Bassa saturazione. L’Appennino bolognese tra mafie, spopolamento e soldi del Pnrr

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Bassa saturazione. L’Appennino bolognese tra mafie, spopolamento e soldi del Pnrr

Cecilia Fasciani
Andrea Giagnorio
Sofia Nardacchione

Le alte vallate dell’Appennino bolognese sono costellate di fabbriche, piccole e grandi, non più in attività o con sempre meno lavoratori. Intorno, piccoli comuni caratterizzati da indici di fragilità sociale, demografica ed economica sempre più alti. Così nell’area montana che divide l’Emilia dalla Toscana lo spopolamento e la diminuzione dei posti di lavoro vanno di pari passo: gli ultimi casi riguardano tutti il settore delle macchine per caffè, che occupava più di 1.500 persone solo nella vallata di Gaggio Montano, comune che conta poco meno di cinquemila abitanti. Anche lo storico “distretto delle macchinette” è infatti colpito da chiusure e delocalizzazioni: «Se iniziano a chiudere queste fabbriche la montagna inizia a morire», afferma Elisa Pedrini, lavoratrice che in sette anni ha vissuto il rischio di due delocalizzazioni: quella della Saeco Vending nel 2015 e quella della Saga Coffee nel 2021.

In entrambi i casi, gli scioperi delle persone che ci lavoravano, per la maggioranza donne, sono andati avanti per settimane: «Qui il lavoro è vitale – spiega il sindacalista della Fiom Cgil di Bologna Primo Sacchetti – perché l’economia di tutto l’Appennino si basava su questi stabilimenti: chiudere uno stabilimento mette a rischio l’intera tenuta sociale del territorio».

La mafia dei pascoli nei luoghi dell’eccidio nazifascista

Mentre lo spopolamento aumenta, aumenta anche la disattenzione e, di pari passo, il rischio di infiltrazioni mafiose, ancora di più con l’arrivo di una quantità di soldi che non si è mai vista prima, come quelli che arriveranno dal Piano nazionale di ripresa e resilienza: 90 milioni solo sull’Appennino bolognese.

«Ormai l’ambiente montano è un territorio marginale che viene abbandonato in maniera inesorabile da vent’anni a questa parte», spiega Isidoro Furlan, Generale dei Carabinieri in riserva che nel corso della sua vita lavorativa si è specializzato in operazioni anti bracconaggio e contro truffe e sofisticazioni agroalimentari. «Gli appennini – continua – sono aree marginali e l’abbandono ha portato al loro depauperamento: neanche i legittimi proprietari sanno più i confini dei propri terreni, perché sono abbandonati da anni. Per cui i territori sono alla mercé di chi fa le truffe». E infatti di truffe ce ne sono state, su terre abbandonate ma non solo, anche in luoghi dove ogni anno camminano migliaia di persone: nei luoghi dell’eccidio di Marzabotto, dove solo nell’autunno del 1944 i nazifascisti hanno trucidato 775 persone tra civili e partigiani, è arrivata quella che è stata definita “mafia dei pascoli”.

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La compagine criminale finita al centro del maxiprocesso Nebrodi, che prende il nome dal parco naturale che si estende tra le province di Messina, Catania ed Enna e che è giunto a sentenza nella notte del 31 ottobre scorso con 91 condanne per più di 600 anni di carcere, è riuscita a guadagnare anche sui terreni del Parco storico di Monte Sole, grazie ai fondi europei per l’agricoltura. Un meccanismo che collega la Sicilia all’Emilia-Romagna e non solo: le truffe della mafia dei pascoli hanno coinvolto terre di tutta Italia. Truffe che si basano sulla falsificazione di carte che attestino il possesso o l’affitto di terreni invece abbandonati o non utilizzati a fini agricoli dai reali proprietari, per portare i fondi europei che avrebbero dovuto aiutare allevatori e agricoltori nelle mani dei clan dei Batanesi (per cui è stata riconosciuta la mafiosità) e dei Bontempo Scavo.

Truffe da milioni di euro – 10 milioni in sette anni su tutto il territorio nazionale, duecentomila solo sull’Appennino bolognese – portate a termine anche grazie a professionisti compiacenti: tra questi c’è Giuseppe Scinardo Tenghi, che per anni è stato operatore del Centro autorizzato di assistenza agricola tra Enna e Trapani e, prima, impiegato dell’Agenzia per le erogazioni in agricoltura (Agea). Tenghi, condannato in primo grado a quattro anni per le truffe sui terreni, grazie alla conoscenza acquisita sul sistema di controllo dei fascicoli aziendali dei produttori agricoli e sulle vulnerabilità del sistema gestionale per i pagamenti dei contributi comunitari erogati da Agea, era il soggetto ideale per riuscire a inserirsi nel business milionario: secondo i giudici, nel 2014, 2015 e 2016 (unico anno in cui il contributo non venne erogato) attraverso la sua impresa Geo-Zoot ha indotto in errore l’Agea, falsificando la carte per dimostrare che la sua impresa avesse in uso ettari di terreno del Parco storico di Monte Sole e facendosi quindi erogare contributi dal Fondo Europeo Agricolo di Garanzia.

