La sentenza di primo grado che ha assolto tutti gli imputati sul caso Opl245 non chiude gli interrogativi sulla presunta tangente nigeriana e ha sublimato lo scontro in atto tra i magistrati milanesi
Eni Nigeria: nuove prove sul collettore della tangente
4 Febbraio 2021 | di Lorenzo Bagnoli
Il 3 febbraio i giudici della settima sezione del Tribunale di Milano hanno acquisito due nuovi documenti nell’ambito del processo Opl 245 sulle presunte tangenti per l’aggiudicazione del blocco petrolifero nigeriano da parte di Eni e Shell. Si tratta di due email: una del 21 e l’altra del 23 giugno 2011. La procura sostiene che questi due messaggi aiutino a provare il rapporto tra uno dei destinatari della tangente e due pubblici ufficiali nigeriani incaricati di seguire la pratica per l’assegnazione del blocco petrolifero.
Non è usuale che in una fase così avanzata di un processo si acquisiscano nuovi elementi di prova, ma la Corte ha ritenuto particolarmente rilevante il contenuto delle email prodotte dal pubblico ministero Fabio De Pasquale. Il prossimo 17 marzo i giudici entreranno in camera di Consiglio, e da lì in avanti la sentenza potrebbe arrivare in qualsiasi momento.
I documenti in questione risalgono a un momento particolare dell’intera vicenda Opl 245. Eni, attraverso la sua società controllata in Nigeria Nae, ad aprile 2011 ha pagato il governo nigeriano 1.092 miliardi di dollari, a cui si aggiungono 207 milioni di dollari che Shell aveva depositato dal 2003 per quello che in gergo tecnico si definisce signature agreement. Gli 1.3 miliardi di dollari sono il prezzo stabilito per ottenere la licenza petrolifera Opl 245, una delle più promettenti di tutto il Paese.
L’affare, però, non si è concluso con l’arrivo dei soldi delle compagnie europee al conto nigeriano di JP Morgan di Londra. Dal conto del governo nigeriano, infatti, i soldi devono finire a Malabu Oil and Gas, la società dell’ex ministro del petrolio Dan Etete, proprietaria, a fasi alterne, della licenza Opl 245 dal 1998. Era stato stabilito da un secondo accordo, tra il governo di Abuja e la società petrolifera locale. Eni e Shell hanno detto di non essere a conoscenza del fatto che la destinazione finale della parte pagata da Eni fossero appunto le tasche di Dan Etete. La procura sostiene il contrario e sostiene che queste email aiutino a provarlo.
L’origine sospetta dei soldi
Non è stato semplice far compiere al denaro l’ultima parte del viaggio, da Londra alla Nigeria. Ci son voluti più tentativi. A fine maggio è fallito il primo, il più significativo. I soldi sarebbero dovuti arrivare attraverso una società terza, con sede alle isole Marshall, la Petrol Service diretta Gianfranco Falcioni, console onorario dell’Italia a Port Harcourt (Nigeria) e, all’epoca, sodale dell’imprenditore italo-nigeriano Gabriele Volpi, personaggio che a più riprese entra – come sfondo – all’interno della vicenda Opl 245. Il tentativo è naufragato perché la banca presso cui Petrol Service ha il suo conto, la Banca svizzera italiana di Lugano, considera sospetta l’origine del denaro.
Nella mail del 23 giugno 2011, una delle due ammesse come prova nell’ultima udienza, due funzionari della banca si domandano come uscire da questa situazione. Si definiscono «sospettosi che tali fondi possano essere profitto di corruzione di pubblici ufficiali», però temono anche che la Nigeria – che vuole effettuare questo pagamento – possa rivalersi verso la banca se non si trova una soluzione. Scrivono che non basta nemmeno ottenere il via libera dell’antiriciclaggio inglese, il Soca, perché il semaforo verde è una prassi, non un salvacondotto da possibili conseguenze processuali. Al contrario, Eni ha sottolineato molto l’importanza del via libera del Soca.
Gli uomini che risolvono il problema dei soldi bloccati a Londra firmano e ricevono l’altra mail, quella del 21 giugno 2011. Il firmatario è Mohammed Adoke Bello, in quel momento il ministro della Giustizia della Nigeria. Il destinatario, invece, è il predecessore (fino al 2007), Christopher Bajo Oyo. Entrambi secondo la procura si sono dati da fare per accomodare la licenza Opl 245 a Malabu in un primo tempo e poi per fare in modo che si chiudesse quell’accordo con Eni e Shell. Bajo Oyo è prima pubblico ufficiale poi consigliere legale di Malabu, Adoke Bello è il ministro in perenne contatto con gli uomini che gravitano intorno a Malabu. Grazie a una firma del Guardasigilli Adoke Bello, alla fine a Malabu nell’agosto del 2011 arriveranno circa 800 milioni di dollari, a cui se ne aggiungeranno altri 74 due anni dopo.
Non appena è venuto a conoscenza delle email che la procura di Milano voleva depositare, Adoke Bello in Nigeria ha diramato una nota che accusa i magistrati italiani di aver «fabbricato» delle prove contro di lui. In questo momento sembra sia ancora a Dubai, città dove risiede abitualmente, nonostante abbia dei processi in corso in Nigeria. Ufficialmente doveva curarsi. Paradossalmente, la sua permanenza a Dubai si è prolungata perché sarebbe positivo al coronavirus. Dubai è la città dove ha trovato riparo fino al dicembre 2019, quando sua sponte ha deciso di rientrare in Nigeria dopo che erano stati aperti dei fascicoli a suo carico.
