Crediti di carbonio, la favola della finanza verde

#GreenWashing

Crediti di carbonio, la favola della finanza verde

Matteo Civillini

Proteggere foreste e finanziare energia rinnovabile per compensare l’anidride carbonica rilasciata nell’atmosfera dalla propria estrazione di idrocarburi. È questo il piano messo in campo da Eni per rincorrere la neutralità carbonica – il cosiddetto net zero – obiettivo fissato per il 2050. Il combustibile che alimenta questo sistema sono i crediti di carbonio. Prodotti finanziari che poggiano sulla logica dell’ “uno vale uno”: una tonnellata di anidride carbonica (CO2) sprigionata da un giacimento petrolifero in Congo viene pareggiata dalla rimozione della stessa quantità di gas inquinanti grazie, per esempio, all’energia prodotta da un parco solare in India.

Le aziende come Eni comprano i crediti dai promotori dei progetti green, guadagnandosi in questo modo il diritto di continuare a inquinare. L’estrazione di petrolio e gas non si ferma e la riduzione di emissioni nocive viene subappaltata sulla carta attraverso lo scambio di prodotti finanziari.

Il pericolo che la compensazione delle emissioni si trasformi in un’articolata operazione di greenwashing è dietro l’angolo. Frammentato e senza un’autorità di controllo, il mercato dei crediti di carbonio è infatti come un e-commerce del deep web, dove si trova un po’ di tutto: dalle attività che realmente portano benefici ambientali a prodotti di scarsa qualità utili solo a dar seguito a proclami di facciata.

IrpiMedia è gratuito

Ogni donazione è indispensabile per lo sviluppo di IrpiMedia

L’inchiesta in breve

IrpiMedia ha esaminato i progetti collegati ai crediti carbonio acquistati volontariamente da Eni nel 2020 e questi sono i principali risultati dell’inchiesta:

  • Eni ha comprato crediti generati da sette progetti di energia eolica in Cina operativi da una decina di anni. L’acquisto di questo tipo di crediti è duramente criticato da numerosi esperti del settore in quanto, per loro natura, è improbabile che contribuiscano a una reale riduzione delle emissioni di CO2.
  • Eni avrebbe pagato poco più di un milione di euro per i crediti acquistati, secondo una stima basata sui prezzi medi di mercato per quel tipo di prodotto.
  • Eni punta a compensare decine di milioni di tonnellate di CO2 attraverso la conservazione delle foreste. Ma, secondo un’analisi di Greenpeace e ReCommon, un progetto finanziato da Eni avrebbe gonfiato le stime di riduzione di emissioni.

Eni, contatta da IrpiMedia, non ha ancora risposto alle domande.

«Comprare crediti di questo genere fa più male che bene – dice a IrpiMedia Jonathan Crook, responsabile delle politiche di Carbon Market Watch, associazione non profit che si occupa dell’analisi dei mercati dei crediti di carbonio. «Compensare le emissioni dovute all’estrazione di combustibili fossili in questo modo non è assolutamente credibile, è una scappatoia a basso costo», aggiunge Cook.

Parchi eolici cinesi vecchi, crediti di carbonio nuovi

Le 33 torri del parco eolico Tacheng Mayitasi svettano dal terreno arido fiancheggiato dalle catene montuose che segnano il confine tra Cina e Kazakistan.

A gestire il parco eolico è una filiale della China General Nuclear Power Group (CGN), la più grande compagnia di energia nucleare in Cina. Controllata direttamente dal governo di Pechino, CGN ha riportato ricavi per oltre 9,5 miliardi di euro l’anno scorso. Un operatore di peso che, tuttavia – stando ai documenti di progettazione – non sarebbe stato in grado di rendere il progetto finanziariamente sostenibile, considerati i costi di costruzione e le proiezioni sull’ammontare delle tariffe elettriche attraverso cui rientrare dell’esborso.

La strada per far nascere il parco eolico sarebbe quindi stata quella di accedere al Clean Development Mechanism (CDM), il principale programma di compensazione delle emissioni di CO2 sostenuto dalle Nazioni unite.

Che cos’è il Clean Development Mechanism

Il Clean Development Mechanism (Meccanismo di Sviluppo Pulito, in italiano) è uno dei principali programmi di compensazione delle emissioni di anidride carbonica. Codificato nel 1997 dall’articolo 12 del Protocollo di Kyoto, il CDM permette alle industrie private di finanziare progetti che mirano alla riduzione dei gas serra nei Paesi in via di sviluppo attraverso carbon credit, cioè “crediti di carbonio”.

Un singolo credito, altrimenti detto certificato da progetto CDM, equivale a una tonnellata di CO2 che non viene emessa nell’atmosfera grazie alla realizzazione del progetto. I soggetti nei Paesi industrializzati – tra cui principalmente le imprese – possono acquistare questi crediti sul mercato per raggiungere i propri obiettivi di riduzione delle emissioni, sia che essi siano obbligatori che volontari.

L’addizionalità è il requisito più critico dei progetti CDM: per poter generare un credito, la riduzione di emissioni deve essere infatti aggiuntiva. L’esistenza del progetto deve quindi produrre un effetto positivo in termini di emissioni, tale da meritarsi dei crediti attraverso cui renderlo sostenibile anche sul piano economico. Infatti, solo se le riduzioni sono effettivamente addizionali non si ha un aumento delle emissioni complessive. L’obiettivo da perseguire è sostanzialmente quello della maggiore efficienza energetica e da fonti rinnovabili.

La produzione di energia da una fonte rinnovabile, al posto di combustibili fossili, avrebbe così generato crediti di carbonio. Per ogni tonnellata di CO2 non immessa nell’atmosfera viene rilasciato un credito, che le aziende altamente inquinanti possono successivamente acquistare per compensare le proprie emissioni. Solo grazie a questo introito – sostenevano i proponenti del progetto – il parco eolico avrebbe visto la luce.

Il progetto è diventato operativo nel 2012. Da allora le turbine di Tacheng Mayitasi pompano energia pulita nella rete elettrica cinese. L’attività crea ogni anno circa 99 mila crediti carbonio, i quali, tuttavia, sarebbero rimasti a lungo per la maggior parte invenduti.

Fino all’anno scorso, quando Eni ha acquistato più di 438 mila crediti di carbonio collegati al parco eolico sito nello Xinjiang con la causale «compensazione volontaria». In un colpo solo il colosso energetico italiano si è intascato la quasi totalità dei certificati di riduzione di emissioni generati dal progetto tra il 2013 e il 2020. Un modo utilizzato da Eni per compensare una parte delle proprie emissioni derivanti dall’estrazione di petrolio e gas. La produzione di energia pulita in Cina avrebbe controbilanciato l’inquinamento da CO2 causato da Eni in altre parti del mondo. Ma è davvero così?

Altamente improbabile, a detta di Jonathan Crook di Carbon Market Watch: «È stato dimostrato che gran parte di questi progetti non sono addizionali, sarebbero stati finanziati in ogni caso senza crediti di carbonio – dice -. E ora, dieci anni più tardi, ci troviamo di fronte a un’azienda petrolifera che dice di compensare le proprie emissioni con quello che molto probabilmente sono crediti spazzatura».

Il boom del mercato volontario dei crediti

L’acquisto volontario di crediti di carbonio da parte di aziende inquinanti sta prendendo sempre più piede. Tra gennaio e agosto 2021 sui mercati volontari di compensazione sono stati scambiati crediti per un valore di 748 milioni di dollari (contro 473 milioni di dollari in tutto il 2020).