«L’operazione Nebrodi ha tirato fuori delle forti interconnessioni con altri pezzi di territorio: sono coinvolti l’Abruzzo, l’Emilia-Romagna con Marzabotto e tanti altri luoghi. Non è quindi solo un fenomeno siciliano, ma un fenomeno più ampio che riguarda il nostro Paese e non solo. In questi lunghi anni intorno al fenomeno ha vinto il silenzio. E, dentro a questo silenzio, ci sono altri due protagonisti: la paura e le connivenze. Questa vicenda dimostra il mutamento delle mafie: sono sempre state liquide, si sono adattate ai contenitori». A raccontarlo è Giuseppe Antoci: ex presidente del Parco dei Nebrodi, tra i primi a portare alla luce il meccanismo di pressioni ed intimidazioni che subivano gli agricoltori e il giro milionario di soldi legato alle truffe sui fondi europei, è stato minacciato più volte ed è sopravvissuto a un attentato.

Il silenzio di cui parla Antoci attraversa anche l’Appennino bolognese e lo fa in un luogo simbolico per la comunità di tutta la regione: quello dove ogni anno migliaia di persone festeggiano il 25 aprile, camminando sui luoghi delle stragi avvenute quasi ottant’anni fa, dalla Scuola di Pace fino al cippo con la Stella Rossa della Brigata partigiana, in cima a Monte Sole, passando per il Cimitero di Casaglia.

Qua il silenzio è quello dei proprietari dei terreni finiti al centro della truffa: non è detto che ne fossero a conoscenza, ma contattati non hanno comunque voluto parlare. Uno dei casi riguarda una cittadina privata, proprietaria di terreni in parte dati in affitto e coltivati, in parte completamente abbandonati, come ha dichiarato la sua segretaria: «È stata convocata per testimoniare perché sembrava che ci fosse una truffa dietro ma lei non ne sa niente ed è completamente all’oscuro». Ma altri casi coinvolgono anche istituzioni pubbliche, come l’Ente di gestione per i Parchi e la Biodiversità – Emilia Orientale, istituito dalla Regione Emilia-Romagna per la gestione di aree protette, a cui appartengono i terreni nel cuore del Parco storico.

Il memoriale per le vittime dell’eccidio di Monte Sole all’interno del Parco Storico – Foto: Cecilia Fasciani

Sandro Ceccoli, presidente dell’ente regionale, ha affermato più volte – raggiunto telefonicamente, per mail e di persona nella sede lavorativa – di non essere in alcun modo a conoscenza della vicenda e di non essersi informato in merito, neanche dopo le segnalazioni inviate: «Non abbiamo niente da dire e qui non abbiamo neanche le persone che possano dare queste indicazioni», ha dichiarato.

Reticoli mafiosi

Così, mentre silenzio e disattenzione sembrano imperversare, nelle vallate dell’Appennino a sud di Bologna ci sono già stati anche altri casi di infiltrazioni mafiose. Ce n’è uno in particolare di cui in pochi parlano ma che racconta bene il rischio dell’arrivo delle mafie dove ci sono soldi e dove c’è silenzio: è il caso emerso con l’inchiesta Reticolo, che colpisce uno dei comuni più grandi del territorio, Porretta Terme. E in particolare un luogo: una casa di riposo a pochi passi dalle storiche terme, costruita lungo uno degli affluenti del fiume che attraversa la città prima di scendere a valle.

«Un affare ideale», lo chiamano gli inquirenti nell’ordinanza dell’operazione che nell’ottobre del 2021 ha portato a numerose misure cautelari con l’accusa di associazione mafiosa: la casa di riposo Sassocardo secondo l’accusa è stata depredata da due persone – Fiore Moliterni e Francesco Zuccalà – ritenute vicine al clan di ‘ndrangheta Barilari-Foschini. Da Crotone e da Milano, nel 2015 i due arrivano sull’Appennino per subentrare nella proprietà della srl Albergo Residenziale Sassocardo facendosi carico dei quattro milioni di euro di debiti della precedente proprietaria, Stefania Semprini. Il motivo, rilevare l’immobile di pregio.

«La proprietà si è messa in mano a qualcuno, disponibile a rilevare la proprietà con il fine ultimo di dismettere l’attività e probabilmente impadronirsi di quello che era l’elemento di maggior pregio, cioè dell’immobile».