Aliyu Abubakar, chi è il faccendiere accusato di distribuire le mazzette
Al di là dei nomi dei due ex Guardasigilli, quello che colpisce di più nell’email depositata a processo, è che l’account da cui parte il messaggio di Adoke Bello appartiene a una società immobiliare nigeriana, la A Group Properties. Il proprietario si chiama Aliyu Abubakar ed è uno degli imprenditori più inseriti della Nigeria. Compare ancora anche nelle classifiche dei più ricchi. L’email compare come allegato di un procedimento civile in Gran Bretagna in cui il governo della Nigeria chiede alla banca JP Morgan di restituire il denaro che ha versato a Malabu. La procura di Milano ha infatti ottenuto da Londra questi documenti. Secondo quanto si legge nella sentenza britannica, JP Morgan non avrebbe fatto nulla per stabilire se davvero Adoke Bello disponesse dell’account email di A Group Properties.
La più costosa villa della capitale Abuja gli appartiene: ha acquistato il terreno nel 2005, per un miliardo di naira (poco più di due milioni di euro). È il motivo per cui si è più parlato di lui nei giornali nigeriani negli ultimi cinque anni. Dal 2016 in avanti, però, sembra molto meno attivo. Mantiene una costellazione di società tra Nigeria, Kenya e Stati Uniti, principalmente in telecomunicazioni, oil and gas e immobiliare.
A Milano sarebbe dovuto comparire nel registro degli indagati a dicembre del 2017, quando si è chiuso questo filone del procedimento. Non è però stato possibile rintracciarlo, così a suo carico si sta svolgendo un troncone di processo parallelo, le cui udienze, scrive Domani, sono cominciate a fine gennaio.
Il 6 febbraio 2019 è comparso in videoconferenza da Abuja, per rispondere alle domande. Ha dichiarato di aver saputo di essere imputato solo in quel momento, preferendo di conseguenza non rispondere. L’udienza successiva, il 13 marzo 2019, non è andata meglio: la comunicazione era molto disturbata. Alla fine a febbraio 2020 è stato rinviato a giudizio e il suo avvocato italiano, Davide Pozzi, ha dichiarato alla Reuters che il suo cliente è innocente e non ha commesso alcun reato. Anche in Nigeria Aliyu Abubakar siede al banco degli imputati in tre procedimenti. In particolare, insieme all’ex ministro del petrolio nigeriano Dan Etete, e a Mohammed Adoke Bello è accusato di frode e riciclaggio.
Il sistema delle tangenti
«Operava quale agente di Goodluck Jonathan». Così scrive la procura nel rinvio a giudizio del 2017. Ricopre il ruolo di “advisor di Malabu” quando, a novembre 2010, partecipa accanto ad Adoke Bello e rappresentanti di Eni e Shell nel momento decisivo per la chiusura delle trattative. Nella memoria depositata al termine della requisitoria i pm ricostruiscono il modo in cui il faccendiere, in qualità di emissario di Malabu, controllava Adoke Bello. Le cariche ministeriali in Nigeria non sembrano coincidere sempre con il potere effettivo.
Aliyu Abubakar è però soprattutto l’ultimo anello della presunta corruzione, il tramite attraverso cui i pubblici ufficiali incassano le loro mazzette, il distributore della tangente. L’Fbi, durante la sua analisi finanziaria sul denaro gestito da Aliyu, ricorda che l’anticorruzione nigeriana gli ha affibbiato il soprannome di Mister Corruption. Le sue amicizie politiche principali insistono nello Stato di Bayelsa, uno dei più ricchi di petrolio. È da dove viene Goodluck Jonathan, il presidente negli anni dell’affaire Opl 245, che qui ha iniziato la sua ascesa.
Il “sistema Aliyu” di ridistribuzione dei soldi comincia da quattro società: A Group Construction, Megatech Engeneering, Imperial Union e Novel Properties & Development. La procura le definisce «fittizie». Sono tutte riconducibili all’imprenditore e ricevono oltre 400 milioni da un conto corrente appartenente alla Malabu Oil and Gas. Girano poi soldi ai cambiavalute (in particolare As Sunnah e Farsman Holdings), dove i dollari americani diventano naira nigeriani e vengono prelevati in contanti. I fondi, si legge nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, erano «destinati a remunerare pubblici ufficiali quali lo stesso Jonathan, l’Attorney General Mohammed Adoke Bello, il Ministro del Petrolio Diezani Alison Madueke; il Ministro della Difesa ed ex National Security Advisor Aliyu Gusau». Alla fine, Aliyu è arrivato a prelevare circa 60 milioni di dollari in contanti dai bureau des changes (i cambiavalute): «Il denaro monetizzato attraverso i cambiavalute – è la conclusione della memoria della procura – è stato disperso e occultato».
Altri 400 milioni di dollari sono invece considerati dagli investigatori nell’orbita di Dan Etete, l’ex ministro del petrolio a cui è riconducibile la Malabu Oil and Gas. Quest’ultimo incassa attraverso una società che si chiama Rocky Top Resources. A fondarla, nel 2003, è stato sempre Aliyu Abubakar, il quale deteneva anche il 70% delle quote.
Il faccendiere è coinvolto anche nel caso della villa che Adoke Bello avrebbe ottenuto a un prezzo più che scontato nel centro di Abuja. Valore dell’immobile sul mercato: 4,5 milioni di dollari. Cifra sborsata da Adoke: 1,9 milioni di dollari. Su carta, perché il conto era già in rosso. Attinge da lì pur non avendo denaro. Per coprire il disavanzo, poi, Adoke ha utilizzato «una pletora di versamenti in contanti», nota la procura. Ignota l’origine del denaro in questione.
Editing: Luca Rinaldi | Foto: HungryBuild/Shutterstock