Egitto, la svolta green è una farsa

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Egitto, la svolta green è una farsa

Matteo Garavoglia

Sharm El-Sheikh è la capitale delle contraddizioni egiziane. Ha ospitato la Cop27, la conferenza mondiale per il clima, uno dei più attesi eventi mondiali per dare risposta all’emergenza ambientale. Il governo egiziano, per l’occasione, ha sfoggiato investimenti in energie rinnovabili e ha fornito a Sharm El-Sheikh una nuova flotta di veicoli non inquinanti. Un’operazione di facciata: il governo del presidente Abdel Fattah al-Sisi ha bisogno di fare cassa e la via più facile è ancora quella dell’esportazione delle fonti fossili, di cui l’Europa ha sempre più fame. Sharm El-Sheikh, dal canto suo, è un continuo cantiere di nuovi resort.

Il turismo di massa, sul quale la classe dirigente egiziana punta forte, in nome di guadagni a breve termine sta mettendo sempre più a repentaglio due dei motivi principali del suo stesso successo: la barriera corallina e il suo patrimonio archeologico. Benvenuti in Egitto, al crepuscolo del 2022.

I silenzi dopo la Cop27

La ventisettesima Conferenza delle parti, meglio conosciuta con la sigla Cop27, avrebbe dovuto porre l’attenzione sui problemi climatici della sfera Sud del mondo e ottenere un significativo cambio di rotta rispetto all’odierna situazione ambientale. Per un meccanismo di alternanza tra i continenti, questa edizione avrebbe dovuto essere in Africa e l’Egitto è stato l’unico Paese a presentarsi. Si è tenuta dal 6 al 20 novembre e ha portato circa 40 mila visitatori al Centro congressi internazionale di Sharm El-Sheikh realizzato dall’italiana Tonino Lamborghini.

Gli interventi sulla rete stradale realizzati nei mesi precedenti la Cop27 non hanno riguardato solo nuove viabilità: decine di chilometri di strade esistenti sono state allargate. Nell’immagine una superstrada a quattro corsie aumentata a dodici.

I risultati ottenuti dalla conferenza sono stati piuttosto modesti, secondo diversi commentatori. Non per le stesse Nazioni Unite, che considerano «una svolta» l’inserimento nel documento conclusivo del meccanismo risarcitorio definito loss and damage, «perdite e danni». Il sistema riconosce il diritto a una compensazione per i Paesi in via di sviluppo maggiormente interessati dai cambiamenti climatici, provocati finora dai Paesi più sviluppati.

Nessun passo avanti invece sul phase out, la fase di uscita dall’uso del carbone e altri elementi inquinanti, un argomento di dibattito da decenni. La Cop nasce infatti a seguito dei cosiddetti Accordi di Rio de Janeiro del 1992 per ridurre le emissioni di gas serra. La cancellazione del carbone e dei combustibili fossili sarebbe quindi fondamentale in vista di quest’obiettivo, reso tuttavia complicato dall’opposizione dei Paesi che ne fanno più uso come Cina o India.

La Cop è il principale strumento per prendere decisioni in merito a quanto stabilito dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (UNFCCC), carta del 1994 che perimetra le azioni per contrastare i cambiamenti climatici. Le “parti” che dialogano durante la conferenza sono i Paesi più e meno ricchi, le organizzazioni sovranazionali come le Nazioni Unite o l’Unione europea e osservatori accreditati provenienti anche dalla società civile. I tavoli di discussione sono su due livelli: uno mondiale, dal quale emergono gli accordi internazionali e l’altro più regionale, nel quale il Paese ospitante ha maggiore voce in capitolo. Questo secondo tavolo è sempre stato il principale interesse per l’Egitto.

Mano a mano che si avvicinava il giorno di chiusura della conferenza, però, tra gli analisti presenti in Egitto una voce si è fatta sempre più insistente: «La presidenza non sta lavorando bene. Non comunica con le parti, le bozze vengono trasmesse in ritardo e in generale c’è un silenzio mai visto prima».

La Sharm El-Sheik di Hosni Mubarak

È alla fine degli anni Novanta che Sharm El-Sheikh è stata ribattezzata «la città del presidente». Il riferimento era a Hosni Mubarak, l’ex militare che ha guidato il Paese per 30 anni, fino alla deposizione nel 2011. Mubarak ha messo le basi per lo sviluppo del turismo di massa e ha scelto la regione del Sinai come luogo per una serie di importanti incontri internazionali. Con gli anni Duemila, però, per il Sinai sono arrivati nuovi problemi che hanno interrotto il processo di trasformazione: a partire dal 2004, il Sud della regione è stato coinvolto in diversi attacchi terroristici; dal 2008, tutto l’Egitto ha dovuto affrontare una pesante recessione; nel 2011, appunto, la Primavera araba ha portato la Rivoluzione a Il Cairo. Per diversi anni l’area è stata instabile, come dimostra l’attacco dell’Isis a un volo di linea che trasportava 224 passeggeri russi nell’ottobre 2015.

Gli accordi fossili dell’Egitto

Quello di cui si è taciuto durante la Cop sono le concessioni per lo sfruttamento dei giacimenti di gas e combustibili fossili dalle quali l’Egitto continua a incassare. Solo la società di oil&gas italiana Eni ne ha 13, compresa Shourouk, un’area di 3.745 chilometri quadrati nel Mediterraneo. Al suo interno si trova Zohr, il più ricco giacimento di gas (riserva stimata: 30 milioni di miliardi di metri cubi) scoperto nel bacino mediterrano. «Questo successo esplorativo offrirà un contributo fondamentale nel soddisfare la domanda egiziana di gas naturale per decenni – commentava nel 2015 l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi -. Questa scoperta storica sarà in grado di trasformare lo scenario energetico di un intero Paese, che ci accoglie da oltre 60 anni».