#Greenwashing

Egitto, la svolta green è una farsa

Durante la Cop27, il Paese ha siglato accordi con l’Ue per forniture di energia verde. Ma resta impantanato nelle fonti fossili. A Sharm e dintorni, è una colata di (nuovo) cemento

L’illusione verde

Dall’analisi dei fondi europei che dovrebbero avere stringenti politiche sulla sostenibilità emerge che quasi la metà investe nell’industria fossile o nelle compagnie aeree

A infiammare il mercato sono i piani di riduzioni di emissioni che hanno come obiettivo la neutralità carbonica. Come quello di Eni che punta a raggiungere il cosiddetto net zero – il pareggio delle emissioni – entro il 2050. Ciò non vuol dire, però, che il cane a sei zampe abbia in mente di abbandonare la produzione di energia basata sui combustibili fossili. L’estrazione di petrolio e gas proseguirà, ma – promette Eni – le emissioni causate dalle proprie attività verranno azzerate a bilancio da emissioni evitate altrove. Per centrare l’obiettivo Eni ambisce a disporre di un portafoglio annuale da 40 milioni di crediti di carbonio entro il 2050.

Fin dalla sua nascita, oltre vent’anni fa, il mercato volontario dei crediti di carbonio ha cercato di imitare i mercati finanziari. Ma in realtà lo scarto è netto. A differenza della Borsa, per esempio, non esiste uno standard che permetta di paragonare i crediti tra loro in modo oggettivo, manca un’autorità di vigilanza che fissi regole e le faccia rispettare, e il modo trasparente di fissare un prezzo ancora non esiste. Quello che rimane è un sistema opaco formato da una selva di standard di certificazione dei progetti fondati principalmente sull’autoregolamentazione. La compravendita di crediti avviene a porte chiuse in transazioni tenute di norma strettamente segrete.

Per questi motivi i programmi di compensazione volontaria delle emissioni sono al centro di un forte dibattito rispetto alla loro utilità. Per i critici del sistema, il mercato è stato inondato da crediti di scarsa qualità che non rappresentano una reale riduzione delle emissioni. Con il loro acquisto le aziende si garantirebbero una licenza a basso costo per continuare a inquinare, al contempo vantando le proprie credenziali green nei confronti dell’opinione pubblica.

IrpiMedia è gratuito

Ogni donazione è indispensabile per lo sviluppo di IrpiMedia

Il funzionamento del mercato dei crediti di carbonio poggia su un concetto tecnico, ma di vitale importanza: l’addizionalità. La compensazione delle emissioni può ritenersi veritiera solo se le entrate garantite dalla vendita dei crediti hanno un peso determinante nella fattibilità del progetto e di conseguenza nella sua attività di mitigazione delle emissioni. Unicamente in quel caso, infatti, i crediti contribuiscono a realizzare una riduzione o un sequestro di CO2 che non si sarebbe verificato in uno scenario di business as usual.

Prendiamo l’esempio di un governo che finanzia con fondi pubblici la piantagione di migliaia di alberi per alleviare gli effetti della deforestazione. Il progetto contribuisce alla riduzione della CO2, ma l’eventuale emissione di crediti di carbonio non sarebbe addizionale perché sono i sussidi statali ad avere un peso determinante.

Secondo un recente studio dell’University College London, oggi ci sarebbero in circolazione fino a 700 milioni di crediti non addizionali. Tra di essi a farla da padrone sono i certificati di riduzione delle emissioni generati da parchi di energia eolica o solare particolarmente datati, come quelli cinesi. Progetti completati diversi anni fa senza il reale bisogno del gettito dei crediti e che, quindi, è molto improbabile che oggi possano contribuire alla rimozioni di gas serra dall’atmosfera.

Non è la prima volta che vengono posti seri dubbi sulla capacità dei progetti certificati attraverso il meccanismo Clean Development Mechanism di contribuire a tangibili riduzioni delle emissioni di gas serra. Già nel 2016 uno studio commissionato dall’Unione europea ha analizzato quanto i crediti di carbonio fossero il vero incentivo per investire in progetti che mitigano le emissioni di gas serra. La ricerca sosteneva che l’85% dei progetti aveva una bassa probabilità di contribuire in modo addizionale e senza sovrastime a un taglio delle emissioni nocive. In particolare, i ricercatori puntavano il dito nei confronti dei grandi impianti energetici.

«Le entrate garantite dai crediti hanno un impatto limitato sulla redditività dei parchi eolici», scrivevano i ricercatori, in particolare in quei Paesi come Cina e India, dove l’energia eolica è già ampiamente sviluppata. A spingere l’adozione delle energie rinnovabili sono stati altri incentivi. Innanzitutto, le politiche dei governi nazionali che hanno concesso generosi sussidi statali. Inoltre, i continui progressi tecnologici hanno abbattuto i costi per la costruzione e gestione di impianti di energia rinnovabile.

Una serie di motivi per i quali, a detta degli esperti, le aziende non dovrebbero quindi utilizzare questi crediti per i loro programmi di mitigazione dell’impatto ambientale. Tuttavia, i documenti analizzati da IrpiMedia mostrano come Eni abbia continuato ad acquistarli. Quello situato nello Xinjiang non è infatti l’unico progetto energetico collegato al CDM utilizzato l’anno scorso dal cane a sei zampe per compensare sulla carta le proprie emissioni. Altri sei parchi eolici cinesi hanno fornito un ulteriore bottino di 196 mila crediti. Qualche migliaio di certificati sono infine stati acquistati da due centrali idroelettriche, rispettivamente in Vietnam e Cambogia, e da un parco eolico situato nello stato indiano del Gujarat.

Il gran bazar dei carbon credits di Eni

I progetti energetici acquistati da Eni per compensare, sulla carta, le proprie emissioni di CO2

Progetti diversi tra loro ma accomunati da almeno due elementi. Il primo è che sono tutti entrati in attività tra il 2010 e il 2013, ovvero almeno sette anni prima che Eni comprasse i loro crediti. Il secondo fa riferimento ai promotori dei progetti, nella quasi totalità dei casi giganti dell’energia – per altro a controllo statale – con fatturati miliardari. A questo si aggiunge il finanziamento attraverso aiuti di Stato della Cina, che rendono residuali gli introiti dai crediti CDM.

Perché quindi Eni ha acquistato crediti che con molta probabilità non riducono le emissioni in modo addizionale? Per Jonathan Cook, policy officer di Carbon Market Watch, la risposta potrebbe essere semplice: il basso costo. «Nel 2012 il prezzo dei certificati da progetti CDM subì un crollo da cui non si è mai realmente ripreso – dice Cook -. È estremamente probabile che questi crediti siano molto economici. Sicuramente la spesa è molto minore di quella necessaria per tagliare realmente le proprie emissioni dirette».

Sapere con certezza quanto Eni abbia pagato per l’acquisto dei crediti CDM non è possibile. I dettagli delle transazioni svolte tra soggetti privati in un mercato volontario restano privati. Una scarsa trasparenza che storicamente ha contribuito ad affossare la fiducia in questi prodotti. Sono molti i fattori che influenzano il prezzo di un credito di carbonio: la tipologia del progetto, il Paese in cui viene sviluppato, l’anno di partenza, lo standard di certificazione utilizzato. Una selva di variabili che inevitabilmente ha delineato un’ampia forchetta di prezzo: si va da pochi centesimi fino a 15 dollari per quello che dovrebbe essere lo stesso prodotto.

Ecosystem Marketplace, una piattaforma non profit che raccoglie dati sulla finanza ambientale, pubblica ogni anno un rapporto sullo stato dei mercati volontario di carbonio. La relazione comprende una mappatura dei prezzi medi dei diversi crediti sulla base delle informazioni fornite da un centinaio di operatori del settore.

Vuoi fare una segnalazione?