A spiegarlo è il sindacalista della Funzione Pubblica della Cgil di Bologna Simone Raffaelli, che ha seguito il caso per il lato che riguarda le lavoratrici della casa di riposo. Prima di dare voce a loro, però, bisogna capire il meccanismo che c’era dietro al progetto criminale: dopo diversi passaggi societari e la creazione di nuove entità, accompagnate, secondo quanto emerge dall’inchiesta, da fatturazioni fittizie e riciclaggio, Moliterni e Zuccalà avrebbero spogliato la casa di riposo con lo scopo di portarla al definitivo fallimento. In mezzo finiscono proprio le lavoratrici, costrette a dimissioni volontarie dalle società che man mano fallivano e venivano sostituite da nuove create ad hoc. Vittime, se non accettavano nuovi contratti che nulla avevano a che fare con le loro mansioni, di minacce di licenziamento e di mancati pagamenti: «Loro cercavano un’azienda in difficoltà e il Sassocardo era veramente in grossa difficoltà e la dottoressa Stefania Semprini non ha saputo vedere il pericolo», spiega Francesca Accorsi, l’unica delle lavoratrici che ha voluto parlare di quello che è successo e che, comunque, non vuole fare nomi.

Un meccanismo, anche in questo caso, di silenzio, che si lega strettamente al luogo dove si è inserito il progetto criminale: una piccola comunità dove le voci circolano in fretta. «Il rapporto tra datore di lavoro e lavoratore è molto più stretto, molto più vicino, si incontrano, si conoscono tutti», spiega l’avvocata giuslavorista Antonella Gavaudan. «Se il lavoratore fa valere un suo diritto tutta la comunità ne viene a conoscenza: persone che potrebbero denunciare o segnalare si tirano indietro e temono di farlo proprio perché in una piccola realtà i riflessi potrebbero essere importanti».

Ma c’è anche un altro tema che torna: quello del lavoro e dello stato di bisogno su cui fanno leva, tradizionalmente, le organizzazioni criminali: «Il primo gruppo di lavoratrici sicuramente avevano bisogno di quel lavoro e hanno fatto fatica a trovarne un altro in un contesto come quello di Porretta Terme, dove non è facile trovare un’occupazione. E hanno quindi accettato di soggiacere a delle condizioni che non erano buone», dice sempre Raffaelli. Per le lavoratrici, secondo quanto emerge dall’ordinanza dell’operazione, c’erano due opzioni: perdere il lavoro e anche gli arretrati che non erano stati pagati o accettare le condizioni imposte. «Noi non abbiamo considerato il ricatto o l’intimidazione vera e propria – ricostruisce Francesca Accorsi – perché ci si prospettava l’idea di continuare un rapporto di lavoro».

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Intimidazione, ricatto, riciclaggio, fatturazioni false: elementi che emergono dall’inchiesta e che si collegano alle aggravanti contestate, a partire da quella del metodo mafioso. Nelle carte, tra l’altro, emergono due nomi noti in Aemilia, il maxiprocesso alla ‘ndrangheta emiliana. C’è Pasquale Battaglia, condannato in via definitiva a otto anni per associazione mafiosa ed estorsioni: prima dell’arresto, è stato amministratore unico della B.P. una delle società che avrebbe emesso fatture false per lavori mai eseguiti all’interno della Sassocardo. E c’è Luigi Muto condannato in via definitiva a 12 anni per associazione mafiosa: è lui che interviene direttamente per risolvere un problema che riguarda il figlio di Francesco Zuccalà. Zuccalà, così come l’altro principale indagato, Fiore Moliterni, non ha voluto rilasciare dichiarazioni.

La scuola fantasma

«Secondo me quello che è successo alla Sassocardo è una cosa un po’ circoscritta però è una mia impressione». A dirlo è Franco Rubini, sindaco di Grizzana Morandi, città di neanche quattromila abitanti che prende il nome dal pittore bolognese Giorgio Morandi. Anche qua di problemi ce ne sono già stati: in questo caso partono dall’appalto per la costruzione di una nuova scuola che avrebbe dovuto accogliere studenti e studentesse anche dai paesi vicini. I lavori sono cominciati all’inizio degli anni Duemila ma oggi la scuola è ancora uno scheletro. C’è la struttura a nudo, qualche materiale da costruzione dentro e le grate da cantiere a ridosso con i nomi delle società che ci hanno lavorato: ce n’è uno in particolare che cattura l’attenzione, quello della Pi.Ca Costruzioni. A segnalarlo è lo stesso sindaco che afferma che la società che ha lavorato inizialmente nei lavori «ha avuto un’infiltrazione mafiosa» e, specifica, «era accusata di mafia, poi è fallita ed è sparita».

