Il business della reputazione conquista l’Italia, la saga di Didac Sanchez e Enea Trevisan

#StoryKillers

Il business della reputazione conquista l’Italia, la saga di Didac Sanchez e Enea Trevisan

Raffaele Angius
Lorenzo Bagnoli

Aggiornamento 27 marzo 2023: vedi box a fine articolo

Come nella migliore tradizione dell’industria tecnologica, Diego Jiménez Sánchez ama rappresentare sé stesso come un imprenditore che si è fatto da solo, covando le idee migliori in uno scantinato o – come in questo caso – in un orfanotrofio. È qui che il trentenne imprenditore spagnolo sostiene di aver iniziato a smanettare con il computer per scappare dalla famiglia disagiata. A soli vent’anni, dice, ha avuto l’idea di costituire Eliminalia, società che da un decennio promette di cancellare dal web il passato dei suoi clienti, purché ben paganti, in tutto il mondo. La ragione è da trovarsi nelle sue vicende personali: abusi e violenze sessuali subìte e poi raccontate dai giornali. Informazioni erogate dai motori di ricerca non appena si inseriva il suo nome online e che, come raccontava lui stesso al Corriere della Sera, gli impedivano di trovare lavoro e acquisire clienti.

È il 2011 e sono gli anni in cui in Europa prende forma il tema della privacy, si configurano i prodromi del Regolamento generale per la protezione dei dati personali (Gdpr) e il diritto all’oblio è sempre più urgente nel dibattito pubblico. Da qui nascerebbe l’intuizione di Didac (Diego in catalano).

Il progetto #StoryKillers ha scoperto come Eliminalia sia una delle aziende che più di tutte, negli ultimi anni, ha sviluppato capacità di reputation laundering, lavanderia reputazionale, su scala globale. Indispensabile precisare come il diritto all’oblio sia necessario per controbilanciare l’effetto che l’informazione può avere sugli individui, spesso fragili o vittime di un sistema che li ha portati a delinquere. Certamente a loro spetta il diritto, pagato il proprio debito con la società, di essere riabilitati. E non vi è dubbio che la possibilità di non essere costantemente associati agli errori del passato sia indispensabile a rendere concreto il principio secondo il quale la punizione deve «tendere alla rieducazione del condannato», come recita l’articolo 27 della Costituzione italiana. Ma non è questo il cliente-tipo di Eliminalia.

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L’inchiesta #StoryKillers

Due persone condannate per traffico di droga, una accusata di riciclaggio di denaro per un giro di prostituzione, altri due condannati per aver contribuito a realizzare una truffa sulle criptovalute che ha rubato miliardi di dollari agli investitori. Sono alcuni dei circa 1.400 clienti – tra cui dozzine di condannati o indagati – che hanno assunto Eliminalia (a fine dicembre 2022 ribattezzata iData Protection S.L.) per “cancellare il proprio passato”.

Cinquantamila documenti interni ottenuti da Forbidden Stories e condivisi con un gruppo di 30 testate, tra cui IrpiMedia, hanno permesso di mappare la rete di influenze digitali operate da Eliminalia in tutto il mondo. Oltre ai clienti, spesso insoddisfatti dai risultati dell’azienda, i documenti interni permettono di ricostruire anche le tecniche impiegate da Eliminalia, che fa ricorso alle leggi su privacy e diritto d’autore per intimidire i giornalisti e manipolare i risultati dei motori di ricerca, quando non impersonano membri dell’Unione europea per dare un tono più ufficiale alle diffide inviate alle testate giornalistiche. Metodi suggestivi e capaci di attrarre i peggiori criminali e cleptocrati, che per anni hanno potuto contare sui servizi offerti da Didac per dare un colpo di spugna al loro passato. Eliminalia è una delle teste dell’idra della disinformazione, l’industria sulla quale indaga il progetto #StoryKillers.

Una storia torbida

«Mi ha fatto molto male trovare riferimenti a ciò che era accaduto nella mia infanzia su internet – scrive Sanchez nella sua autobiografia, Il segreto del successo –. Ho iniziato a studiare come [cancellare i riferimenti] e in poche settimane sono riuscito a cancellare la maggior parte di ciò che era stato scritto. Così ho visto che c’era un mercato per questo e ho creato Eliminalia». L’intuizione funziona: i servizi dell’imprenditore prendono piede e questo gli permette di cambiare vita. Ville costose, auto di lusso e abiti eleganti ornano il piccolo impero di cui fa vanto nelle interviste che elargisce generosamente in giro per il mondo. Il matrimonio in Ucraina con una star della televisione locale, a giugno del 2021, è da rotocalchi.

Un’ombra dal passato turba però la favola di riscatto del giovane prodigio Didac Sanchez: porta il nome di un ricco notaio spagnolo, Jose Maria Hill Prados. Secondo quanto stabilito da un tribunale spagnolo nel 2007, ha abusato sessualmente di Didac Sanchez e di sua sorella. Era stato proprio Sanchez ad accusarlo, salvo poi ritrattare appena un anno dopo, sostenendo di averlo fatto sotto pressione da parte delle forze dell’ordine. Non è mai stato chiaro cosa sia successo tra i due, ma la corte spagnola non crede alla ritrattazione della vittima e respinge un ricorso presentato da Hill Prados.

Nonostante i trascorsi, durante il banchetto nuziale di Sanchez, Jose Hill Prados siede al tavolo degli sposi. I due sono soci in affari dal 2015, quando il notaio ha finito di scontare la sua pena in carcere. Il suo nome compare tra manager e azionisti di società in Ucraina che appartengono allo stesso gruppo di Eliminalia.

A sinistra un’immagine di Hill Prados e a destra un frame del matrimonio di Sanchez, confrontati per accertare che il notaio fosse effettivamente presente – Occrp
Jose Maria Hill Prados durante il matrimonio di Didac Sanchez – Screenshot da @JS_Wedding_Events/YouTube.com

Gli investigatori spagnoli sospettano che sia Hill Prados il vero responsabile delle fortune di Sanchez. A giudicare dalle ricerche che si possono effettuare su Google, potrebbe anche essere stato uno dei primi a utilizzare la lavanderia reputazionale: il motore di ricerca più famoso del mondo – titolare del 91,88% delle ricerche che avvengono sul web – non dà infatti notizie sul suo conto. I risultati sono stati rimossi o, come si dice in gergo, deindicizzati. Hill Prados e Sanchez non hanno risposto a una richiesta di commento.

Le accuse di traffico di bambini

Almeno fino a prima dello scoppio della guerra, l’Ucraina – Paese natio della moglie – è stato il cuore degli affari di Didac Sanchez. È a Kyiv che ha sede la Maidan Holding, società che controlla tutto il gruppo societario di Sanchez, con investimenti nel campo medico, nel marketing, negli strumenti finanziari e nelle nuove tecnologie.

Tra le varie aziende di Sanchez compare anche Subrogalia, società specializzata in maternità surrogata e che individua prevalentemente in Ucraina le donne in grado di condurre una gravidanza “conto terzi”. Secondo i registri commerciali, Sanchez apre Subrogalia in Spagna nel 2013. Poco tempo dopo Hill Prados esce di prigione e fondano assieme una società con lo stesso marchio in Ucraina. Poi Hill Prados acquisisce il controllo della maggioranza delle quote. Un impiegato della società ucraina contattato da Occrp sostiene di aver sempre ritenuto che Hill Prados fosse il suo capo. L’impresa viene coinvolta in alcuni scandali ed è stata indagata in almeno due Paesi per reati che includono la vendita di neonati e la fornitura a “clienti” di bambini non biologicamente loro. Subrogalia nel 2019 è stata obbligata a risarcire alcuni clienti per «grave inadempienza».

«Abbiamo pagato tutto due volte»

In un probabile tentativo di salvare il proprio business dalle polemiche, nel 2017 Subrogalia cambia nome: la società ucraina viene rinominata Eurosurrogacy, mentre quella spagnola diventa Gestlife.

IrpiMedia è riuscita a contattare una delle clienti di Gestlife, alla quale si è rivolta nel 2020 per affidare a una madre surrogata ucraina la propria gravidanza. Irene (nome di fantasia), accusa la società di truffa. Quando l’Ucraina è stata invasa dalla Russia, Gestlife ha chiesto ai propri clienti di pagare il trasferimento delle madri surrogate in Georgia, dove oggi opererebbe il gruppo di Hill Prados e Didac Sanchez. Nonostante avesse già pagato intorno agli 80 mila euro, Irene ha accettato: garantire la vita della gestante di suo figlio era la priorità. La preoccupava però il fatto che trasferendosi in Georgia sarebbe cambiato il contesto legale dell’affido di un figlio da una madre surrogata.

Andare all’estero per le famiglie italiane che vogliono un figlio in surrogazione è l’unica strada possibile, visto che la pratica è vietata nel nostro Paese. Mentre l’Ucraina è un Paese noto per la semplicità dell’affido dei neonati, la Georgia è un mercato meno esplorato. Gestlife aveva dato garanzia che non sarebbe cambiato nulla, invece le leggi georgiane si sono rivelate più stringenti. Irene si era premurata di avere conferma che in termini di costi e di procedure legali per ottenere l’affido del bambino il suo contratto rimanesse invariato. Non è stato così: «Tutto quello che era compreso dal nostro contratto, lo abbiamo pagato due volte. Alla fine abbiamo speso 14 mila euro che non erano preventivati», spiega.

Ha passato cinque mesi in Georgia aspettando di ottenere i permessi per rientrare in Italia e sostiene di aver dovuto coinvolgere un proprio team di avvocati per poter tornare in Italia con il proprio bambino. Irene ha già reso nota la sua vicenda su Il Fatto quotidiano e SkyTg24. Rendendo pubblica la sua vicenda, sta sfidando una «speciale clausola di confidenzialità, rispetto e non aggressione dell’immagine del cliente, dell’azienda e dei suoi dipendenti» la cui trasgressione comporterebbe una penale di ulteriori 14 mila euro, stando al contratto con Gestlife che IrpiMedia ha potuto visionare.

Dal registro imprese ucraino, risulta che Didac Sanchez non abbia ruoli in Gestlife dal 31 dicembre 2017. Tuttavia, documenti ottenuti da IrpiMedia dimostrano che il passaggio di mani non è stato lungo e anzi è rimasto in famiglia: a firmare il contratto di Irene è Alan Alexis Hill Prados, uno di quattro figli adottivi di origine russa adottati negli anni Novanta dal notaio spagnolo quando erano ancora bambini, attraverso una fondazione da lui stesso creata. Nel documento Alan Alexis è definito «amministratore della società Assistance Group Llc […] con sede legale a Vyshhorodska, Kyiv, Ucraina […] operante con il marchio Gestlife». Al matrimonio di Didac Sanchez, che più volte ha preso pubblicamente distanza dalla società, anche Alan Alexis risultava seduto al tavolo degli sposi. Raggiunto da Occrp, non ha risposto a una richiesta di commento.

Come opera Eliminalia

Eliminalia dispone di diversi strumenti per spingere o distruggere i contenuti.

Richieste di rimozioni articoli alle testate

Il primo strumento è il form utilizzato da Raùl Soto con Osservatorio Diritti. Anche IrpiMedia ne ha ricevuti diversi e non solo da Eliminalia. Il database di documenti ottenuto da Forbidden Stories conta centinaia di richieste simili inviate indicando come indirizzo email di contatto legal-abuse.eu@pec.it o italy@abuse-report.eu. La maggior parte sono a nome di Soto. Le richieste seguono un modello pre-configurato: la struttura e i riferimenti legali si ripetono e hanno un tono intimidatorio – anche l’indirizzo email indicato allude in modo fraudolento a un ufficio della Commissione europea.

A una lettura più attenta, però, le motivazioni della richiesta di diritto all’oblio non sono mai ben dettagliate tranne che per l’aspetto temporale: la notizia sarebbe «vecchia e irrilevante». Spesso non si specifica se effettivamente i dettagli relativi alla persona coinvolta siano scorretti o se la situazione processuale sia cambiata, sembra che nessuno abbia davvero letto il pezzo in questione. In alcuni casi, le richieste fanno riferimento a un potenziale reato di diffamazione, mentre in altri casi si parla solo di violazione dei dati personali in riferimento alla possibilità di esercitare il diritto all’oblio. Le richieste non sono accompagnate nemmeno dall’atto del cliente con il quale conferisce potere a Eliminalia di agire a suo nome, come è stato fatto notare dal Tribunale di Civitavecchia in una risposta inviata dopo aver ricevuto la richiesta da Raùl Soto.

