Il gigante delle Coop

Il gigante delle Coop

Stefano Chianese
Mattia De Cristofaro
Rita Martone
Giovanni Soini

SSanificazione, vigilanza privata, logistica. Sono solo alcuni dei settori in cui opera il gigante Coopservice, cooperativa emiliana di servizi con contratti in tutta Italia e oltre. Il gruppo Coopservice nasce all’inizio degli anni ‘90 dalla fusione di due importanti aziende di servizi attive nella vigilanza e nelle pulizie; da lì in poi, la storia della cooperativa è una scalata continua: Spagna, Brasile, India e Croazia sono solo alcuni dei paesi in cui, direttamente o tramite le sue controllate, si aggiudica appalti milionari.

Dai primi anni del 2000 la multiservizi registra una crescita inarrestabile, arrivando a fatturare oltre un miliardo di euro all’anno. Ma la sua ascesa non è priva di ombre: sono infatti molti i processi in cui la cooperativa è stata implicata, con accuse che vanno dalla corruzione alla turbativa d’asta, e le vertenze collettive fatte dai lavoratori e dalle lavoratrici del gruppo, che denunciano spesso condizioni di lavoro pessime.

L'inchiesta in breve
  • Sanificazione, vigilanza privata, logistica. Il gigante Coopservice, cooperativa emiliana di servizi, dai primi anni del 2000 registra una crescita inarrestabile, in tutti i settori, ma la sua ascesa non è priva di ombre.
  • A Bologna Coopservice vince un maxi appalto da 123 milioni di euro per la fornitura di servizi all’ospedale Sant’Orsola. Il 20 agosto 2020 il Consiglio di Stato annulla l’appalto per conflitto di interessi.
  • A gennaio 2022 inizia Silence, un processo che tratta le vicende avvenute all’interno del principale ospedale di Cosenza.
  • Anche qui Coopservice aveva in gestione da agosto 2014 i servizi di pulizia e servizi integrativi. Le accuse sono molto pesanti: truffa aggravata ai danni dello stato, falso e frode in pubbliche forniture.
  • Una persona dipendente della Coopservice, della quale tuteliamo l’anonimato, ha raccontato le sue condizioni lavorative. Una sola divisa in piena seconda ondata covid, straordinari non retribuiti, mansioni diverse da quelle stabilite nel contratto e falsificazioni delle tempistiche registrate.
  • Marco Righi, segretario provinciale della Cgil di Reggio Emilia, racconta del riconteggio delle buste paga di 260 lavoratori dal 2016 al 2021. Quasi 800 mila euro di retribuzioni dovute e non corrisposte dalla cooperativa ai lavoratori e alle lavoratrici.

I presunti comportamenti illeciti contestati alla Coopservice nelle diverse indagini seguono uno schema comune ma, nonostante ci siano diversi processi ancora in corso, molte operazioni giudiziarie del passato si sono concluse in prescrizione, oppure con l’assoluzione degli imputati. Una delle più recenti e importanti che vede protagonista Coopservice prende il via il 20 agosto 2020, quando il Consiglio di Stato revoca alla cooperativa un maxi appalto da 123 milioni di euro, vinto per la fornitura di servizi di supporto alla persona dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna.

L’appalto era stato indetto a dicembre 2017 e vinto nel gennaio 2019. Un anno dopo, con l’inizio della pandemia da Coronavirus, i servizi forniti da Coopservice erano più richiesti e importanti che mai. Coopservice vince l’appalto, superando la concorrenza delle cooperative Dussmann e Reekep, entrando così nell’ospedale Sant’Orsola-Malpighi, il maggiore istituto di ricovero e cura dell’intera regione.

L’appalto al Sant’Orsola di Bologna

Che ci fossero delle particolarità sospette attorno a questo appalto poteva essere evidente fin dal principio. Il progetto di gara era stato ideato e coordinato dal dottor Marco Storchi, dirigente del Sant’Orsola e legato da stretta parentela alla Coopservice. Roberto Olivi infatti, presidente della Coopservice, è il cognato di Storchi, e quest’ultimo è stato anche dipendente della stessa cooperativa dal 1998 al 2004.

La vicenda prende una svolta decisiva quando il 20 agosto 2020 il Consiglio di Stato annulla il maxi appalto per conflitto di interessi e lo affida quindi alla terza classificata, la cooperativa Reekep. Chiara Gibertoni, direttrice generale del policlinico, che all’epoca dell’aggiudicazione dell’appalto non era ancora a capo della struttura, in un’intervista del 6 giugno 2022 spiega che Marco Storchi lavorava per l’ospedale già dal 2012, e che, nonostante non si fosse mai occupato di sanificazione, si propose di coordinare il progetto di gara.

La dottoressa aggiunge che una volta terminata la progettazione, Storchi sarebbe stato estromesso dal DEC, la direzione esecutiva dell’appalto, a causa del potenziale conflitto d’interessi con il presidente della cooperativa, vedendosi affidare l’incarico di direttore della ristorazione. Il Servizio Acquisti Metropolitani dell’Ausl di Bologna, ossia l’organo che indice le gare d’appalto per l’azienda ospedaliera però, secondo la sentenza del Consiglio di Stato, rimosse Storchi solo dopo l’aggiudicazione della gara, quando il 27 febbraio del 2019 il progettista dichiarò il potenziale conflitto d’interessi.

Per quanto riguarda invece il passato lavorativo nella cooperativa, nella sentenza del Consiglio di Stato si evince come il curriculum del dirigente, pubblicato sul sito istituzionale dell’Azienda, nulla riferisca sul suo passato a Coopservice, che non emerge neppure nelle dichiarazioni rese in corso di gara dalla Coopservice stessa. Una faccenda complessa, che è costata alla cooperativa il subentro della concorrente Reekep da luglio 2022, e l’apertura di un’indagine da parte della Procura bolognese. Abbiamo contattato la Coopservice per avere chiarimenti sulla vicenda ma purtroppo le nostre domande non hanno ottenuto risposte.

Ma mentre i due giganti della cooperazione si fronteggiavano a colpi di ricorsi, i lavoratori dell’appalto lamentavano una situazione ai margini della legalità. Una persona dipendente della Coopservice, della quale tuteliamo l’anonimato, ha raccontato le sue condizioni lavorative e quelle di alcuni suoi colleghi. Nel pieno della seconda ondata di Coronavirus, si sono dovuti accontentare di una sola divisa fornita dalla Coopservice. Hanno dovuto effettuare straordinari non retribuiti, mansioni che non corrispondevano a quelle stabilite nel contratto e falsificazioni delle Sla (service level agreement) ovvero le tempistiche che un fornitore deve rispettare secondo quanto stabilito con l’ente appaltatore. Queste sono alcune delle denunce fatte dalla persona intervistata che descrive anche le pessime condizioni strutturali di un tunnel sotterraneo del Policlinico di Bologna utilizzato per trasportare i pazienti su piccoli veicoli elettrici.

Il processo Silence a Cosenza

Il caso del Sant’Orsola non è l’unico che la cooperativa deve affrontare. A gennaio 2022 inizia infatti Silence, un processo tuttora in corso che tratta le vicende avvenute all’interno dell’Annunziata, il principale ospedale di Cosenza. Anche qui Coopservice aveva in gestione da agosto 2014 i servizi di pulizia e servizi integrativi per gli ospedali di Cosenza e della vicina Rogliano, per un appalto indetto dalla regione Calabria.

Le accuse sono molto pesanti: truffa aggravata ai danni dello stato, falso e frode in pubbliche forniture. Secondo l’indagine iniziata nell’aprile 2018, la Coopservice avrebbe chiesto e ottenuto il pagamento di ore di lavoro mai effettuate: un illecito profitto tratto dal denaro pubblico stimato intorno ai 3 milioni di euro.

Nello specifico la cooperativa è accusata di aver fornito false rendicontazioni in merito all’effettuazione delle ore di lavoro: sarebbero stati compilati i prospetti con dati non veritieri circa il numero delle ore giornaliere effettuate dal personale della società appaltatrice Coopservice e dalla società sub-appaltatrice Multiservice Sud, con i corrispondenti importi di denaro per un ammontare complessivo pari a € 3.092.416,04.

Venivano svolti servizi di pulizia del tutto inadeguati, scarsi e insufficienti sul piano qualitativo e quantitativo, e comunque non conformi a quelli contrattualmente pattuiti. Si impiegavano, per le mansioni di cura e igiene alla persona, personale addetto ai servizi di pulizia e non inquadrato contrattualmente nella categoria degli Operatori Socio Sanitari (O.S.S.).