La storia è però più complessa, tra responsabilità poco chiare e qualche colpo di scena. Nel 2004 il Comune fa partire i lavori: l’appalto vale un milione e quattrocentomila euro per creare il polo scolastico di Riola Ponte. I fondi però non erano sufficienti: i lavori, quindi, si fermano e la scuola – al di là della palestra, inaugurata solo quest’anno – non viene mai completata. Neanche la Pi.Ca Costruzioni c’è più: è fallita qualche anno dopo i lavori alla scuola. Uno dei soci della ditta, Francesco Piccolo, non si occupa più di edilizia dopo un’interdittiva antimafia che ha colpito nel 2015 la Pi.Ca Holding, un’altra società di cui era amministratore.

«Prima di creare questo romanzo, vedete prima chi sono, cosa ho fatto, se ho avuto qualche interesse a farlo, perché se tu mi dici che ho avuto interesse a denunciare un clan che mi ha cercato di ammazzare…».

Piccolo parla di una situazione precisa: insieme al socio Raffaele Cantile, compaesano di Casapesenna, vicino Caserta, nel 2012 sale all’onore delle cronache perché denuncia di essere vittime di estorsioni da parte del clan dei casalesi per tramite di un ex socio in affari. Ma la storia non regge: nel 2015 la Prefettura di Modena emette un interdittiva antimafia verso la Pi.ca Holding per gli stretti rapporti con Giuseppe Fontana, un imprenditore legato al clan camorristico degli Zagaria e condannato a dieci anni proprio per concorso esterno in associazione mafiosa.

Secondo l’imprenditore si tratta di un malinteso: «Ci sono degli eventi che vengono percepiti diversamente al Sud e al Nord, perché al Nord non si capisce bene qual è il sistema». Ma la situazione pare chiara. Per il Consiglio di Stato, nell’atto che conferma l’interdittiva, da un’intercettazione ambientale emerge la strategia di Giuseppe Fontana: partecipare a bandi pubblici, in accordo con il boss Zagaria, attraverso una società al di sopra di ogni sospetto, la Pi.Ca di Francesco Piccolo. Proprio l’imprenditore che agli occhi dell’opinione pubblica passava come vittima della criminalità organizzata.

Dietro a un bando da poco più di un milione di euro si nasconde una storia di criminalità e infiltrazioni, ma nessuno se n’è mai interessato. E secondo il sindaco Rubini per risolvere il rischio di infiltrazioni mafiose basta affidarsi a imprese locali, ma anche solo per il bando per la riqualificazione dell’edificio del municipio, da un milione e 200 mila euro, dice di avere avuto delle difficoltà: «Noi abbiamo delle aziende locali a cui ci affidiamo. Quando facciamo delle gare per cinque ditte siamo tranquilli. Abbiamo fatto una gara per 20 ditte sulla riqualificazione del Municipio e non le avevamo tutte in zona».

Le colline del Parco Regionale Storico di Monte Sole, sull’Appennino bolognese – Foto: Sofia Nardacchione

Un tema non da poco perché il comune di Grizzana Morandi è stato selezionato per il progetto del Piano nazionale di ripresa e resilienza più grande: il Progetto Borghi, che ha l’obiettivo di «creare una crescita sostenibile e di qualità e di distribuirla su tutto il territorio nazionale». La linea A del progetto prevede la realizzazione di ventuno progetti pilota, uno a regione, che riceveranno 20 milioni a testa. In Emilia-Romagna il progetto selezionato è quello contro lo spopolamento di Campolo e La Scola, frazioni di Grizzana Morandi. Un piccolo borgo medievale e un altro fatto di case di pietra che, insieme, contano poco più di cinquanta residenti.

Milioni di euro dal Pnrr

Sull’Appennino bolognese, la leggenda delle piccole comunità che controllano il territorio e sanno chi arriva e cosa succede nei paesini di montagna sembra svanire. Quando si cammina per le strade dei paesi appenninici praticamente nessuno conosce i casi di infiltrazioni mafiose che ci sono stati, così come in pochi conoscono i progetti del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Per tutti il problema principale rimane quello legata alla viabilità, sicuramente non le infiltrazioni criminali.

È in questo contesto che arriveranno 90 milioni di euro dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, in piccoli comuni con pochi dipendenti e una struttura che non è abituata a gestire così tanti soldi: «Il rischio che finiscano nelle mani sbagliate o che i comuni non abbiano la capacità tecnica è reale – afferma Igor Taruffi, Assessore al Welfare della Regione Emilia-Romagna con delega alle aree interne e storico amministratore dell’Appennino – perché i piccoli comuni di montagna hanno personale ridotto, uffici tecnici ridotti, uffici di ragioneria con poco personale». E c’è anche un altro tema, che riguarda gli strumenti di monitoraggio: «La pioggia di denaro che arriverà in Italia, 235 miliardi di euro, sono un’attrattiva fortissima per la criminalità organizzata. Non aver previsto la logica del monitoraggio dei fondi del Pnrr ci espone ad oggi a rischi giganteschi». Leonardo Ferrante, responsabile del settore anticorruzione civica di Libera e del Gruppo Abele, non è l’unico a mettere in guardia. Lo fa anche Giuseppe Antoci che da anni cerca di mettere in campo strumenti per far sì che i fondi europei – nello specifico quelli legati all’agricoltura – non finiscano in mani mafiose: «Il Pnrr – dice – può diventare il precipizio dove crollano tutti e dal quale non riusciremo più a risalire».

