Eni Nigeria: nuove prove sul collettore della tangente

4 Febbraio 2021 | di Lorenzo Bagnoli

Il 3 febbraio i giudici della settima sezione del Tribunale di Milano hanno acquisito due nuovi documenti nell’ambito del processo Opl 245 sulle presunte tangenti per l’aggiudicazione del blocco petrolifero nigeriano da parte di Eni e Shell. Si tratta di due email: una del 21 e l’altra del 23 giugno 2011. La procura sostiene che questi due messaggi aiutino a provare il rapporto tra uno dei destinatari della tangente e due pubblici ufficiali nigeriani incaricati di seguire la pratica per l’assegnazione del blocco petrolifero.

Non è usuale che in una fase così avanzata di un processo si acquisiscano nuovi elementi di prova, ma la Corte ha ritenuto particolarmente rilevante il contenuto delle email prodotte dal pubblico ministero Fabio De Pasquale. Il prossimo 17 marzo i giudici entreranno in camera di Consiglio, e da lì in avanti la sentenza potrebbe arrivare in qualsiasi momento.

I documenti in questione risalgono a un momento particolare dell’intera vicenda Opl 245. Eni, attraverso la sua società controllata in Nigeria Nae, ad aprile 2011 ha pagato il governo nigeriano 1.092 miliardi di dollari, a cui si aggiungono 207 milioni di dollari che Shell aveva depositato dal 2003 per quello che in gergo tecnico si definisce signature agreement. Gli 1.3 miliardi di dollari sono il prezzo stabilito per ottenere la licenza petrolifera Opl 245, una delle più promettenti di tutto il Paese.

L’affare, però, non si è concluso con l’arrivo dei soldi delle compagnie europee al conto nigeriano di JP Morgan di Londra. Dal conto del governo nigeriano, infatti, i soldi devono finire a Malabu Oil and Gas, la società dell’ex ministro del petrolio Dan Etete, proprietaria, a fasi alterne, della licenza Opl 245 dal 1998. Era stato stabilito da un secondo accordo, tra il governo di Abuja e la società petrolifera locale. Eni e Shell hanno detto di non essere a conoscenza del fatto che la destinazione finale della parte pagata da Eni fossero appunto le tasche di Dan Etete. La procura sostiene il contrario e sostiene che queste email aiutino a provarlo.

L’origine sospetta dei soldi

Non è stato semplice far compiere al denaro l’ultima parte del viaggio, da Londra alla Nigeria. Ci son voluti più tentativi. A fine maggio è fallito il primo, il più significativo. I soldi sarebbero dovuti arrivare attraverso una società terza, con sede alle isole Marshall, la Petrol Service diretta Gianfranco Falcioni, console onorario dell’Italia a Port Harcourt (Nigeria) e, all’epoca, sodale dell’imprenditore italo-nigeriano Gabriele Volpi, personaggio che a più riprese entra – come sfondo – all’interno della vicenda Opl 245. Il tentativo è naufragato perché la banca presso cui Petrol Service ha il suo conto, la Banca svizzera italiana di Lugano, considera sospetta l’origine del denaro.

Nella mail del 23 giugno 2011, una delle due ammesse come prova nell’ultima udienza, due funzionari della banca si domandano come uscire da questa situazione. Si definiscono «sospettosi che tali fondi possano essere profitto di corruzione di pubblici ufficiali», però temono anche che la Nigeria – che vuole effettuare questo pagamento – possa rivalersi verso la banca se non si trova una soluzione. Scrivono che non basta nemmeno ottenere il via libera dell’antiriciclaggio inglese, il Soca, perché il semaforo verde è una prassi, non un salvacondotto da possibili conseguenze processuali. Al contrario, Eni ha sottolineato molto l’importanza del via libera del Soca.