Diventa una fonte. Con IrpiLeaks puoi comunicare con noi in sicurezza

Grazie a questi dati è possibile formulare una stima di quanto sia stato l’esborso di Eni per i crediti CDM acquistati nel 2020. Secondo Ecosystem Marketplace, il prezzo di un credito collegato a progetti di energia eolica e idroelettrica si aggirava in media intorno a 1,7 dollari e 1,2 dollari rispettivamente. Moltiplicando gli importi per il numero di crediti acquistati da Eni nelle due tipologie risulta che il colosso energetico potrebbe aver speso all’incirca un milione e 100 mila euro. Per i costi di ricerca esplorativa per nuove attività di estrazione Eni nel 2020 ha speso 510 milioni di euro.

Eni e le foreste, tra conservazione e greenwashing

Dell’acquisto dei crediti CDM non se ne trova traccia sui patinati opuscoli informativi che delineano le strategie sostenibili di Eni. A fare bella mostra sono invece le immagini di lussureggianti parchi nazionali nell’Africa subequatoriale.

Quando parla di crediti di carbonio, infatti, Eni fa riferimento a un altro tipo di compensazione delle emissioni di CO2. Si tratta dei progetti di decarbonizzazione attraverso la protezione delle foreste. Le aziende, come Eni, finanziano progetti di conservazione ambientale per prevenire l’aumento della deforestazione in aree capaci di assorbire grandi quantità di anidride carbonica. Il potenziale rilascio di CO2 così scongiurato viene tramutato in crediti di carbonio da utilizzare per compensare le emissioni causate dalle aziende con le proprie attività, come l’estrazione di combustibili fossili.

Dell’acquisto dei crediti CDM non se ne trova traccia sui patinati opuscoli informativi di Eni. A fare bella mostra sono invece le immagini di lussureggianti parchi nazionali nell’Africa subequatoriale.

Eni punta a ottenere dalla protezione delle foreste una parte consistente dei 40 milioni di crediti di carbonio all’anno promessi dall’azienda entro il 2050. Oltre ai progetti CDM, l’anno scorso il colosso energetico ha compensato 1,5 milioni di tonnellate di anidride carbonica attraverso la propria partecipazione nel Luangwa Community Forest, un programma di conservazione forestale in Zambia. Il più grande progetto del suo genere al mondo, Luangwa interessa una superficie di 940 mila ettari. Dal 2014 – anno di fondazione – la società promotrice, BioCarbon Partners, investe in costruzione di scuole, pozzi d’acqua, e sviluppo di aziende agricole ecosostenibili. Tutte attività che dovrebbero contribuire alla conservazione del parco naturale.

Tuttavia, i progetti di prevenzione della deforestazione non sono privi di zone d’ombra e criteri poco trasparenti riguardo alla reale efficacia nell’abbattere le emissioni. Gli esperti sollevano, in particolare, dubbi sulle metodologie utilizzate per quantificare i crediti di carbonio. Tipicamente i promotori di un progetto analizzano i dati di un’area circostante alla foresta da proteggere, facendo delle stime su quanti alberi potrebbero essere tagliati in assenza di attività di conservazione. Un compito molto delicato e complesso visto le numerose variabili – anche future – da tenere in considerazione. Il rischio è di sovrastimare la riduzione delle emissioni generate da un progetto.

Proprio per questo motivo le organizzazioni ambientaliste Greenpeace e ReCommon hanno puntato il dito nei confronti del progetto finanziato da Eni, accusando l’azienda di «acquistare crediti che esistono solo sulla carta». Un dettagliato studio scientifico commissionato dalle due ong sostiene che la riduzione delle emissioni ottenuta attraverso il Luangwa Community Forest sia stata gonfiata all’incirca del doppio.

Dietro le stime “sbagliate” ci sarebbe innanzitutto la scelta come area di riferimento di una foresta già ampiamente degradata e con caratteristiche socio-economiche molto diverse rispetto al parco “protetto” da Eni. Secondo l’autore dell’analisi, esagerando la gravità dell’impatto di un’ipotetica futura deforestazione nella foresta di Luangwa, il progetto di conservazione può dichiarare un livello di sequestro delle emissioni molto maggiore. E le aziende finanziatrici, come Eni, possono intascarsi un numero maggiore di crediti.

Secondo Greenpeace e ReCommon, quindi, l’investimento del colosso energetico nel Luangwa Community Forest sarebbe soltanto un’operazione di greenwashing. «Acquistando crediti sul mercato del carbonio o investendo direttamente in presunti progetti di conservazione – commenta Alessandro Runci di ReCommon – aziende come Eni possono presentarsi come protettrici della biodiversità, nonostante le loro attività estrattive continuino a causare la distruzione degli ecosistemi su cui ricadono le loro concessioni». Eni non ha risposto alle richieste di IrpiMedia.

Il cargo di gas carbon neutral

L’agosto scorso Eni ha utilizzato i crediti generati dal Luangwa Community Forest per consegnare quello che ha definito come il suo primo carico di gas naturale a “neutralità carbonica”. Partito dall’impianto di Bontang in Indonesia, la nave cargo ha trasportato il gas naturale liquefatto (GNL) prodotto dal giacimento di Eni fino a Taiwan. L’azienda dice di aver compensato le emissioni associate all’intera catena del valore del carico – dall’estrazione all’uso finale – attraverso l’acquisto di crediti collegati a progetti di conservazione forestali, tra cui quello in Zambia.

Eni non è l’unica major degli idrocarburi ad aver pubblicizzato la produzione di combustibili fossili “carbon free” quest’anno. Shell, Total, BP, Gazprom hanno effettuato una ventina di consegne di gas e petrolio sostenendo di aver compensato le emissioni attraverso l’acquisto di crediti di carbonio.

Secondo diversi osservatori, tuttavia, queste non sono altro che trovate pubblicitarie allo scopo di coprire con una patina verde quello che rimane un prodotto altamente inquinante. Il problema non sarebbe solo la bontà dei singoli progetti collegati ai crediti di carbonio, ma il principio stesso che sottostà a queste iniziative.

Secondo Jonathan Crook di Carbon Market Watch, si tratta di una logica fallace che non tiene conto della longevità delle emissioni causate dall’estrazione di gas e petrolio. «L’anidride carbonica sprigionata dai combustibili fossili rimane nell’atmosfera per un periodo che va da 300 a 1000 anni – spiega Crook -. Per poter pareggiare quelle emissioni gli alberi protetti dai progetti di conservazione devono rimanere in piedi almeno per quello stesso lasso di tempo. Ma nessuno può garantire con certezza che ciò avvenga in un arco temporale così lungo».

CREDITI

Autori

Matteo Civillini

Editing

Lorenzo Bagnoli

Mappe

Lorenzo Bodrero

Opl245Papers: il fascicolo della discordia

8 Ottobre 2021 | di Lorenzo Bagnoli, Luca Rinaldi

«Prima conoscere, poi discutere, poi deliberare». La più nota delle Prediche inutili di Luigi Einaudi ci mette davanti al perché di questo progetto. La conoscenza è alla base di una qualsiasi discussione e di una successiva presa di decisione, sia questa giudiziaria, politica o di opinione. Ebbene, il caso Opl 245 ci mette davanti proprio alla necessità di comprendere, discutere e deliberare avendo accesso a una intera collezione di documenti per formarsi un’opinione su un episodio controverso della nostra epoca.

Un episodio, quello della presunta maxi-tangente di un miliardo di dollari che Eni e Shell avrebbero elargito per aggiudicarsi il blocco petrolifero nigeriano Opl 245, che ci mette davanti a ulteriori dilemmi su cui non si possono mettere pietre: sui concetti di verità giudiziaria e verità storica, ammesso che vi siano “verità” e su cosa sia letteralmente “Giustizia” in un caso come questo.