Mancata trasparenza, scarsa consapevolezza del rischio di infiltrazioni mafiose, strutture non abituate a gestire così tanti soldi sono elementi che riguardano l’Appennino bolognese ma non solo: milioni di euro arriveranno su altri appennini, in altre aree interne del Paese, in piccoli comuni che non hanno il personale né le competenze per gestirli. Milioni e miliardi di euro che sono da spendere, in tutti i casi, in pochissimo tempo: entro il marzo del 2026.

CREDITI

Autori

Cecilia Fasciani
Andrea Giagnorio
Sofia Nardacchione

Editing

Giulio Rubino

In partnership con

The Good Lobby

Foto di copertina

Le colline del Parco Regionale Storico di Monte Sole, sull’Appennino bolognese
(Sofia Nardacchione)

Mafiosi in trasferta: gli anni del soggiorno obbligato in Emilia-Romagna

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Mafiosi in trasferta: gli anni del soggiorno obbligato in Emilia-Romagna

Sofia Nardacchione

Èla sera del 13 aprile del 1978. Filippo Melodia esce dalla sua casa, a Modena, dopo essere stato avvisato che un maresciallo di pubblica sicurezza vuole parlare con lui. Appena varca la soglia di casa viene colpito da un pallettone sparato da un fucile a canne mozze: Melodia, trentotto anni, si accascia e viene freddato da altri colpi. Il nome della vittima dell’agguato è conosciuto: forse non a Modena, sicuramente ad Alcamo, in Sicilia, dove è nato. E dove è salito agli onori delle cronache per un fatto che rimarrà nella storia: Filippo Melodia è l’uomo che – nel 1965, dopo che la ragazza aveva sciolto il fidanzamento – ha rapito Franca Viola, l’ha tenuta segregata per otto giorni, l’ha stuprata, contando poi sul matrimonio riparatore.

Un matrimonio che non arriverà mai: Franca Viola è infatti la prima donna a rifiutare le nozze con il suo stupratore. Melodia va quindi in carcere e, nel frattempo, cresce di rango: fa parte di cosa nostra e diventa il nuovo capomafia della Sicilia Occidentale, si macchia di vari reati tra cui sequestri di persona e scompare dalle cronache. Per poi ricomparire con la sua morte, centinaia di chilometri più lontano dalla Sicilia, ma non per scelta: Filippo Melodia era a Modena in soggiorno obbligato, come altre centinaia di persone negli anni Settanta.

L’Unità del 14 aprile 1978: la notizia dell’assassinio di Filippo Madonia

L’epoca del soggiorno obbligato

Il soggiorno obbligato è una misura cautelare di epoca fascista reintrodotta nel 1956 nei confronti di chi è ritenuto pericoloso per la pubblica sicurezza e, dal 1965, contro gli indiziati di associazione mafiosa. Una misura che nelle intenzioni del legislatore sarebbe servita ad allontanare i mafiosi dal loro territorio di origine, per spezzare i legami criminali che avevano creato. Così non è stato, perché, semplicemente, i legami si sono ricreati nei territori di arrivo dei soggiornanti obbligati: un caso emblematico è quello di Antonio Dragone, boss di ‘ndrangheta che da Cutro si trasferisce in provincia di Reggio Emilia all’inizio degli anni Ottanta, facendo così nascere una delle proiezioni extra-regionali della ‘ndrangheta, che più di trent’anni dopo, finirà al centro del maxiprocesso Aemilia.

Ma, già negli anni Settanta, i casi sono tanti: nella sola Emilia-Romagna ci sono le famiglie mafiose dei Commendatore, dei Riina, dei Leggio, oltre a una serie di personaggi che gravitano intorno ai nuclei mafiosi. All’apparenza si occupano tutti di attività legali: chi fabbrica e commercia materassi, chi commercia in vino, chi, ancora, piastrelle. Ma quello che emerge dai documenti desecrati nel giugno 2020 dagli atti di indagine sul caso Sindona è ben altro: un vero e proprio intreccio di storie mafiose, molte delle quali dai contorni ancora poco chiari, come l’omicidio di Filippo Melodia.