Richieste di rimozione articoli a Google

Negli Stati Uniti la legge sul copyright si chiama Digital Millennium Copyright Act (Dmca). Dà la possibilità agli utenti di chiedere alle aziende con sede negli Usa che offrono servizi online, vedi Google, di rimuovere i link di contenuti copiati. Nel caso di Eliminalia, centinaia di richieste per rimuovere articoli in italiano sono state depositate spacciandosi per impiegati di gruppi editoriali, da Repubblica a Il Giornale, da La Stampa a Il Sole 24 Ore. Spesso Eliminalia copia e retrodata il contenuto che vuole sia rimosso.

Lo scopo è fare da esca con centinaia di blog e siti creati appositamente: attraverso l’articolo retrodatato chiedono la rimozione dell’originale. Se Google ci casca, l’obiettivo è raggiunto. Nel database di #StoryKillers risultano oltre duemila richieste di rimozione Dmca fatte da Eliminalia. Il proprietario della società di reputazione, Didac Sanchez, secondo diversi professionisti che abbiamo sentito, si è presentato come “l’inventore” dell’impiego delle false richieste per la violazione del copyright. Google, nelle risposte ai reporter di #StoryKillers, sostiene di opporsi attivamente alle richieste finte e afferma di accogliere principalmente quelle di giornalisti con un pregresso di domande già accolte. Ciò non toglie che Google, per il Dmca, possa ritenersi estraneo alla violazione solo se interviene dopo poco (l’azienda dichiara in media sei ore) che è al corrente di un contenuto copiato. Il fattore tempo, in casi “in bilico”, può quindi spingere per la rimozione. Rimettere online un contenuto rimosso è un procedimento molto difficile. Google riceve anche richieste di rimozione per violazione del Gdpr.

Secondo i dati della società, nel corso del 2022 sono state depositate 1,4 milioni di richieste per 5,3 milioni di link. Sono numeri doppi rispetto a quelli registrati nel 2017, e per i quali è impossibile stabilire gli effetti. L’aumento delle richieste è esponenziale, quello delle rimozioni ha una curva meno accentuata.

Costruzione e diffusione di fake news

Quando Eliminalia non riesce a far rimuovere i link allora cerca di farli scomparire “sotterrandoli” sotto una mole di articoli falsi che, sfruttando tecniche di posizionamento sui motori di ricerca, riescono a scalzare gli articoli legittimi spingendoli nel dimenticatoio della seconda o terza pagina di Google.

Qurium ha individuato oltre tremila articoli falsi, raccolti su 600 siti web, collegati ai nomi di 48 clienti di Eliminalia. Gli articoli includono il nome del cliente nell’url del link e riportano spesso il suo nome nel testo del pezzo. Il contenuto è totalmente inventato.

Tutti questi siti web presentano degli elementi in comune, come la stessa informativa privacy e pagina sui diritti d’autore, e tutti erano registrati in un primo momento a nome dell’azienda Communication Media Group Ltd, con sede in un business center del paradiso fiscale caraibico di Saint Kitts & Nevis. IrpiMedia ha verificato la presenza nel leak di screenshot che mostrano la tecnica in azione: in rosso sono indicati articoli negativi, in verde invece quelli positivi pubblicati su siti web sotto il controllo di Eliminalia che avanzano nei risultati di ricerca.

Backlinking

Tra le tecniche usate da Eliminalia per far scalare la classifica dei risultati ai propri articoli fasulli, c’è quella di condividere i link su forum e blog. Infatti, tra i fattori che Google tiene in considerazione per decidere la posizione di un link tra i risultati di ricerca c’è il backlink, ovvero quante volte quel link sia stato incluso in altri siti web. Un’inchiesta esclusiva finirà in alto tra i risultati anche perché tutte le altre testate includono il link all’inchiesta nei propri articoli. Per manipolare i risultati di ricerca si possono quindi creare backlink verso siti web fasulli. Qurium ha individuato un forum su cui Eliminalia ha postato migliaia di backlink per permettere di far scalare i risultati della ricerca ai propri articoli falsi. In questo modo le notizie rilevanti sarebbero sommerse dai risultati scelti da Eliminalia.

Italian connection

Il burrascoso e opaco passato di Hill Prados e Sanchez dimostra che la manipolazione della reputazione online è indispensabile per nascondere il passato delle stesse persone che la vendono. Numerose persone informate sui fatti raggiunte da IrpiMedia sostengono in realtà che Eliminalia non fosse nemmeno realmente in grado di raggiungere i risultati promessi. Tuttavia, secondo quanto osservato per i clienti italiani – il secondo mercato di Eliminalia dopo la Spagna, stando ai dati di #StoryKillers – diversi beneficiari dei servizi dell’azienda di Didac Sanchez da clienti sono diventati a loro volta portavoce, tessitori di relazioni, intermediari pagati su commissione. Non è del tutto chiaro come questo avvenga, ma i dati raccontano che se un banchiere si rivolge a Eliminalia, allora è possibile che ne diventi ambasciatore negli ambienti della finanza. Altrettanto avviene quando il cliente viene dal mondo dello spettacolo.

Tra i tanti che cercano un posto all’ombra nel solleone dell’attenzione mediatica c’è Enea Angelo Trevisan, imprenditore originario di Pordenone. Come in una storia che si ripete, anch’egli racconta di essersi fatto da solo e, ancora una volta, attribuisce la sua intuizione nel campo della gestione reputazionale all’esigenza di far sparire gli articoli che lo riguardano.

È dal primo decennio degli anni Duemila che la stampa friulana racconta la cronaca di tre aziende di famiglia, di cui era stato amministratore unico e amministratore di fatto. Dopo il loro fallimento, Trevisan è stato indagato per bancarotta fraudolenta e condannato in via definitiva (la Cassazione ha dichiarato inammissibile il suo ricorso nel 2022). Trevisan, si legge nel dispositivo, è sempre stato il «dominus» delle operazioni.

Dal database dei documenti di #StoryKillers, risulta che Trevisan abbia firmato un contratto con Eliminalia nell’ottobre del 2016 per rimuovere o deindicizzare sei articoli di testate locali pubblicati qualche anno prima. Nello stesso periodo esce la notizia che la sua Sabra Holding ha ricevuto da Eliminalia il compito di procurare clienti dall’Italia e dalla Svizzera. L’articolo sarà poi eliminato nel 2020, stando a quanto riporta il database. Ancora, in un contratto ottenuto da IrpiMedia, risalente al 2017, si legge che il servizio viene erogato dalla società Sofiswiss, parte del gruppo Sabra Holding, e titolare dell’esclusiva per l’Italia e la Svizzera dei servizi a marchio Eliminalia.

In una mail tra il country manager italiano e i colleghi della sede spagnola di Eliminalia è chiarito l’accordo tra i due: «Come al solito ti ho indicato quello che per noi è il prezzo da dividere al 50% Enea e 50% Didac». In pratica, Enea Trevisan procurava alcuni clienti, in special modo provenienti dal mondo delle imprese, e li passava a Eliminalia che poi faceva il lavoro vero e proprio. In cambio, prendeva una quota del 50% sul singolo cliente. I contratti stabiliti da società di Trevisan, negli anni di collaborazione con Eliminalia, sono circa un centinaio. Il sodalizio tra Sanchez e Trevisan si conclude in tribunale per divergenze di visione sul futuro della società tra la fine del 2017 e i primi mesi del 2018: Trevisan trasforma la milanese Eliminalia IT srl in una nuova società, Ealixir, mentre Sanchez continua a lavorare con il brand Eliminalia, di cui diventa l’unico proprietario.

I riferimenti alla collaborazione tra Trevisan e Sanchez, durata diversi anni, sono stati almeno in parte rimossi dalla rete. L’imprenditore friulano promuove la sua azienda ribadendo anche lui la stanca narrativa dell’uomo che si è fatto da solo e – come Didac Sanchez – elargisce interviste e nel 2019 pubblica un’autobiografia dal titolo Volevo essere nessuno. Qualunque riferimento all’impresa con Sanchez ed Eliminalia è omessa. Ealixir in una mail a IrpiMedia dichiara di operare in 28 Paesi, con sei uffici e circa 50 dipendenti.

A differenza di Eliminalia, Ealixir ha però stipulato prestigiose convenzioni con gli Ordini degli avvocati di Roma e Milano. Tuttavia non è chiaro come sia possibile che Ealixir – che dichiara di avere al suo interno un dipartimento legale – possa essere promossa dagli Ordini senza che questo attesti un conflitto d’interessi inappropriato per degli enti pubblici. Contattato per un parere, l’avvocato Aldo Luchi, già presidente dell’Ordine degli avvocati di Cagliari, precisa che per quanto le convenzioni di un ordine professionale vengano stipulate a titolo gratuito, la loro sola esistenza conferisce all’azienda convenzionata un’apparenza di affidabilità in quanto gli iscritti danno per presupposto che l’Ordine abbia effettuato una due diligence prima di stipulare la convenzione.

Se l’avessero fatto avrebbero scoperto che l’azienda non è «quotata al Nasdaq di New York», come si legge nella proposta inviata da Trevisan ai due ordini per ottenere la convenzione, concetto ribadito dall’imprenditore a IrpiMedia. Ealixir risulta quotata nel «listino rosa» Otc Markets Group – una sorta di listino delle piccole e medie imprese Usa – in cui gli scambi a basso prezzo impongono obblighi di rendicontazioni molto più leggeri rispetto al Nasdaq. Gli Ordini degli avvocati di Roma e Milano non hanno risposto a una richiesta di commento.

Ma le ambizioni di Ealixir non sembrano trovare requie e adesso è la volta delle testate giornalistiche che, forti del loro posizionamento privilegiato agli occhi dei motori di ricerca, «costituiscono una risorsa di incalcolabile valore per chi si occupa di reputazione online e per chi vuole manipolare i risultati dei motori di ricerca», ha spiegato a IrpiMedia un esperto.

Ed è precisamente questa l’intenzione con cui, nel 2020, Ealixir ha tentato di acquistare la testata online Dagospia. Tuttavia l’affare è saltato, apparentemente a causa delle indiscrezioni pubblicate su alcuni quotidiani in merito alla trattativa. «Magari ai primi di gennaio vi daremo questa bella news», dice Trevisan. IrpiMedia non ha più ricevuto notizie.

La contesa sulle tecniche e sui clienti

In un colloquio con IrpiMedia, Trevisan riconosce di aver acquisito le tecniche di Eliminalia, così come parte dei suoi dipendenti. «Però noi lo facciamo in maniera diversa: loro facevano esattamente quello che fanno le nostre competitor in Italia. Arriva un cliente, mandano una letterina al giornale e mandano una letterina a Google, punto. Noi questa cosa qui l’abbiamo portata molto avanti. Stiamo lavorando con l’intelligenza artificiale e la ricerca semantica», chiosa: «Ci sono anni luce rispetto a quello che facevano in Eliminalia rispetto a quello che facciamo noi oggi».

Dalla sua posizione privilegiata, Trevisan ha modo di osservare in prima persona le tecniche di Eliminalia. Comprese quelle chiaramente illegali come il fingersi l’autore originale di specifici articoli per farli rimuovere da Google. «È una truffa per cui la Comunità europea ha sanzionato Eliminalia – spiega Trevisan -. Quando i banditi imparano una strada cercano di ripercorrerla molte volte. [È bastato che Google] facesse una telefonata al giornalista chiedendo quale dei due era stato pubblicato prima. È venuto fuori un mezzo casino». L’imprenditore sostiene che Didac Sanchez raccontasse di fatturare 60 milioni di euro: «L’ha scritto anche il Corriere della Sera, ma è una balla clamorosa, fatturava 800 mila euro». Ciononostante Trevisan, che riferisce di essere laureato in economia alla Bocconi, entra in società con lui: «Capisco immediatamente se uno fattura 60 milioni o 900 mila». Evidentemente però l’ha capito tardi, o non gli interessava.