Le fasi salienti della vicenda Eni-Shell/OPL245

Gli uomini che risolvono il problema dei soldi bloccati a Londra firmano e ricevono l’altra mail, quella del 21 giugno 2011. Il firmatario è Mohammed Adoke Bello, in quel momento il ministro della Giustizia della Nigeria. Il destinatario, invece, è il predecessore (fino al 2007), Christopher Bajo Oyo. Entrambi secondo la procura si sono dati da fare per accomodare la licenza Opl 245 a Malabu in un primo tempo e poi per fare in modo che si chiudesse quell’accordo con Eni e Shell. Bajo Oyo è prima pubblico ufficiale poi consigliere legale di Malabu, Adoke Bello è il ministro in perenne contatto con gli uomini che gravitano intorno a Malabu. Grazie a una firma del Guardasigilli Adoke Bello, alla fine a Malabu nell’agosto del 2011 arriveranno circa 800 milioni di dollari, a cui se ne aggiungeranno altri 74 due anni dopo. 

Non appena è venuto a conoscenza delle email che la procura di Milano voleva depositare, Adoke Bello in Nigeria ha diramato una nota che accusa i magistrati italiani di aver «fabbricato» delle prove contro di lui. In questo momento sembra sia ancora a Dubai, città dove risiede abitualmente, nonostante abbia dei processi in corso in Nigeria. Ufficialmente doveva curarsi. Paradossalmente, la sua permanenza a Dubai si è prolungata perché sarebbe positivo al coronavirus. Dubai è la città dove ha trovato riparo fino al dicembre 2019, quando sua sponte ha deciso di rientrare in Nigeria dopo che erano stati aperti dei fascicoli a suo carico.

Aliyu Abubakar, chi è il faccendiere accusato di distribuire le mazzette

Al di là dei nomi dei due ex Guardasigilli, quello che colpisce di più nell’email depositata a processo, è che l’account da cui parte il messaggio di Adoke Bello appartiene a una società immobiliare nigeriana, la A Group Properties. Il proprietario si chiama Aliyu Abubakar ed è uno degli imprenditori più inseriti della Nigeria. Compare ancora anche nelle classifiche dei più ricchi. L’email compare come allegato di un procedimento civile in Gran Bretagna in cui il governo della Nigeria chiede alla banca JP Morgan di restituire il denaro che ha versato a Malabu. La procura di Milano ha infatti ottenuto da Londra questi documenti. Secondo quanto si legge nella sentenza britannica, JP Morgan non avrebbe fatto nulla per stabilire se davvero Adoke Bello disponesse dell’account email di A Group Properties.

La più costosa villa della capitale Abuja gli appartiene: ha acquistato il terreno nel 2005, per un miliardo di naira (poco più di due milioni di euro). È il motivo per cui si è più parlato di lui nei giornali nigeriani negli ultimi cinque anni. Dal 2016 in avanti, però, sembra molto meno attivo. Mantiene una costellazione di società tra Nigeria, Kenya e Stati Uniti, principalmente in telecomunicazioni, oil and gas e immobiliare.

A Milano sarebbe dovuto comparire nel registro degli indagati a dicembre del 2017, quando si è chiuso questo filone del procedimento. Non è però stato possibile rintracciarlo, così a suo carico si sta svolgendo un troncone di processo parallelo, le cui udienze, scrive Domani, sono cominciate a fine gennaio.

Il 6 febbraio 2019 è comparso in videoconferenza da Abuja, per rispondere alle domande. Ha dichiarato di aver saputo di essere imputato solo in quel momento, preferendo di conseguenza non rispondere. L’udienza successiva, il 13 marzo 2019, non è andata meglio: la comunicazione era molto disturbata. Alla fine a febbraio 2020 è stato rinviato a giudizio e il suo avvocato italiano, Davide Pozzi, ha dichiarato alla Reuters che il suo cliente è innocente e non ha commesso alcun reato. Anche in Nigeria Aliyu Abubakar siede al banco degli imputati in tre procedimenti. In particolare, insieme all’ex ministro del petrolio nigeriano Dan Etete, e a Mohammed Adoke Bello è accusato di frode e riciclaggio.