Tra i tredici indagati c’è Monica Fabris, dirigente della Coopservice. Secondo l’accusa la dirigente e quattro colleghi della cooperativa non avrebbero controllato che il servizio di sanificazione venisse effettivamente erogato.
Nel febbraio 2019 i Nas di Cosenza intercettano una telefonata tra Monica Fabris e il compagno.

«Te lo dico qua al telefono tanto non me ne frega più niente. Coopservice ha pagato una tangente di 420mila euro. Se graffiano un pochino, con quella vicenda lì sono fottuti, non ne escono. Sono sicura che lì c’è l’inciucio. Cioè non sono… non sono entrati a Cosenza per merito di gara… questo voglio dire».

La mazzetta di cui parla la Fabris, secondo gli inquirenti, sarebbe la quota che la cooperativa emiliana avrebbe pagato per assicurarsi l’appalto cosentino.
Anche su questo punto le domande di Irpimedia non hanno ricevuto risposta da Coopservice.

Proprio a causa delle misure restrittive adottate dal gip di Cosenza a carico di figure apicali dell’azienda e a seguito dell’inchiesta cosentina, la Coopservice si sarebbe vista revocare un altro maxi appalto: secondo Il Fatto di Calabria, il Consiglio di Stato avrebbe infatti annullato al colosso emiliano un appalto per pulizie e sanificazione degli ospedali di tutta l’area centrale ligure.
La cooperativa friulana Idealservice, seconda classificata, avrebbe inizialmente perso il ricorso dinanzi al Tar della Liguria, ma non rassegnandosi avrebbe ottenuto ragione davanti al Consiglio di Stato, provocando l’annullamento del maxi appalto. Tra le argomentazioni, le diverse condotte morali discutibili a carico di Coopservice: il già citato processo Silence a Cosenza e l’appalto al Sant’Orsola di Bologna.

Ad ottobre 2021 interviene Giuseppe Busìa, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), che propone al prefetto di Cosenza di applicare una misura di straordinaria e temporanea gestione dell’impresa per fatti corruttivi.
Viene così assegnato l’incarico temporaneo al commercialista Luca Littamè, che dal 28 gennaio al 28 aprile 2022 ha affiancato gli organi della società, al fine di agevolare il ritorno alla piena legalità. Una misura di monitoraggio che consente una revisione trasversale sotto il profilo organizzativo e gestionale della società nel suo complesso, anche in abbinamento con eventuali iniziative di revisione e di bonifica assunte autonomamente dall’organizzazione.

Il precedente al Policlinico di Modena e le condizioni dei lavoratori di Reggio Emilia

Le indagini su coopservice, tutte basate su accuse molto simili, sembrano mettere in luce un pattern di comportamenti costante e ripetuto. Anche andando indietro nel tempo, sembrerebbe che la prassi adottata dalla cooperativa sia sempre la stessa. L’indagine Last Business, infatti, avviata nel 2014, aveva già descritto un complesso sistema di appalti pilotati all’interno del sistema sanitario modenese tra il 2007 e il 2012. Fra le principali accusate, di nuovo Coopservice, la sua controllata Servizi Italia e una costellazione di altre aziende più piccole.

L’indagine viene avviata in una prima fase nel gennaio 2012, quando nell’ambito di un altro procedimento, vengono captate conversazioni inerenti a un presumibile sistema di tangenti. Al centro del meccanismo corruttivo sarebbe stata la figura del Direttore Generale del Policlinico di Modena, il dottor Stefano Cencetti, che l’accusa ritiene utilizzasse delle onlus per ricevere il pagamento di tangenti.

Il processo parte nel 2017 a Modena e coinvolge inizialmente 50 imputati, tra cui il presidente della Coopservice Roberto Olivi.
Oltre al presidente Olivi, di Coopservice e Servizi Italia sono stati imputati e prescritti gli ex dirigenti Reggiani, Facchini e Righi. Attualmente, il procedimento in corso resta in piedi solo per i soggetti accusati di riciclaggio.

Quanto emerge dalle indagini, è un quadro complesso che si ripercuote sulle lavoratrici e sui lavoratori, spesso costretti a ore di lavoro non pagate, fermi cantiere e permessi non retribuiti non richiesti dal lavoratore. E’ quanto viene evidenziato da Marco Righi della Cgil di Reggio Emilia. Sul territorio di sua competenza sono circa quattrocento i lavoratori della Coopservice. Lo scorso anno, più della metà di queste persone, ha unito le forze e insieme al sindacato ha portato avanti un’azione collettiva per il recupero di un’ingente somma di denaro, sottratta dalle buste paga dei lavoratori.

Estero: in Albania salta un ministro per un appalto

Nelle indagini che coinvolgono questa cooperativa, i nomi di dirigenti e manager compaiono anche all’estero. La vicenda che vede nuovamente coinvolta Servizi Italia, controllata di Coopservice, riguarda quella che sembrerebbe essere la più grande concessione in ambito medico del governo albanese, cioè quella riguardante la sterilizzazione di apparecchiature mediche di ospedali pubblici e convenzionati. La vincitrice è Saniservice, un consorzio di imprese composto da Investital LLC, la controllata di Coopservice Servizi Italia, e altre due aziende italiane, Tecnosanimed e U.Jet s.r.l.

Investital LLC, che fa parte del consorzio al 40%, avrebbe a disposizione un capitale sociale di soli 1000 euro e nel suo passato non avrebbe mai avuto a che fare con l’ambito medico. L’appalto, per un’azienda tanto piccola, sarebbe enorme: più di 100 milioni complessivi per una durata di 10 anni. Non è chiaro quale ruolo svolga la società Investital LLC nel consorzio, che avrebbe capitale minimo e nessuna esperienza nel campo della medicina.
Secondo la banca dati Opencorporates.al, il titolare effettivo della società è Ilir Rrapaj, cittadino albanese classe 1972, titolare anche di un’altra piccola azienda edile con sede a Perugia ed un solo dipendente.
Rrapaj verrà dichiarato nel 2015 il principale vincitore del contratto di concessione per la sterilizzazione. Gli altri titolari effettivi della società sarebbero Roberto Olivi, Presidente della Coopservice e del Consiglio di Amministrazione di Servizi Italia e altri due membri del Cda di Servizi Italia.

Dopo l’assegnazione dell’appalto sono arrivate le denunce del chirurgo albanese Artan Koni. Insieme ad una cordata di medici ha denunciato, anche in Tv, come la sterilizzazione di un set chirurgico costava 20,4 euro prima del nuovo appalto, mentre dopo il contratto costava 120 euro, ovvero 5 volte di più.
Il caso è diventato una questione nazionale in Albania, portando ad una serie di indagini da parte della polizia albanese. Non si è arrivati a processo, il caso però è stato riaperto dalla SPAK, la nuova polizia federale dell’Albania, nel gennaio 2020.
Gli interrogatori sono ancora in corso: nel luglio 2022 è stato sentito Beqaj, ormai ex ministro dal 2017, in un interrogatorio durato 9 ore.

Ad essere indagato sarebbe il presunto legame tra Ilir Rapaj, proprietario di Investital LLC nonchè principale titolare del consorzio, e ilir Beqaj, ministro della Salute ai tempi dell’assegnazione dell’appalto. L’idea di fornire la concessione infatti sarebbe stata presentata proprio dal ministro della Salute Ilir Beqaj nel 2014.
I primi sospetti sulla vicenda nascono dopo la vittoria del Partito Socialista alle elezioni del giugno 2013, quando Rrapaj torna in Albania e stabilisce un contatto con l’allora ministro della Salute Ilir Beqaj. I contatti proseguono con la visita da parte del ministro e del premier albanese Rama a Perugia.

Da sinistra il secondo è Ilir Rapaj, il terzo è il Vice Ministro albanese Klodian Rrepaj, il quarto è il Ministro albanese della Salute Ilir Beqaj in visita ufficiale in Italia alla Regione Umbria nel dicembre del 2013

Se dal punto di vista giudiziario la vicenda rimane aperta e non sono ancora stati riscontrati degli illeciti penali, è arrivata però una risposta da parte delle istituzioni: il governo albanese avrebbe deciso di diminuire il costo per la sanificazione delle apparecchiature mediche e Beqaj non è stato più riconfermato ministro della sanità.

Nel gennaio 2020 infatti, dopo l’avvio dell’istruttoria SPAK (polizia federale), esattamente un giorno dopo, il governo Rama, avrebbe deciso di ridurre del 25% il prezzo pagato alla società concessionaria. Questa revisione del contratto è stata commentata come una “correzione mirata” dopo l’avvio delle indagini. L’ex ministro Ilir Beqaj, che non ha potuto essere eletto deputato nel distretto di Scutari alle ultime elezioni, avrebbe dovuto assumere una posizione di rilievo nel nuovo parlamento. Il ritardo nella nomina ha sollevato sospetti che ciò sia accaduto a causa delle indagini.