«Quando incontro questo ragazzo [Didac] di tre link uno me lo toglie lui», riferisce Trevisan descrivendo la nascita del rapporto con l’imprenditore catalano: «Così io gli compro il 50% di Eliminalia». Dai registri imprese non emerge che Trevisan abbia acquistato delle quote della società di Sanchez, tuttavia in Svizzera risulta l’amministratore di Eliminalia Holding, società svizzera attiva per meno di due anni, tra il 2017 e il 2019, di cui non si conosce il nome dei soci in quanto il capitale è suddiviso in azioni al portatore. Sono proprio gli anni in cui sarebbe avvenuta l’acquisizione. Trevisan addebita la successiva rottura con Sanchez al tentativo di quest’ultimo di rubargli i clienti per estrometterlo dal business. A una ulteriore richiesta di chiarimenti riguardo le tecniche fraudolente adottate da Eliminalia per la rimozione dei contenuti online, Trevisan non ha commentato.

Tra i clienti più noti entrati in Eliminalia nel periodo di Trevisan c’è il broker Gianluigi Torzi, attualmente coinvolto in diverse indagini per frode e a processo in Vaticano per l’acquisto dell’immobile di Sloane Avenue con i soldi dell’Obolo di San Pietro. Dal database di #StoryKillers risulta che Torzi sia stato cliente di Eliminalia tra novembre 2017 e gennaio 2018. I sei contenuti che Torzi voleva rimuovere attraverso Eliminalia, tra cui c’è anche una sentenza su Italgiure, il sito della Cassazione, a oggi sono quasi tutti eliminati o deindicizzati.

Anche Enrico Danieletto, come Torzi, è un broker italiano di casa a Londra. La sua firma e il suo documento di identità compaiono nella procura conferita a Eliminalia da Pairstech Capital Management LLP. Nel 2019 e nel 2020 Pairstech ha pagato Eliminalia per tentare (invano) di deindicizzare due link de Il Sole 24 Ore. Nel 2020 la stessa Pairstech ha sottoscritto un accordo di placement and arrangement agreement, per ottenere un aumento di capitale di cinque milioni di euro a favore di Ealixir, la società di Trevisan. Torzi e Danieletto sono stati contattati via email ma non hanno dato alcun riscontro alle nostre domande.

Eliminalia dopo Trevisan

Dopo Ealixir, Eliminalia ha trovato nuovi partner per procacciarsi clienti sul mercato italiano. Alla fine del 2018, nel database di #StoryKillers appare il primo contratto firmato da ReputationUp. L’amministratore delegato è l’imprenditore italiano Andrea Baggio. È sua la società alla quale si era rivolto Piero Amara, come abbiamo raccontato nella puntata precedente. In diverse conversazioni via email con IrpiMedia, Baggio ha spiegato di conoscere Eliminalia «perché in passato, dopo essersi avvicinata a noi, si è avviata una collaborazione, da noi interrotta dopo poco tempo». Da quanto risulta nel database di #StoryKillers però, ci sono contratti di ReputationUp che risalgono alla fine del 2020. Ha aggiunto di aver «deciso di bloccare qualsiasi tipo di rapporto non appena ci siamo accorti che il loro modo di operare non era congruente con le nostre best pratices», da intendersi come pratiche con le quali vengono gestiti i clienti.

In una conversazione telefonica, Baggio ha precisato che mentre ReputationUp si è sempre dedicata solo e soltanto alle richieste per chi rientra nella casistica del diritto all’oblio, Eliminalia non faceva lo stesso. Non ha però commentato sul fatto che nessuno dei clienti contattati dai giornalisti tra coloro che hanno firmato contratti con ReputationUp fosse a conoscenza del fatto che Eliminalia avesse svolto per loro qualche servizio. Dal database risulta che lo stesso Baggio sia stato cliente di Eliminalia nel 2020 allo scopo di eliminare il proprio numero di telefono da siti come chi-michiama.it o telspy.org.

Dal 2019 in avanti a fornire clienti a Eliminalia c’è anche Digitallex: «Cancelliamo il tuo passato per proteggere il tuo futuro» è il claim del sito web. Era la società a cui si è rivolto l’ex manager di Eni Leonardo Bellodi, che ha dichiarato a IrpiMedia di non sapere che alcuni servizi per l’eliminazione dei contenuti a suo carico venissero subappaltati a Eliminalia. Il brand per un primo anno è stato di proprietà di Studium srl, anch’essa cliente di Eliminalia tra il 2019 e il 2020. Le indagini della Guardia di finanza di Roma citano Studium srl in un’inchiesta che riguarda Francesco Polidori, fondatore dell’istituto di formazione CEPU. L’imprenditore, assieme ad altri, ha commesso reati di bancarotta fraudolenta, auto-riciclaggio e sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte.

Dal 2020, il marchio Digitallex è di proprietà di Prontoavvocato, società che si occupa di mediazioni e altri servizi legali. È controllata da due membri della famiglia Polidori e da Monte Finanziario Europeo srl, sempre di proprietà della famiglia dei fondatori di CEPU. Nessuna società del gruppo Polidori ha voluto rispondere alle domande del consorzio di giornalisti. Polidori è anche proprietario di Polimedia, società che ha acquistato Corriere dell’Umbria, Corriere di Siena, Corriere di Arezzo e Corriere della Maremma a dicembre 2022. I desideri degli imprenditori della reputazione, in fondo, sono sempre gli stessi.

 

L’articolo è stato corretto in data 20 luglio e 11 settembre. In una prima versione, due link de IlSole24Ore erano stati cancellati da Eliminalia, mentre c’è stato il tentativo di deindicizzarli.

 

Aggiornamento: Google ci ha notificato che questo articolo è stato rimosso dai risultati di alcune stringhe di ricerca

Non sono passati nemmeno trenta giorni dalla pubblicazione di questo articolo, che Google ne ha disposto la deindicizzazione dal suo motore di ricerca, «ai sensi delle leggi europee per la protezione dei dati». Lo ha appreso la redazione di IrpiMedia alle 12:12 del 23 marzo 2023, quando una email inviata dal colosso di Mountain View ci ha informati che «a seguito di una richiesta presentata ai sensi delle leggi europee per la protezione dei dati, Google non può più mostrare una o più pagine del tuo sito nei risultati della Ricerca Google».

Una piccola censura dunque, quella adottata da Google (che poi è tornata sui suoi passi, come vedremo), che non ha reso irraggiungibile l’inchiesta, ma l’ha sottratta alla vista dell’utente che dovesse cercare una specifica stringa di testo (a noi sconosciuta) nel motore di ricerca: quasi certamente il nome di uno dei protagonisti della nostra storia.

Ed ecco verificarsi ancora una volta quanto racconta l’inchiesta #StoryKillers: sfruttando le falle del Regolamento generale per la protezione dei dati personali, alcune aziende e professionisti hanno perfezionato l’arte del manipolare i risultati forniti dal motore di ricerca, così da risultare immacolati a chiunque ne cerchi il nome online. «Google interviene immediatamente così come dispone la normativa statunitense – spiega a IrpiMedia un esperto – ma soprattutto lo fa perché non si dica che occorre una vigilanza esterna».

E di certo non è questo il caso in Italia, dove l’agenzia titolare di questo tipo di controlli dovrebbe essere Agcom, che non ha mai risposto a una nostra richiesta di commento.

A un primo controllo su Google, è stato possibile riscontrare che dei protagonisti della nostra inchiesta, l’unico nome che tra i risultati ha smesso di produrre l’articolo di IrpiMedia sia stato quello di Enea Angelo Trevisan. L’imprenditore, originario di Pordenone, racconta di sé di essere specializzato nel diritto all’oblio e nell’arte di far sparire i contenuti sgraditi dalla rete. È lui il principale promotore dell’espansione di Eliminalia tra Svizzera e Italia in affari con l’imprenditore spagnolo Didac Sanchez. Poi scaricato, quest’ultimo, così che Trevisan potesse espandere in autonomia il suo business personale sotto le insegne della società Ealixir. Con quest’ultima l’imprenditore ha millantato una quotazione al Nasdaq e ottenuto crediti tali da diventare un interlocutore per enti pubblici come gli Ordini degli avvocati di Roma e Milano, che con lui hanno persino stipulato delle convenzioni professionali.

Le sue vicende sono centrali nell’inchiesta di IrpiMedia deindicizzata da Google. Cercando il nome di Trevisan, abbiamo riscontrato la presenza del nostro articolo fino alle 15:40 del 23 marzo. Da quel momento e per le 24 ore successive, qualsiasi stringa di ricerca inerente Trevisan ometteva la nostra inchiesta, anche se venivano utilizzati gli apici (Enea Trevisan “IrpiMedia”) che forzano il provider a fornire esclusivamente risultati contenenti quella specifica parola. In fondo alla pagina di Google, si legge che «Alcuni risultati possono essere stati rimossi nell’ambito della normativa europea sulla protezione dei dati», formula standard che segnala la scomparsa di qualche risultato dal motore di ricerca.

Solamente dopo una richiesta di commento inviata a Google, per la quale IrpiMedia ha dovuto condividere con l’azienda i dettagli della deindicizzazione, il giorno dopo il motore di ricerca ha iniziato nuovamente a mostrare il nome di Trevisan associato all’inchiesta di IrpiMedia, tra i primi risultati. Il tutto è avvenuto informalmente e in modo arbitrario, senza che la testata adisse la procedura di contestazione della decisione di deindicizzare l’articolo. Non è chiaro sulla base di quali regolamenti Google abbia adottato la misura censorea, né quale sia stato il processo che ha portato il motore di ricerca a smentirsi, annullando la deindicizzazione.

Contattato da IrpiMedia, Enea Trevisan non ha voluto rispondere a una richiesta di commento. Google non ha mai risposto alle domande di IrpiMedia. Anche Occrp, partner del consorzio #StoryKillers, ha ripreso la vicenda della strana deindicizzazione dell’articolo di IrpiMedia.

CREDITI

Autori

Raffaele Angius
Lorenzo Bagnoli

Ha collaborato

Riccardo Coluccini

Editing

Giulio Rubino

Infografiche

Lorenzo Bodrero

Illustrazioni

In partnership con

The Guardian
The Observer
Le Monde
The Washington Post
Der Spiegel
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Haaretz
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Radio Télévision Suisse
Folha
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IrpiMedia
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Der Standard
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I segreti di Eliminalia, la “lavanderia” della reputazione online

#StoryKillers

I segreti di Eliminalia, la “lavanderia” della reputazione online

Lorenzo Bagnoli
(con Raffaele Angius, Riccardo Coluccini)

La trama inizia a disvelarsi con l’inoltro di un’email alla mia casella di posta, il 2 febbraio 2021. Proviene dalla redazione di Osservatorio Diritti, testata online con cui spesso ho collaborato. L’oggetto è un’inchiesta che avevo scritto l’anno precedente. La pubblicazione, si legge, risale a «quasi un anno fa, quindi configura un profilo inadeguato». Il pezzo manca «di interesse sociale ad oggigiorno». Al netto dell’italiano un po’ traballante, il concetto è chiaro: la storia è vecchia e inattuale. La permanenza online delle notizie contenute nell’articolo, secondo l’obiezione del mittente, non è di alcun interesse e danneggia invece il protagonista dell’articolo a norma del Regolamento generale sulla protezione dei dati (Gdpr). Non è messa in discussione la verità dei fatti, quanto l’opportunità di rappresentarli in quel modo.

La missiva offre tre possibilità: la rimozione per intero dell’articolo, la deindicizzazione (ovvero l’oscuramento dell’articolo agli occhi dei motori di ricerca), oppure la sostituzione delle generalità dell’assistito con le iniziali di nome e cognome.

Le sfumature dell’oblio

Il General data protection regulation (Gdpr) è un regolamento europeo che disciplina il trattamento e la circolazione dei dati personali di cittadini e organizzazioni. In vigore dal 25 maggio 2018 in tutta l’Unione europea, si pone l’obiettivo di porre fine al Far West della gestione dei dati. Il termine comprende non solo informazioni anagrafiche e di contatto ma anche informazioni sanitarie, coordinate geografiche, informazioni storiche sulla nostra vita online, l’orientamento sessuale, le appartenenze politiche o religiose e molto altro.

Per quanto sia ancora difficile metterlo pienamente in atto, il regolamento Gdpr è la più avanzata legge in materia di tutela della privacy esistente. È anche la base su cui si poggia la richiesta di rimozione di articoli dal web. Il cuore è l’articolo 17: semplificando, afferma che quando i dati personali sono usati al di fuori dei confini stabiliti da chi li ha concessi, allora si può chiederne la rimozione. Tra le eccezioni, però, la prima riguarda il caso in cui un dato sia necessario per l’esercizio della libertà di espressione e di informazione. Quale diritto debba prevalere è spesso una decisione da prendere caso per caso. Qui però si apre il conflitto tra interpretazioni diverse di quali siano le implicazioni di deindicizzare o anonimizzare. La tendenza più recente, in Italia e in Europa, è spingere verso un’applicazione più ampia del diritto all’oblio. La riforma della Giustizia che porta il nome dell’ex ministra Marta Cartabia ha ulteriormente allargato l’ambito dell’oblio: dal primo gennaio 2023, chi è stato archiviato o assolto può chiedere la deindicizzazione dei propri dati personali.