I riflessi internazionali dell’inchiesta Opl245

Il sistema delle tangenti

«Operava quale agente di Goodluck Jonathan». Così scrive la procura nel rinvio a giudizio del 2017. Ricopre il ruolo di “advisor di Malabu” quando, a novembre 2010, partecipa accanto ad Adoke Bello e rappresentanti di Eni e Shell nel momento decisivo per la chiusura delle trattative. Nella memoria depositata al termine della requisitoria i pm ricostruiscono il modo in cui il faccendiere, in qualità di emissario di Malabu, controllava Adoke Bello. Le cariche ministeriali in Nigeria non sembrano coincidere sempre con il potere effettivo.

Aliyu Abubakar è però soprattutto l’ultimo anello della presunta corruzione, il tramite attraverso cui i pubblici ufficiali incassano le loro mazzette, il distributore della tangente. L’Fbi, durante la sua analisi finanziaria sul denaro gestito da Aliyu, ricorda che l’anticorruzione nigeriana gli ha affibbiato il soprannome di Mister Corruption. Le sue amicizie politiche principali insistono nello Stato di Bayelsa, uno dei più ricchi di petrolio. È da dove viene Goodluck Jonathan, il presidente negli anni dell’affaire Opl 245, che qui ha iniziato la sua ascesa.

Il “sistema Aliyu” di ridistribuzione dei soldi comincia da quattro società: A Group Construction, Megatech Engeneering, Imperial Union e Novel Properties & Development. La procura le definisce «fittizie». Sono tutte riconducibili all’imprenditore e ricevono oltre 400 milioni da un conto corrente appartenente alla Malabu Oil and Gas. Girano poi soldi ai cambiavalute (in particolare As Sunnah e Farsman Holdings), dove i dollari americani diventano naira nigeriani e vengono prelevati in contanti. I fondi, si legge nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, erano «destinati a remunerare pubblici ufficiali quali lo stesso Jonathan, l’Attorney General Mohammed Adoke Bello, il Ministro del Petrolio Diezani Alison Madueke; il Ministro della Difesa ed ex National Security Advisor Aliyu Gusau». Alla fine, Aliyu è arrivato a prelevare circa 60 milioni di dollari in contanti dai bureau des changes (i cambiavalute): «Il denaro monetizzato attraverso i cambiavalute – è la conclusione della memoria della procura – è stato disperso e occultato».

Altri 400 milioni di dollari sono invece considerati dagli investigatori nell’orbita di Dan Etete, l’ex ministro del petrolio a cui è riconducibile la Malabu Oil and Gas. Quest’ultimo incassa attraverso una società che si chiama Rocky Top Resources. A fondarla, nel 2003, è stato sempre Aliyu Abubakar, il quale deteneva anche il 70% delle quote.

Il faccendiere è coinvolto anche nel caso della villa che Adoke Bello avrebbe ottenuto a un prezzo più che scontato nel centro di Abuja. Valore dell’immobile sul mercato: 4,5 milioni di dollari. Cifra sborsata da Adoke: 1,9 milioni di dollari. Su carta, perché il conto era già in rosso. Attinge da lì pur non avendo denaro. Per coprire il disavanzo, poi, Adoke ha utilizzato «una pletora di versamenti in contanti», nota la procura. Ignota l’origine del denaro in questione.

Editing: Luca Rinaldi | Foto: HungryBuild/Shutterstock

Opl 245, le richieste delle difese Eni e i velati contrasti con Shell

21 Ottobre 2020 | di Lorenzo Bagnoli

«Assoluzione con formula piena». È la richiesta delle difese di Paolo Scaroni e Claudio Descalzi, numero uno e due di Eni nel 2011. Il processo è quello per cui la principale società petrolifera italiana è coimputata con Shell e altre 12 persone per il reato di corruzione internazionale (la presunta tangente per il blocco petrolifero Opl 245 sarebbe stata di 1,1 miliardi di dollari). Enrico de Castiglione e Paola Severino, i difensori dei due manager, ritengono che il «fatto non sussista» e che la procura basi tutto il suo castello accusatorio su una visione parziale e distorta di quanto accaduto. Le loro arringhe del 30 settembre e del 14 ottobre scorso influenzano gli interventi degli altri avvocati difensori che seguiranno, e segnano una distinzione più netta tra la posizione di Eni e quella di Shell all’interno del processo. Nell’ultimo miglio, ogni imputato corre da solo.