CREDITI

Autori

Stefano Chianese
Mattia De Cristofaro
Rita Martone
Giovanni Soini

Editing

Giulio Rubino

In collaborazione con

Scuola di giornalismo Lelio Basso

Mafie in Emilia: il rischio di assuefarsi alla presenza della ‘ndrangheta

#NdranghetaEmiliana

Mafie in Emilia: il rischio di assuefarsi alla presenza della ‘ndrangheta
Sofia Nardacchione

CCentinaia di udienze, decine di processi, aule bunker montate e smontate tra Bologna e Reggio Emilia, migliaia di articoli di giornale, schede, ritratti, cronache, approfondimenti. Oltre sei anni dopo l’operazione Aemilia e gli arresti ai danni di una ’ndrangheta articolata tra Calabria ed Emilia-Romagna, il rischio, per gli emiliano-romagnoli, è di abituarsi alla presenza mafiosa: «Oggi c’è una assuefazione al tema che è normale, fisiologica, succede dappertutto, anche in Calabria. È però un errore: sbagliano ad avere questo abbassamento della guardia, sbagliano di grosso perché poi si troveranno nuovamente con grosse sorprese». A dirlo è Enzo Ciconte, storico delle organizzazioni mafiose italiane che già negli anni Novanta metteva in guardia l’Emilia-Romagna sulla forte infiltrazione della ‘ndrangheta in regione

Un occhio particolare per Ciconte deve andare ai rapporti economici tra la ‘ndrangheta e il mondo economico: «Non si sono tagliati alla radice i rapporti tra questa organizzazione mafiosa e il modo di fare economia. Se non si tagliano questi rapporti – continua lo studioso –  il gioco continua». Il “gioco” è quello di una ‘ndrangheta che fa affari, si infiltra e radica nell’economia legale dell’Emilia-Romagna: «Se le imprese e alcuni soggetti economici continuano ad avere rapporti con la mafia, perché la mafia riesce ad avere la possibilità di garantire condizioni che l’economia e la politica non possono fare, è chiaro – conclude Ciconte – che le cose andranno avanti».

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La paura della ‘ndrangheta emiliana

Il clan che si è radicato in Emilia-Romagna, nei decenni si è evoluto e modernizzato, senza mai lasciare da parte il suo carico di violenza, tra omicidi, minacce, incendi, sfruttamento e intimidazioni, anche dopo l’operazione Aemilia

Grazie a una vasta area grigia – sono decine i professionisti condannati o imputati nel processo Aemilia e nei suoi filoni – la ‘ndrangheta emiliana si è fatta prestatrice di servizi, per riuscire ad aumentare sempre più i propri introiti, tra appalti pubblici e privati, in particolare nel settore edilizio e del movimento terra, smaltimento di rifiuti, ristorazione e gestione delle cave. Un’evoluzione iniziata già negli anni Ottanta, dall’arrivo in regione del clan legato alla famiglia dei Dragone e poi dei Grande Aracri, che si è insediato in Emilia-Romagna con modalità completamente differenti da quelle utilizzate nel territorio di origine, Cutro.

«Nessuno può pensare – afferma Ciconte – che gli uomini della ‘ndrangheta siano arrivati con i kalashnikov o con le bombe a mano e abbiano conquistato militarmente il territorio: lo hanno conquistato attraverso una serie di rapporti». E infatti, dopo l’arrivo a Quattro Castella, nel reggiano, del boss cutrese Antonio Dragone, sono stati diversi gli episodi di violenza – tra gli omicidi del 1992 a Reggio Emilia, spari, intimidazioni, minacce e incendi – ma se la ‘ndrangheta si è radicata tanto quanto emerge dal processo Aemilia è grazie a una rete di rapporti stabiliti dall’organizzazione con una parte del tessuto sano della regione: «In questa realtà – spiega Ciconte – le mafie non sono mai caratterizzate da un alto tasso di violenza: hanno sempre avuto un atteggiamento molto prudente, perché giocavano fuori casa e giocando fuori casa devi fare una partita diversa».

La serie

‘Ndrangheta emiliana

Dagli anni Ottanta ad oggi la ‘ndrangheta ha progressivamente colonizzato l’Emilia-Romagna, infiltrandosi nei settori produttivi della regione. Quarant’anni di storia criminale ricostruiti nel processo Aemilia e nei suoi filoni

Giocare sporco in settori puliti, guadagnare su business all’apparenza legali: è questa la partita della ‘ndrangheta. «La mafia  – afferma lo storico – continua ad offrire servizi illegali: se c’è qualcuno che pensa di non applicare la legge sullo smaltimento dei rifiuti e pensa di guadagnare su questo, è chiaro che si rivolge a una organizzazione criminale. Questo è il problema. Tutto sta quindi nel capire e comprendere che, se si continua così, i mafiosi non vanno via, i mafiosi rimangono, anzi aumentano, diventano più forti. Se si continua a costruire e ad avere rapporti nei subappalti con ditte inquinate solo perché fanno pagare di meno, perché accorciano i tempi sfruttando i lavoratori, perché usano materiale scadente in modo tale che tu possa mantenere bassi i prezzi, è evidente che non si va da nessuna parte e questo si riproporrà: è il cane che si morde la coda. E questo è un problema anche della società emiliano-romagnola».

Giocare sporco in settori puliti, guadagnare su business all’apparenza legali: è questa la partita della ‘ndrangheta

Secondo Ciconte, gli anticorpi necessari per reagire alla presenza delle mafie in regione ci sono, gli stessi emersi con forza nel 2015 dopo l’operazione Aemilia. Le immagini che lo rappresentano sono quelle delle aule bunker costruite appositamente per poter celebrare un maxi-processo di mafia in Emilia-Romagna: la Regione ha stanziato 480 mila euro per allestire un’aula grande abbastanza per un processo da 239 imputati in un padiglione della Fiera di Bologna, dove si sono svolte le udienze preliminari iniziate nell’ottobre del 2015, e 500 mila euro per costruire nel cortile del Tribunale di Reggio Emilia l’aula che ha ospitato le udienze di primo grado di Aemilia. In pochi mesi la regione si è trovata così a far fronte a una mancanza infrastrutturale per un procedimento delle dimensioni di un vero e proprio maxiprocesso, con un nuovo assetto che ha permesso di avere un livello di sicurezza adeguato a un procedimento di mafia: metal detector, celle per una parte degli imputati, spazio per fare in modo che l’aula ospitasse non solo la Corte dei giudici, i periti, gli imputati e i loro avvocati, ma anche la società civile: rappresentanti delle istituzioni, cittadini e studenti portati dalle associazioni antimafia.

«Se le imprese e alcuni soggetti economici continuano ad avere rapporti con la mafia, perché la mafia riesce ad avere la possibilità di garantire condizioni che l’economia e la politica non possono fare, è chiaro che le cose andranno avanti».

Vincenzo Ciconte

«La popolazione – afferma Ciconte – non ha reagito male, dicendo: “Qui la mafia non esiste”. E le stesse istituzioni hanno reagito: il processo si è fatto a Reggio Emilia perché il comune di Reggio Emilia e la Regione Emilia-Romagna hanno stanziato fondi per costruire quella struttura. In altre situazioni avrebbero potuto dire: “Questo è un problema che riguarda il Ministero di Grazia e Giustizia, ci pensassero loro”. E nonostante ci fossero state spese pubbliche, nessuno dei cittadini ha protestato, anzi c’è stata una risposta: oggi ci sono tante realtà e associazioni che si occupano di mafie. Si è seminato e oggi vediamo i risultati in molte realtà emiliane».

Tuttavia la morsa mafiosa non si è fermata. Nel primo comune sciolto per mafia in Emilia-Romagna, Brescello, dopo il provvedimento che ha colpito il comune, come scritto nella relazione di scioglimento, per “scarsa attenzione” e “insensibilità” verso “la problematica della criminalità organizzata largamente diffusa nel contesto locale”, l’influenza della ‘ndrangheta è ancora forte. Nel comune della Bassa Reggiana hanno vissuto per decenni Francesco Grande Aracri, fratello del boss Nicolino, e la famiglia, poi coinvolti nel processo Aemilia e nel processo Grimilde, uno dei filoni del maxiprocesso emiliano al centro del quale c’è proprio Brescello e gli affari dello ‘ndranghetista. Una presenza che lascia segni profondi nel comune anche dopo lo scioglimento.