Il progetto

Opl245papers.org è il sito che raccoglie l’intero fascicolo giudiziario milanese del processo che ha visto Eni e Shell, insieme ai loro manager, imputate di corruzione internazionale per l’acquisto di una licenza petrolifera in Nigeria. In primo grado, il tribunale di Milano ha assolto tutti gli imputati perché «il fatto non sussiste». Dalle motivazioni però emergono ancora dei dubbi circa gli accadimenti in Nigeria, il ruolo dei pubblici ufficiali, dei mediatori delle trattative, che vanno ben oltre la singola licenza petrolifera. Non si tratta necessariamente di fatti che hanno un rilievo penale per una corte italiana, però sono fatti che costituiscono pezzi di storia dell’industria petrolifera mondiale in Nigeria.

Eni e Shell sono solo due attori di un contesto molto più ampio, che emerge nei documenti del fascicolo milanese. Dentro i documenti – accessibili attraverso la piattaforma Aleph, creata per realizzare inchieste collaborative transnazionali – si trovano centinaia di nomi di professionisti, progetti, pubblici ufficiali, multinazionali e intermediari. Sono elementi da cui partire per cercare di approfondire la conoscenza di questo settore, così irrimediabilmente collegato alle vicende storico-politiche in Nigeria. In più, la vicenda giudiziaria della licenza esplorativa Opl 245 continua in altre aule di tribunale in diverse parti del mondo, mentre in Italia ha innescato lo scontro tra magistrati e giudici al tribunale di Milano e le rivelazioni (la cui veridicità è ancora tutta da verificare) di Piero Amara, l’ex consulente legale esterno che ha difeso manager e dipendenti di Eni.

Nel sito trovate alcune storie – in aggiornamento – costruite a partire da documenti del fascicolo; una galleria di personaggi legati alla vicenda Opl 245 e all’industria dell’oil&gas nigeriana; una timeline del processo e una selezione per temi di alcuni documenti del fascicolo giudiziario. Un motore di ricerca permette di consultare l’intero fascicolo. Questo sito è stato realizzato con la partnership di Re:Common, organizzazione non governativa tra coloro le quali hanno depositato gli esposti da cui è partito il processo e con la quale IrpiMedia ha già seguito in diretta streaming alcune delle udienze principali del processo.

Questo è l’editoriale di presentazione del progetto Opl245Papers, ovvero la spiegazione del perché secondo noi questa storia è importate ed è importante che sia libero l’accesso ai documenti giudiziari che la riguardano

Nel dirimere la prima questione chi scrive sa bene, come chiunque onestamente voglia affrontare questa dicotomia netta nella forma, ma molto più sfumata nella sostanza, che le due cose spesso prendono strade differenti. Ciò non significa affatto che la sentenza emessa in questo specifico procedimento sia da mettere in discussione nei suoi presupposti giuridici. Pubblici ministeri, difese e Corte giudicante si sono confrontate, e affrontate, per oltre due anni con una imputazione, quella di corruzione internazionale, dai contorni complessi e forse inattuali.

La stessa Eni rispondendo alle domande che nel corso di questo progetto abbiamo posto, per consentire all’azienda di esprimere le proprie posizioni, cerca di farsi contemporaneamente giudice e storica. Prima dando per assodato che una sentenza di primo grado abbia messo la parole “fine” alla vicenda giudiziaria, «rendendo sostanzialmente inutile – scrivono nella loro replica – l’appello proposto dalla procura di Milano» e poi rivelandoci di «faticare» a trovare l’interesse giornalistico del progetto stesso.

Per chi ha seguito lo stesso processo, come chi scrive, ha trovato scelte a tratti illogiche tanto nell’impostazione dell’accusa, quanto in alcune difese. E molto ci sarebbe da discutere sul senso stesso che parti della magistratura conferiscono al proprio lavoro: uomini che esercitano l’azione penale (o civile) codice alla mano o più cercatori di “verità”, storici e sociologi? Non sarà questa la sede per discuterne o stabilirlo, ma anche l’attualità suggerisce che il momento è propizio per affrontare il discorso, e non solo nel parlamentino dei magistrati.

Al contrario però non si può sottovalutare come l’indagine abbia potuto riprendere in presa diretta l’incedere di affari e negoziazioni attorno a un settore in cui sarebbe ipocrita non riconoscere un certo modo di fare affari in contesti certo difficili e complessi, ma a cui non si può ostinatamente riconoscere pulizia. Del resto è ancora famoso lo scambio tra lo stesso Enrico Mattei, presidente dell’Eni dal 1953 al 1962 e il suo collaboratore Giuseppe Ratti: «Presidente, è arrivato un telegramma per lei”. “Da dove viene?”. “Da un Paese di merda”. “Bene! Allora lì c’è il petrolio”».

Per approfondire

The Nigerian Cartel

In Nigeria, da anni, comanda la stessa élite politico-finanziaria. Politici e imprenditori che controllano le due filiere storicamente più redditizie del Paese: costruzioni e petrolio

L’accesso alla mole documentale raccolta durante le indagini e il processo permettono all’opinione pubblica di formarsi un convincimento sul funzionamento di un sistema intero, le cui condotte non devono necessariamente portarci a stabilire una censura penale, ma anche solo a una conoscenza per deliberare sui fatti e sugli impatti che una determinata industria può avere sulle popolazioni locali. E questo di chi è compito se non dei giornalisti come chi scrive? Un lavoro necessario per l’informazione, i cittadini, ma anche la politica, in particolare quella con la P maiuscola che si occupi soprattutto di “politiche”.

La vicenda Opl 245 resta controversa. Non si esaurisce con il procedimento penale italiano, perché nel mondo sono aperti procedimenti civili e amministrativi che riguardano le medesime vicende e in cui transazioni, mediazioni e risarcimenti si definiscono da alcuni anni, con tanto di somme recuperate e restituite a Paesi, governi ed entità che sostenevano di averci rimesso.

Recuperando quindi la predica inutile di Einaudi siamo convinti che l’importanza di questo progetto non stia in una volontà di revisione di un processo penale chiuso favorevolmente agli imputati (la Giustizia funziona proprio perché ci sono condanne e assoluzioni, altrimenti sarebbe giustizia sommaria), ma nella possibilità di conoscere per deliberare che ogni singolo cittadino può e deve esercitare.

Foto: vista di Lagos – ba55ey/Shutterstock

When Mohammed Bello Adoke telephoned JP Morgan

#InEnglish

When Mohammed Bello Adoke telephoned JP Morgan

September 28, 2021

Lorenzo Bagnoli

An internal email exchange between anti-money laundering officers at JP Morgan Chase (JPMC) bank records that a “Mr Adoke”, described in the email as “the former Nigerian Minister of Justice and Attorney General”, sought to transfer $1,092,015,000 from a Federal Government of Nigeria (FGN) account, held with the London branch of JPMC, even though he was not a Minister at the time. JPMC refused to act on the transfer proposal.

The funds were held in an account set up by the FGN to receive funds from oil multinationals Shell and Eni as part of the deal through which the companies acquired the licence to the controversial OPL 245 oil block in Nigeria in 2011. The funds were ultimately transferred by officials of the FGN to Malabu Oil and Gas, the company that previously held the licence. Malabu is controlled by convicted money launderer Dan Etete who awarded the block to the company when he was oil minister.
The JPMC email, dated 24 June 2011, was entered as defense evidence by ENI in its recent trial in Milan on charges of international corruption related to the OPL 245 deal. The Milan court acquitted the company (together with Shell and other defendants) in March 2021. The judgment has been appealed by the Prosecutor and the Federal Republic of Nigeria, which is a party to the case.

The email, entitled “FGN summary of the facts”, was prompted by the failed transfer of $1,092,015,000 from the FGN account to an account at BSI bank in Switzerland held by Petrol Services Ltd, a company close to close to the then Italy’s honorary consul in Nigeria and his Nigerian associates. The transfer was rejected by BSI bank for ‘compliance’ reasons.