La sentenza di primo grado è attesa per i primi di gennaio, a due anni dall’inizio del processo. Entro Natale dovrebbero chiudersi arringhe e controdeduzioni, per lasciare al collegio giudicante, presieduto da Marco Tremolada, la pausa di fine anno per formulare il verdetto. Del settembre 2018 la prima sentenza, in rito abbreviato, per due degli imputati: i presunti intermediari della tangente Emeka Obi e Gianluca Di Nardo, entrambi condannati a quattro anni di reclusione.

Obi e Di Nardo: chi sono gli intermediari

Sono due dei principali intermediari dell’affare, secondo quanto riporta la sentenza di primo grado a loro carico del Tribunale di Milano. Gianluca Di Nardo è un finanziere con una lunghissima carriera alle spalle amico del faccendiere Luigi Bisignani. Tra i suoi precedenti, uno significativo riguarda un patteggiamento con la Securities and Exchange Commission (Sec), la Consob americana, per un caso di insider trading che riguardava le azioni di Finmeccanica (oggi Leonardo). Di Nardo, secondo i pm di Opl 245, avrebbe svolto il ruolo di tramite con Emeka Obi, businessman che disponeva di una banca d’affari a Londra e vantava ottime entrature nel governo nigeriano. Di Nardo sosteneva che Obi, proprietario della società di consulenza registrata alle Isole Vergini Britanniche Energy Venture Partner Ltd (Evp), fosse in grado di sbloccare la partita del blocco petrolifero Opl 245. Bisignani, interrogato dai pm milanesi il 16 aprile 2014, dichiara che «nel 2009» Di Nardo gli parla di questo possibile affare e lo invita a chiedere a Paolo Scaroni se Eni vuole essere della partita.

La figura di Armanna e il “complotto”

Il personaggio più controverso dell’intera storia processuale è Vincenzo Armanna, manager in Nigeria, imputato e al contempo principale accusatore dei vertici di Eni. Il suo difensore Angelo Staniscia è stato il primo degli avvocati a parlare, il 21 settembre. Ha ammesso di non avere contatti con il suo assistito da febbraio e di avere avuto l’intenzione di rinunciare al mandato di difesa. Sarebbe stato il terzo legale di Armanna dall’inizio del processo. Alla fine, però, ha deciso di concludere il lavoro per chiedere l’assoluzione perché il fatto non sussiste, oppure, in via subordinata, «per non aver commesso il fatto».

La difesa Armanna si basa su due elementi. Il primo è che nonostante il titolo di «vice president exploration & production in Africa subsahariana», secondo l’avvocato Staniscia, il suo assistito era «privo di qualsiasi potere negoziale». Era «l’occhio di Eni», ma niente a che vedere con la figura del «project manager» che guidava in prima persona i negoziati indicata dalla procura. In qualità di osservatore Armanna è poi diventato «sicofante», per dirla con Staniscia, appellativo che definisce un whistleblower dell’antica Grecia.

Armanna il “whistleblower”

Nel luglio 2014 Vincenzo Armanna ha rilasciato spontaneamente undici ore di dichiarazioni ai pm milanesi che seguivano il caso Opl 245. Le indagini erano già cominciate, le parole di Armanna hanno contribuito a spingerle più avanti. In quell’occasione e in un’intervista rilasciata a Repubblica nell’ottobre dello stesso anno ha parlato esplicitamente di “retrocessioni” per manager di Eni. L’atto di denunciare un illecito di cui si è venuti a conoscenza in prima persona è definito whistleblowing. Nel caso di Armanna, la denuncia è stata fatta dopo che il suo rapporto di lavoro in Eni era già terminato.