Tra materassi e sequestri di persona

Anni Sessanta. I fratelli Carmelo e Francesco Commendatore si trasferiscono, spediti in soggiorno obbligato, da Catania a Budrio, comune ai confini della città metropolitana di Bologna, nelle terre di pianura che vanno verso Ferrara. Insieme a loro ci sono i cugini Felice e Alfio. La famiglia decide di entrare nel business di materassi, cuscini e carta igienica, tra fabbricazione e vendita ambulante. Dopo qualche anno decidono di dividersi. Carmelo e Francesco Commendatore nel 1971 costituiscono una fabbrica di cuscini e materassi di gommapiuma a Budrio: il nome è “Centroflex”. I cugini Felice e Alfio, invece, costituiscono altre ditte operanti negli stessi mercati tra Forlì, Budrio e Bologna.

Le attività della Centroflex vengono però fermate poco dopo: Francesco e Carmelo Commendatore vengono arrestati nel 1979. I fratelli sono ritenuti responsabili di un sequestro di persona, avvenuto proprio in Emilia-Romagna: quello di Angelo Fava, un industriale di Cento, comune tra Ferrara e Bologna, sequestrato il 4 febbraio del 1979 dai catanesi Angelo Pavone, che poi verrà assassinato, e Santo Mazzei, appartenente – scrive la Criminalpol – «alla pericolosissima famiglia di altissimo livello delinquenziale dei “carcagnusi”», collegati entrambi ai Commendatore. Anche perché il furgone sul quale Fava è stato portato a Catania è della ditta Commendatore, così come il capannone di Budrio dove è stato tenuto il sequestrato la mattina del rapimento.

Il business dei materassi finisce così, almeno per Carmelo Commendatore, che viene condannato a tredici anni di carcere per il sequestro. Francesco viene invece assolto, ma le inchieste sui Commendatore continuano: nello stesso anno i due vengono denunciati dalla Questura di Bologna per associazione a delinquere di stampo mafioso, insieme ad altre 80 persone.

I carcagnusi

Negli anni Settanta a Catania si forma un gruppo criminale, nato con lo scopo di contrastare il potere del boss di Cosa Nostra Nitto Santapaola e della sua famiglia: la nuova organizzazione si chiama “clan dei Cursoti”. Tra i mafiosi che ne fanno parte c’è Santo Mazzei, detto “U Carcagnusu”, diventato uomo d’onore di Cosa Nostra per volere di Leoluca Bagarella. All’inizio degli anni Ottanta, dopo l’omicidio del boss Corrado Manfredi, alla guida dei Cursoti, e la conseguente nascita di tensioni dovute alla scelta del nuovo capomafia, il clan si sgretola e si formano così tre gruppi: i “Cursoti catanesi”, i “Milanesi” e i “Carcagnusi”, con a capo Santo Mazzei. I “Carcagnusi”, oggi come allora, si muovono tra Catania e il Nord Italia, ma gli interessi di Mazzei e dei suoi sodali si erano già allora spostati anche sull’Emilia-Romagna, dove viveva il fratello Francesco, in soggiorno obbligato tra Casalfiumanese, provincia di Bologna, e Carpi, provincia di Modena.

Ma il commercio dei materassi non si è mai fermato, arriva fino ad oggi: dalla tradizione di famiglia è nata la Eminflex, una delle più grandi aziende di materassi in tutta Italia, con sede sempre a Budrio ma con punti vendita in tutto il Paese. Il collegamento è trasparente: «La storia di Eminflex – si legge sul sito – inizia nel 1973 a Budrio di Bologna per merito della famiglia Commendatore che decide di intraprendere una nuova attività entrando nel mercato dei rivenditori di materassi» . Un’azienda che, vent’anni dopo, nel 1993, farà un salto grazie alla televendita sulle reti del gruppo Finivest di Silvio Berlusconi, continuando l’ascesa fino ad oggi.

Da Corleone all’Emilia-Romagna

Quella dei Commendatore non è l’unica famiglia legata all’ambiente criminale a Budrio: nel comune vive anche Giacomo Riina. Corleonese, classe 1908, Giacomo Riina è lo zio di Salvatore Riina, detto Totò. E non è a Budrio per caso: si è trasferito nel 1969, dopo anni di presenza sul territorio della famiglia dei Commendatore ma anche di un’altra famiglia, quella di Luciano Leggio, meglio conosciuto come “Liggio”, la primula rossa di Corleone. Cosa hanno in comune? Appartengono alle cosche mafiose più attive, dice la Criminalpol nei documenti desecretati, «fra quelle che in questi ultimi anni (quindi prima del 1979, ndr) si sono dedicate a molti sequestri di persona». Ma i collegamenti sono molti di più. Giacomo Riina così come Luciano Leggio vengono arrestati nel 1964 per la prima guerra di mafia – combattuta all’inizio degli anni Sessanta a Palermo con più di cento omicidi – e processati prima nel capoluogo siciliano e poi a Bari: vengono assolti nel 1969, quando vengono tutti mandati in soggiorno obbligato. Riina, appunto, a Budrio.