Intanto da marzo 2021 il boss della ‘ndrangheta emiliana Nicolino Grande Aracri, ininterrottamente a capo dell’associazione dal 2004 dopo una guerra di ‘ndrangheta combattuta tra Calabria ed Emilia-Romagna, ha deciso di collaborare con la giustizia. Una circostanza su cui però gli stessi pubblici ministeri che hanno raccolto le prima confidenze vanno piuttosto cauti: l’autenticità della collaborazione del boss sarebbe ancora da dimostrare, ma se qualcosa di vero e verificabile emergerà dalle deposizioni di Grande Aracri sarà un momento spartiacque: «È la prima volta – dice Ciconte – che parla o decide di parlare o dice di voler parlare un capomafia, un capo bastone».

Questo, prosegue Ciconte «non era mai successo nella ‘ndrangheta. Finora avevano parlato non i grandi personaggi di comando, come era successo invece in Sicilia, dove hanno parlato anche personaggi di livello che facevano parte della commissione provinciale di Cosa Nostra, della cosiddetta “cupola”. Nella ‘ndrangheta no, tranne Grande Aracri. Quindi se lui decide di parlare può essere realmente un cambio di passo, un cambio di paradigma».

Una conferma o una smentita sulla bontà delle dichiarazioni di Grande Aracri potrebbero arrivare già il 6 luglio prossimo quando il boss risponderà alle domande dei magistrati nell’ambito del processo Aemilia 1992. É la prima volta che Grande Aracri compare in tribunale dopo la notizia della sua collaborazione con la giustizia

Nel frattempo, procedimenti e condanne nei suoi confronti continuano ad arrivare: in pochi mesi Grande Aracri è stato condannato all’ergastolo nel processo calabrese Kyterion, nel processo Aemilia 1992 e, a maggio 2021, nel processo Scacco Matto, che ha fatto luce sugli omicidi avvenuti in Calabria tra il 1999 e il 2000. Sulla stessa scia di sangue, con l’omicidio nel 2004 del boss Antonio Dragone, Grande Aracri era arrivato al comando definitivo della ‘ndrina.

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Sofia Nardacchione

Editing

Luca Rinaldi

La paura della ‘ndrangheta emiliana

#NdranghetaEmiliana

La paura della ‘ndrangheta emiliana
Sofia Nardacchione

5novembre 2018. Armato di coltello, Francesco Amato si barrica nell’ufficio postale di Pieve Modolena, una frazione del comune di Reggio Emilia, prendendo in ostaggio quattro dipendenti e la direttrice. «Vi ammazzo tutti, sono quello che ha preso 19 anni, voglio parlare con Salvini (Matteo, leader della Lega, ndr)», urla.

Una settimana prima, il 31 ottobre, Amato era stato condannato in primo grado a 19 anni e 1 mese per associazione mafiosa, estorsione e minacce nel processo Aemilia: una sentenza storica, avevano affermato in tanti, che ha condannato 125 imputati legati a vario titolo alla ‘ndrangheta radicata in Emilia-Romagna.

Il sequestro è il colpo di coda di quella sentenza. Otto ore in cui la provincia reggiana, territorio di radicamento più profondo della ‘ndrangheta in Emilia-Romagna, è rimasta con il fiato sospeso. Una violenza che si è fatta esplicita, chiara davanti agli occhi tutti, a partire da quell’ufficio postale di Pieve Modolena.

A rendere chiaro il contesto di violenza del resto sono già i capi di imputazione del maxi-processo alla ‘ndrangheta emiliana: oltre all’associazione mafiosa vengono contestate anche estorsione, usura, furti, incendi, detenzione illegale di armi e di munizioni da guerra, danneggiamenti e minacce. E due omicidi, quelli di due esponenti della ‘ndrangheta, nel 1992, in provincia di Reggio Emilia. Non solo. Testimoni intimiditi, che in Tribunale avevano paura di parlare, ritrattavano le loro dichiarazioni: «Ve lo giuro sui miei figli, non mi ricordo», diceva un testimone, vittima di estorsione, durante una delle udienze del processo. Sempre in aula, durante una delle udienze del processo Aemilia, un altro affermava: «Sono stato avvicinato quando ho deciso di costituirmi parte civile, ora ho paura».

Una ricostruzione violenta

Protetto da un divisorio bianco, come quelli che si usano per i collaboratori di giustizia, le sue parole attraversano l’aula bunker costruita nel cortile del Tribunale di Reggio Emilia per ospitare il rito ordinario del processo Aemilia: «All’inizio non ero intimorito, ma ora sì: ho tre bambini. Sono stato avvicinato quando ho deciso di costituirmi parte civile, ora ho paura», afferma. A parlare è l’unico operaio che ha deciso di denunciare lo sfruttamento subito mentre lavorava in uno dei cantieri controllati dalla ‘ndrangheta nella ricostruzione dopo il terremoto del 2012 in Emilia.

Nelle celle dell’aula, ad ascoltarlo, ci sono alcuni dei boss imputati nel maxi-processo, altri sono in collegamento dalle carceri di tutta Italia. L’uomo che parla è uno dei tredici operai che hanno subito il sistema mafioso, vittime di un vero e proprio sistema di caporalato: assunti ufficialmente dall’azienda modenese Bianchini Costruzioni s.r.l., erano di fatto controllati da Michele Bolognino, boss della ‘ndrangheta emiliana che decideva modalità, prezzi, costi. In una logica mafiosa che aveva come unico scopo quello del massimo profitto: dei 23 euro l’ora che sarebbero spettati agli operai per contratto, ne arrivano solo dieci, in nero. Gli operai dovevano poi restituire al boss i soldi della cassa edile e del Tfr, quelli dei buoni pasto e delle visite mediche, dovevano pagare la nafta utilizzata per i camion nei cantieri, lavorare sette giorni su sette, senza nessun giorno di riposo settimanale.

Ma il sistema era più complesso: il meccanismo di retribuzione degli operai era basato anche su un sistema di falsa fatturazione, che andava ad avvantaggiare l’impresa anche da un punto di vista fiscale. Alla fine del mese, arrivavano nelle casse della ‘ndrangheta mille euro al mese puliti per ognuno dei tredici operai. Se a qualcuno non andava bene, veniva licenziato, e doveva anche restituire l’indennità di mancato preavviso in caso di lamentele e licenziamento. Perché quei cantieri erano una zona franca da qualsiasi diritto sindacale e del lavoro, dove la violenza mafiosa si mischiava alla ricattabilità di chi aveva necessità di lavorare, a qualsiasi condizione. Così, nell’aula di tribunale dove si è celebrato il primo grado del processo Aemilia, anche dopo gli arresti c’è solo un operaio a parlare. E ha paura.

Caporalato estero

In uno stato di ricattabilità si trovano anche gli operai che nel 2017 vengono spediti a Bruxelles, tramite Salvatore Grande Aracri e il padre Francesco, fratello maggiore del boss Nicolino. Da Brescello – comune reggiano che era stato sciolto per mafia un anno prima, il primo e al momento unico in Emilia-Romagna – padre e figlio arruolano operai per conto di una ditta edile albanese in Belgio alla ricerca di manovalanza italiana a buon mercato. I due Grande Aracri la trovano: persone «in stato di bisogno dovuto ad una cronica difficoltà di trovare lavoro» – hanno scritto i giudici nell’ordinanza di Grimilde, filone di Aemilia in cui si affronta la vicenda – disposte ad allontanarsi a centinaia di chilometri da casa pur di avere un lavoro. Con la ditta i due ‘ndranghetisti trattano i prezzi: dei 14 euro ricevuti dall’azienda per ogni ora lavorata, agli operai arrivavano tra gli 8 e i 10 euro, perché il resto finisce per ingrassare le casse degli intermediari di manodopera. Festivi non pagati, così come gli straordinari. Niente indennità per la trasferta all’estero e pagamenti in ritardo (quando avvenivano), tanto che i lavoratori – muratori e carpentieri – dovevano chiedere i soldi per poter mangiare. E chi, una volta rientrato in Italia, chiedeva di avere quello che gli spettava, veniva picchiato.

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Un reticolo di violenza

Nel 2016, mesi dopo l’operazione Aemilia c’è chi inizia a parlare. È Giuseppe Giglio, uno degli ‘ndranghetisti emiliani che hanno iniziato a collaborare con i magistrati: era lui che, tra le altre cose, gestiva il sistema di fatture false che permetteva alla ‘ndrangheta di guadagnare a scapito degli operai che lavoravano nei cantieri della ricostruzione post-terremoto. Grazie alle sue dichiarazioni vengono approfonditi aspetti di una associazione mafiosa in continua evoluzione, anche dopo gli arresti, i processi e le prime condanne.