Secondo l’ultimo rapporto dell’associazione ReCommon, Zohr vale il 30% della produzione totale della società italiana, il 60% di quella egiziana. Una situazione che garantisce ingenti introiti a entrambi le parti e che dal 2016 ha portato Eni a investire 11,6 miliardi di euro in Egitto. All’apertura della Conferenza dell’energia egiziana, a ottobre 2022, il presidente al-Sisi ha dichiarato che senza la ridefinizione dei confini marittimi grazie ai quali Zohr è una risorsa nazionale, l’Egitto sarebbe finito al buio a causa delle scarsità di risorse per produrre energia elettrica, riportano i giornali egiziani. Eppure Il Cairo preferisce sacrificare il fabbisogno interno pur di garantire l’export, in particolare in Europa. Il deficit viene colmato dall’utilizzo di mazut, una miscela di idrocarburi che contiene tossine come solfuri e metalli pesanti e ha un forte impatto sull’ambiente.

Secondo i dati dell’Agenzia egiziana di regolamentazione per l’elettricità e la protezione dei consumatori, a ottobre 2022 la percentuale di mazut impiegato nelle centrali elettriche era del 30%, nel 2021 era poco meno del 4%.

«A maggio scorso l’Egitto ha pubblicato la sua strategia per ridurre le emissioni di carbone entro il 2030. I più ottimisti affermano di voler portare le rinnovabili entro quell’anno al 42%. È impossibile, al momento non valgono più del 10% su scala nazionale», spiega a IrpiMedia Mariam Attalla, ricercatrice all’Istituto di studi politici di Parigi (Sciences Po). «L’Egitto vuole presentarsi come un hub dell’energia, da una parte continua a firmare accordi sul gas, dall’altra promuove l’utilizzo di energie rinnovabili – commenta Giulia Giordano del think tank Ecco – una tendenza che si è aggravata con la crisi energetica in corso ma che esiste già dal 2018, quando il giacimento Zohr gestito da Eni è entrato completamente in funzione».

L’aeroporto internazionale di Sharm El-Sheikh è il secondo scalo egiziano per dimensioni e numero di passeggeri. Alla Cop27 hanno partecipato circa 40.000 persone, la quasi totalità delle quali è arrivata via aerea.

Eppure nei giorni della Cop27 i diplomatici egiziani si sono dati da fare per stringere nuovi accordi “puliti” con l’Europa. Durante il suo discorso alla conferenza, il presidente al-Sisi ha dichiarato che «i Paesi in via di sviluppo, incluso l’Egitto, stanno facendo passi da gigante» nello sviluppo dell’idrogeno verde, riferendosi a un accordo fresco di firma stretto da Il Cairo con il governo norvegese per costruire un mega impianto all’idrogeno sul Mar Rosso. Sempre durante la Cop27, l’Egitto ha siglato un memorandum of understanding con la Commissione europea per cooperare su produzione, consumo e vendita di idrogeno, riportano i media egiziani.

«Era da tempo che aspettavo questo momento. Dobbiamo decarbonizzare rapidamente le nostre società e le nostre economie. Ma non vogliamo farlo con la deindustrializzazione», è stata la reazione del vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans.

Un altro accordo, il più importante, lo ha annunciato lo stesso presidente degli Stati Uniti Joe Biden alla conferenza: 500 milioni di dollari da parte di Stati Uniti, Unione europea e Germania per facilitare il processo di decarbonizzazione dell’Egitto. Un pacchetto che «consentirà di distribuire 10 gigawatt di energia rinnovabile entro il 2030 riducendo le emissioni in Egitto e nel settore energetico del 10%».

I progetti rinnovabili egiziani, sostiene la ricercatrice di SciencesPo Attalla, non stanno procedendo secondo i piani del governo, anche se le promesse di produzione di energia verde sono un traino importante per gli investimenti esteri, soprattutto quelli dell’Unione europea: «L’idrogeno non è una priorità per l’Egitto: che sia verde o blu costa troppo e il Paese non può permettersi questo tipo di investimenti», conclude.

Idrogeno verde e idrogeno blu

I due “colori” dell’idrogeno indicano due tipologie di prodotti molto diversi. L’idrogeno verde è prodotto con un processo di elettrolisi  dell’acqua, molto costoso ma completamente privo di emissioni climalteranti. Quello blu, invece, produce molta anidride carbonica, che andrebbe a sua volta catturata.

Per approfondire, consigliamo la lettura di La partita dell’idrogeno, le lobby in campo per orientare il Green Deal.

In giugno, Israele, Unione europea ed Egitto hanno siglato un altro memorandum sul gas in cui le tre parti «si impegneranno a lavorare collettivamente per consentire una fornitura stabile di gas naturale all’Ue che sia coerente con gli obiettivi di decarbonizzazione a lungo termine e si basi sul principio dei prezzi orientati al mercato». In cambio, la presidente della Commissione europea ha garantito un aiuto da 100 milioni di euro per rispondere alla carenza di grano a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina, fornitrice di circa l’80% del grano consumato in Egitto.

Una colata di asfalto: il primo effetto visibile della Cop27 è stato il potenziamento della rete stradale già esistente creando chilometri di nuove strade come quelle realizzate nei pressi del centro congressi in cui si è tenuta la conferenza sul clima.