La Corte europea dei diritti dell’uomo si è espressa due volte, nel 2021, sul limite tra libertà di espressione e diritto all’oblio. In entrambi i casi – uno riguardante il sito italiano (oggi chiuso) Prima da noi, l’altro riguardante l’archivio online del giornale belga Le Soir – ha stabilito che la deindicizzazione non è in contrasto con la libertà di espressione. In particolare, nella sentenza che riguarda Le Soir, ha affermato che la misura non ha modificato l’articolo in sé, in quanto l’originale cartaceo non era modificabile, «ma solamente la sua accessibilità sul sito del giornale». Il rischio però è stabilire per le notizie una “data di scadenza” e rendere sostanzialmente impraticabile la costruzione di archivi online con articoli di cronaca giudiziaria. Sul tema torneremo nell’ultima puntata della serie #StoryKillers.

Il pezzo della discordia, in realtà, è estremamente attuale, specialmente allora: parla di Piero Amara, ex legale esterno di Eni. La procura di Milano sospetta che abbia ordito, con altri complici, una trama per far deragliare il processo Opl 245. Le parole di Amara in quei giorni stanno spaccando la procura di Milano. Amara è la fonte che nel 2018 ha cominciato a rivelare i contorni di una presunta Loggia Ungheria, un sistema di potere che avrebbe avuto una grande capacità di influenzare la vita politica e giudiziaria del Paese, decidendo nomine e arrivando, in qualche caso, a influenzare l’andamento dei processi. Almeno fino al suo primo arresto nel febbraio 2018, è stato un depistatore reo confesso. Ancora nel 2023, le deposizioni di Amara continuano ad avere conseguenze giudiziarie. Resta ancora indagato o imputato in diversi procedimenti per calunnia, corruzione e frode fiscale.

Ho letto e riletto la mail, insieme a Marco Ratti, il direttore di Osservatorio Diritti. Non avevamo mai ricevuto un’email simile prima. Da un lato ci preoccupava, dall’altro, però, ci sembrava quasi “spam”. La firma in calce suonava posticcia:

Per quale motivo qualcuno di uno sconosciuto dipartimento che sembra legato alla Commissione europea avrebbe dovuto mandare un’email del genere? Perché non era un avvocato a prendersi carico della richiesta? Abbiamo così cominciato a cercare: l’indirizzo porta a un coworking di Bruxelles; Abuse-report.eu è un dominio inesistente; l’unico Raùl Soto di cui si trova traccia online è un deputato cileno che fa l’avvocato. Dopo una consulenza della legale dell’Ordine dei giornalisti di Milano, Marco ha deciso di ignorare la richiesta. Non c’erano scorrettezze, la notizia era ancora attuale.

Presa la decisione, l’email è finita immediatamente nel dimenticatoio sia per me, sia per Marco Ratti. A rileggerla oggi, appare invece come un presagio: messaggi simili sono diventati col tempo pressoché settimanali. Arrivano alle caselle di posta personali dei giornalisti e alle email delle redazioni, compresa la nostra. A volte sembrano “spam”, come quella di Raùl Soto; a volte prima di identificare l’articolo da rimuovere, cercano di instaurare un rapporto con i giornalisti, come se si trattasse di un favore da chiedere a un amico. Ogni email, che sia legittima o pretestuosa, va vagliata, perché contestare gli articoli è un diritto e correggerli in caso di errore è un dovere per chi scrive. Esiste il pericolo che altrimenti restino online dei contenuti effettivamente lesivi.

Trattare con attenzione i dati personali e glissare sugli aspetti del passato che non sono rilevanti per l’opinione pubblica sono due comportamenti prescritti dal Testo unico dei doveri del giornalista. Capita che, dopo la valutazione, qualche richiesta venga ignorata o che il nostro avvocato suggerisca una replica per respingere la richiesta al mittente. In entrambi i casi, segue spesso uno strano silenzio da parte degli scriventi.

L’inerzia, in realtà, è solo apparente: c’è un lavorio sotterraneo sugli url – le sequenze di lettere e numeri che identificano univocamente una pagina web – di cui nemmeno gli autori degli articoli o le testate si accorgono. È teso a “screditare” agli occhi di Google le notizie contestate, quindi farle scendere nella classifica dei risultati forniti dai motori di ricerca. Il lavoro è legale, per quanto a volte discutibile: chi cura l’immagine pubblica di aziende e volti noti può trovarsi a cercare di giustificare scelte ingiustificabili o cercare di cancellare indelebili macchie del passato. A svolgerlo al mondo ci sono circa duemila agenzie di “web reputation”.

Solo che alcune, come quella dell’avatar Raùl Soto, adottano tecniche fraudolente per arrivare al loro obiettivo. Negli ultimi anni, l’azienda per cui “lavora” Soto non solo si è specializzata nel manipolare l’indicizzazione dei siti web, ma ha anche cercato in silenzio di acquisire una fetta del mondo dell’informazione. Ha anche gestito clienti “in subappalto”, senza che questi ultimi ne fossero al corrente. Per scoprirlo, però, c’è voluto un database di 50 mila documenti che Forbidden Stories, l’organizzazione che ha coordinato l’inchiesta #StoryKillers, ha messo a disposizione di oltre cento colleghi grazie al supporto tecnico di Occrp.

Il progetto #StoryKillers

La disinformazione è un mostro a più teste: censura, autocensura, minaccia fisica, minaccia legale. La disinformazione distorce i fenomeni, cambia la percezione dell’opinione pubblica sugli eventi, radica falsi miti nell’immaginario collettivo. Tra le teste dell’idra, c’è anche la deindicizzazione o la rimozione degli articoli, come dimostra un database di 50 mila documenti ottenuto da Forbidden Stories.

L’organizzazione francese ha coordinato più di cento giornalisti di trenta testate internazionali. L’inchiesta si intitola #StoryKillers, un progetto collaborativo che nasce per indagare i mercenari della disinformazione, a partire dall’omicidio della giornalista indiana Gauri Lankesh, editor del giornale Lankesh Patrike, avvenuto nel 2017.

Invisibile, scomparso, anzi peggio, in seconda pagina di Google

Qurium – The media foundation è un’organizzazione non profit registrata in Svezia che si occupa di proteggere media indipendenti e attivisti nel campo dei diritti umani. Tord Lundström ne è il direttore tecnico ed è stato consulente di Forbidden Stories per #StoryKillers. Insieme ai suoi colleghi, ha scoperto che le email di Raùl Soto e di altri alias partivano sempre dall’Ucraina, da un’organizzazione che si chiama Eliminalia ed è stata fondata nel 2013 dal giovane imprenditore Diego Sanchez Jimenez, meglio conosciuto come Didac Sanchez. Nel gennaio di quest’anno ha cambiato nome in iData Protection.

La sede principale è in Spagna, gli uffici sono in Italia, Ucraina, Messico, Bolivia, Repubblica Dominicana, Ecuador, Georgia, Portogallo, Taiwan, Turchia, Svizzera, Gran Bretagna e Stati Uniti. In un volantino pubblicitario del 2018, dichiaravano di avere oltre 900 clienti da tutto il mondo e di aver rimosso «10.000 link». La controlla una holding con sede a Kyiv, in Ucraina, la Maidan Holding, a cui appartiene una galassia che conta oltre 50 società impegnate in vari settori, con sedi in nove giurisdizioni diverse. La Maidan Holding controlla una fondazione, una banca, una società di analisi dei contenuti online, uno studio legale, una società d’investigazione privata e, sorprendentemente, anche delle cliniche per madri surrogate.

«L’orientamento e il contenuto della maggior parte delle vostre domande dimostra un approccio fazioso e disonesto», è stata l’unica risposta che hanno ottenuto i giornalisti dalla società.

Di certo, la mission di Eliminalia è far sparire ciò che non è gradito ai propri clienti. Cancellarli non è l’unica strategia. Infatti un contenuto è tanto più “di valore” – cioè in grado di ottenere più click – quanto più appare in alto nei motori di ricerca: il 92,81% degli utenti desktop, infatti, clicca solo le strisce che si trovano nella prima pagina di Google e fa lo stesso l’84,22% di quelli mobile, secondo il rilevamento del 2019 di Advanced Web Ranking. Stabilire che cosa esce nella prima pagina di Google significa quindi decidere che cosa la stragrande maggioranza della popolazione leggerà di un determinato tema.

Se Google fosse la Borsa dei contenuti online, quindi, le chiavi di ricerca sarebbero diversi listini “chiusi”, mentre gli url sarebbero i titoli azionari. Coloro i quali fanno scendere e salire le quotazioni degli url, gli operatori della Borsa di Google, sono i reputation manager. Secondo la percezione comune, l’algoritmo che stabilisce la classifica dei risultati del motore di ricerca è una cabala misteriosa. Almeno in parte, in realtà, esistono strumenti tecnici, come certi accorgimenti nel linguaggio o l’uso di certe parole chiave, che possono rendere un tema più o meno interessante per il motore di ricerca.

Un’altra credenza è che siano i personaggi popolari – i cosiddetti influencer – a rendere “virale” un contenuto. È vero per l’istante, ma non per il lungo periodo. I reputation manager sono i veri influencer di internet, professionisti che lavorano affinché i contenuti permangano stabilmente nella prima pagina dei risultati, e possibilmente fra i primi tre; sono ingegneri reputazionali, strateghi della comunicazione, broker che “vendono” al motore di ricerca le pagine web con i contenuti che più aggradano ai loro clienti.

Ma la Borsa ha impiegato secoli prima di dotarsi di un regolamento interno che proibisse la manipolazione del mercato, mentre internet solo adesso si sta accorgendo di quanto sia facile dirottare l’opinione pubblica dentro il mare delle pagine e post, troppo esteso e tempestoso per essere scandagliato in ogni angolo. Per ora quindi gli interventi sui motori di ricerca che abbiamo potuto rilevare non possono essere definiti illegali: sono acque ancora inesplorate, dove si sono avventurati solo alcuni pionieri.

Come opera Eliminalia

Eliminalia dispone di diversi strumenti per spingere o distruggere i contenuti.

Richieste di rimozioni articoli alle testate

Il primo strumento è il form utilizzato da Raùl Soto con Osservatorio Diritti. Anche IrpiMedia ne ha ricevuti diversi e non solo da Eliminalia. Il database di documenti ottenuto da Forbidden Stories conta centinaia di richieste simili inviate indicando come indirizzo email di contatto legal-abuse.eu@pec.it o italy@abuse-report.eu. La maggior parte sono a nome di Soto. Le richieste seguono un modello pre-configurato: la struttura e i riferimenti legali si ripetono e hanno un tono intimidatorio – anche l’indirizzo email indicato allude in modo fraudolento a un ufficio della Commissione europea.

A una lettura più attenta, però, le motivazioni della richiesta di diritto all’oblio non sono mai ben dettagliate tranne che per l’aspetto temporale: la notizia sarebbe «vecchia e irrilevante». Spesso non si specifica se effettivamente i dettagli relativi alla persona coinvolta siano scorretti o se la situazione processuale sia cambiata, sembra che nessuno abbia davvero letto il pezzo in questione. In alcuni casi, le richieste fanno riferimento a un potenziale reato di diffamazione, mentre in altri casi si parla solo di violazione dei dati personali in riferimento alla possibilità di esercitare il diritto all’oblio. Le richieste non sono accompagnate nemmeno dall’atto del cliente con il quale conferisce potere a Eliminalia di agire a suo nome, come è stato fatto notare dal Tribunale di Civitavecchia in una risposta inviata dopo aver ricevuto la richiesta da Raùl Soto.

Richieste di rimozione articoli a Google

Negli Stati Uniti la legge sul copyright si chiama Digital Millennium Copyright Act (Dmca). Dà la possibilità agli utenti di chiedere alle aziende con sede negli Usa che offrono servizi online, vedi Google, di rimuovere i link di contenuti copiati. Nel caso di Eliminalia, centinaia di richieste per rimuovere articoli in italiano sono state depositate spacciandosi per impiegati di gruppi editoriali, da Repubblica a Il Giornale, da La Stampa a Il Sole 24 Ore. Spesso Eliminalia copia e retrodata il contenuto che vuole sia rimosso.