IrpiMedia è gratuito

Ogni donazione è indispensabile per lo sviluppo di IrpiMedia

The ‘Adoke’ telephone call

The email gives a detailed chronology of JPMC’s business relationship with the FGN in relation to the account. It was written by Simon Lloyd, JPMC’s Executive Director of Anti-Money Laundering and Sanctions Compliance for Europe, Middle East and Africa. 

Lloyd’s email log records that the Nigerian cabinet, in which Adoke had served as Attorney General, had been dissolved on 30 May 2011, following the results of a general election. A new cabinet was not fully appointed until 2 July 2011. From 30 May to 2 July, Adoke was therefore out of office. Nonetheless, according to Lloyd, JPMC received a telephone call on 20 June 2011 “from Mr Adoke, the former Nigerian Minister of Justice and Attorney General”. At the time, former Attorney General Adoke was a private citizen, not a government official.

Lloyd’s email log records that the Nigerian cabinet, in which Adoke served as Attorney General, had been dissolved on 30 May 2011, following the results of a general election. A new cabinet was not fully appointed until 2 July 2011. In the interim, according to Lloyd, JPMC received a telephone call on 20 June 2011 “from Mr Adoke, the former Nigerian Minister of Justice and Attorney General”. 

The email records: “Adoke states that FGN would like to give JPM another instruction to make payment to a separate account number in another bank. Mr Adoke proposed that in the absence of a serving Minister of Finance, the instructions would come from the permanent secretary of the Ministry of Finance”.

From 30 May to 2 July, Adoke was therefore out of office. Nonetheless, according to Lloyd, JPMC received a telephone call on 20 June 2011 “from Mr Adoke, the former Nigerian Minister of Justice and Attorney General”. At the time, former Attorney General Adoke was a private citizen, not a government official

JPM declined to act on the reported request by “Mr Adoke”. According to Lloyd: “JPM advised that . . . [it] would need to be instructed by the new Minister of Finance as the authorised representative of FGN in the agreement”. Mr Adoke has stated that he was “on holiday abroad as a private citizen” from 29 May 2011-2 July 2011 and “did not have any dealings with official matters on behalf of the Government of the Federation of Nigeria”.

#InEnglish

Drones on the frontlines

In Ukraine, unmanned aircraft vehicles are weapons of propaganda. Volunteer organisations have altered drones to supply them to the army in Kyiv

Libya, the battle of Fezzan

With hunger on the rise in North Africa, Libya’s southern region could provide food and employment. There is no shortage of cooperation projects, but the atmosphere in Fezzan is volatile

A forged email?

Adoke’s denial that he acted in an official capacity from 29 May- 2 July 2011 was first made in response to the disclosure of a further email, dated 21 June 2011.

This second email, obtained by the Milan Prosecutor through a Mutual Legal Assistance request to the United Kingdom, was sent from ‘agroupproperties@yahoo.com’ to Bayo Osolake, an employee at JPMC. Attorney General Adoke was in touch with Osalake when the FRN account at JPMC was being set up. 

The email, which was sent a day after the telephone call from a ‘Mr Adoke’ that Lloyd recorded in his log of correspondence, was signed “Mohammed Bello Adoke”.

The Resolution Agreements for the OPL 245 deal were attached to email. In an apparent reference to these attachments, Lloyd’s log records that on 21 June JPMC was provided with “details of the settlement between all the parties” by “the Nigerian office of the Attorney General”, adding: “The details of this settlement are not in the public domain”.

Mr Adoke has vigorously denied sending the 21 June email, which he describes as a forgery.

IrpiMedia è gratuito

Ogni donazione è indispensabile per lo sviluppo di IrpiMedia

In a complaint to the Nigerian Inspector General of Police, Adoke states that he could not have been the author of the email because (in addition to being on holiday on 21 June) the email was signed by ‘Mohammed Bello Adoke’ whereas all of his correspondence “whether physical or electronic are signed off with the suffix SAN” and at no time had he signed off “any document without using his rank in the legal profession”.

Other documentary evidence from the Milan trial reveals that “agroupproperties@yahoo.com” was the email address provided by Nigerian entrepreneur Abubakar Aliyu when he opened an account with First Bank Nigeria for Novel Properties and Development Company Ltd. 

The company is alleged by the Milan Prosecutor to be one of several fronts through which bribes were channelled from the OPL 245 deal to public officials. The Milan judges accepted that more than $500 million were disbursed through Aliyu companies to individuals.

Documentary evidence from the Milan trial reveals that “agroupproperties@yahoo.com” was the email address provided by Nigerian entrepreneur Abubakar Aliyu when he opened an account with First Bank Nigeria for Novel Properties and Development Company Ltd

Milan Judges: Adoke received “a benefit” from OPL 245 funds

In their judgment, the judges in the Milan trial describe the “agroupproperties@yahoo.com” email as confirmation of “the relationship between Minister Adoke and the companies of Alhaj Abubakar Aliyu” – a relationship which is described as proof of “a mixture of economic interests that is serious circumstantial evidence of receipt of benefits from Malabu’s payments”.

Although Adoke has vigorously denied receiving any payments from the OPL 245 deal, the Milan court ruled as a fact that he “is the only one of the three public officials indicated in the indictment as necessary parties to the corrupt agreement to have received a benefit directly deriving from funds from the OPL 245 operation”.

The Milan judges state that Adoke received some $2 million from the deal. The money originated from Aliyu Abubakar and was paid into Adoke’s account though numerous cash payments from Bureaux de Change. 

The judges hypothesize that the payment may have represented legal payments of a prior debt owed by Etete for legal services provided by the former Attorney General when in private practice. 

However, the judges’ hypothesis conflicts with statements made by Adoke through his lawyers. Adoke’s London solicitors Gromyko Amedu have stated: “Our client vigorously denies that he received a bribe of $2.2 million or any other sum on account of the OPL 245 Settlement Agreement”.

Adoke himself has acknowledged that Abubakar repaid a mortgage loan that Adoke was unable to service for a house that he had purchased from Abubakar. 

In his recently published autobiography titled Burden of Service, Adoke states: 

“I approached my bankers seeking a mortgage to buy a house. Alhaji Aliyu Abubakar, a builder and a developer whom I had been acquainted with for a long time, had earlier approached me with an offer to sell me a house for N500 million. The bank, the Chairman of whose Audit Committee I used to be, agreed that I should make an equity contribution of N200 million for a mortgage loan of N500 million that they would extend to me. The mortgage was approved and the payment made directly to the developer, not me. 

“I had hoped to raise the N200 million from the sale of a piece of land I owned in Abuja. However, it turned out that I could not secure a buyer . . .Meanwhile, interest was accumulating on the N300 million loan from the bank . . .

“As I was ruminating over how to sort out the problem, the developer contacted me, offering to return the money paid to him by the bank . . . I suggested Abubakar should approach the bank and offer to pay back the loan since I was unable to sort it out. I asked him to retrieve the title documents which he gave to the bank on receipt of their N300 million.

“All I know beyond that conversation was that he paid off the loan to the bank and retrieved the title documents. I have no inkling of how he paid or how much he paid. I have no idea if he made the payments in dollars, neither do I know if a bureau de change was involved. I merely recall that both the developer and the MD of the bank confirmed to me that the loan had been repaid and that the title documents had been returned. I asked that the bank account be closed. That ended the matter as far as I was concerned.”

Abubakar and Adoke are currently being prosecuted by the Nigerian Economic and Financial Crimes Commission (EFCC) on money laundering and corruption charges related to the OPL 245 deal. Both deny any wrongdoing.

Although the Milan Court dismissed the charges against Eni, Shell and other defendants, it did not rule out the possibility of offences associated with the OPL 245 field having taken place in Nigeria. It ruled, however, that, if this was the case, it was outside of Italian jurisdiction.