Cemento su Sharm, la barriera corallina è sempre più in pericolo

Per accogliere i visitatori della Cop27, Sharm El-Sheikh si è trasformata: ha implementato un sistema di bus elettrici gratuiti, un sistema di illuminazione in gran parte alimentato da energie rinnovabili e un sistema di riuso delle fonti idriche. Investimenti notevoli per una regione che storicamente soffre di scarsità d’acqua.

Le buone notizie, però, finiscono qui. Se c’è un lascito della Cop27 nella città egiziana, sarà certamente l’asfalto utilizzato per rifare le strade limitrofe ai luoghi della Conferenza – oltre al Centro congressi Lamborghini, anche due strutture temporanee. In alcuni casi sono state anche allargate da quattro a dodici corsie, lasciando più di un dubbio sul loro reale funzionamento futuro in un’area che storicamente non ha mai sofferto problemi di traffico urbano. L’altro aspetto da tenere in considerazione è che queste arterie stradali sono già state oggetto di rifacimento nel 2018. La colata di asfalto nel 2022 è stata gettata solo in vista della Cop27.

Poi ci sono le fonti di inquinamento storiche: Sharm El-Sheikh è il secondo scalo aeroportuale egiziano. Il turismo di massa, fondamentale fonte di reddito, garantisce all’erario egiziano 6,5 miliardi di euro all’anno. I visitatori però sono da tempo troppi: il solo parco naturale di Ras Muhamad – l’estrema punta meridionale della penisola del Sinai, dove si trova Sharm – negli anni pre Covid-19 accoglieva circa 200 mila persone all’anno al netto di una soglia raccomandata di circa 7-15 mila.

La collaborazione con PlaceMarks

PlaceMarks è un progetto giornalistico che elabora e analizza immagini satellitari allo scopo di evidenziare i cambiamenti ambientali, sociali e territoriali.

I lavori a Sharm El-Sheikh sembrano non finire mai. La costante costruzione di nuovi resort di lusso per accogliere nuovi turisti ha completamente trasformato le coste, arrivando a impedire ai locali l’accesso libero alle spiagge. Le immagini satellitari mostrano decine di cantieri aperti per nuovi alberghi che risalgono al periodo precedente la pandemia di Covid-19.

Per quanto manchino studi quantitativi sul tema, il ricercatore del Tokyo Institute of Technology Ahmed Eladawy sottolinea in un’intervista a IrpiMedia che l’impatto del turismo di massa sugli oltre 1.500 chilometri di barriera corallina del Mar Rosso minaccia di far perdere allo Stato entrate per 5,3 miliardi di euro all’anno entro il 2100.

Nuove urbanizzazioni e viabilità realizzate negli ultimi mesi. Anche in questo caso appare evidente la sproporzione fra la densità di edifici e le sezioni delle strade: nastri d’asfalto a 8 corsie che corrono tra la sabbia.
Il bollino di sostenibilità

Nel 2017 l’Egitto ha redatto il suo primo NDC, sigla inglese che identifica il piano nazionale che i Paesi che partecipano alle Cop sul clima si possono impegnare a perseguire per contenere le proprie fonti inquinanti, con obiettivi a medio e lungo termine (2030 e 2050). L’Egitto ha firmato la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, la carta che dà accesso ai tavoli negoziali della Cop, nel 1994 ed è stato uno dei primi Paesi a chiedere il rispetto del principio di rispondere a questi effetti a seconda del grado di responsabilità delle emissioni.

Già nel 2017 il turismo occupava un posto di primo piano per la possibile transizione energetica: «Il settore deve sforzarsi a utilizzare strutture a basse emissioni di carbone e rendere più ecologici gli hotel e i resort, principalmente attraverso l’uso di energie rinnovabili».

L’associazione degli alberghi egizianI (Eha) per dimostrare il proprio impegno per il clima ha così istituito una certificazione valida due anni attraverso cui i proprietari di hotel possono attestare «la loro conformità alle pratiche ecologiche come il risparmio energetico, la conservazione dell’acqua e la formazione del personale», scrive il sito di informazione egiziano Mada Masr, reso visibile durante la Cop27 dopo cinque anni di oscuramento. La certificazione, molto sponsorizzata dalle autorità pubbliche, costa tra i 200 e i duemila euro e a Sharm El-Sheikh è stata ottenuta da 120 alberghi sui 160 e 60 centri di immersione, scrive il sito.

Archeologia a rischio: il monastero di Santa Caterina

«Il monastero ortodosso di Santa Caterina sorge ai piedi del Monte Horeb dove, secondo l’Antico Testamento, Mosè ricevette le Tavole della Legge. L’intera area è sacra per il Cristianesimo, l’Islam e il Giudaismo». Lo scrive l’Unesco sulla pagina del proprio sito. Dal 2002, il Monastero di Santa Caterina è patrimonio dell’umanità. Vent’anni dopo quel riconoscimento, il presidente al-Sisi ha presentato il Great Transfiguration Project, un piano governativo per trasformare l’area, che si trova a 200 chilometri da Sharm El-Sheikh, in un polo turistico con hotel, campi da golf e mercatini per vendere prodotti tipici del Sinai ed erbe medicinali.

«Il progetto è finanziato dalla Autorità per le nuove comunità urbane sulla base delle direttive del presidente Abdel Fattah al-Sisi per sviluppare l’area di Santa Caterina che gode di un alto valore storico e spirituale», furono le parole del ministro dell’edilizia Assem al-Gazzar al momento del lancio del progetto.

Molte aree costiere della zona di Sharm sono occupate da cantieri di nuovi resort. In diversi casi le costruzioni risalgono al periodo precedente la pandemia di Covid-19 e i lavori sembrano tuttora sospesi.