I pochi che usano oggi questo termine, di solito, vogliono dare una connotazione negativa, di spia e calunniatore, al whistleblower. Forse involontariamente, ma l’avvocato Staniscia ha rappresentato a pieno l’idea di Armanna che si sono fatte le difese dei manager di Eni. L’avvocatessa Paola Severino, infatti, nella sua arringa a difesa di Claudio Descalzi ha paragonato il «metodo-Armanna» a quello dei «servizi segreti deviati». Severino non ritiene l’imputato-accusatore credibile: «Parte da una circostanza verosimile per rendere attendibile qualcosa che viene falsamente asserito, si prepara e costruisce una storia non per la verità ma per raggiungere un risultato che si prefigge».

Il secondo elemento della difesa di Staniscia è il fatto che Vincenzo Armanna fosse in aperto contrasto con Emeka Obi, l’intermediario condannato in primo grado in rito abbreviato. Questa circostanza è confermata dalla ricostruzione di alcune mail e telefonate ed è stata usata durante la requisitoria dei pm. Accogliendo la versione dell’accusa che Emeka Obi è l’intermediario di Eni per poter entrare nell’affare e cominciare a trattare con il proprietario della licenza, la Malabu Oil & Gas dell’ex ministro del Petrolio Dan Etete, Staniscia afferma che Armanna «non può essere stato il collettore delle mazzette», come invece ipotizzano i pm. L’accusa ha chiesto per Vincenzo Armanna una condanna a 6 anni e 8 mesi.

A luglio 2019, quando Armanna ha parlato, sembrava che il processo potesse mutare corso e ampliarsi. Invece quello spettro evocato in udienza è stata solo una parentesi. È la storia del “complotto”.

Di fronte al tribunale, Armanna ha dichiarato di essere prima stato partecipe di un tentativo di dirottare l’inchiesta con un falso dossier, poi di essere entrato in contatto con Eni per addolcire alcune delle sue vecchie dichiarazioni, allo scopo di essere reintegrato nell’azienda petrolifera. Scopo iniziale del “falso complotto” era aprire un nuovo fascicolo dell’inchiesta a Siracusa, dove tutto è nato con la collaborazione di un pm che si ritiene corrotto. La nuova inchiesta avrebbe così interrotto il processo che si sta celebrando a Milano.

Il tentativo di dirottamento è stato fermato con un’altra inchiesta della procura di Milano e il principale promotore della trappola, l’avvocato Piero Amara, è finito in carcere per scontare condanne accumulate in altri procedimenti in cui era coinvolto. La vicenda quindi appare conclusa. I pm di Milano avrebbero voluto sentire Amara nel corso del dibattimento su Opl 245, ma dato il coinvolgimento dello stesso nel procedimento parallelo del cosiddetto “complotto”, la corte non ha ammesso la sua testimonianza.

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Le ombre su Armanna, che restano tali senza la possibilità di sviscerare il “complotto”, si allungano a ogni rivelazione trattata e ritrattata. Questo è un tema per l’accusa, per la quale le dichiarazioni del manager, almeno in parte, sono un elemento importante su cui poggia l’impianto accusatorio.

Lo specchio deforma o no?

Durante la sua requisitoria, il pm Fabio De Pasquale ha introdotto la formula «specchio olandese», metafora alla quale hanno attinto anche i difensori dei manager Eni. Per l’accusa, l’espressione intende il modo con cui è possibile vedere riflesso l’operato di Eni dai documenti recuperati in Shell a seguito della perquisizione del 2016 negli uffici del gigante anglo-olandese del petrolio. Non c’è alternativa, visto che Eni non teneva traccia documentale allo stesso modo delle fasi negoziali.

Secondo le difese, invece, lo «specchio» è un’immagine evocativa ma ingannevole: «Visto che i pm definiscono le mail di Shell “lo specchio olandese”, ricordo allora che nella pittura fiamminga lo specchio olandese era appunto lo specchio deformante», commentava Paola Severino, avvocato difensore di Claudio Descalzi all’inizio della sua arringa. «Il significato delle email non è per nulla univoco, ma è documentale che non sono arrivate nelle mani di dirigenti Eni, in particolare Scaroni», appuntava invece l’avvocato de Castiglione durante il suo intervento.