E ad emergere è anche una violenza che non si ferma: a svelarla nel novembre del 2017 è l’operazione Reticolo, che fa luce su intimidazioni e pestaggi avvenuti nel carcere della Dozza, a Bologna. I referenti del clan emiliano – a partire da Sergio Bolognino e Gianluigi Sarcone, fratelli di due dei boss principali dell’associazione mafiosa – sono accusati di essere i mandanti di violenze e avvertimenti eseguiti dai detenuti. All’interno del carcere bolognese c’era infatti una vera e propria gerarchia criminale tra i detenuti: al vertice, uomini della ‘ndrangheta, committenti di intimidazioni, minacce e pestaggi, come quello ai danni di un detenuto legato alla camorra. La sua colpa è quella di essere stato irrispettoso nei confronti di alcuni affiliati alla ‘ndrangheta e non essersi piegato alle disposizioni imposte dai boss. Un pestaggio riuscito nonostante la vittima delle violenze fosse detenuta nella sezione ad alta sicurezza del carcere bolognese.

Nella rete sono coinvolti anche alcuni agenti della polizia penitenziaria, che hanno permesso ai detenuti di consumare droghe all’interno del carcere: sono tre gli agenti condannati in primo grado con rito abbreviato. Il rito ordinario, in cui sono imputati gli esponenti della ‘ndrangheta, è invece ancora in corso.

Reggio Emilia, il centro della violenza mafiosa

Pochi mesi dopo il sequestro di Francesco Amato all’ufficio postale di Pieve Modolena, la violenza torna a colpire Reggio Emilia e la sua provincia. È l’inizio del 2019 e in due settimane colpi di pistola distruggono le vetrine di alcuni esercizi commerciali, un altro negozio viene incendiato, quattro veicoli prendono fuoco. Nei luoghi colpiti vengono trovati biglietti di minacce e richieste di pizzo: «Al titolare della perla. Essendo che le nostre richieste sono cadute nel vuoto io stasera ti farò dei danni perché ai (sic) sottovalutato il problema per questa sera anzi domani cambierai i vetri e se ancora continui a fare il testardo ti metterò fuoco […] o chi lo sa ti gambizzo».

Le missive intimidatorie inviate a un esercente

È quello che si legge all’inizio di un biglietto dattiloscritto lasciato davanti alla pizzeria La Perla, a Cadelbosco Sopra, in provincia di Reggio Emilia: la vetrina dell’esercizio viene raggiunta da cinque proiettili. Un’intimidazione. Stessa sorte tocca alle pizzerie Piedigrotta 3, Piedigrotta 2 e Paprika. A Cadè, tra Reggio Emilia e Parma, vengono invece incendiati un furgone e tre auto, posteggiati nel parcheggio di un condominio. Sono luoghi noti, dove vivono esponenti della ‘ndrangheta emiliana, a partire da Cadelbosco, dove risiedono Luigi Silipo, Antonio Crivaro, Luigi Brugnano, Floro Vito Gianni, Eugenio Sergio e Antonio Amato, fratello di Francesco, tutti condannati nel processo Aemilia.

Pochi giorni dopo vengono arrestati tre fratelli: Mario, Michele e Cosimo Amato. Sono i tre figli di Francesco Amato: all’epoca avevano rispettivamente 29, 22 e 20 anni. Il 16 febbraio 2021, la Corte d’Appello ha confermato le condanne tra gli 8 e i 6 anni di carcere per le violenze di quelle settimane. I tre fratelli avevano ammesso i fatti, affermando però di non avere contatti con i clan. Secondo i giudici, invece, quelli del 2019 sono veri e propri atti di ‘ndrangheta. Anche perché pochi giorni dopo gli spari e gli incendi sarebbe iniziato un nuovo processo: Aemilia 1992.

Per approfondire

I professionisti al soldo della ‘ndrangheta emiliana

Imprenditori, consulenti, giornalisti, politici hanno aperto le porte ai clan calabresi, che hanno potuto radicarsi e guadagnare in Emilia-Romagna grazie a una vasta “zona grigia”

Non è un collegamento che esplicitano i giudici, ma che emerge da una percezione comune in quei giorni di violenze: una tensione che si percepisce tra la sentenza di primo grado del rito ordinario del maxiprocesso – con le urla in aula degli imputati e dei loro familiari contro il verdetto -, il sequestro messo in atto da Francesco Amato, le intimidazioni nel reggiano e l’inizio di un processo che riporta alla luce fatti lontani nel tempo e che colpirà ulteriormente la ‘ndrangheta radicata in regione.

Dal 1992 ad oggi

Tra l’inizio del processo Aemilia e gli omicidi degli ‘ndranghetisti Giuseppe Ruggiero e Nicola Vasapollo, uccisi nel 1992 nel reggiano dalla cosca Dragone-Grande Aracri-Ciampà-Arena con cui erano in contrasto, passano quasi vent’anni. Lontano dalla Calabria, territorio d’origine del clan, la violenza non si ferma e, anche in Emilia-Romagna è sempre rimasta uno strumento fondamentale per il controllo del territorio. Una violenza spesso nascosta, di un’associazione che riesce a camuffarsi per anni da criminalità semplice, che niente ha a che vedere col crimine organizzato: per includere i due omicidi in un quadro più grande – quello dell’associazione mafiosa che si è radicata in Emilia-Romagna dagli anni Ottanta e si è fatta sistema, rete, organizzazione autonoma dalla case madre calabrese – servono le parole del collaboratore di giustizia Antonio Valerio, con cui nel giugno 2017 si riaprono le indagini.

Nelle sue lunghe dichiarazioni, tra citazioni di classici greci, racconti mitologici e testimonianze del suo passato criminale, l’ex mafioso narra una ‘ndrangheta che ha saputo evolversi, nascondersi, intimidire, creare omertà. Una ‘ndrangheta che è sempre pronta a rigenerarsi, a mantenere saldo il controllo del territorio, anche dopo l’operazione Aemilia e i processi che ne sono scaturiti: «Non illudetevi che sia finita», dice Valerio, «La ‘ndrangheta è come la gramigna: finché non la estirpi fino all’ultimo filamento di radice in profondità, ricresce nuovamente. Mitologicamente parlando si potrebbe paragonare all’araba fenice».

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Autori

Sofia Nardacchione

Infografiche

Lorenzo Bodrero

Editing

Luca Rinaldi

I professionisti al soldo della ‘ndrangheta emiliana

#NdranghetaEmiliana

I professionisti al soldo della ‘ndrangheta emiliana

Sofia Nardacchione

C’è la commercialista che si è messa a disposizione dell’associazione mafiosa, tenendo in piedi l’importante meccanismo di intestazioni fittizie necessarie per proteggersi da eventuali operazioni di polizia e confische. C’è il giornalista che ha dato voce alle ragioni della ‘ndrangheta emiliana, mettendola in contatto con il mondo imprenditoriale e politico reggiano. C’è l’imprenditore che ha “prestato” la sua azienda per riuscire a lavorare e guadagnare evitando i controlli. C’è l’amministratore che ha chiuso un occhio e ha permesso al gruppo criminale di evitare interdizioni ed esclusioni dagli appalti. C’è il politico che ha fatto pressioni per favorire le imprese legate alla ‘ndrangheta.

Sono alcune delle figure che fanno parte di una vasta zona grigia: quella che ha permesso alla ‘ndrangheta di lavorare, arricchirsi e radicarsi in Emilia-Romagna. La zona grigia è quella tra il nero dell’associazione mafiosa e il bianco della società civile. È in mezzo, le mette in contatto, sfumando i contorni e confondendo legalità e illegalità: «È una zona grigia, dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi. Possiede una struttura interna incredibilmente complicata, e alberga in sé quanto basta per confondere il nostro potere di giudicare».

La riflessione è di Primo Levi, che introdusse il concetto nel suo libro “I sommersi e i salvati”: scriveva dei campi di concentramento, tra i nazisti, gli ultimi e i sommersi che cercano di salvarsi, scendendo a compromessi con i carnefici. Un termine che poi è stato mutuato anche nell’ambito delle mafie, con un significato di fondo simile, ma soggetti ovviamente molto diversi. Non sono i sommersi e i salvati di Levi, ma sono gli uomini della criminalità organizzata e gli appartenenti alla società civile, che si incrociano. Un contatto non obbligato, con un mondo di cui non sono vittime – come accade ad esempio agli sfruttati sul lavoro, a coloro che ricevono minacce, a coloro che sono costretti – ma complici. Per espandere il proprio business, per salvare la propria azienda o, semplicemente, per guadagnare di più, attraverso una scelta consapevole.

L’interesse delle mafie rimane quello di esplorare nuovi mondi economici e finanziari del circuito legale in grado di portare guadagni e consolidare il controllo del territorio. Si è sviluppata così la “borghesia mafiosa”, come la chiamano i giudici della Corte d’Appello nelle motivazioni della sentenza di Aemilia, il maxiprocesso alla ‘ndrangheta emiliana.