I tempi e i costi di realizzazione, però, non sono stati ancora stimati. L’ultimo aggiornamento risale a gennaio 2022, quando al-Sisi si è fatto immortalare mentre osserva un plastico dell’area di Santa Caterina in una riunione con funzionari e progettisti. In quell’occasione i giornali egiziani hanno riportato un costo previsto, per la prima fase di costruzione, di circa 255 milioni di dollari.

Qualcuno sta cercando già ora di misurare l’impatto del Great Transfiguration Project sulla popolazione locale e sull’ambiente. «I lavori sono iniziati a fine 2021. Anche se non ci sono stime, grazie a fonti sul campo si può dire che siamo al 70% dei lavori terminati», afferma Mohannad Sabry, giornalista investigativo che abita nella regione. Sottolinea quanto il progetto si trovi «in un ambiente molto fragile», «un’area archeologica protetta» dove le leggi egiziane limitano in teoria la possibilità di costruire. «Questo progetto – afferma – viola diverse leggi, si tratta di mera speculazione. Saranno versati migliaia di metri cubi di cemento in un’area a rischio come il santuario di Santa Caterina», conclude.

IrpiMedia ha ottenuto una copia del piano di sviluppo del governo, risalente al marzo 2021 e promosso dal ministero dell’Edilizia, che mostra l’impatto della costruzione di un nuovo ecolodge, ovvero una struttura ricettiva a impatto ambientale minimo. A vedere i progetti, di minimo non ha nulla: si parla di una fascia di cemento armato con 216 stanze su 16.950 metri quadrati e ancora un hotel sviluppato su 20.855 metri quadrati, il rinnovamento del centro turistico locale per un totale di 5.876 metri quadrati, la costruzione di nuove abitazioni stimate a 700 unità e 440 chalet, 450 ville, 4 hotel e 490 chalet di benessere. Il tutto a scalare una montagna e a riempire una valle dove prima sorgeva natura incontaminata.

Con una superficie di oltre 115.000 metri quadrati, la laguna artificiale del resort City stars oggi in costruzione sarà la più grande del mondo. Per riempirla occorreranno almeno 150 milioni di litri di acqua dolce.

Questo è l’impatto a livello di numeri su una città che a oggi conta novemila persone ma che presto potrebbe portare migliaia di lavoratori da diverse zone dell’Egitto, i quali probabilmente confluiranno dalla nuova autostrada che collegherà Santa Caterina ad al-Tur, nel golfo di Suez. Settanta chilometri lungo la valle di Hebran che secondo gli esperti, vista la natura orografica del Sinai meridionale, potrebbero aumentare i rischi di inondazioni nell’area.

«La popolazione locale sta già cominciando a pagare il prezzo, è la prima che paga – prosegue il giornalista Sabry – ci sono case che sono state demolite, anche il cimitero locale e le autorità non hanno avvisato nessuno».

Quando si parla di popolazione, in questa zona bisogna fare riferimento alle tribù o confederazioni beduine che da secoli vivono nel Sinai del sud. A Santa Caterina c’è il gruppo dei Jebeliya, letteralmente “il popolo della montagna”, che da sempre ha vissuto di coltivazioni, piccoli allevamenti e ai margini della società egiziana, storicamente inospitale nei confronti delle persone di origine beduina, che con il nuovo sviluppo immobiliare rischia di essere esclusa dai suoi territori, come già accaduto a Sharm El-Sheikh.

Le immagini del cantiere del nuovo progetto turistico nei pressi del Monastero di Santa Caterina, con due gradi di zoom.

«Pensare di costruire un progetto di questo tipo non ha logica – aggiunge Sabry -. Santa Caterina richiama un turismo legato alla religione e al culto di luoghi sacri, è molto diverso rispetto a luoghi come Sharm El-Sheikh. Il secondo problema è che in Egitto c’è ancora un problema di sicurezza legato agli attentati del 2011 e non ci sono più i numeri di una volta. Il terzo è che la popolazione locale non riceverà benefici da queste opere perché di fatto è già stata spostata con la forza. Se si vuole chiamare con il suo nome, qui si vuole proporre una Las Vegas, è un progetto megalomane».

Nei Vangeli di Marco, Luca e Matteo, si narra che Gesù, per mostrarsi ad alcuni discepoli, «trasfigurò»: cambiò cioè aspetto, mostrandosi più bello e vestito di abiti candidi. Anche Santa Caterina sembra destinata a trasfigurare: da sacro a profano. O a qualcosa di peggio.

CREDITI

Autori

Matteo Garavoglia

Analisi satellitare

Federico Monica

In partnership con

Editing

Cecilia Anesi
Lorenzo Bagnoli

Map data

Google/Maxar

Foto di copertina

Uno scorcio della costa egiziana. Forme curve e sinuose, grandi edifici in linea o piccole costruzioni isolate: sono le geometrie caotiche disegnate dai resort, pensati e progettati come mondi a sé stanti, senza alcuna relazione col contesto circostante
(Placemarks)

Il mare di sabbia tra Libia ed Egitto

Il mare di sabbia tra Libia ed Egitto

Fabio Papetti

La notte del 4 settembre scorso le autorità di Tobruk, città nell’Est della Libia, hanno trovato 287 migranti, tra cui novanta minorenni. Provenivano tutti dall’Egitto e si trovavano in un capannone nella campagna a sud della città. Stando ai loro racconti, erano in attesa dei trafficanti che li avrebbero portati in Italia. Dal capannone, i migranti sono stati portati in uno dei centri di detenzione sotto il controllo del Directorate for Combating Illegal Migration (DCIM), l’autorità libica preposta alla gestione dei flussi migratori che risponde al Ministero dell’interno di Tripoli.