«Visto che i pm definiscono le mail di Shell “lo specchio olandese”, ricordo allora che nella pittura fiamminga lo specchio olandese era appunto lo specchio deformante»

Paola Severino, legale di Claudio Descalzi

Se per una parte consistente del processo le difese si sono mosse in sostanziale sintonia, ora questa sintonia sarà difficilmente riproponibile. Da un lato proprio per la questione dello specchio: Shell ha dei documenti vergati dalla sua squadra di negoziatori (Peter Robinson e i due ex agenti del MI6, i servizi segreti britannici, John Copleston e Guy Colegate) dai quali l’accusa ha tratto numerose conclusioni. Eni ha per lo più intercettazioni e incontri riportati da Shell e sembra percorsa da correnti diverse, che si dividono anche rispetto a chi debba rappresentare l’azienda in Nigeria durante la fase negoziale. Le difese degli imputati di Eni, evocando le deformità dei riflessi dello specchio olandese, sembrano quindi cercare di ridurre le rivelazioni interpretabili dalle parole di Shell a speculazioni di un’azienda terza che con Eni ha il duplice rapporto di socia e rivale nella competizione su Opl 245.

A questo si aggiunge un dato storico: Shell è immischiata nella partita della licenza petrolifera contesa dal 2001; Eni entra in gioco a dicembre 2009. Per quanto l’indagine copra un arco di tempo che va dall’ingresso degli italiani fino 2014, la “preistoria”, come è stata definita nel processo, è il momento in cui si delineano i problemi che si protraggono fino al momento in cui Eni e Shell, ad aprile 2011, firmano il resolution agreement, il documento che approva la transazione finanziaria conclusiva. Per l’accusa, è il momento in cui la tangente passa – via governo nigeriano – al distributore delle prebende, Dan Etete. Per le difese dei manager Eni, invece, quell’accordo governativo è la prova della non esistenza della corruzione internazionale e la giustificazione di una trattativa così lunga e complessa.

La “mappa giudiziaria” della vicenda legata all’assegnazione di Opl 245 – Infografica: Lorenzo Bodrero/IrpiMedia

In aggiunta, le difese di Scaroni e Descalzi hanno sottolineato come il management di Eni fosse pronto a rinunciare all’affare (interpretazione sulla quale l’accusa non è per nulla d’accordo). De Castiglione ha citato un’email di Descalzi del dicembre 2010, cioè il momento in cui Eni stava cercando di chiudere il negoziato. L’allora direttore generale scrive: «Si ritiene importante proseguire le verifiche necessarie e monitorare il contesto durante i prossimi giorni prima di eventualmente riprendere le discussioni con le controparti interessate per arrivare ad un’informativa/raccomandazione finale per il Consiglio di Amministrazione». Il sottotesto, nella visione delle difese, è che Eni entra nella vicenda Opl 245 ma ne può uscire. La logica conseguenza, mai espressa dalle difese in questi termini, ovviamente, è che Shell, invece, è nella ben più scomoda posizione di aver già investito nel blocco e di doverselo aggiudicare a tutti i costi.

Quelle intercettazioni rimaste a Napoli

Nella sentenza in rito abbreviato del dicembre 2018 la giudice per le indagini preliminari Giuseppina Barbara cita per intero una conversazione tra Claudio Descalzi e Luigi Bisignani, faccendiere legato a logge dai tempi della P2, molto vicino a Paolo Scaroni. Risale all’ottobre 2010: «Dimostra in modo inoppugnabile – si legge nel dispositivo – come Claudio Descalzi, all’epoca il “numero 2” della più importante azienda italiana nonché primaria società petrolifera mondiale, in quel momento fosse prono di fronte alle pretese di Luigi Bisignani, cioè di un privato cittadino il cui nome era già emerso in alcune delle inchieste più scottanti e note della storia giudiziaria italiana». La frase dell’intercettazione che viene sottolineata la pronuncia Descalzi: «lo comunque l’offerta, finché non siamo d’accordo io e te, non la mando avanti». “L’offerta” è quella che Eni deve triangolare con Shell e il governo nigeriano per Opl 245, sulla quale si lavorerà fino a dicembre.

