Organizzazione marittima internazionale (Imo) denunciava oltre 200 «registrazioni fraudolente» di imbarcazioni nel 2019. I casi più frequenti di registrazioni fraudolente avvengono presso registri navali di Paesi le cui autorità non sono mai state messe al corrente dell’esistenza di certe imbarcazioni. Un caso che ha fatto notizia nel 2017 riguarda 73 imbarcazioni battenti bandiera della Repubblica democratica del Congo e delle quali le autorità marittime del Paese non avevano alcuna idea.

CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli

Ha collaborato

Marc Tilley

Infografiche & mappe

Lorenzo Bodrero

Editing

Luca Rinaldi

Foto

Uno scorcio del porto di Marsa (Malta), sede operativa della Britannia Shipping
Foto: Roberto Sorin/Shutterstock