Dopo alcuni giorni di prigionia, le autorità libiche hanno portato il gruppo al valico di confine di Emsaed. In perfetta simmetria, come in un riflesso sull’acqua, si fronteggiano la stazione libica e quella egiziana: è lì che i migranti sono stati rimpatriati.

Il progetto The Big Wall

Da quest’anno IrpiMedia collabora con ActionAid nella realizzazione di inchieste che nascono da The Big Wall, osservatorio sull’esternalizzazione della spesa per gestire i flussi migratori diretti all’Italia. Questo lavoro raccoglie anche spunti dalle richieste di accesso agli atti di Asgi – Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione.

Quando la Libia era parte dell’Impero dell’Italia fascista, qui sorgeva Forte Capuzzo, avamposto del Regio Esercito italiano. Il generale Rodolfo Graziani aveva costruito una recinzione di filo spinato a protezione del confine che terminava 286 chilometri più a sud, presso l’oasi di al-Jaghbub, antica città berbera confinante con l’Egitto, di cui restano ancora ampie tracce. Oltre, inizia il mare di sabbia del Sahara. La vicinanza con l’oasi egiziana di Siwa ne fa ancora oggi l’unica tappa intermedia raggiungibile dai migranti lungo la rotta del deserto.

È il crocevia della maggior parte dei traffici di persone che provengono dal territorio egiziano, ed è qui che con molta probabilità i vari componenti del gruppo hanno attraversato in tempi diversi il confine: la maggior parte di loro proveniva dalle aree di Assiut e Minya, zone centrali dell’Egitto bagnate dal Nilo. Trasportati nei furgoni dai trafficanti egiziani, i migranti hanno attraversato il deserto prima di fare tappa all’oasi libica. Hanno raccontato che durante il tragitto i loro passeur li hanno lasciati in condizioni misere, con una minima quantità di cibo e acqua per combattere il caldo.

Da al-Jaghbub sono stati consegnati ai trafficanti libici della zona: qui diverse tribù e diversi gruppi paramilitari si spartiscono gli affari. Alcuni sono affiliati all’Esercito nazionale libico (LNA – Libyan national Army in inglese), la forza militare che domina la regione orientale della Libia, la Cirenaica. Dalla città berbera, i migranti sono stati in seguito portati verso nord, fino ad arrivare a Tobruk, dove avrebbero dovuto aspettare per poter prendere una nave che li avrebbe portati in Italia.

L’economia sommersa dell’Esercito nazionale libico

L’Esercito nazionale libico è stato creato ufficialmente nel 2014 dal generale Khalifa Haftar alla vigilia della sua campagna denominata Karama (Dignità) contro i gruppi estremisti islamici presenti nell’est della Libia, principalmente a Benghazi. Dopo una serie di successi, i militari si sono guadagnati il supporto della popolazione e dell’esercito libico. Ma quando gli è stato chiesto di riconoscere il Governo di accordo nazionale (GNA in inglese) stanziato a Tripoli, Haftar ha negato l’appoggio, contribuendo a creare la divisione di oggi tra Est e Ovest. In questo modo Haftar ha avuto contro buona parte della comunità internazionale occidentale, ad eccezione in particolare della Francia, e non ha potuto accedere ai finanziamenti statali erogati dal governo dell’Ovest.

In mancanza di un approvvigionamento economico legale, il LNA ha dovuto escogitare metodi meno convenzionali per riempire i forzieri. Uno degli esempi più evidenti è avvenuto proprio nella città di Benghazi, dove l’esercito è stato accusato dagli abitanti di aver saccheggiato o del tutto occupato le loro abitazioni e preso controllo delle loro attività durante il conflitto avvenuto dal 2014 al 2017: ancora oggi ci sono proteste per reclamare i beni sottratti.

Insieme ai furti di proprietà, gli uomini del LNA si sono arricchiti attraverso traffici illeciti. Tra quelli maggiormente redditizi, prima di ottenere il controllo sulla tratta di esseri umani, c’è stato il traffico di petrolio. Già dall’inizio della campagna Karama uno dei maggiori finanziatori delle operazioni militari è stato Ali al-Gatrani, allora presidente della Commissione per il commercio e gli investimenti internazionali del parlamento libico di base a Tobruk, coinvolto nella rete del traffico di petrolio che si dirama nel Mediterraneo e arriva fino in Paesi come Italia e Malta. È infatti uno degli storici sostenitori degli uomini della Brigata al-Nasr, in particolare della mente del contrabbando di gasolio, Fahmi Slim Ben Khalifa.

Una volta consolidata la posizione dell’esercito in territorio libico, il traffico si è espanso ed è diventato sistemico grazie all’aiuto dell’Autorità per gli investimenti militari e pubblici, ente governativo che gestisce i soldi pubblici nella regione sotto il controllo di Haftar. Dai dati della NOC (acronimo di National Oil Company, la compagnia petrolifera libica) sono risultati carichi di carburante ordinati dall’Autorità e destinati a rifornire le navi militari a Benghazi e Tobruk in misura nettamente superiore rispetto alle necessità di navigazione delle imbarcazioni.

Secondo diversi analisti, il petrolio in eccesso sarebbe spedito illegalmente dalle città costiere dell’est per arrivare fino a Malta, e non solo. Oltre ai collegamenti con i porti egiziani e ciprioti, negli ultimi due anni i traffici si sono estesi fino all’Albania: lo scorso 15 settembre la Guardia costiera albanese ha infatti sequestrato un carico dal valore di oltre due milioni di dollari trasportato da una nave attraccata al porto di Durazzo e avente equipaggio misto libico e siriano, come ha riportato la testata online Libya Review.