Nell’ipotesi accusatoria la figura di Bisignani – il cui avvocato difensore interverrà il 9 novembre prossimo – avrebbe un ruolo soprattutto in quanto stretto amico di Paolo Scaroni. Bisignani avrebbe partecipato alla trattativa in quanto portatore di molti contatti e possibile beneficiario di parte delle retrocessioni di denaro (inesistenti secondo le difese e necessarie solo a puntellare la narrazione dell’accusa). Per quanto importante, questo snodo è stato sviscerato poco in dibattimento in proporzione al suo peso specifico nella vicenda. Uno dei motivi sta nel fatto che una parte di intercettazioni su Bisignani è rimasta a Napoli, dove i magistrati Henry John Woodcock e Francesco Curcio lo stavano indagando in relazione alla sua partecipazione alla cosiddetta P4, organizzazione segreta nata per gestire informazioni, nomine, affari nella quale sono incappati i magistrati italiani. Bisignani in quel processo ha patteggiato 19 mesi di condanna, divenuta definitiva nel 2012.

Tra gli affari di cui discuteva Bisignani, a un certo punto affiora anche Opl 245. I pm Spadaro e De Pasquale già avevano ricevuto parte del fascicolo per competenza a Milano, ma la corte ha deciso per l’inammissibilità dei documenti nel processo Opl 245. Lo stesso Bisignani ne aveva anticipato parte dei contenuti ai magistrati di Napoli: «Le conversazioni si riferiscono alla possibilità dell’Eni di subentrare a una concessione petrolifera nigeriana». Bisignani aveva un suo uomo per la partita: Emeka Obi, chiamato al telefono «il ragazzo della giungla». Mentre la procura ritiene che Obi sia l’intermediario di Eni per entrare in trattativa con Malabu, la società detentrice della licenza di proprietà dell’ex ministro del petrolio Dan Etete, al contrario le difese ritengono che Obi fosse già nello scacchiere ben prima dell’interessamento di Eni.

I nuovi fronti legali contro la Nigeria

Il 9 ottobre Eni ha aperto un nuovo fronte legale con il governo nigeriano. La disputa, da risolvere in sede di arbitrato internazionale a Washington, riguarda la ritardata conversione della licenza esplorativa in licenza per sfruttamento. In Nigeria un blocco petrolifero per essere effettivamente sfruttato e produrre introiti all’azienda che l’ha in gestione passa da due diverse licenze: la prima esplorativa (Opl – Oil Prospecting License) e la seconda estrattiva (Oml – Oil Mining License). In pratica, Eni vuole che il governo di Abuja paghi per il ritardo provocatole nella gestione del blocco petrolifero. Shell non è parte dell’arbitrato.

Tre giorni prima dell’arbitrato a Washington Eni ha depositato un’altra richiesta di arbitrato, questa volta in Delaware, lo Stato americano famoso come paradiso fiscale. Eni ritiene che ci siano «interessi occulti» di terze parti nelle azioni legali intraprese dal governo di Abuja contro l’azienda italiana «a spese dei diritti contrattuali di Eni e degli interessi nazionali della Nigeria», riporta Bloomberg. L’azienda italiana ha quindi citato in giudizio Drumcliffe Partners Llc, società che sta aiutando nelle causeJohnson&Johnson, società di consulenza legale messa a sua volta sotto contratto direttamente dall’esecutivo di Abuja allo scopo di recuperare i soldi pubblici persi in tangenti e malaffare.

Le fasi dell’inchiesta Eni-Nigeria – Infografica: Lorenzo Bodrero/IrpiMedia

Una serie di inchieste di Finance Uncovered e di Premium Times ha già rivelato ad agosto scampoli del contratto tra Drumcliffe e il governo nigeriano. Effettivamente lo stesso contratto pare contenere una stranezza: la fetta da liquidare alla società di consulenza in caso di vittoria è pari al 35%, almeno il quadruplo delle tariffe normali. Non è tuttavia chiaro a cosa vada applicata questa tariffa, visto che ancora mancano dei dettagli del contratto.