La consulente del boss

«È venuto da me il capo di giù, di Cutro, il grande, il sanguinario. È venuto per dirmi di andare avanti in tutti gli affari che abbiamo in corso».

Con un marcato accento bolognese, Roberta Tattini parla così del boss Nicolino Grande Aracri, che le ha fatto visita nel suo studio di Piazza S. Stefano, una delle piazze centrali di Bologna. Sa bene chi è Grande Aracri: «È il numero due della Calabria, della ‘ndrangheta. È proprio uno ‘ndranghetista eh. È un imprenditore però, comanda tutta Reggio», dice ancora in una delle telefonate intercettate nel 2012 dai carabinieri nelle indagini che hanno poi portato, tre anni dopo, all’operazione Aemilia. Così come sa bene il senso di quegli “affari” che portano avanti insieme.

Tattini, infatti, è una consulente bancaria e finanziaria, con una carriera avviata nel capoluogo emiliano. Conosce bene i meccanismi economici: una competenza necessaria a una associazione mafiosa che tenta sempre più di infiltrare il tessuto economico e imprenditoriale dell’Emilia-Romagna. La consulente bolognese si mette a disposizione della ‘ndrangheta del “sanguinario”, come definisce lei stessa Grande Aracri. Il punto di contatto è Antonio Gualtieri, uno dei boss dell’associazione emiliana, poi condannato in via definitiva a 12 anni: era a lui che faceva riferimento, indicando nuovi obiettivi per l’associazione mafiosa in continua espansione, facendo conoscere agli ‘ndranghetisti altri operatori finanziari e partecipando ad alcuni incontri di raccordo per decidere come gestire il gruppo criminale, non solo in Emilia ma anche in Veneto e in Lombardia.

In sua difesa all’inizio del processo Aemilia in cui era imputata, aveva affermato di non sapere che le persone con cui aveva a che fare erano uomini della ‘ndrangheta. Tuttavia Tattini, si desume anche dalle intercettazioni agli atti dell’inchiesta, avrebbe fatto da intermediaria per il recupero di denaro proveniente da un delitto commesso all’estero insieme alla criminalità che opera tra la Liguria e la Costa Azzurra, organizzando e partecipando a incontri per concludere la trattativa.

Cerca società per conto di Grande Aracri da inserire in joint-venture in un progetto di investimento per l’energia eolica a Cutro, in Calabria. Porta avanti attività di recupero crediti e cerca di acquisire per conto della cosca beni mobili e immobili provenienti da fallimenti. E mette in atto lei stessa una attività estorsiva portata avanti, ritengono i giudici, con metodi mafiosi, attraverso violenze e minacce, per ottenere migliaia di euro da due imprenditori: lo scopo, certificano anche le sentenze, era quello di avere il controllo finanziario della loro società, obiettivo che raggiungerà, insieme a Gualtieri, proprio per aver esplicitato l’appartenenza alla ‘ndrangheta.

Insomma, come scrivevano i giudici della Corte d’Appello di Bologna che l’hanno condannata a 8 anni e 8 mesi per concorso esterno in associazione mafiosa – condanna poi confermata in Cassazione -, ha offerto al clan un «pacifico, concreto, consapevole e volontario contributo, funzionale alla realizzazione del programma criminoso».

Il giornalista tra i due mondi

Nella primavera del 2012 a Reggio Emilia scoppia una polemica: in quell’anno Antonella De Miro, prefetta della città, adotta numerose interdittive antimafia che colpiscono aziende in odor di ‘ndrangheta. Un’azione che provoca grande sdegno all’interno dell’ambiente mafioso, ma non solo: parte una vera e propria campagna secondo cui alla base di queste misure c’è una sorta di razzismo che colpisce i cutresi solo per la loro provenienza geografica.

Una posizione amplificata anche da alcuni media, a partire, ritengono i giudici, dal giornalista Marco Gibertini, che nella sua trasmissione indipendente nella tv locale Telereggio dà spazio alle ragioni di personaggi vicini alle cosche.

Succede mesi dopo, nell’autunno, quando emerge anche un altro fatto: una cena del 21 marzo del 2012, in cui alcuni uomini della ‘ndrangheta avevano incontrato l’allora capogruppo del Popolo della Libertà nel Consiglio Comunale di Reggio Emilia Giuseppe Pagliani, accusato in Aemilia di aver contribuito a rafforzare il gruppo ‘ndranghetista emiliano – anche in relazione a quelle interdittive antimafia – in cambio della promessa di un aiuto alle successive elezioni. Da questa accusa Pagliani è stato assolto alla fine dello scorso anno.

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Gli investigatori ritengono però che Gibertini non sia solo un megafono per gli uomini delle cosche, ma lo valutano come un vero e proprio punto di contatto tra il mondo imprenditoriale-politico reggiano e quello mafioso.

Gibertini è stato condannato in via definitiva a 9 anni e 4 mesi per concorso esterno in associazione mafiosa anche per aver pubblicizzato le possibilità di recupero crediti offerte dagli uomini delle ‘ndrine. Era lui, infatti, che indicava Nicolino Sarcone, boss condannato in Aemilia e per gli omicidi del ‘92, come un riferimento sicuro e di successo nel campo del recupero crediti e degli investimenti per imprenditori locali. Imprenditori che diventavano poi vittime di una vera e propria azione estorsiva.

C’è poi un ultimo aspetto: quello legato al giro di fatture false finalizzate alla frode fiscale e all’evasione. Reati che sono al centro di un altro processo, in cui lo stesso Gibertini è imputato: Octopus, che inizierà il prossimo 22 febbraio.

La politica e i “traditori dello Stato”

C’è ancora un mondo: quello politico. Un mondo che, come gli altri, si intreccia con quello mafioso e quello imprenditoriale. C’era Giuseppe Pagliani che incontra i boss in un ristorante, assolto in primo grado, condannato in secondo, rimandato dalla Cassazione in Appello e poi di nuovo assolto.

C’era Giovanni Paolo Bernini, ex assessore del Popolo delle Libertà di Parma, anche lui inizialmente accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e poi di voto di scambio politico-mafioso, poi definitivamente prosciolto con la dichiarazione di prescrizione del reato di corruzione elettorale “semplice”. E c’è Carlo Giovanardi, ex senatore anche lui del Pdl, coinvolto in uno degli ultimi filoni di Aemilia: quello che ha preso il nome di “Traditori dello Stato”.

Perché tra i personaggi coinvolti ci sono politici, funzionari della Prefettura di Modena e imprenditori accusati di aver intimidito i rappresentanti delle istituzioni che hanno emesso alcuni provvedimenti interdittivi sfavorevoli alle aziende legate alla ‘ndrangheta, e in particolare a una: la Bianchini Costruzioni, la stessa che ha lavorato nella ricostruzione post-terremoto, insieme agli uomini delle cosche.

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La società di Augusto Bianchini, titolare della società condannato a 9 anni di reclusione nel secondo grado del processo Aemilia, e quella del figlio Alessandro, anche lui condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, erano bloccate da provvedimenti prefettizi dalla metà del 2013 proprio per gli allora presunti rapporti dei due imprenditori con la criminalità organizzata.

A causa dei provvedimenti le loro società non potevano essere ammesse alle “white list” e vincere appalti, in particolare proprio quelli per la ricostruzione post-terremoto del 2012. Ecco quindi che, secondo la Dda di Bologna, sarebbe intervenuto il senatore Carlo Giovanardi per cercare di far inserire le aziende nella white list: parla con il prefetto e con il questore di Modena, chiede i motivi per cui le aziende legate ai Bianchini non possono essere ammesse. Secondo i pm avrebbe poi minacciato di procedere con una interrogazione parlamentare. Sempre stando agli investigatori sarebbero finiti nel mirino del senatore anche due ufficiali dei Carabinieri, pretendendo che cambiassero posizione rispetto agli imprenditori modenesi.

Così Giovanardi a novembre dello scorso anno è stato rinviato a giudizio. Il processo è iniziato il 17 dicembre e in quella stessa data i suoi avvocati hanno chiesto il proscioglimento immediato: Giovanardi, secondo i difensori, avrebbe svolto le azioni che il Tribunale gli contesta nel suo ruolo di parlamentare e avrebbe quindi diritto all’immunità. Secondo i giudici invece, le condotte non si possono inquadrare nella sua funzione di parlamentare: si tratta di minacce e deve essere processato. Una decisione che, però, spetta al Senato, che dovrebbe decidere entro novanta giorni.

Anche perché non si tratta di minacce “semplici”, ma di quelle che il codice penale definisce minacce a corpo politico, amministrativo e giudiziario, minacce e oltraggio a pubblico ufficiale per le presunte pressioni esercitate nel 2016 su funzionari della prefettura e del gruppo interforze di Modena e di rivelazione di segreti d’ufficio, come si legge tra i capi d’accusa.