La disponibilità di tanto petrolio è dovuta al controllo quasi egemonico del LNA sulle grandi riserve di giacimenti petroliferi che caratterizzano le zone a Nord-Est e Sud-Ovest del Paese. Dai vasti campi nel deserto da cui si estrae il greggio viene l’80% degli export totali del Paese verso l’Unione europea, per un valore stimato intorno ai 3,2 miliardi di dollari. Sebbene le forniture per l’estero debbano per legge essere regolate dalla NOC, i militari di Haftar hanno in realtà un controllo diretto sui vari pozzi presenti e sulla gestione di parte dell’export.

Il LNA fa affidamento sulle proprie truppe o su gruppi armati affiliati per gestire le risorse e per ricambiare la loro lealtà chiude un occhio sul traffico di petrolio che queste effettuano in maniera ormai costante, come evidenziato da Noria Research. Il predominio sull’area dove si producono i prodotti petroliferi libici garantisce ad Haftar un’enorme potere: ad aprile di quest’anno infatti, Haftar ha avviato un blocco della fornitura di petrolio che è durato fino alla fine di giugno, causando perdite in termini di miliardi di dollari alla NOC e a Tripoli. Dopo la crisi, Haftar ha avuto diverse concessioni dal governo dell’Ovest, una su tutte il cambio dell’allora direttore della NOC, Mustafa Sanalla, in favore di Farhat Bengdara, persona vicina al generale libico.

Diversi migranti tra i 287 che sono stati poi presi dalle autorità libiche nel capannone poco fuori la città hanno dichiarato ad Al Jazeera di aver pagato fino a 170 mila lire egiziane, circa 8.700 euro, per potersi procurare un posto per il viaggio.«La mia famiglia ha dovuto vendere i terreni che avevamo per farmi partire», dice un ragazzo ai giornalisti. Alcune famiglie hanno venduto i loro terreni e i loro beni per poter dare ai figli, anche minorenni, una possibilità per raggiungere le coste libiche, da cui poi partire per l’Europa. Nel tragitto sono stati derubati dei loro cellulari, soldi, beni in loro possesso e sono stati rinchiusi senza contatto con l’esterno. Non è raro che alcuni migranti vengano torturati, a volte fino alla morte.

Nel capannone nella campagna di Tobruk non sono arrivati tutti insieme: c’è chi ha affermato di essere stato lì solo per qualche giorno e chi invece ha detto di esserci rimasto per mesi. Tutto questo fa pensare che ci sia un’organizzazione più grande di semplici trafficanti isolati che gestisce la tratta orientale della Libia. L’organizzazione non governativa specializzata in violazioni dei diritti umani Libyan Crimes Watch Organization, intervistata da IrpiMedia, ha rivelato che la zona che va da Tobruk fino alla città di Derna (ad ovest rispetto a Tobruk) è controllata dagli “Uomini rana” libici, l’unità militare di sommozzatori appartenente alla Marina Militare Libica sotto il LNA guidata dal maggiore al-Tawati al-Manfi. Sarebbero proprio loro i trafficanti che stavano aspettando i migranti prima di essere presi dalla polizia locale.

A destra, il Maggiore al-Tawati al-Manfi, a capo della Marina Militare della Libyan national Army (LNA) – Foto: Facebook

Gli Uomini rana infatti entrano in contatto con i trafficanti che percorrono la rotta fino a Tobruk e da lì prendono il controllo delle operazioni. I migranti egiziani sono stati lasciati nel deposito e man mano che passavano i giorni vedevano arrivare altri connazionali nel deposito. Una volta raggiunto un numero sufficiente da rappresentare un profitto vantaggioso per i trafficanti, il gruppo sarebbe dovuto essere spostato sulla costa durante la notte. Qui i migranti avrebbero avuto davanti a loro diverse barche di piccole dimensioni, solitamente di gomma o legno, che possono contenere tra le venti e le trenta persone. Scortati dalle truppe di al-Tawati, uomini e bambini sarebbero saliti sulle imbarcazioni che li avrebbero portati ad un’altra nave più grande, una “nave madre” (in Libia generalmente chiamata bulldozer) che aspetta lontano dalla costa (la nave è impossibilitata ad attraccare per via del basso fondale).

La dinamica è identica a quella descritta dagli inquirenti italiani per le traversate del Mediterraneo cominciate dalle città dell’Ovest della Libia. Come sempre, le fasi di imbarco dalle navi più piccole alla nave madre sono tra le più delicate per il rischio di capovolgimenti: già ad aprile di quest’anno sono stati rinvenuti in una spiaggia nella vicina città di Shahat, a metà strada tra Tobruk e Benghazi, i corpi di chi aveva provato a imbarcarsi per i bulldozers, mentre l’ultima notizia in questo senso è del 27 agosto scorso, quando 27 persone imbarcatesi di notte con un gommone sono state capovolte dalle onde del mare, e di loro solo sette sono sopravvissute.

Una volta occupata tutta la nave, i migranti avrebbero visto gli Uomini rana prendere i soldi dai trafficanti locali, una percentuale per ogni persona salita a bordo, prima di essere lasciati andare in mare aperto e, inshallah, raggiungere l’Italia.

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Non si hanno informazioni precise sulle partenze ed è difficile stabilire se a bordo rimanga uno dei trafficanti per pilotare la nave. Secondo alcune testimonianze ottenute dalla Libya Crimes Watch Organization con i familiari delle vittime, i migranti sarebbero istruiti sul posto su come condurre l’imbarcazione e gli verrebbe dato un telefono con cui contattare le autorità internazionali per essere messi in salvo in caso di naufragio.