Qui viene considerato il “cervello” delle attività dei Commendatore: sovrintende le società dei fratelli che, scrive sempre la Criminalpol, «non prendono mai iniziative senza il suo consenso». I rapporti tra le famiglie mafiose emergono chiaramente qualche anno dopo il suo arrivo: la casa dello zio del più famoso boss viene perquisita alla ricerca dei catturandi Salvatore Riina e Salvatore Bagarella, ritenuti allora responsabili dell’omicidio del colonello dei carabinieri Giuseppe Russo, ucciso a Ficuzza, in provincia di Corleone, nel 1977. Dei ricercati non c’è traccia, ma viene sequestrato vario carteggio, dal quale emergono i collegamenti con noti esponenti della mafia siciliana, tra cui i Leggio.

Luciano Leggio

Nel 1979 gli stessi Paolo Borsellino, allora sostituto procuratore della Repubblica, ed Emanuele Basile, comandante dei carabinieri di Monreale, arrivano a Budrio per portare a Palermo e interrogare Giacomo Riina, che farà poi ritorno nel territorio emiliano-romagnolo dove ormai porta avanti le sue attività. Non solo con i Commendatore, ma anche con la famiglia dei Leggio con cui non c’è solo una storia criminale comune e un legame familiare (è sposato con Maria Concetta Leggio): Riina gestisce anche l’azienda agricola di famiglia tra i confini di Budrio e Medicina, nel bolognese, nata dopo l’arrivo dei Leggio in Emilia-Romagna e, in particolare, a Castel San Pietro Terme, tra Bologna e la Romagna. Un’azienda che negli anni Settanta valeva tra i 600 e i 700 milioni di lire.

Una geografia mafiosa

Intorno a Giacomo Riina gravitano una serie di personaggi legati ai clan mafiosi: c’è il noto contrabbandiere di sigarette Gerardo Cuomo, campano che si è trasferito a Bologna, dove nel 1992 gli verranno confiscati diversi beni. C’è Francesco Scaglione, in soggiorno obbligato a Massa Lombarda, «capace di commettere qualsiasi reato» – come si legge negli appunti dell’allora questore di Bologna Italo Ferrante – e arrestato nel 1978 perché indiziato di associazione a delinquere e gestore di case da gioco. E ancora, Francesco Minarda, che arriva a Bologna nel 1978 con la scusa di dover effettuare delle cure di fisioterapia all’ospedale Rizzoli di Bologna, ma poi allontanato perché chiaramente il suo scopo era quello di mantenere contatti con clan mafiosi.

C’è Francesco Scordato, che vive a Formigine, in provincia di Modena. Scordato è proprietario di una società di trasporti con cui tiene collegamenti con il mercato ortofrutticolo di Bologna e il palermitano, e lavora anche nel commercio di piastrelle insieme a Tommaso Scaduto, mandato in soggiorno obbligato dall’Asinara a Castel Maggiore, appena fuori Bologna, sulla strada che porta a Ferrara: se Scordato, dice la Criminalpol, è un «ottimo luogotenente», Scaduto è un vero e proprio boss, «anche se dietro quest’ultimi – scrive ancora il questore Ferrante – si intravede la figura di Badalamenti Gaetano». Badalamenti, il boss di Cinisi che verrà condannato nel 1987 negli Stati Uniti a 45 anni di reclusione per un traffico di droga dal valore di 1,65 miliardi di dollari, ma anche all’ergastolo per aver ordinato l’omicidio di Giuseppe Impastato. E che prima di essere condannato vive per due anni in Emilia-Romagna: a Sassuolo, provincia di Modena, dal 1974 al 1976.

È intorno a questi personaggi che ruotano omicidi e sequestri di persona, ma anche business che arricchiscono le casse delle famiglie mafiose: la base operativa è l’Emilia-Romagna, ma i collegamenti sono nazionali e internazionali. C’è, ad esempio, il contrabbando di tabacco lavorato, che porta alcuni boss, tra i quali Tommaso Scaduto, a gravitare vicino alla riviera romagnola, dove attraccano mezzi carichi di sigarette provenienti dalla Jugoslavia. C’è una rete di trasporti utilizzata per attività lecite e illecite: a comporla sono i camion delle società di materassi dei Commendatore e la “Linea S” di Sassuolo, la società di Scaduto, per il recapito di piastrelle.