Lo scopo è fare da esca con centinaia di blog e siti creati appositamente: attraverso l’articolo retrodatato chiedono la rimozione dell’originale. Se Google ci casca, l’obiettivo è raggiunto. Nel database di #StoryKillers risultano oltre duemila richieste di rimozione Dmca fatte da Eliminalia. Il proprietario della società di reputazione, Didac Sanchez, secondo diversi professionisti che abbiamo sentito, si è presentato come “l’inventore” dell’impiego delle false richieste per la violazione del copyright. Google, nelle risposte ai reporter di #StoryKillers, sostiene di opporsi attivamente alle richieste finte e afferma di accogliere principalmente quelle di giornalisti con un pregresso di domande già accolte. Ciò non toglie che Google, per il Dmca, possa ritenersi estraneo alla violazione solo se interviene dopo poco (l’azienda dichiara in media sei ore) che è al corrente di un contenuto copiato. Il fattore tempo, in casi “in bilico”, può quindi spingere per la rimozione. Rimettere online un contenuto rimosso è un procedimento molto difficile. Google riceve anche richieste di rimozione per violazione del Gdpr.

Secondo i dati della società, nel corso del 2022 sono state depositate 1,4 milioni di richieste per 5,3 milioni di link. Sono numeri doppi rispetto a quelli registrati nel 2017, e per i quali è impossibile stabilire gli effetti. L’aumento delle richieste è esponenziale, quello delle rimozioni ha una curva meno accentuata.

Costruzione e diffusione di fake news

Quando Eliminalia non riesce a far rimuovere i link allora cerca di farli scomparire “sotterrandoli” sotto una mole di articoli falsi che, sfruttando tecniche di posizionamento sui motori di ricerca, riescono a scalzare gli articoli legittimi spingendoli nel dimenticatoio della seconda o terza pagina di Google.

Qurium ha individuato oltre tremila articoli falsi, raccolti su 600 siti web, collegati ai nomi di 48 clienti di Eliminalia. Gli articoli includono il nome del cliente nell’url del link e riportano spesso il suo nome nel testo del pezzo. Il contenuto è totalmente inventato.

Tutti questi siti web presentano degli elementi in comune, come la stessa informativa privacy e pagina sui diritti d’autore, e tutti erano registrati in un primo momento a nome dell’azienda Communication Media Group Ltd, con sede in un business center del paradiso fiscale caraibico di Saint Kitts & Nevis. IrpiMedia ha verificato la presenza nel leak di screenshot che mostrano la tecnica in azione: in rosso sono indicati articoli negativi, in verde invece quelli positivi pubblicati su siti web sotto il controllo di Eliminalia che avanzano nei risultati di ricerca.

Backlinking

Tra le tecniche usate da Eliminalia per far scalare la classifica dei risultati ai propri articoli fasulli, c’è quella di condividere i link su forum e blog. Infatti, tra i fattori che Google tiene in considerazione per decidere la posizione di un link tra i risultati di ricerca c’è il backlink, ovvero quante volte quel link sia stato incluso in altri siti web. Un’inchiesta esclusiva finirà in alto tra i risultati anche perché tutte le altre testate includono il link all’inchiesta nei propri articoli. Per manipolare i risultati di ricerca si possono quindi creare backlink verso siti web fasulli. Qurium ha individuato un forum su cui Eliminalia ha postato migliaia di backlink per permettere di far scalare i risultati della ricerca ai propri articoli falsi. In questo modo le notizie rilevanti sarebbero sommerse dai risultati scelti da Eliminalia.

Come opera Eliminalia

Eliminalia dispone di diversi strumenti per spingere o distruggere i contenuti.

Richieste di rimozioni articoli alle testate

Il primo strumento è il form utilizzato da Raùl Soto con Osservatorio Diritti. Anche IrpiMedia ne ha ricevuti diversi e non solo da Eliminalia. Il database di documenti ottenuto da Forbidden Stories conta centinaia di richieste simili inviate indicando come indirizzo email di contatto legal-abuse.eu@pec.it o italy@abuse-report.eu. La maggior parte sono a nome di Soto. Le richieste seguono un modello pre-configurato: la struttura e i riferimenti legali si ripetono e hanno un tono intimidatorio – anche l’indirizzo email indicato allude in modo fraudolento a un ufficio della Commissione europea.

A una lettura più attenta, però, le motivazioni della richiesta di diritto all’oblio non sono mai ben dettagliate tranne che per l’aspetto temporale: la notizia sarebbe «vecchia e irrilevante». Spesso non si specifica se effettivamente i dettagli relativi alla persona coinvolta siano scorretti o se la situazione processuale sia cambiata, sembra che nessuno abbia davvero letto il pezzo in questione. In alcuni casi, le richieste fanno riferimento a un potenziale reato di diffamazione, mentre in altri casi si parla solo di violazione dei dati personali in riferimento alla possibilità di esercitare il diritto all’oblio. Le richieste non sono accompagnate nemmeno dall’atto del cliente con il quale conferisce potere a Eliminalia di agire a suo nome, come è stato fatto notare dal Tribunale di Civitavecchia in una risposta inviata dopo aver ricevuto la richiesta da Raùl Soto.

Richieste di rimozione articoli a Google

Negli Stati Uniti la legge sul copyright si chiama Digital Millennium Copyright Act (Dmca). Dà la possibilità agli utenti di chiedere alle aziende con sede negli Usa che offrono servizi online, vedi Google, di rimuovere i link di contenuti copiati. Nel caso di Eliminalia, centinaia di richieste per rimuovere articoli in italiano sono state depositate spacciandosi per impiegati di gruppi editoriali, da Repubblica a Il Giornale, da La Stampa a Il Sole 24 Ore. Spesso Eliminalia copia e retrodata il contenuto che vuole sia rimosso.

Lo scopo è fare da esca con centinaia di blog e siti creati appositamente: attraverso l’articolo retrodatato chiedono la rimozione dell’originale. Se Google ci casca, l’obiettivo è raggiunto. Nel database di #StoryKillers risultano oltre duemila richieste di rimozione Dmca fatte da Eliminalia. Il proprietario della società di reputazione, Didac Sanchez, secondo diversi professionisti che abbiamo sentito, si è presentato come “l’inventore” dell’impiego delle false richieste per la violazione del copyright. Google, nelle risposte ai reporter di #StoryKillers, sostiene di opporsi attivamente alle richieste finte e afferma di accogliere principalmente quelle di giornalisti con un pregresso di domande già accolte. Ciò non toglie che Google, per il Dmca, possa ritenersi estraneo alla violazione solo se interviene dopo poco (l’azienda dichiara in media sei ore) che è al corrente di un contenuto copiato. Il fattore tempo, in casi “in bilico”, può quindi spingere per la rimozione.

Rimettere online un contenuto rimosso è un procedimento molto difficile. Google riceve anche richieste di rimozione per violazione del Gdpr.

Secondo i dati della società, nel corso del 2022 sono state depositate 1,4 milioni di richieste per 5,3 milioni di link. Sono numeri doppi rispetto a quelli registrati nel 2017, e per i quali è impossibile stabilire gli effetti. L’aumento delle richieste è esponenziale, quello delle rimozioni ha una curva meno accentuata.

Costruzione e diffusione di fake news

Quando Eliminalia non riesce a far rimuovere i link allora cerca di farli scomparire “sotterrandoli” sotto una mole di articoli falsi che, sfruttando tecniche di posizionamento sui motori di ricerca, riescono a scalzare gli articoli legittimi spingendoli nel dimenticatoio della seconda o terza pagina di Google.

Qurium ha individuato oltre tremila articoli falsi, raccolti su 600 siti web, collegati ai nomi di 48 clienti di Eliminalia. Gli articoli includono il nome del cliente nell’url del link e riportano spesso il suo nome nel testo del pezzo. Il contenuto è totalmente inventato.

Tutti questi siti web presentano degli elementi in comune, come la stessa informativa privacy e pagina sui diritti d’autore, e tutti erano registrati in un primo momento a nome dell’azienda Communication Media Group Ltd, con sede in un business center del paradiso fiscale caraibico di Saint Kitts & Nevis. IrpiMedia ha verificato la presenza nel leak di screenshot che mostrano la tecnica in azione: in rosso sono indicati articoli negativi, in verde invece quelli positivi pubblicati su siti web sotto il controllo di Eliminalia che avanzano nei risultati di ricerca.

Backlinking

Tra le tecniche usate da Eliminalia per far scalare la classifica dei risultati ai propri articoli fasulli, c’è quella di condividere i link su forum e blog. Infatti, tra i fattori che Google tiene in considerazione per decidere la posizione di un link tra i risultati di ricerca c’è il backlink, ovvero quante volte quel link sia stato incluso in altri siti web. Un’inchiesta esclusiva finirà in alto tra i risultati anche perché tutte le altre testate includono il link all’inchiesta nei propri articoli. Per manipolare i risultati di ricerca si possono quindi creare backlink verso siti web fasulli. Qurium ha individuato un forum su cui Eliminalia ha postato migliaia di backlink per permettere di far scalare i risultati della ricerca ai propri articoli falsi. In questo modo le notizie rilevanti sarebbero sommerse dai risultati scelti da Eliminalia.

Riciclatori di reputazione

I segreti di Eliminalia sono stati svelati attraverso un database di 50 mila contratti, scambi di email, screenshot di richieste a testate e piattaforme online per rimuovere contenuti e altri documenti. Al loro interno sono nominati circa 1.500 clienti provenienti da una cinquantina di Paesi, datati per lo più tra 2017 e 2021. Dai dati, emerge che per rimuovere un singolo link si pagano cifre tra duecento e duemila euro, a seconda dei casi. Ci sono 25 clienti che hanno sborsato più di 50 mila euro per ripulire la rete dal loro nome.

Tra i clienti stranieri ci sono banchieri condannati per riciclaggio, corruttori, trafficanti di droga, uomini dello spettacolo accusati di molestie sessuali, professionisti coinvolti in frodi finanziarie internazionali. Tra le banche, due casi rilevanti riguardano la Compagnie Bancaire Helvetique e Bandenia Plc: la prima è stata accusata di non aver impedito alcune operazioni di riciclaggio di denaro sporco, il direttore della seconda è stato condannato a quattro anni di carcere per aver ripulito i soldi di una trafficante di droga a settembre 2022. Ci sono imprenditori con un passato controverso. Ci sono riciclatori di denaro sporco.

Un articolo falso creato ad hoc e pubblicato su un sito sconosciuto in modo da influire sui risultati proposti dai motori di ricerca
Questa tecnica, utilizzata qui per la società Area Spa, consiste nella creazione di una mole di articoli falsi in modo da “sotterrare” l’indicizzazione dei link reputati dannosi

Tra le decine di clienti italiani, ci sono soprattutto imprenditori, manager, avvocati, contabili. Fra coloro che hanno risposto alle nostre domande, nessuno però si era rivolto direttamente a Eliminalia. I loro contratti sono spesso firmati con altre agenzie: in fasi diverse, tra il 2017 e il 2021, Sofiswiss, ReputationUp e Digitallex. Dei rapporti tra queste diverse agenzie ed Eliminalia parleremo nella prossima puntata. Ora è importante dire che, ciascuna di queste, durante un preciso lasso di tempo, ha collaborato con Eliminalia nella gestione dello stesso cliente, offrendo servizi leggermente diversi. Per quanto è stato possibile ricostruire, la collaborazione tra le agenzie con cui si stipula il contratto ed Eliminalia non è comunicata ai clienti.

Lo ha confermato lo stesso Piero Amara, rispondendo alle domande di IrpiMedia: non conosce Eliminalia ma solo ReputatioUp, trovata online. Non era al corrente di metodi illegittimi o illegali e ha al contrario interrotto il rapporto ritenendo il servizio non soddisfacente.

Gli fa eco nelle risposte Leonardo Bellodi, ex manager di Eni e della Libyan Investment Authorities che dai dati a nostra disposizione risulta abbia cercato di far sparire gli articoli che raccontavano i suoi legami con il mondo della politica e dell’imprenditoria.