Dal 2021 si è visto un incremento nell’uso di barche da pesca in legno di dimensioni maggiori. Portare un carico più grande è un prerequisito fondamentale per aumentare i profitti che derivano dal traffico di esseri umani. Queste navi hanno una maggior stabilità e forniscono maggior possibilità di riuscita del viaggio in mare aperto rispetto alle piccole o medie imbarcazioni gonfiabili utilizzate dai migranti, soprattutto da chi viene dall’Ovest libico. Grazie anche ai diversi canali social, i migranti si scambiano informazioni sui punti migliori da cui poter partire per raggiungere l’Italia e avere a disposizione mezzi adeguati è un fattore che pesa sulla scelta del posto in cui andare. Secondo il report del Global Initiative against Transnational Organised Crime (GITOC), nel 2021 si è registrato il doppio del numero di barche di legno rispetto al triennio 2018-2020.

Come funzionano gli ingressi dei migranti irregolari in Libia via aereo

A Benina, aeroporto di Benghazi, i militari dell’Autorità per gli investimenti pubblici e militari sono attivi già dal 2018. Si presentavano all’aeroporto per prendere i migranti che provenivano da Egitto, Bangladesh e Siria e li facevano passare attraverso i controlli, generando a volte diverbi con la sicurezza interna dell’aeroporto. Una volta fuori, gli uomini della Commissione consegnavano ai migranti, previo pagamento in contanti, un foglio che aveva la funzione di visto per far attraversare i confini della zona Est della Libia. Sicuri del loro stato regolare nel Paese, i migranti si avviavano verso l’Ovest, direzione Tripoli, per trovare un modo di arrivare in Italia. Ma una volta fermati dalle autorità occidentali della Libia, gli veniva detto che questi visti non erano regolari perché ottenuti da un’autorità che non era riconosciuta dal governo di Tripoli.

Con questo pretesto, i migranti venivano presi sotto la custodia delle unità di sicurezza, buona parte delle volte milizie o gruppi paramilitari, per poi essere portati nei centri di detenzione. Per evitare questa fine, che rendeva poco affidabile il percorso, dal 2019 l’Esercito ha cambiato strategia. Adesso, per chi arriva con una compagnia aerea, i militari forniscono un trasporto speciale, che chiamano taxi, e portano i migranti verso Tobruk, ora il centro di maggior concentrazione di migranti e di attività legate al traffico di persone.

Una rotta particolarmente trafficata soprattutto dai migranti siriani è rappresentata dall’asse Damasco – Benina. Questa connessione è resa possibile dalla flotta aerea della Cham Wings, compagnia di volo di base in Siria e connessa con il regime di Bashar al-Assad.

Già nel 2012 la compagnia aerea ha ricevuto sanzioni da parte degli Stati Uniti per l’accusa di essere complice nella logistica dell’esercito siriano durante la guerra scoppiata nel 2011. La compagnia era accusata di trasportare militari, armi e altri equipaggiamenti fondamentali all’esercito governativo, oltre che essere una delle vie di trasporto usate dal gruppo Wagner, milizia privata connessa con il Cremlino e tutt’ora presente in Libia. Alle sanzioni degli USA sono seguite quelle dell’Unione europea a dicembre 2021, quando diversi voli sono finiti sotto i riflettori per aver portato migranti provenienti dall’Iraq a Minsk, in Bielorussia, di fatto aggirando i tentativi dell’Ue di limitare il numero di migranti iracheni che arrivava alle porte d’Europa alla fine dello scorso anno. Sebbene l’Europa avesse pressato con successo il governo iracheno per fermare i voli diretti verso Minsk, il tragitto aveva solo subito una variazione, e invece di arrivare direttamente dall’Iraq, i migranti facevano tappa in Siria per poi partire alla volta della Bielorussia.

Ad oggi, stando alle fonti dell’organizzazione Libya Crimes Watch Organization, la Cham Wings opererebbe voli diretti da Damasco a Benina, facilitando il traffico di persone dirette in Libia. I migranti siriani infatti si trovano a pagare circa 1.500 dollari per arrivare a Benghazi, e da lì tra i 300 e i 500 dollari per avere un falso visto dalle truppe della Commissione per gli investimenti pubblici e militari della Libia dell’Est che gli garantirebbe accesso al territorio nazionale.

Da qui si inizia a capire il motivo dietro l’aumento delle partenze dall’Est della Libia. In un momento delicato come la fine della guerra interna tra Est e Ovest della Libia finita nel 2020 che ha indebolito entrambe le fazioni, le forze del generale Haftar hanno trovato un nuovo sbocco economico capace di generare profitti per l’esercito e allo stesso tempo espandere ulteriormente il controllo militare sul territorio. Questo è stato reso possibile dall’Autorità per gli investimenti pubblici e militari, un’organizzazione militare ora sotto il Generale Maggiore Ramadan Bu Aisha, il cui scopo principale è il coordinamento delle attività economiche del LNA e l’incremento delle sue capacità di produzione e militari. In pratica questo si traduce nella ricerca di altre fonti di guadagno e nel controllo di nuovi mercati non ancora battuti.

L’impiego delle truppe dell’Esercito fedele ad Haftar per supervisionare il traffico dei migranti permette ai trafficanti di gestire indisturbati gruppi più grandi di persone e di conseguenza aumentare i profitti anche per i militari che prendono una quota.