L'immunità parlamentare

L’articolo 68 della Costituzione italiana prevede che

“i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni” e che

“senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero se sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza”.

Secondo la legge, se ad essere processato è un parlamentare, il Tribunale può procedere in due modi: prosciogliere l’imputato – come richiesto in questo caso dagli avvocati di Carlo Giovanardi – o mandare gli atti alla Camera di appartenenza affinché questa si esprima se l’attività che viene contestata era un’attività di tipo parlamentare o meno – come ha fatto il Tribunale di Modena.

La stessa autorizzazione serve, sempre secondo l’articolo 68 della Costituzione, per le intercettazioni. Nel caso di Giovanardi, la Giunta per le Autorizzazioni a procedere del Senato aveva autorizzato l’uso di una parte delle intercettazioni della Direzione Distrettuale Antimafia di Bologna solo il 10 luglio 2020, dopo quasi un anno dalla richiesta del Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Bologna.

Tra le dogane e i fondi europei

«Io ho mille amicizie da tutte le parti… bancari… oleifici… industriali, tutto quello che vuoi… quindi io so dove bussare, quindi se tu mi tieni esterno ti dà vantaggio, se tu mi immischi, dopo che mi hai immischiato e mi hai bruciato, è finita, perché la gente ti chiude le porte».

Parlava così l’ex funzionario dell’Agenzia nazionale delle Dogane Giuseppe Caruso, condannato in primo grado a vent’anni di carcere nel processo Grimilde, altro filone di Aemilia. La condanna è per associazione mafiosa: Caruso è considerato infatti uno degli uomini di vertice della cosca, in particolare come uomo di contatto tra diverse realtà: dal suo ruolo alle Dogane, secondo l’accusa ha facilitato la cosca aiutandola anche ad accedere a fondi europei in ambito agricolo. Eppure, dopo il suo lavoro all’Agenzia delle Dogane, ha assunto un ruolo di primo piano nella politica piacentina: è stato infatti presidente del consiglio comunale di Piacenza in quota Fratelli d’Italia. I reati per i quali è stato condannato non si intrecciano con il suo ultimo ruolo politico, ma mostrano come la “zona grigia” sia sempre più larga e sfumata.

Un aspetto che il processo Grimilde spiega non solo nel suo lato strettamente processuale – in cui emergono i reati di natura economica, sempre aggravati dal metodo mafioso, legati all’infiltrazione nel tessuto imprenditoriale della regione a partire da Brescello, il primo comune sciolto per mafia in Emilia-Romagna – ma anche nello stesso nome, che deriva dalla ‘Sindrome di Grimilde’: è la sindrome della strega di Biancaneve, quella della paura dello specchio e di ciò che si può vedere.

Legata alle mafie ha un significato che ha chiarito l’ex procuratore nazionale antimafia Franco Roberti nel suo libro “Il contrario della paura”: «Passata l’indignazione del momento passa anche l’attenzione e dunque la lotta. Questo è possibile proprio per via della “sindrome di Grimilde”. Allontanarsi dallo specchio è un modo per scansare il problema. E raccontarsi una bugia».

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Da Cutro a Reggio Emilia: la colonizzazione della ‘ndrangheta in Emilia Romagna

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Da Cutro a Reggio Emilia: la colonizzazione della ‘ndrangheta in Emilia Romagna
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«Dove altri non volevano vedere bollarsi come territorio di ‘ndrangheta e negavano persino l’evidenza, non c’erano anticorpi, la storia lo sa. La spina dorsale non esisteva proprio, in tanti erano genuflessi, accondiscendenti, conniventi e contigui».

Il territorio definito «di ‘ndrangheta» è Reggio Emilia, le parole quelle di Antonio Valerio, collaboratore di giustizia con un passato non remoto nella criminalità organizzata calabrese alla sbarra nel processo Aemilia. C’è anche lui tra le 117 persone che il 28 gennaio 2015 vengono arrestate in Emilia-Romagna nella più importante maxi-operazione contro la ‘ndrangheta nel Nord Italia.

28 gennaio 2015

Emilia-Romagna, Lombardia, Calabria. Interi paesi nelle tre regioni italiane all’alba del 28 gennaio del 2015 si svegliano con i suoni di sirene, elicotteri, volanti delle forze dell’ordine. È l’inizio di tre operazioni congiunte: Aemilia, Pesci e Kyterion. Indizi, tappe, pedine di un sistema di ‘ndrangheta che parte da Cutro, diecimila anime in provincia di Crotone, e arriva a Reggio Emilia e poi, ancora, a Modena, Parma, Piacenza, Mantova.

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Sono 160 le persone arrestate in tutta Italia, 117 solo in Emilia-Romagna. Le sirene che svegliano paesi e città all’alba colpiscono soprattutto questa regione, che continuava a ritenersi immune dal radicamento mafioso. In Lombardia c’era già stata, cinque anni prima, l’indagine Infinito, in Calabria centinaia di operazioni più o meno grandi. La regione che geograficamente è al centro rispetto alle altre due colpite dai blitz, si trova ad essere crocevia di quest’ultima, ritenuta tra le più importanti della storia recente.

Questi i numeri del maxiprocesso alla ‘ndrangheta emiliana partito nel marzo 2016: 239 imputati complessivi – colpiti da misure cautelari anche in successivi blitz che proseguono fino al luglio del 2015 – poi divisi tra riti abbreviati (71), patteggiamenti, (19), proscioglimenti, (2), e i 147 che andranno a giudizio nel rito ordinario. 189 capi di imputazione: associazione a delinquere di stampo mafioso, estorsioni, usure, furti, incendi, commercio di sostanze stupefacenti. Oltre agli altri, forse più inquietanti, che raccontano le modalità d’infiltrazione e radicamento della ‘ndrangheta in questa regione: come si legge nell’ordinanza dell’operazione, lo scopo dell’associazione era quello di “acquisire direttamente e indirettamente la gestione e/o controllo di attività economiche”.

Come si legge nell’ordinanza dell’operazione, lo scopo dell’associazione era quello di “acquisire direttamente e indirettamente la gestione e/o controllo di attività economiche”

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Quello che prenderà il via tra Bologna e Reggio Emilia è un processo di portata storica per l’Emilia-Romagna, che non è attrezzata per celebrare un procedimento di queste dimensioni: le udienze preliminari si svolgono in un padiglione della fiera del capoluogo emiliano, il rito ordinario nel cortile del Tribunale di Reggio Emilia. In entrambi i luoghi sono state costruite aule bunker per poter celebrare un processo del genere: spazio per le centinaia di imputati e i rispettivi avvocati, per i parenti, per i giornalisti e la cittadinanza, metal detector all’ingresso, celle per gli imputati in carcere, sistemi di videosorveglianza e videoconferenza.

«È un punto di non ritorno», afferma nella prima conferenza stampa a margine degli arresti il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. Così sarà, perché, da quella data, i blitz contro i clan di ‘ndrangheta nella regione non si sono più fermati, grazie a nuove rivelazioni di collaboratori di giustizia, nuove indagini e prove, fino a ricostruire un sistema che ha iniziato a radicarsi in Emilia-Romagna dagli anni Ottanta

1982: il soggiorno obbligato

È il 1982 quando Antonio Dragone, capo della locale di ‘ndrangheta di Cutro, viene mandato dalle autorità a Quattro Castella, in provincia di Reggio Emilia, attraverso lo strumento del soggiorno obbligato. Una misura cautelare di epoca fascista reintrodotta nel 1956 nei confronti di chi è ritenuto pericoloso per la pubblica sicurezza e, dal 1965, contro gli indiziati di associazione mafiosa. Una misura che nelle intenzioni del legislatore sarebbe servita ad allontanare i mafiosi dal loro territorio di origine, per spezzare i legami criminali che avevano creato. Così non è stato: i casi sono tanti, da Riina a Badalamenti.

Ma fermiamoci a Quattro Castella. Antonio Dragone riesce a far confluire sul territorio reggiano, soprattutto in alcuni piccoli centri della bassa e nel capoluogo, i familiari più stretti ed i fedelissimi con le rispettive famiglie. Inizia quindi a portare avanti alcune delle attività criminali tipicamente mafiose: il traffico di droga, che estende poi anche alla provincia di Modena, estorsioni e controllo degli appalti edili ed estorsioni. Tutte ai danni di chi, arrivando dalle zone del crotonese, era in grado di rendersi conto della pericolosità intimidatoria del gruppo mafioso. Affari che gestisce in prima persona per solo un anno: nel 1983, infatti, viene arrestato. Il controllo del gruppo passa allora al figlio, Raffaele, e rimarrà nelle mani della famiglia dei Dragone fino al 1993, quando anche lui finisce in carcere.