«Apprendo solo ora da voi delle attività svolte dalla società Eliminalia, che non conosco e con cui non ho mai avuto alcun tipo di rapporto. Nel 2020 ho stipulato un contratto con la società italiana Digital Lex – avente come ragione sociale Prontoavvocato Srl – che si occupa di tutela del diritto all’oblio, per alcuni articoli che contenevano informazioni inaccurate e superate, dunque non più coerenti con il mio posizionamento attuale», spiega Bellodi. «All’interno del rapporto di collaborazione stipulato con la società italiana Digital Lex – aggiunge – mi sono stati notificati gli articoli per i quali sarebbe stata richiesta la deindicizzazione». «Gli articoli – conclude Bellodi – contenevano, per ciò che mi riguardava, informazioni inaccurate e superate, dunque non più coerenti con il mio posizionamento attuale e con il mio piano di Personal Branding».

Per approfondire

L’idra della disinformazione

Giornalisti uccisi, campagne di delegittimazione, strumenti per insabbiare notizie negative, eserciti di avatar che alimentano finti dibattiti: come si mette il giornalismo sotto attacco

Tra i clienti italiani di Eliminalia, ci sono anche i fratelli Steinkeller, promotori finanziari finiti al centro della truffa con la moneta virtuale OneCoin, scoperta dalla Guardia di finanza di Bolzano nel 2019. C’è ArcelorMittal, il gruppo proprietario dell’ex Ilva di Taranto e la sua manager Lucia Morselli. Le chiavi di ricerca monitorate da Eliminalia erano “Lucia Morselli inchiesta”, “Lucia Morselli crisi”, “Lucia Morselli pagando”. Tra gli articoli bersaglio ci sono anche pezzi di cronaca sindacale di testate nazionali, come Repubblica. C’è Studium srl, società che offre servizi didattici e legali di proprietà della famiglia Polidori, neo proprietario del Gruppo Corriere dell’Umbria e di altre testate locali coinvolto in un’inchiesta per evasione fiscale attraverso le società che gestiscono un altro pezzo del suo impero, le università telematiche.

C’è Area Spa, la società che vende sistemi di sorveglianza, tra le poche ad aver contattato direttamente Eliminalia (lo scorso dicembre abbiamo raccontato la sua vicenda processuale in Italia, dove è stata archiviata). «Mancata completa veridicità ed accuratezza», degli articoli, spiegano dalla società in una nota di commento, sono i motivi per cui si sono rivolti al servizio. Area aggiunge di essersi rivolta a Eliminalia «affinché tale rimozione avvenisse esclusivamente in piena ottemperanza alle norme nazionali, comunitarie ed internazionali in materia di diritto all’oblio, alla tutela della vita privata delle persone coinvolte e alla protezione dei dati personali oltre che in ottemperanza agli obblighi deontologici del giornalismo».

La ricerca di Qurium è partita proprio da alcuni contenuti su siti sconosciuti in cui si descrive Area Spa, citata insieme al luogo dove ha la sua sede legale, Vizzola Ticino in provincia di Varese, come una scuola di danza o il suo manager Andrea Formenti come un esperto di intelligenza artificiale e smartphone. Sono temi completamente scollegati dal settore in cui opera Area. Il loro scopo è annegare il nome in una serie di parole chiave che non c’entrano nulla con le attività in Siria per cui Area Spa è finita al centro delle cronache internazionali.

Alla ricerca dell’oblio in rete

Alcuni dei personaggi e delle entità che hanno usufruito dei servizi di Eliminalia

«I contenuti restano online per sempre e ti marchiano in un certo senso – spiega Marisa Maraffino, avvocata specializzata nel digitale e nelle nuove tecnologie – però non tutti hanno disponibilità economiche per spendere quei soldi. I clienti di queste società di solito sono imprenditori che hanno certe disponibilità».

Aggiunge che dal suo punto di vista, il diritto all’oblio dovrebbe essere trattato come una materia per avvocati. È una materia in divenire: da un lato, se ne disegnano i confini con la giurisprudenza, prosegue, dall’altro è diventata legge con la riforma promossa dall’ex ministro della Giustizia Marta Cartabia, che ha introdotto dallo scorso ottobre la possibilità per chi è stato prosciolto di richiedere la deindicizzazione dei contenuti che lo riguardano. «Queste società però di base mandano pacchi di diffide, ma non so che effetto poi sortiscano», conclude.

Di parere diverso Stefano Sutti, avvocato che in passato ha lavorato in partnership con Eliminalia in Italia, oggi diventata una società indipendente, Ealixir (dello scontro tra Eliminalia ed Ealixir parleremo nella prossima puntata).

«I risultati [delle richieste dell’agenzia] sono spettacolari, nel senso che in tempi relativamente brevi e con dei costi che sono infinitamente inferiori a quelli che un qualsiasi studio legale presenterebbe [per gestire la rimozione o deindicizzazione di grandi quantità di link], risolvono il 90-95% dei problemi». Quel che resta finisce con i metodi tradizionali: querele per diffamazione oppure cause civili. La giurisprudenza, aggiunge, è relativamente scarsa «perché bisogna arrivare fino in fondo», in Cassazione. E se non c’è un business case (da intendersi come vantaggio economico, ndr) per entrambe le parti ad andare fino in fondo uno dei due si arrende». Il risultato, inevitabile, è che «sia per la diffamazione, sia per l’utilizzo delle immagini ci sono una serie di zone grigie», dice Sutti. Da un lato c’è il diritto della persona, dall’altro il diritto di cronaca. In mezzo, delle agenzie che gestiscono una massa enorme di richieste a fronte di pagamenti proibitivi. Il diritto all’oblio rischia così di configurarsi solo come un diritto per ricchi.

Una parte del modulo di Twitter per richiedere la rimozione di contenuti

La tana del bianconiglio

Database come quello di Eliminalia sono tane del bianconiglio: si continua a scavare, a scavare tanto che a volte sembra impossibile fermarsi, tanto che a volte sembra impossibile, alla fine, districarsi in mezzo a quella mole di informazioni. Il dettaglio che mi ha riportato fuori dalla tana è stato ritrovare il link del mio pezzo di Osservatorio Diritti tra i bersagli di Eliminalia. Mi ha dato una chiave per cominciare a trovare e non solo a cercare. Ho recuperato così tre contratti firmati da una società che non è mai finita tra i fascicoli giudiziari che riguardano Amara. Ha sede in Bulgaria, a Sofia, e si chiama Company H20 Ltd. Si occupa di assistenza nell’acquisizione di impianti di energia elettrica da fonti rinnovabili, spiega lo stesso Amara rispondendo alle domande di IrpiMedia attraverso il suo legale. È controllata da una società italiana il cui proprietario è il figlio dell’ex avvocato. Risulta che abbia pagato circa 82.800 euro in tre tranches, tra settembre 2020 e febbraio 2021. I soldi sono stati intascati almeno in parte da Eliminalia, anche se il contratto è con ReputationUp, una società che è stata partner di Eliminalia.

Nel corso di tutta la sua storia, la società di Didac Sanchez si è spesso appoggiata a terzi per la gestione di clienti in alcuni Paesi, come l’Italia. Secondo quanto raccolto attraverso le testimonianze di diversi dipendenti sparsi in tutto il mondo, Eliminalia si occupa della parte tecnica, mentre il recupero dei clienti passa per le altre agenzie oppure da altri professionisti. In un commento interno registrato nel database di Eliminalia insieme all’ultimo pagamento di Piero Amara, si legge che è stato «tolto il 10% per l’agente». Il 10% va inteso quindi come la quota riservata da Eliminalia a chi ha procurato il cliente.

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Per Piero Amara la decisione di rivolgersi a una società di reputazione online «è collegata alla comprensibile volontà di migliorare la propria immagine, anche per evitare la circolazione di informazioni improprie o distorte», spiega. Oggi è collaboratore di «almeno sei procure», scrive Il Riformista, per quanto le dichiarazioni di Amara, quando appaiono sulla stampa, vengano commentate spesso come un intreccio quasi inestricabile di vero, falso e verosimile. Vero o falso pentito? Nelle risposte che ha fatto pervenire a IrpiMedia tramite il suo avvocato, Piero Amara «affida il giudizio sulla sua credibilità alle sentenze dei Tribunali italiani e non ad altro» specificando «di non essere mai stato condannato per calunnia e le uniche sentenze che hanno valutato le sue dichiarazioni ne hanno ribadito la piena attendibilità».

Il lavorio sui link che lo riguardano è proseguito anche dopo il 2021. C’è stata per esempio un’improbabile segnalazione a Google che sarebbe stata inviata da Il Fatto Quotidiano per violazione di copyright da parte di Press reader, la piattaforma che permette di leggere online la versione cartacea di quotidiani. La richiesta è del settembre 2022, il pezzo è del 2020 e compare tra i bersagli di Eliminalia.

Uno scontro in atto

Nel novembre 2021 l’opinionista del Financial Times Jemima Kelly ha definito l’intera industria della reputazione «un business torbido». Alterare un contenuto online, a prescindere dalla sua attinenza alla realtà, è sempre un fatto grave. Esistono differenze tra chi sceglie di evitare alcuni clienti e alcune tattiche, ma l’attività è di per sé controversa, soprattutto dal punto di vista di chi produce informazione, la vittima di questa storia.

In Italia, grazie al lavoro di organizzazioni come Ossigeno per l’Informazione, è chiaro che le querele temerarie, procedimenti per diffamazione a mezzo stampa intentati solo a scopo intimidatorio, sono la principale arma di censura dei giornalisti, soprattutto freelance. È altrettanto un fatto che oltre la metà dei siti di fake news impiegati da Eliminalia tra quelli individuati da Qurium siano in italiano. Non è ancora chiaro come leggere questo dato, ma una valida ipotesi è che l’Italia sia tra i principali bersagli di questa forma di disinformazione che fa sparire dai primi risultati di Google gli articoli “scomodi” su un certo argomento.

In Messico, uno dei Paesi più pericolosi al mondo per i giornalisti, l’organizzazione per la libertà di stampa Articulo 19 ha evidenziato in un report tre casi di giornalisti che sono stati censurati attraverso false dichiarazioni di violazione del copyright. Il diritto all’oblio è già legge, ma farlo applicare in fretta alle aziende che fanno da piattaforme per i contenuti – da Google ai social network, per intendersi – implica due conseguenze: da un lato una delega alle piattaforme di decidere ciò che ha diritto e ciò che non ha diritto di essere dimenticato; dall’altro di ottenere risposte standardizzate per tutti i casi, a prescindere dal merito, dato che le aziende private non hanno alcuna voglia di entrare in conflitto con una controparte a difesa della legittimità di un contenuto giornalistico prodotto da terzi.

Fake news è un termine che è diventato di uso comune dall’inizio degli anni Duemila e da allora il mondo del giornalismo – soprattutto online – sta cercando, con fatica, di riaffermare la propria autorevolezza. Un ultimo studio del Reuters Institute pubblicato lo scorso settembre ha evidenziato come nei Paesi presi in esame – Brasile, India, Stati Uniti e Gran Bretagna – le piattaforme virtuali abbiano sempre meno credibilità dei media tradizionali. Le notizie sono una merce da quando sono stati fondati i giornali e fare il giornalista è una professione remunerata. Però nel contesto online la loro proprietà è sostanzialmente in mano alle piattaforme, più che agli editori o ai giornalisti. Farle apparire o farle scomparire, renderle facili o difficili da trovare, quindi, da trent’anni almeno non è più appannaggio di chi sta nelle redazioni. Ammesso che sia mai stato così, non è più una questione di deontologia professionale darle in modo corretto oppure no. È una mera questione economica: basta pagare tanto il tecnico giusto.

Il 18 febbraio il pezzo è stato modificato per chiarire la ragione sociale di Studium srl.

 

CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli
(con Raffaele Angius, Riccardo Coluccini)

Ha collaborato

Rita Martone
Simone Olivelli

Editing

Giulio Rubino

Infografiche

Lorenzo Bodrero

Illustrazioni

In partnership con

The Guardian
The Observer
Le Monde
The Washington Post
Der Spiegel
ZDF
Paper Trail Media
Die Zeit
Radio France
Proceso
Occrp
Knack
Le Soir
Haaretz
The Marker
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L’idra della disinformazione

#StoryKillers

L’idra della disinformazione

Riccardo Coluccini

Alle otto di sera del 5 settembre 2017 è stata assassinata con tre pallottole la giornalista indiana Gauri Lankesh. Si trovava appena fuori dall’uscio di casa, a Bangalore. Dal 2005, aveva creato un suo settimanale Gauri Lankesh Patrike, e si descriveva come giornalista-attivista. Era nota per le sue posizioni contro l’inarrestabile ascesa dell’induismo più radicale, spina dorsale del governo nazionalista indiano: combattere le fake news diffuse dal partito di governo Bharatiya Janata Party (BJP), guidato dal primo ministro Narendra Modi, era per lei parte di una più ampia azione di contrasto contro l’estrema destra indiana.