Il 26 ottobre è stato un caso esemplare del trend, con due grandi imbarcazioni segnalate dall’ong Alarm Phone alla deriva tra le zone di ricerca e soccorso maltesi e italiane con a bordo oltre 1.300 migranti. Le due navi erano partite proprio da Tobruk, nella cui campagna erano stati trovati i 287 migranti egiziani. Questi numeri dall’Est sono il risultato di un cambiamento avvenuto negli ultimi anni e che ha visto moltiplicare e professionalizzare i protagonisti attivi lungo la rotta. Come in un lungo ingranaggio di produzione in cui ogni operaio mette al servizio la sua competenza per completare un prodotto, così i vari attori coinvolti nella tratta mettono al servizio il controllo del territorio, mezzi navali o terrestri per generare quello che per loro è un prodotto, una nave carica di persone, paganti, pronta a salpare.

Migrare dal Bangladesh

I migranti che arrivano nell’Est della Libia non sono solo egiziani. Tanti sono bengalesi: «Il Bangladesh è uno dei Paesi che maggiormente esportano forza lavoro nel mondo», afferma Benjamin Etzog, ricercatore presso il Bonn International Centre for Conflicts Studies (BICC), istituto di ricerca tedesco. «In qualche modo il Paese ne ha fatto una strategia economica e molte famiglie basano la loro sussistenza sulle rimesse, i soldi che i migranti inviano da Paesi esteri a casa», continua.

Per lasciare il Paese e garantirsi un lavoro una volta arrivati in territorio straniero, i migranti dal Bangladesh si affidano al dalal, termine che viene benevolmente tradotto come “agente di viaggio” o broker. Il dalal viene rappresentato come un facilitatore del viaggio che riesce a fornire documenti e biglietti aerei. È stimato che circa l’80% dei migranti dal Bangladesh si appoggiano al dalal, figura presente nel villaggio o nelle campagne e conosciuto dalla popolazione locale o, in certi casi, vicina alla famiglia del migrante. Il prezzo che viene proposto per il trasporto e i servizi offerti è talmente alto che la famiglia è costretta a vendere le proprie terre pur di dare una possibilità ai propri figli.

Una delle prime tappe più battute sul percorso che li porterà poi in Libia è Dubai, dove, assicurano i dalal, si può trovare un buon lavoro per mantenere la famiglia che rimane a casa. In questo caso i dalal fanno le veci di compagnie di reclutamento fittizie basate negli Emirati il cui solo scopo è vendere illegalmente i visti lavorativi. Con la promessa di un lavoro, i migranti pagano fino a cinque volte il prezzo necessario per arrivare a Dubai e una volta arrivati si trovano in una posizione vulnerabile e facilmente sfruttabile, costretti a prendere i lavori più estenuanti per paghe misere.

Sfruttati e di fatto in balia dei datori di lavoro locali, hanno davanti a sé una scelta: tornare indietro o proseguire verso un’altra meta che possa garantire condizioni di vita migliori. Ma una volta che si è partiti per garantire un futuro alla propria famiglia tornare indietro non è un’opzione. Si decide dunque di proseguire, e di tentare la fortuna in un altro posto. È così allora che dagli Emirati Arabi Uniti partono in aereo per arrivare in Libia. Questi spostamenti sono resi possibili dai collegamenti tra le varie agenzie di viaggio che gestiscono il business della tratta di esseri umani.

«Queste agenzie sono un’evoluzione del dalal e tramite un sistema tra la legalità del volo e l’illegalità della corruzione e falsificazione di documenti, portano i migranti fino in Libia, a volte passando per la Turchia», dice Etzog. Il migrante paga in media 4.000 euro, e gli viene assicurato il viaggio, il pernottamento e un posto di lavoro quando arriverà alla sua meta finale.

Rispetto agli anni 2020 e 2021 in cui le città con il maggior numero di migranti provenienti dal Bangladesh erano nell’Ovest del Paese, una su tutte Tripoli, nel 2022 Benghazi, nell’Est, è al primo posto con oltre 5.600 persone presenti. I migranti bengalesi sono il gruppo con maggiori risorse a disposizione grazie ai legami familiari sparsi nel mondo e perciò conviene ai trafficanti mantenere attive le rotte migratorie e fornire i mezzi adeguati per il raggiungimento dell’obiettivo, così da fornire un’offerta costante alla sempre presente domanda. Se i migranti invece non possiedono abbastanza soldi da potersi garantire un posto sulle navi allora il tempo che dovranno restare in Libia aumenterà, con il conseguente aumento dei rischi a cui saranno sottoposti.

Questo è stato il caso raccontato dalla BBC di alcuni migranti arrivati dal Bangladesh con la prospettiva di lavorare in una fabbrica di Benghazi per poter guadagnare circa 450 euro al mese e poter così inviare soldi alla famiglia. Persuasi e aiutati dai dalal, sono giunti all’inizio del 2020 nell’Est libico per poi essere immediatamente presi dai trafficanti e portati in prigione e alle famiglie è stato chiesto un riscatto. Chi non può pagare il riscatto rischia di subire ulteriori abusi e torture nei centri di detenzione e, nei casi più estremi, morire. Anche una volta pagato il riscatto il migrante non sempre viene liberato, e prima di poter andare viene trattenuto dai suoi sequestratori per lavorare forzatamente in una fabbrica o in uno stabilimento, con con razioni misere di cibo e controllato a vista da guardie armate.

CREDITI

Autori

Fabio Papetti

Editing

Lorenzo Bagnoli

In partnership con

Foto di copertina

Una foto scattata il 2 luglio 2022 all’esterno del palazzo del governo della fazione dell’Est della Libia, a Tobruk, a seguito del saccheggio e delle proteste da parte della popolazione locale
(Getty)