Opl 245 Papers
Opl245Papers” is a project led by IrpiMedia which will be online from the first half of October. For the first time the project will provide complete access to the court documents from the OPL245 affair. In Italy the trial, after the prosecution with the charge of international corruption for Eni and Shell managers, ended in the first instance with the acquittal of all the defendants. Now the prosecutor appeal the decision for a second judgement.

The opl 245 affair remains controversial. It does not end with the Italian criminal proceedings, because civil and administrative proceedings are open in the world concerning the same events and in which transactions, mediations and compensation have been defined for some years, complete with sums recovered and returned to countries, governments and entities who claimed to have lost.

CREDITS

Authors

Lorenzo Bagnoli

Infographics

Lorenzo Bodrero

Photos

Jp Morgan

Multinazionali e Università: lo scambio sui finanziamenti alla ricerca

23 Luglio 2021 | di Lorenzo Bagnoli, Scomodo

«Inostri sogni, le nostre tensioni non hanno bisogno di sponsorizzazioni». Era l’inverno del 1989, un momento in cui le facoltà universitarie sembravano ribollire dello stesso spirito del 1968. «La Pantera siamo noi», gridavano gli studenti del movimento di contestazione della riforma universitaria che portava la firma di Antonio Ruberti, Ministro dell’Università e della Ricerca dei governi di Giulio Andreotti a cavallo degli anni Novanta. A Bologna, il 22 gennaio dell’anno successivo, gli studenti hanno occupato gli uffici del Nono centenario, luogo deputato alla commemorazione dei novecento anni dell’Alma Mater Studiorum bolognese, l’UniBo. Sono state occupate anche diverse facoltà. Sembrava che il vento della contestazione non dovesse smettere di soffiare. La riforma Ruberti era detta la Legge dell’autonomia: prevedeva per ogni ateneo la possibilità di gestire in modo indipendente statuti e finanze. È da allora che sono possibili le sponsorizzazioni private, meccanismo sempre più diffuso per sostenere la ricerca pubblica.

Decenni dopo quelle contestazioni, l’Università di Bologna ha stretto accordi di partnership con due multinazionali che operano in settori economici molto discussi: Eni e Huawei, colossi l’uno dell’industria petrolifera e l’altro nelle telecomunicazioni. Scomodo, la più grande redazione under 25 d’Italia, ha ottenuto gli accordi con l’ateneo attraverso delle richieste di accesso agli atti. Insieme a IrpiMedia, ha sottoposto i documenti a docenti ed esperti, per capire in che modo le sponsorizzazioni possono rappresentare una minaccia per la libertà di ricerca. L’ufficio stampa dell’università di Bologna non ha risposto alla nostra richiesta di commento.

Trent’anni fa – tra spaccature interne, accuse di estremismo e forte opposizione alle istanze controriformiste del rettorato e di altri gruppi politici universitari favorevoli alla Legge dell’autonomia – a Bologna (come nel resto d’Italia) l’esperienza del movimento Pantera si è esaurita in pochi mesi. Oggi chi mette in dubbio le sponsorizzazioni dei privati, come la professoressa Margherita Venturi, riporta che molti, in università, pensano che senza «non potremmo fare ricerca».

Informazioni confidenziali

È stata nel 2017 la prima firma dell’accordo quadro triennale «sui temi dell’energia e dell’ambiente» tra Eni e UniBo. L’azienda petrolifera può prorogarlo fino al 2022, vale 5 milioni di euro e prevede l’attivazione di corsi, master universitari e il coordinamento di alcuni dottorati di ricerca. Dal 2019, tra i corsi finanziati da Eni c’è una laurea magistrale internazionale in Offshore Engineering, al campus Ravenna.

L’accordo quadro tra Eni e l’Università di Bologna per le attività di ricerca

L’articolo 7 dell’accordo s’intitola Riservatezza e il punto 7.5 recita: «UniBo potrà utilizzare, nei limiti consentiti dalla legge e a titolo gratuito, le informazioni e/o i risultati riguardanti le ricerche ad esso affidatele per pubblicazioni a scopo scientifico». Si precisa però che, nel caso volesse farlo, «UniBo dovrà richiedere ed ottenere da Eni autorizzazione preventiva per iscritto». Segue una parte omissata e di seguito: «Se Eni si oppone alla pubblicazione, Eni è legittimata a modificare il documento oggetto di diffusione, eliminando ciò che ritiene possa costituire informazione confidenziale di sua proprietà, ma non potrà modificare i contenuti e le conclusioni scientifiche oggetto della richiesta di pubblicazione».

Secondo Luca Saltalamacchia, avvocato di diritto civile impegnato in diverse cause ambientaliste, anche contro Eni, si tratta di una «cessione di “sovranità intellettuale”» da parte dell’Università nei confronti di un privato. L’omissis impedisce anche di conoscere per quanto duri questa clausola di riservatezza: «Se ci fosse scritto cinquant’anni? – si domanda Saltalamacchia, – Allora sarebbe davvero come mettere una sorta di “bavaglio” all’università».

L’università con i «finanziamenti fossili»

La presenza di Eni ha spaccato il corpo docente, secondo quanto ha potuto ricostruire Scomodo dalle voci dei professori. Una parte minoritaria ha firmato una petizione promossa da alcuni studenti in cui si dice che «i finanziamenti fossili non sono compatibili con l’impegno dell’Alma Mater verso un’Università sostenibile». La professoressa Margherita Venturi, Presidente della Divisione di Didattica della Società Chimica Italiana, è tra questi: «Non sono assolutamente d’accordo – afferma – con quei docenti che si schierano a favore dei finanziamenti Eni e poi tengono invece dei corsi in cui si parla di sostenibilità». Sostiene che solo una piccola fetta della comunità universitaria sia davvero informata e resa partecipe delle scelte in materia di finanziamenti mentre gli altri le subiscono.

Seppur le sponsorizzazioni abbiano un valore economico ridotto, sono tante le università con cui Eni ha in essere accordi quadro. Secondo quanto dichiarato dall’azienda durante l’assemblea degli azionisti di quest’anno, «Eni ha corrisposto un totale di €31.250 a INSTM (Consorzio Interuniversitario Nazionale per la Scienza e Tecnologia dei Materiali, ndr), Politecnico di Milano, Università di Milano, Università di Padova, Università di Parma e Università di Pavia» per brevetti sviluppati in partnership con questi atenei dal 2016 a oggi.
L’azienda ha poi precisato di non aver mai ricevuto pagamenti diretti da parte per brevetti sviluppati nell’ambito dei singoli accordi quadro e «non ha ottenuto royalties direttamente riconducibili a singoli brevetti sviluppati in collaborazione con Università».

Sindrome cinese

Nessun pagamento pattuito, nessun progetto specifico, nessuna prelazione su progetti futuri o brevetti. Il protocollo d’intesa firmato con Huawei a gennaio del 2021 (e valido fino a dicembre 2021) richiede a UniBo, in particolare al dipartimento che si occupa di intelligenza artificiale, ALMA-AI, tre «attività»: uno, partecipare alla Open Edge and HPC Initiative (organizzazione non profit di cui fanno parte aziende del settore telecomunicazioni e informatica, tra cui Huawei) allo scopo di promuovere il settore in Europa; due, testare e impiegare software e tecnologie di Huawei «per scopi di ricerca ed educazione»; tre, partecipare insieme a Huawei e i suoi partner al programma di finanziamento europeo per attività di ricerca Horizon Europe, il programma quadro di finanziamento alla ricerca dell’Unione 2021-2027.

Al punto 4.4 si aggiunge che se l’università volesse condurre attività simili con competitor di Huawei dovrebbe chiedere esplicito consenso all’azienda cinese. In pratica, dal punto di vista di Huawei, la collaborazione è finalizzata ad accedere a bandi e progetti di ricerca europei con la sponsorship esclusiva di una prestigiosa università italiana. L’azienda in Occidente è spesso accusata di essere sotto il controllo del partito comunista cinese, nonostante le smentite.