Quando è stata uccisa, stava lavorando alla pubblicazione di un editoriale dal titolo In the Age of False News, pubblicato poi postumo. Stava indagando sul sito Post card News, una delle «fabbriche di bugie» di cui si alimentano il BJP e gli ambienti di estrema destra.

«Il primo ministro Narendra Modi ha lasciato prosperare un clima di dominio delle gang in India, con i suoi sostenitori hindu che diffamano i “laicisti” – scrive il New York Times nell’editoriale L’omicidio di una giornalista indiana, pubblicato due giorni dopo -. Il veleno che i troll dei social media reazionari direzionano ai giornalisti, o “presstitute” (un gioco di parole tra press, stampa, e prostitute, ndr) come li chiamano loro, è particolarmente malvagio, ma non interamente nuovo. Almeno 27 giornalisti indiani sono stati uccisi dal 1992 «come conseguenza diretta del loro lavoro», secondo il Committee to Protect Journalists (Cpj). Il Cpj è un’organizzazione non profit che si occupa di libertà di stampa e sicurezza dei giornalisti.

L’omicidio è l’arma finale per silenziare un giornalista, ma ci sono altri metodi, più raffinati e meno evidenti con cui aggredire la stampa libera.

Gauri Lankesh – Foto: Sheethal Jain

La disinformazione è come un’idra, il velenoso serpente mitologico a più teste: ciascuna corrisponde a un mercenario assoldato per iniettare il veleno nel discorso pubblico, in modi più o meno brutali. È un mostro immortale, che esiste da quando c’è il giornalismo. È parte delle macchine della propaganda. Sembra non avere alcuna regia, invece il corpo a cui appartengono le teste diverse è sempre lo stesso. Ogni mercenario, dispone di molti modi per uccidere una storia, anche senza macchiarsi di omicidio.

#StoryKillers è l’inchiesta internazionale sui volti della disinformazione – da quelli più violenti, a quelli più tollerati, da quelli incontrovertibilmente illegali, a quelli che sfruttano a loro vantaggio dei vuoti legislativi – a cui hanno partecipato oltre cento giornalisti di trenta media internazionali.

I mercenari della disinformazione sono spesso invisibili. La loro industria globale – che ha preso sempre più piede anche in Italia – è però fiorente e redditizia. Non è facile capire quanti siano, tuttavia secondo un report pubblicato dal Oxford Internet Institute, nel 2020 in almeno 81 Paesi sia governi che partiti politici sono ricorsi a campagne di manipolazione sui social media. Durante sei mesi di ricerche, i giornalisti di #StoryKillers hanno scoperto e investigato sulle organizzazioni che offrono questo tipo di servizi a pagamento, manipolando i risultati di Google, cercando di influenzare l’esito di elezioni e inondando i social network di informazioni false.

«Graduale indottrinamento»

Il processo per l’omicidio di Gauri Lankesh è cominciato a luglio 2022 e ancora non si è concluso. Sono imputate 18 persone (una delle quali ancora latitante), tutte collegate a una setta nazionalista induista chiamata Sanatan Sanstha e una sua affiliata, la Hindu Janajagriti Samiti (HJS). L’organizzazione è legalmente registrata in India, ha un trust finanziario dal 1999 e un sito dove presenta i suoi corsi di meditazione e spiritualità, ma dal 2007 in avanti alcuni suoi affiliati sono stati arrestati e processati per aver fatto esplodere bombe e per aver ucciso attivisti e politici di sinistra.

Secondo i documenti giudiziari visionati da Forbidden Stories, Amol Kale, membro della setta, avrebbe pianificato l’omicidio della giornalista per più di un anno. Era da tempo che il commando di killer – frequentatori sia della setta, sia di gruppi di motociclisti – stava monitorando gli spostamenti della giornalista. A premere il grilletto sarebbe stato Parashuram Waghmore, un induista radicale.

Almeno cinque membri del gruppo omicida avevano visto un video su Youtube del 2012 in cui la giornalista metteva in discussione le origini dell’induismo. Secondo un investigatore che ha parlato con Forbidden Stories sotto garanzia di anonimato, il presunto sicario Waghmore conosceva a memoria alcuni passaggi di quel video. Gli inquirenti ipotizzano che il filmato abbia avuto un ruolo fondamentale nel percorso di «graduale indottrinamento» con il quale il gruppo di assassini si è persuaso che uccidere la giornalista fosse giusto.

Un’analisi online, condotta da Forbidden Stories con il supporto dei ricercatori del Princeton’s Digital Witness Lab, dimostra che quello stesso video, prima che l’assassinio fosse pianificato, è stato diffuso ampiamente nei gruppi di estrema destra, contribuendo in maniera sostanziale a trasformare la giornalista in una nemica dell’induismo. Solo che le parole di Lankesh sono state modificate: il discorso «è stato accorciato per includere solo la parte in cui dice che la religione indù non ha un padre o una madre. L’intenzione era quella di sottolineare la pluralità della religione. Ci sono migliaia di caste e diversi credi», ha spiegato a Forbidden Stories Kl Ashok, coordinatore dell’evento in cui Lankesh aveva tenuto il discorso.

Caricata più volte su YouTube, la versione manipolata delle parole della giornalista è stata diffusa su Facebook attraverso otto diversi link, ottenendo in alcuni casi complessivamente circa 100 milioni di interazioni, tra like, commenti e condivisioni. Gli amici di Lankesh ricordano costanti attacchi e molestie online ai suoi danni da parte di gruppi dell’estrema destra, durante gli ultimi mesi di vita. Erano la dimostrazione degli effetti della macchina del fango messa in moto per distruggere la sua credibilità.

La madre rende omaggio al feretro della figlia Gauri Lankesh, giornalista e attivista uccisa a settembre 2017 – Foto: AFP/Getty

La centralizzazione dei social media in poche grandi aziende ha creato il perfetto strumento per una delle teste dell’idra della disinformazione. Dopo essere stato modificato in modo da generare le reazioni più forti nel pubblico, il video da YouTube finisce con l’essere introdotto in pagine e gruppi Facebook, aumentandone esponenzialmente l’esposizione.

Negli anni successivi all’omicidio di Lankesh, Post card News, l’oggetto delle ricerche della giornalista, ha continuato a postare incessantemente false informazioni, sia per screditare altre testate e l’opposizione, sia per distogliere l’attenzione dai nazionalisti induisti, accusati per l’omicidio, e incolpare invece gruppi della sfera politica di sinistra.

L’arma della delegittimazione

Il ricorso alla violenza e gli attacchi fisici contro i giornalisti portano spesso a una reazione da parte dei colleghi e a un’attenzione maggiore alle notizie su cui le vittime stavano lavorando. Questi episodi sono però solo la più tragica ed estrema manifestazione di un processo di avvelenamento del dibattito pubblico che parte da molto più lontano. Un processo che è spesso invisibile perché fatto di tecniche e azioni più silenziose ma allo stesso tempo efficaci.

Ci sono infatti reti di bot (profili automatizzati e in grado di operare massivamente) costruite da aziende specializzate fatte apposta per manipolare l’opinione pubblica. In parallelo, i tentativi di censura “legale” attraverso l’abuso delle leggi sul diritto d’autore o sulla privacy spingono poi i giornalisti all’auto-censura per timore di costosi casi giudiziari. E se il fiorire di fake news già mette in crisi il mondo dell’informazione, allora le aziende che rimuovono contenuti online per proteggere la reputazione di un cliente non fanno altro che peggiorare questa situazione, andando a colpire e nascondere articoli e inchieste di notevole rilevanza per l’opinione pubblica.

«Queste campagne hanno l’obiettivo di distruggere la credibilità dell’interlocutore, e se non puoi distruggerla allora minacci la sua vita», ha dichiarato ai giornalisti di #StoryKillers la dottoressa Emma Bryant, fellow al Bard College e professoressa associata al Center for Financial Reporting and Accountability dell’Università di Cambridge, esperta di propaganda internazionale e information warfare.

Il mondo dell’informazione è sotto attacco anche a causa dell’effetto collaterale della presenza di monopoli sui bacini di informazione: chi riesce a manipolarli potrà ottenere risultati con estrema facilità. In breve, visto che i colossi che gestiscono la distribuzione globale delle informazioni sono fondamentalmente solo tre – Google, Meta e Twitter – capendo come manipolare gli algoritmi che “scelgono” per noi quali notizie finiscano in evidenza si può efficacemente determinare cosa appaia e cosa no, e di conseguenza, cosa è vero e cosa è falso, almeno nell’opinione pubblica.

Mercenari nell’ombra: il Team Jorge

Alcuni di questi mercenari sostengono di essere in grado di cambiare l’esito di tornate elettorali o referendarie, grazie alla loro capacità di condizionare l’opinione pubblica. I colleghi delle testate TheMarker, Radio France e Haaretz li hanno incontrati fingendosi un gruppo di interesse intenzionato a rimandare, a tempo indefinito, delle elezioni in un Paese africano. Gli incontri sono stati registrati con una telecamera nascosta e mostrano, per la prima volta, come si negozia a porte chiuse l’interferenza in un voto.

Il nome Team Jorge deriva dall’alias utilizzato da una delle persone che ha mostrato le capacità e i servizi a disposizione ai giornalisti sotto copertura. L’uomo che si fa chiamare Jorge è in realtà Tal Hanan, amministratore delegato dell’azienda Demoman, società israeliana specializzata in consulenza per agenzie governative di tutto il mondo su temi come il terrorismo e la sicurezza nazionale. Hanan non ha voluto rispondere a una serie di domande dettagliate inviate dal consorzio di giornalisti ma ha dichiarato di non aver commesso alcuna azione illecita.

Email ottenute dal Guardian e condivise con il consorzio di #StoryKillers mostrano che i servizi di Tal Hanan e del suo team erano stati persino offerti nel 2015 a Cambridge Analytica, l’azienda coinvolta nello scandalo dei dati sottratti a Facebook e usati per influenzare la campagna elettorale del 2016 di Donald Trump per la presidenza degli Stati Uniti e nel referendum sulla Brexit. Quell’accordo non sembra essere stato siglato, ma il Team Jorge ha continuato a cercare clienti in tutto il mondo.

I servizi offerti dal Team Jorge sono vasti ed è molto difficile verificarne l’efficacia: raccolta di informazioni su concorrenti e oppositori politici, pianificazione di strategie politiche, addestramento per personale in grado di produrre contenuti online, ma anche interferenze nelle elezioni e attività informatiche offensive come ad esempio ottenere dati bancari, smascherare l’identità di una persona dietro a un nickname, e accedere a caselle di posta elettronica. Hanan ha specificato di avere una presenza con varie aziende in diverse zone del mondo – sul sito di Demoman sono indicate sedi in Israele, USA, Svizzera, Spagna, Croazia, Messico, Colombia, e Ucraina – e i pagamenti per le campagne possono essere fatte tramite aziende di comodo in base a dove si trova il cliente.

Ma il vero veleno per questa testa dell’idra è la diffusione di notizie false. In uno dei meeting, Tal Hanan spiega le tre fasi per una campagna di successo: «Per prima cosa raccogliamo informazioni, un po’ dalle fonti aperte e un po’ usando le nostre capacità tecnologiche». A quel punto bisogna costruire la narrazione: «In base al nostro obiettivo, cosa vogliamo influenzare? Qual è la narrazione? Che cosa produrrà un impatto?», prosegue Hanan. Poi non rimane che disseminare queste informazioni in modo che tutti le leggano e le conoscano. Il vero potere di queste operazioni, spiega Hanan, è che sono fatte dietro le quinte: «L’altro lato non sa nemmeno che noi ci siamo».

Tra gli strumenti preferiti da Team Jorge c’è la piattaforma AIMS, che sembra essere stata sviluppata in parte internamente circa sei anni fa, il cui acronimo sta per Advanced Impact Media Solutions. Questo software permette di creare e gestire centinaia di finti profili social in tutto e per tutto simili a un qualsiasi account autentico. Per mostrare le capacità di AIMS, su richiesta degli intermediari-giornalisti, Team Jorge ha offerto un esempio attaccando con una campagna sui social un personaggio diventato virale nel 2022 su TikTok e Twitter: un uccello emù chiamato Emmanuel. La campagna di dimostrazione aveva anche un hashtag, ricondiviso dagli avatar di AIMS: #RIP_Emmanuel.