Entrambe vengono utilizzate per i sequestri di persona. Non solo quello dell’imprenditore Angelo Fava, ma anche un altro: quello di Armando Montanari. Anche lui industriale, viene rapito a Guastalla, in provincia di Reggio Emilia, da Tommaso Scaduto e dal suo clan che gravita tra Modena e Monreale, provincia di Palermo: è uno degli stessi automezzi della “Linea S” che viene utilizzato per trasportare il riscatto pagato per la liberazione di Montanari. E poi ci sono gli omicidi, quello di Filippo Melodia e quello di Baldassarre Garda: in soggiorno obbligato a Castel Maggiore, è il figlio di Giuseppe, vecchio boss della mafia di Monreale, Palermo. Una mafia figlia del boss e medico Michele Navarra, che rinnega quella di nuovo corso, guidata da Luciano Leggio e dagli uomini a lui vicini. Baldassarre Garda viene ucciso il 19 febbraio del 1978 a Santa Maria Codifiume, piccola frazione di Argenta che affaccia sul fiume Reno.

Filippo Melodia

A ucciderlo a colpi di pistola sono dei killer, nella casa colonica della sua azienda agricola. Sul fatto che sia un delitto di mafia gli investigatori sembrano non avere dubbi, i motivi invece sono meno chiari: probabilmente l’omicidio di Baldassarre Garda è legato a contrasti familiari di ordine ereditario, forse legati al sequestro del nipote Francesco Madonia, che nel 1974 era stato rapito e rilasciato dopo sette mesi in cambio di un riscatto di un miliardo di lire. I contorni però non sono definiti: «Non si può escludere – si legge nei documenti della Criminalpol – che il sequestro Madonia sia stato commissionato da Baldassare allo stesso Scaduto e che il Baldassare poi insoddisfatto della somma percepita abbia minacciato lo Scaduto di vendetta».

Ma la violenza non si ferma: nello stesso periodo Salvatore Truglio, siciliano residente a Baricella, provincia di Bologna, finisce sotto un trattore guidato da Vincenzo Maenza, unico testimone ed ex dipendente di Giuseppe Garda. Una morte che viene catalogata come decesso per infortunio sul lavoro e mai più indagata.

Così, tra materassi, cuscini e piastrelle, negli anni Settanta gli equilibri mafiosi si giocano anche in Emilia-Romagna. Sulla lunga scia di sangue della prima guerra di mafia palermitana, gli interessi criminali arrivano tra Bologna, Modena, Ferrara e la Romagna, ma il laccio che lega i soggiornanti obbligati alla terra d’origine non viene allentato: è in Sicilia che vengono portate le vittime dei sequestri di persona, nell’isola arrivano i soldi dei riscatti. Ed è dalla Sicilia che viene fatto arrivare pesce fresco di qualità, come facevano il boss Gaetano Badalamenti prima e Tommaso Scaduto poi, grazie alle conoscenze negli aeroporti di Palermo e Bologna.

CREDITI

Autori

Sofia Nardacchione

Illustrazioni

Editing

Luca Rinaldi

‘Ndrangheta emiliana

‘Ndrangheta emiliana

#NdranghetaEmiliana

Negli anni Ottanta la ‘ndrangheta cutrese arriva in Emilia-Romagna: basta una persona – il boss Antonio Dragone, mandato con obbligo di dimora in provincia di Reggio Emilia – per creare quello che, in poco tempo, diventerà il clan più radicato in regione.

È una struttura che, di anno in anno, si espande e si rafforza, infiltrandosi in tutti i settori produttivi della fertile Emilia. Partendo dai classici business mafiosi del traffico di droga e delle estorsioni, la ‘ndrangheta emiliana diventa sempre più una mafia moderna, che si rimodella in base al territorio in cui è radicata:

una ‘ndrina autonoma e potente, che – tra Reggio Emilia, Modena, Parma e Piacenza – fa affari con imprenditori, professionisti e politici locali, senza lasciare da parte la violenza. Il protagonista di questa fondamentale fase è il boss Nicolino Grande Aracri.

Dopo più di trent’anni dall’arrivo di Dragone a Reggio Emilia, nel 2015 la ‘ndrangheta emiliana viene colpita dal più imponente procedimento giudiziario della storia italiana nei confronti delle mafie al Nord: Aemilia. Un processo da cui sono nati numerosi filoni d’indagine per far luce su di un clan che, nonostante arresti e processi, non si è mai fermato.

La paura della ‘ndrangheta emiliana

La paura della ‘ndrangheta emiliana

Il clan che si è radicato in Emilia-Romagna, nei decenni si è evoluto e modernizzato, senza mai lasciare da parte il suo carico di violenza, tra omicidi, minacce, incendi, sfruttamento e intimidazioni, anche dopo l’operazione Aemilia

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Aemilia 1992, cronistoria di una sentenza

Aemilia 1992, cronistoria di una sentenza

Condanna all’ergastolo in primo grado per il boss Nicolino Grande Aracri. Assolti gli altri imputati. Una storia cominciata 28 anni fa, che si intreccia con uno dei principali processi sulla ‘ndrangheta al Nord

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Autori

Sofia Nardacchione

Infografiche & Mappe

Lorenzo Bodrero

Editing

Luca Rinaldi