Il Memorandum of Understanding tra Huawei e l’Università di Bologna

Oltre al bando europeo Horizon 2020, tra le altre gare a cui partecipare Huawei cita come esempi GAIA-X, un progetto nato dalla collaborazione tra undici aziende che si occupano di cloud e protezione dati francesi e undici tedesche per costituire un’infrastruttura digitale sicura per l’Europa. Tra le parole chiave dell’iniziativa c’è «sovranità digitale», ma il club è già frequentato da aziende che stanno fuori dai confini dell’Unione europea e ha aperto le porte a università, aziende pubbliche e startup. Da marzo Huawei è dentro attraverso la sua divisione tedesca. Altro consorzio a cui Huawei aspira ad accedere attraverso UniBo è AI4EU, iniziativa continentale a sostegno della promozione dell’intelligenza artificiale.

Tra gli altri obiettivi della cooperazione nell’accordo sono inclusi «lo sviluppo congiunto di un ecosistema aperto di industria AI in Italia» e «condurre analisi, test e validazioni della preparazione delle tecnologie AI in diversi ambiti, in particolare nel settore sanitario e manifatturiero».

I legami di Huawei con il governo di Pechino

Huawei, da visura camerale, è controllata da una cooperativa di dipendenti che secondo l’azienda non ha alcun legame con il governo cinese. Come funzioni questa cooperativa, però, non è chiaro: nel 2019 il New York Times, in un articolo che cita due ricercatori contestati dall’azienda, spiegava che gli azionisti di fatto non hanno alcun potere. Nel 2020 un’inchiesta della Camera dei Comuni inglese, riportata da Bbc, ha concluso che esiste «collusione» tra il governo cinese e Huawei. Una delle prove prodotte è il flusso di finanziamenti dalle casse statali all’azienda: 75 miliardi di dollari in tre anni. A luglio 2020 il governo britannico aveva escluso Huawei dalla gara d’appalto per l’infrastruttura 5G.

Dal lato UniBo, l’interesse certo è disporre delle tecnologie della società cinese negli ambiti della ricerca. In più, un possibile ulteriore sviluppo potrebbe portare incassi da progetti di ricerca e sviluppo a cui si è lavorato insieme. Poi, chissà, in futuro si potrebbe costruire qualcos’altro. L’esempio di come può andare quest’avventura è citato tra i partner a cui Huawei può affidare progetti previsti nell’ambito della cooperazione con UniBo. Si chiama Evidence Srl, azienda di Pisa controllata al 100% da Huawei nata come spin-off di un laboratorio della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. «Il bilancio chiuso al 31/12/2020 evidenzia un utile di Euro 4.666.469», si legge nell’ultima rendicontazione dell’azienda. L’anno prima era stato di meno di 10 mila euro. Nel 2020 Evidence srl ha anche maturato crediti verso la controllante Huawei Technologies Co Ltd «relativi ad addebiti di costi di ricerca e sviluppo» pari a 2,9 milioni di euro.

In partnership con: Scomodo | Hanno collaborato per Scomodo: Edoardo Anziano, Francesco Paolo Savatteri, Margherita Vita, Chiara Solinas, Roberto Smaldore, Federica Carlino | Foto: unibo.it

Eni-Opl 245, tutti assolti gli imputati per corruzione internazionale

18 Marzo 2021 | di Lorenzo Bagnoli

Il verdetto, arrivato ieri (17 marzo) dopo circa sette ore di camera di consiglio, è stato in bilico fino all’ultimo. Nessuno tra i presenti nell’aula allestita alla vecchia Fiera di Milano azzardava pronostici. L’esito, alla fine, è stato accolto con entusiasmo dalle difese, che si sono lasciate andare a qualche abbraccio liberatorio. Per i tredici imputati nel processo Opl 245 accusati di corruzione internazionale, a cui si aggiungono le due società Eni e Shell, il collegio giudicante della settima sezione del tribunale di Milano, ha ordinato l’assoluzione «perché il fatto non sussiste». Esattamente ciò che chiedevano le difese.

Il risultato è particolarmente positivo per Claudio Descalzi, l’attuale amministratore delegato di Eni, all’epoca dei fatti numero due di Paolo Scaroni, oggi responsabile di Rotschild in Italia e presidente del Milan. Per entrambi i pubblici ministeri Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro avevano chiesto otto anni di carcere. «Finalmente a Claudio Descalzi è stata restituita la sua reputazione professionale e a Eni il suo ruolo di grande azienda», è stato il commento del suo difensore, l’avvocato ed ex ministro della Giustizia del governo Monti, Paola Severino.

Le motivazioni tra 90 giorni

Il Tribunale si è preso novanta giorni di tempo per depositare le motivazioni della sentenza. Appare ovvio l’appello della procura di Milano, che aveva concentrato l’accusa sulla fitta corrispondenza di email interne sequestrate agli uffici de L’Aja di Shell durante le perquisizioni del 2016. Per il collegio giudicante le conversazioni non corroborano la tesi accusatoria secondo cui il versamento di 1,1 miliardi di dollari pagati da Eni sul deposito di garanzia acceso dal governo federale della Nigeria presso la succursale londinese della JP Morgan rappresentano una tangente. A questo denaro si aggiungono 210 milioni di dollari di “bonus di firma” pagati da Shell e che non sono mai stati ritenuti parti della tangente.

Può esultare anche l’ex ministro nigeriano del petrolio Dan Etete, proprietario della Malabu Oil & Gas Ltd, la società titolare della licenza esplorativa Opl 245, il quale ha nella fedina penale una condanna per corruzione in Francia nel 2007. Etete secondo le ricostruzioni dei flussi finanziari svolte da Guardia di Finanza ed Fbi avrebbe ricevuto circa 800 milioni di dollari dal governo nigeriano, che poi avrebbe distribuito a diverse società attraverso l’aiuto di un imprenditore del settore immobiliare, Aliyu Abubakar. Per quest’ultimo è atteso il rinvio a giudizio in un filone a parte del procedimento di Milano, rallentato da un errore di notifica delle indagini.

Etete, Aliyu Abubakar, così come l’ex ministro della giustizia nigeriano Mohammed Adoke Bello sono coinvolti in Nigeria – insieme ad altri politici e imprenditori – in tre filoni processuali per frode, corruzione e riciclaggio che si ricollegano alla vicenda Opl 245. Alla Corte civile di Londra entro la fine del 2021 è invece atteso il verdetto sul procedimento che vede il governo federale della Nigeria contro JP Morgan, accusata di aver sbloccato 800 milioni di dollari provento di presunta corruzione. L’esito processuale di Milano segna un punto favorevole per le aziende petrolifere anche per quanto succederà nelle aule giudiziarie nigeriane e inglesi.

Il commento di Re:Common: le lezioni della saga Opl 245

«La capacità di queste società (Eni e Shell) di influenzare i processi democratici in paesi come la Nigeria, ma anche da noi. L’affare Opl245 ha visto un ruolo centrale di quello che la Procura di Milano ha definito l’”asse delle spie”: due ex-MI6 inglesi pagati da Shell, il capo dell’intelligence nigeriana, un ex ambasciatore russo vicino a Shell e un uomo dei servizi italiani, che nel corso dell’indagine è diventato anche il grande accusatore di Descalzi & Co. Soggetti che senza problemi scrivevano nelle loro email della consapevolezza che i soldi dell’Opl245 erano attesi dai politici nigeriani, della capacità di produrre i testi negoziali anche per il governo nigeriano aggirando le agenzie tecniche preposte, della regolare intelligence su ognuno degli attori coinvolti per orientarli al meglio. Un vero e proprio Stato Parallelo, con una dimensione transnazionale, capace di influenzare ogni processo e decisione. Secondo quanto riferito dai testi sentiti in Tribunale a Milano è normale che questo accada e che il connubio società-stati porti avanti in ogni modo gli interessi comuni. Chiediamoci allora perché la questione Opl245 nella sua gravità non è stata presente nell’opinione pubblica e perché questo stato parallelo riesca a spostare il dibattito e condizionare i media e l’opinione pubblica così tanto in Italia come in altri paesi.