Un esempio di tweet per l’attacco social contro l’emù postati dai finti profili in mano a Team Jorge

Questa dimostrazione ha permesso di verificare le capacità di Team Jorge ma ha offerto anche indirettamente a Forbidden Stories la possibilità di tracciare a ritroso la rete di avatar virtuali utilizzati, scoprirne di nuovi che hanno collegamenti in comune e mappare così anche altre campagne di disinformazione attive in cui è stata utilizzata la piattaforma. L’analisi di Forbidden Stories ha individuato 16 campagne attribuite alla piattaforma AIMS, per un totale di circa 1.750 avatar coinvolti e quasi 110 mila tweet.

Come Team Jorge ha condizionato le elezioni in Kenya

Il 15 agosto 2022 sono stati ufficializzati i risultati delle elezioni presidenziali in Kenya. William Ruto è stato eletto presidente, vincendo contro l’avversario Raila Odinga (quest’ultimo sostenuto anche dal presidente uscente Uhuru Kenyatta). Nelle elezioni del 2007 sono morte oltre mille persone e in quelle del 2017 più di cento. Comprensibilmente, erano molti gli occhi puntati sulle elezioni e tra questi c’erano anche quelli di Team Jorge.

In quei giorni Tal Hanan ha mostrato infatti ai giornalisti sotto copertura di avere accesso ad alcuni account Gmail e profili Telegram appartenenti a membri della campagna elettorale di Ruto.

Hanan poteva leggere le email e scrivere direttamente ai contatti Telegram dei bersagli hackerati. «Questo è in diretta», dichiara Hanan in uno dei video registrati di nascosto dai giornalisti mentre scorre le chat Telegram del Digital Strategist della campagna di Ruto, Dennis Itumbi, «parlano del conteggio dei voti, che è ancora in corso. Dicono che per le 15:00 si dovrebbero avere i risultati finali – ne dubito, vedremo».

Il reale impatto di Team sull’esito delle elezioni è difficile da stabilire. Di certo però sui social sono apparsi video di origine sconosciuta che hanno cominciato a far girare informazioni false in merito a presunte pressioni occidentali sul voto. Inoltre, alcuni giorni dopo l’annuncio della vittoria, una delle vittime hackerata da Team Jorge è stata accusata per una presunta frode elettorale a favore di Ruto. John Githongo, giornalista attivo nella lotta alla corruzione che con il suo giornale The Elephant ha collaborato anche con IrpiMedia, è entrato in contatto con un whistleblower che ha dichiarato l’esistenza di brogli con i sistemi informatici della commissione indipendente per le elezioni.

Il whistleblower ha dichiarato di aver aiutato nell’attacco informatico e di aver falsificato i documenti insieme ad altre 56 persone. A guidare la frode sarebbero stati due membri della campagna del neo-eletto presidente Ruto, tra cui la persona il cui account Telegram è stato mostrato da Jorge. Il whistleblower si è però rivelato successivamente non affidabile.

I risultati dell’elezione avevano già prodotto violente proteste da parte della popolazione. Le notizie di brogli non hanno fatto altro che esacerbare una situazione già tesa. La Corte Suprema del Kenya è intervenuta sul caso ribadendo che i risultati sono legittimi e che le prove forensi offerte dal whistleblower non confermano alcun tipo di broglio o attacco informatico, ma sarebbero state create appositamente. La decisione della Corte non è servita però a placare la popolazione.

A inizio 2023 un nuovo sito web legato a un altro whistleblower che afferma di aver lavorato nella commissione elettorale ha pubblicato altre prove per confermare la tesi dei brogli elettorali. Anche in questo caso i documenti erano falsi, come hanno dimostrato una serie di analisi sui file.

Non è chiaro se esista un collegamento diretto tra questo whistleblower e Team Jorge ma Hanan ha dichiarato di poter creare siti che fanno il verso a Wikileaks per pubblicare documenti e informazioni con lo scopo di screditare gli avversari. Secondo Hanan tutto può essere usato come arma di disinformazione e pubblicato sui loro siti: «Una volta può trattarsi di foto, un’altra di scontrini, e un’altra ancora email».

La piattaforma AIMS è venduta come parte di un pacchetto di servizi, di solito dedicati a partiti politici. «La nostra competenza principale sono le elezioni, abbiamo completato 33 diverse campagne a livello presidenziale», ha spiegato Hanan in una presentazione. La maggior parte di queste campagne, sempre secondo le sue parole, hanno coinvolto Paesi del continente africano ma anche in Asia, America Latina e Europa dell’Est.

Secondo alcune biografie disponibili online, Hanan è un esperto di antiterrorismo e intelligence, ex membro delle forze speciali dell’esercito israeliano. Sin dal 1990 è coinvolto nell’industria della sicurezza e dell’intelligence. Sul sito web della sua azienda, Demoman, Hanan offre una piattaforma per il monitoraggio dei social media, ma sul sito non c’è traccia delle campagne di disinformazione messe in piedi con AIMS. Gli altri membri di Team Jorge sono tutti parte del settore della sicurezza ed ex ufficiali dell’esercito/intelligence israeliano.

Le vite virtuali degli avatar di AIMS

AIMS (Advanced Impact Media Solutions) crea una sorta di album di figurine di account fasulli che possono essere usati a proprio piacimento. Per ciascuno di essi si possono scegliere l’etnia, la lingua, e un set di fotografie per il profilo. Queste foto sono spesso raccolte da database online o rubate da social network come il russo VK, come ha potuto confermare Forbidden Stories nel caso di un avatar che ha copiato le foto del profilo di una donna di origini ungheresi.

Ogni finto profilo ha un account Gmail con un numero di cellulare verificato e sono presenti sul web come una qualsiasi persona reale: profili su Facebook, Twitter, Instagram, Amazon, persino account per gestire criptovalute. Per crearli Jorge utilizza piattaforme online che offrono numeri di telefono virtuali e ciascun avatar, una volta programmato, interagisce sulle piattaforme nascosto dietro quelli che si chiamano residential proxies in modo da mascherare l’origine fasulla dei bot. Con i residential proxies il traffico internet passa attraverso degli intermediari, che sono spesso dispositivi di veri utenti ignari di ciò che sta avvenendo. In questo modo è possibile bypassare i controlli dei social media fingendo che i bot siano connessi da linee internet utilizzate da persone reali.

Le piattaforme come Facebook analizzano infatti diversi dettagli delle connessioni di un utente: se la connessione proviene sempre dallo stesso tipo di dispositivo, usando lo stesso browser e se l’indirizzo IP proviene da un operatore che offre servizi internet legittimi.

Tutti gli account che presentano segnali di attività sospetta e coordinata, come ad esempio quelli che si connettono dallo stesso indirizzo IP, vengono segnalati e bloccati dalle piattaforme.

Gli avatar della piattaforma AIMS sono poi usati dal Team Jorge per lasciare commenti sui social, condividere articoli e video creati in base alla narrazione che si vuole diffondere, o persino per acquistare prodotti su Amazon all’interno di strategie dirette a screditare particolari obiettivi. «Imitiamo il comportamento umano», dichiara Jorge in uno degli incontri.

Il consorzio di giornalisti ha condiviso alcuni dei bot con Meta, l’azienda proprietaria di Facebook, che ha provveduto a eliminarli dal social media. Secondo un portavoce di Meta, questi account sarebbero collegati a un altro network di bot individuati nel 2019 e gestiti da un’azienda israeliana che ora non è più attiva.

Screenshot da una presentazione del Team Jorge della piattaforma AIMS. Ogni avatar mostrato dispone di profili e account social. Le immagini sono state oscurate perché in alcuni casi possono essere state sottratte a profili di persone reali

Per creare i contenuti da diffondere Jorge ha a disposizione un altro strumento che crea post su blog messi in piedi appositamente, per poi passare i link agli avatar virtuali. L’obiettivo è avere quanti più articoli possibili da spammare: non interessa se Meta o Twitter rimuovono i link, ci sarà sempre un nuovo contenuto pronto da condividere. In questo modo i bot possono imprimere la storia con efficacia nella mente dell’opinione pubblica o semplicemente creare caos sui social media.

I servizi di disinformazione offerti da Hanan e il suo Team ricadono in una zona grigia ma in alcuni casi si spingono chiaramente oltre il limite della legalità, come nel caso di intrusioni informatiche e attacchi hacker. In alcuni degli incontri ha mostrato infatti di avere accesso diretto a caselle di posta, tra cui quelle di Gmail, e poter scrivere e cancellare messaggi dall’account Telegram di assistenti nella campagna elettorale del neo-presidente del Kenya, William Ruto.

Forbidden Stories è riuscita a confermare l’accesso abusivo agli account personali di posta elettronica e di alcune chat ma non è stata in grado di verificare cosa abbia fatto Jorge per ottenere l’accesso. Telegram ha confermato che gli account coinvolti non avevano attivato la password per l’autenticazione a due fattori, un metodo alternativo alla tradizionale verifica tramite SMS che si usa quando si aggiunge il proprio account a un nuovo dispositivo.

Secondo Jorge, come ha raccontato in uno degli incontri, non c’è nessun tipo di intrusione informatica nei dispositivi, non si tratta di spyware, né vengono inviati SMS e email di phishing per carpire le credenziali di accesso: «Per spiegarlo in parole semplici, copiamo l’identità del dispositivo e stabiliamo un collegamento con tutti i server che inviano i dati al dispositivo», dicono.

Uno degli aspetti più peculiari di questi mercenari della disinformazione sta nella loro capacità di creare disturbo, sia che si tratti di bot sui social sia ottenendo informazioni con attacchi informatici. In molti casi infatti non è necessario che tutti credano alla storia messa in piedi dai bot di Team Jorge, la sola presenza di questi contenuti può instillare il dubbio e produrre reazioni in alcune parti della popolazione.

«È possibile che l’impatto più grande delle campagne di disinformazione, come queste, sia nel pretendere di essere estremamente efficaci e spingerci a mettere in dubbio l’autenticità di tutto ciò che vediamo online», ha dichiarato a Forbidden Stories Nir Grinberg, professore associato al Dipartimento di Software and Information Systems Engineering presso l’Università di Ben-Gurion.

Sul sito di Demoman c’è una frase attribuita a Mark Twain che secondo l’azienda spiega l’importanza dell’intelligence online e dell’insegnamento di queste tecniche ai clienti: «È più saggio scoprirlo che supporlo». Un messaggio che sembra piuttosto un monito per tutti i giornalisti che cercano di contrastare la disinformazione.

Le teste dell’idra, infatti, preferiscono essere semplici supposizioni nella testa dei cittadini, rimanere nell’ombra, aggirarsi nei vicoli più nascosti delle piattaforme online per poi colpire sfruttando proprio quei monopoli digitali che tengono insieme le nostre vite. Ma rivelare questi meccanismi e puntare l’attenzione sui punti di congiunzione tra le diverse strategie dei mercenari della disinformazione permette di comprendere in anticipo quali sono i pericoli che le nostre democrazie devono affrontare e, forse, evitare che una nuova storia venga lasciata incompiuta.

Condizionare le opinioni è un servizio che può acquistare solo chi se lo può permettere. È un bene di lusso che serve sia a chi vuole condizionare consultazioni elettorali, sia a chi vuole ripulirsi la reputazione, sia a chi vuole trasformare chi la pensa diversamente da lui in un nemico da abbattere. Il luogo dove è più facile incidere sulle opinioni è la rete, dove il giornalismo è già avvelenato dallo strapotere delle piattaforme online: Google, Facebook, Twitter e gli altri giganti del web, sono interessati più a evitare conseguenze legali che a migliorare il modo di fornire e rettificare le informazioni che il pubblico consuma. È così che, accanto alle tecniche di manipolazione degli algoritmi, nel tempo sono andati sviluppandosi metodi più subdoli, paralegali e solo apparentemente legittimi, che sfruttano le vulnerabilità del diritto alla privacy o dei diritti d’autore.

Togliere o insabbiare un’informazione può diventare quindi un servizio, piuttosto costoso, accessibile solo a chi si può permettere di ripulire la propria reputazione web. Questa testa dell’idra è la protagonista della seconda puntata di #StoryKillers, che, come IrpiMedia ha scoperto, in Italia è la più insidiosa.

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