È il 1982 quando Antonio Dragone, capo della locale di ‘ndrangheta di Cutro, viene mandato dalle autorità a Quattro Castella, in provincia di Reggio Emilia, attraverso lo strumento del soggiorno obbligato

Il boss Nicola Grande Aracri detto “mano di gomma”

Mano di gomma

È a questo punto che il controllo della ‘ndrina viene preso da Nicolino Grande Aracri, affiliato di primo piano della ‘ndrangheta, detto “Mano di gomma”: un soprannome che risale al 1977 quando, a causa di un incidente, perse parzialmente l’utilizzo di una mano. La sua ascesa inizia in Calabria nei primi anni ‘80 quando i Dragone si spostano al nord, ma assume il comando del clan cutro-emiliano solo nel 1993, quando Antonio e Raffaele sono in carcere, sfruttando il fatto di essere rimasto l’unico dei capi ancora in libertà. Prende in mano la gestione del traffico di stupefacenti non solo in Emilia-Romagna ma anche in Lombardia, cercando di ampliare sempre più il suo potere: «Io – avrebbe detto Grande Aracri secondo le dichiarazione del collaboratore di giustizia Vittorio Foschini – sono un killer; io ci sto facendo il nome ai Dragone, io sto ammazzando la gente per i Dragone però loro si prendono i soldi ed io no. A questo punto mi sono stancato; la famiglia me la alzo io, non do più conto ai Dragone».

Le attività, intanto, vanno avanti: quello dei Dragone-Grande Aracri-Ciampà-Arena è un clan che ha già attraversato una guerra di ‘ndrangheta contro la cosca Vasapollo-Ruggiero per il controllo del territorio reggiano nel 1992. Una faida che ha portato anche a due omicidi nella città emiliana, quelli emersi nel processo Aemilia 1992, e in cui Nicolino Grande Aracri ha avuto un ruolo di primo piano: è stato infatti condannato in primo grado all’ergastolo per uno dei due omicidi, quello dello ‘ndranghetista Giuseppe Ruggiero. Non solo, secondo quanto ha dichiarato Paolo Bellini, che oltre ad essere un ex estremista di destra era il killer al soldo della famiglia dei Vasapollo, contro di lui c’era un progetto di omicidio, che poi non venne portato a termine: ad avere la meglio è infatti il clan di cui faceva parte anche Grande Aracri.

Quello dei Dragone-Grande Aracri-Ciampà-Arena è un clan che ha già attraversato una guerra di ‘ndrangheta contro la cosca Vasapollo-Ruggiero per il controllo del territorio reggiano nel 1992. Una faida che ha portato anche a due omicidi nella città emiliana

La cosca emiliana autonoma

La ‘ndrina emiliana non opera come quella calabrese. Si rimodella in base al territorio in cui si radica, profondamente diverso a livello sociale, economico e culturale. Se già ai tempi di Antonio Dragone le estorsioni erano ai danni delle sole persone di origine cutrese, meno intente a denunciare per paura di ritorsioni nei confronti dei familiari che ancora vivevano in Calabria, con la reggenza di Nicolino Grande Aracri le modalità cambiano. Il raggiungimento del profitto criminale, più che il controllo militare del territorio, diventa il punto centrale delle modalità di azione della cosca, che fa del mimetismo la sua forza per penetrare il tessuto economico e imprenditoriale emiliano-romagnolo, lasciando da parte le tradizionali cerimonie di affiliazione, i riti e i rituali.

Il tessuto economico dell’Emilia-Romagna è un tessuto florido e quindi, come scrivono i giudici della Corte di Cassazione – che tre anni dopo l’operazione Aemilia mettono un punto a una prima tranche del processo, quella dei riti abbreviati -, è «estremamente propizio all’affermazione degli organismi imprenditoriali in mano all’associazione, ovvero ad essa soggiogati, in pregiudizio alla libera concorrenza». Tra il 2004 e il 2015, infatti, l’associazione mafiosa costituisce un consorzio di imprese attive nel settore dell’edilizia e in quelli a questo connessi, come l’autotrasporto, per «consentire alla locale emiliana e alla casa madre cutrese di estendere la propria operatività nell’area di riferimento e di conseguire rilevantissimi profitti», che alimentavano una «vorticosa emissione di fatture false».

Operazione Scacco Matto
L’operazione Scacco Matto, portata avanti dagli inquirenti calabresi, ricostruì quello che accadde nella consorteria di Cutro tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta, in particolare nel periodo in cui Antonio Dragone era in carcere e Nicolino Grande Aracri iniziò la sua ascesa che sfociò nella faida interna. L’operazione e il successivo processo comprovarono l’esistenza e l’operatività della cosca capeggiata da Nicolino Grande Aracri e la qualificarono, per la prima volta, come mafiosa. Il processo si è concluso con la condanna a 30 anni per Grande Aracri, accusato di essere coinvolto in cinque omicidi di mafia, tra cui quello di Raffaele Dragone. Da questa operazione partiranno poi le successive – Grande Drago e Edilpiovra – che, nei primi anni Duemila, hanno riconosciuto la presenza di ‘ndranghetisti in Emilia-Romagna, senza però mettere in luce l’esistenza di un vero e proprio clan emiliano.

Un vero e proprio sistema economico illegale che permetteva di operare nell’ombra, reinvestendo denaro e soggiogando così l’economia di un intero territorio. Il metodo rimane quello mafioso: dai reati più tipici a quelli economici, fino alle infiltrazioni nei lavori per il sisma in Emilia del 2012.Il tutto portato avanti da una ‘ndrina che era sì collegata alla locale di Cutro ma che agiva autonomamente rispetto ad essa, radicandosi profondamente in regione.

Il controllo del territorio

Il sistema tracciato dalle inchieste funzionava grazie a una vera e propria divisione del territorio. C’era Nicolino Sarcone, competente per la zona di Reggio Emilia; Michele Bolognino per Parma e la Bassa reggiana; Alfonso Diletto “capo promotore” della Bassa reggiana; Francesco Lamanna per Piacenza; Antonio Gualtieri, per Piacenza e Reggio; Romolo Villirillo, la figura di collegamento con tutte le zone. Ci sono poi gli organizzatori per il raccordo operativo, che fanno da collegamento tra le varie zone. Sono i capi promotori e gli organizzatori che decidono, pianificano, individuano le azioni e le strategia della consorteria, impartiscono direttive agli associati, gestiscono i rapporti interni ed esterni. E, sempre loro, curano i rapporti con Nicolino Grande Aracri e i suoi emissari. Un sistema che si articolava anche all’esterno, con una vasta zona grigia fatta di imprenditori, politici, professionisti, giornalisti, forze dell’ordine, a servizio dell’associazione. Soprattutto, grazie ai quali la ‘ndrina è riuscita a radicarsi in profondità, in nome di un profitto e di un potere che non potevano avere operando all’interno di un sistema economico, politico e imprenditoriale legale.

Il maxiprocesso

Dal 2015 ad oggi una parte del processo si è conclusa, un’altra è ancora in corso, mentre si sono aperti nuove indagini e nuovi procedimenti giudiziari che stanno svelando nuove modalità e affari della ‘ndrina emiliana. Nell’ottobre del 2018 si è concluso in via definitiva il rito abbreviato, con una sentenza della Corte di Cassazione che stabilisce la presenza di una cosca emiliana che operava autonomamente rispetto alla locale di Cutro e che condanna tutti i principali boss con pene fino a 14 anni di carcere, insieme ai professionisti condannati per concorso esterno in associazione mafiosa con pene fino a 10 anni. Nello stesso mese si è chiuso il primo grado del rito ordinario per 148 imputati di cui 34 accusati di associazione a delinquere di stampo mafioso: sono 125 le condanne e più di 1200 gli anni di carcere comminati.

La pena più alta è quella di 38 anni a Michele Bolognino, l’unico dei boss a capo della ‘ndrina emiliana a non aver scelto fin da subito il rito abbreviato, procedimento che gli avrebbe permesso lo sconto di un terzo della pena. È più corretto parlare, per questa sentenza, di due procedimenti: con rito ordinario e un altro con rito abbreviato. Perché nel febbraio del 2018 l’accusa è cambiata e nuovi reati si sono aggiunti a quelli che già riempivano le carte giudiziarie: i nuovi reati arrivano non più al 28 gennaio 2015, giorno dell’operazione Aemilia, ma all’8 febbraio 2018. Secondo gli investigatori le attività criminali dei principali imputati non si sarebbero fermate nemmeno dopo gli arresti.

CREDITI

Autori

Sofia Nardacchione

Infografiche & Mappe

Lorenzo Bodrero

Editing

Luca Rinaldi

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