Nonostante la lotta alla corruzione sia sulla bocca di tutti i top manager, dall’affare Opl245 emerge che gli standard e le procedure interne anti-corruzione delle società sono regolarmente interpretate a discrezione. Le e-mail interne trapelate e altri documenti rivelano una storia di ripetuti fallimenti nell’affrontare le “bandiere rosse” (gli avvertimenti) sulla corruzione. In questo modo era normale che l’ad e il numero due di Eni si intrattenessero a telefono regolarmente con un pluri-pregiudicato – quale Luigi Bisignani – riguardo alla gestione del negoziato sull’Opl245. Le strutture interne dell’anti-corruzione di Eni, al contrario di quelle di Shell, fino all’ultimo giorno hanno ricordato ai loro manager che mancava documentazione rilevante della Malabu, ma poi alla fine hanno dato il loro assenso all’accordo. Anche quando questa procedura sarà considerata legale dai vari tribunali, è giusto chiedersi come si può fermare la corruzione se poi queste sono le pratiche concrete per prevenirla in Eni come in Shell.

La negazione dell’evidenza, sempre e comunque. Eni e Shell sapevano bene che personaggio fosse Dan Etete, l’ex ministro del petrolio che ai tempi della dittatura di Abacha nel lontano 1998 si era di fatto auto-intestata la licenza Opl245 tramite la società schermo Malabu Oil and Gas. Etete è stato condannato nel 2007 in Francia per riciclaggio collegato alla corruzione per l’affare Bonny Island, sempre in Nigeria. Nonostante tutto le due società hanno strenuamente continuato a sostenere che prima non sapevamo che Etete fosse davvero dietro la Malabu – anche se rapporti indipendenti del 2007 e 2010 chiaramente segnalavano la cosa a Eni – e poi, una volta ammesso, si sono trincerate dietro l’argomentazione che l’accordo finale siglato nel 2011 prevedeva solo il pagamento al governo nigeriano,e non alla Malabu di Etete. Quello che The Economist ha definito “sesso sicuro in Nigeria”, fatto con il “preservativo” fornito dallo schermo dai vertici del governo nigeriano, che poi avrebbero intascato laute mazzette.

In conclusione, colpevoli o no, del miliardo e cento milioni di dollari pagati da Eni e Shell nulla è finito al governo e al popolo nigeriani. Se la Nigeria avrà successo con le sue azioni legali di risarcimento del danno contro le società, sarà importante monitorare insieme alla società civile indipendente del paese che i soldi vengano spesi al meglio. Ma nel frattempo possiamo tutti chiederci se le prove emerse dal processo a Milano rivelano aziende di cui in ultima istanza ci si può fidare. Questi giganti possono essere riformati e controllati – a prescindere dal fatto che già oggi il governo italiano controlla il 30 per cento di Eni e ne nomina i vertici? O il loro uso di porte girevoli, l’infiltrazione negli apparati degli stati e il coinvolgimento di ex-spie è parte integrante del loro modo di operare?».

L’asticella irraggiungibile della corruzione internazionale

Ieri (17 marzo), sul Corriere della Sera Luigi Ferrarella ha scritto un’analisi su un problema che prescinde dalla vicenda di Eni e Shell in Nigeria e riguarda tutti i processi per corruzione internazionale. Il giornalista ha precisato di aver scelto di uscire prima del verdetto per evitare strumentalizzazioni e di essere tacciato di opportunismo.

Ferrarella registra quanto i processi per corruzione internazionale che riguardano importanti multinazionali italiane siano percepiti da un pezzo importante di opinione pubblica come un’intromissione negli affari della aziende italiane che di fatto procura loro uno svantaggio nella competizione con i concorrenti esteri. La teoria per cui in certi Paesi corrompere sia costume è per altro difficile da scalfire, quindi spesso la logica che sottende questo ragionamento – aggiungiamo noi – è che se non corrompono gli italiani lo farà qualcun altro dal momento che in certi contesti non c’è modo di fare affari altrimenti.

Per approfondire

Eni: processo a Milano, riflessi internazionali per Opl 245

ll procedimento sulla presunta tangente da 1,1 miliardi per il giacimento petrolifero Opl 245 in Nigeria coinvolge gli equilibri del management a livello internazionale

Eppure è dal dicembre 1997 che la Convenzione Ocse a tutela della concorrenza internazionale impone misure di contrasto alle pratiche corruttive. L’Italia non sono gli Stati Uniti, dove la rivalsa sui “cleptocrati” – politici e uomini d’affari beneficiari di appropriazioni indebite di parte della ricchezza nazionale – è molto più connaturata. In Italia, ricorda Ferrarella, si agisce in regime di obbligatorietà dell’azione penale e non c’è un condizionamento della politica sull’opportunità o meno di perseguire certi reati: la magistratura è indipendente dall’esecutivo. Al netto delle differenze di approccio, quello che i dati smentiscono è il presunto accanimento italiano nei confronti delle iniziative all’estero delle proprie aziende: «L’anno scorso – scrive Ferrarella – il colosso aerospaziale francese Airbus ha accettato di pagare 2,1 miliardi di euro alla Francia, 984 milioni alla Gran Bretagna e 526 milioni agli Stati Uniti che indagavano congiuntamente su 13 anni di commesse militari a Malesia, Russia, Cina e Ghana».

In Italia nonostante lo sforzo investigativo, il risultato di questo genere di processi è per lo più l’assoluzione. È un dato di fatto, a prescindere ancora una volta dal caso Opl 245. Alcune eccezioni macroscopiche tuttavia ci sono: c’è il patteggiamento del 2014 di AgustaWestland da 7,5 milioni di euro nel 2014; quello di Eni negli Stati Uniti per la vicenda Bonny Island, costata 365 milioni e quello annunciato sempre di Eni per la presunta corruzione internazionale in Congo Brazzaville. Il problema sta sempre nel pesare l’intermediazione, il suo valore e il suo effetto sul negoziato. Per quanto comprensibile sul piano storico che pagare un intermediario vicino a un ministro equivalga a pagare il politico – ragiona la firma del Corriere della Sera – non può esserlo sul piano giudiziario.

Le tappe della vicenda

Ferrarella ha cominciato a ragionare sull’argomento all’indomani dell’assoluzione di Saipem – all’epoca dei fatti contestati controllata di Eni – nella vicenda di corruzione internazionale in Algeria del 2008. Nell’aprile 2020 il processo d’appello ha ribaltato il verdetto del primo grado, scagionando tutti gli imputati che in precedenza avevano ricevuto una condanna. Nelle motivazioni della sentenza si legge che «la remunerazione del mediatore non può essere scambiata per una tangente, tenendo conto che molte imprese si avvalgono di agenti del luogo in Paesi molto diversi per cultura e legislazione». Queste parole, commenta Ferrarella, «alzano l’asticella della corruzione internazionale a una misura di prova quasi mai raggiungibile dall’accusa».

Sulla stessa linea anche l’avvocato Luigi Scollo che sulla rivista specializzata Giurisprudenza Penale scrive a maggio 2020 che il modo in cui «esige un accertamento del fatto di reato difficilmente raggiungibile con i mezzi a disposizione dell’autorità inquirente italiana» e «risulta pressoché inadeguata per combattere efficacemente la corruzione nelle transazioni economiche internazionali».

Editing: Luca Rinaldi | Foto: Il tribunale di Milano – Luca Ponti/Shutterstock

Share via