C’è un fondamento nei dubbi di Eni: in Nigeria è forte il timore che soldi recuperati attraverso lunghi e tormentati procedimenti giudiziari possano tornare nuovamente in mano a pubblici ufficiali corrotti schermati da qualche società offshore. In una nota Re:Common ha tuttavia sottolineato come Eni non abbia presentato prove della trama di supposte terze parti a sostegno della sua affermazione e che invece il governo della Nigeria è mosso dalla più che legittima volontà di recuperare il proprio denaro pubblico.

A Milano Eni si difende – anche dal proprio sito – ricordando che l’accordo per Opl 245 è stato «siglato unicamente e direttamente con lo Stato nigeriano». Paradossalmente, però, lo stesso governo è accusato in due diversi tribunali statunitensi di avere interessi oscuri nel colpire Eni. Seguire il denaro della Nigeria, che sia in entrata o in uscita, sembra avere sempre un problema: è molto difficile risalire a chi sia davvero il beneficiario ultimo.

Infografiche: Lorenzo Bodrero | Editing: Luca Rinaldi | Foto: Il tribunale di Milano – Luca Ponti/Shutterstock

Quando l’economia del petrolio finisce alla sbarra

24 Luglio 2020 | di Antonio Tricarico*

E alla fine sono arrivate le richieste di condanna della pubblica accusa nel “processo del secolo” contro Eni e Shell e i suoi top manager per l’acquisizione della lucrosa licenza del blocco petrolifero Opl245 nelle acque profonde nigeriane del Golfo di Guinea nel lontano 2011. Operazione conclusa, sostengono i pm, con il pagamento di una presunta maxi tangente di 1,1 miliardi di dollari ai politici del paese africano. Il computo totale ammonta a 91 anni di reclusione e la confisca di quasi 2,2 miliardi di dollari di beni equivalenti ai 13 imputati e alle due società. A settembre si potrebbero aggiungere richieste di ingenti danni da parte della Nigeria, per la prima volta parte civile in un processo di tale portata. La giustizia farà il suo corso, ed è giusto rispettarlo, ma dopo la requisitoria in due giornate della pubblica accusa si possono trarre delle conclusioni politiche e lezioni più ampie dalle numerose prove emerse e dibattute al tribunale di Milano negli ultimi due anni.

Le implicazioni internazionali

In primis a diversi analisti potrebbe sembrare che ci sia un accanimento della Procura di Milano nei confronti di Eni, la più grande multinazionale italiana, definita da alcuni “lo Stato parallelo” e la bandiera italiana nel mondo nella sua proiezione economica e politica internazionale. La Snamprogetti, allora del gruppo Eni, ha patteggiato nel 2010 negli Usa una condanna condizionale per quasi 400 milioni di dollari per la corruzione nel progetto di gas di Bonny Island, sempre in Nigeria, più noto come l’affaire Hulliburton-Dick Cheney. Oltre il patteggiamento in Nigeria per poche decine di milioni, nel 2016 è arrivata la condanna in Cassazione anche in Italia, ma allora la Snamprogetti era diventata di Saipem, formalmente società scorporata dal gruppo Eni. E per la pubblica accusa Eni avrebbe corrotto ed ancora di più insieme a Shell nel 2011 e sempre in Nigeria per avere l’Opl245, proprio quando era sotto condanna condizionale dalle autorità americane.

Difficile accusare i pm Sergio Spadaro e Fabio De Pasquale di accanimento, o criticare l’obbligatorietà dell’azione penale tout court, a fronte di una tale presunta ma macroscopica recidiva per una tangente ipotizzata superiore al miliardo di dollari. Ne deriva che una condanna per Eni – per quanto siamo solo al primo grado – sarebbe una schiaffo senza precedenti per la multinazionale italiana anche a livello internazionale. Si ricordi che un procedimento penale è pendente in Nigeria, dove accordi bilaterali non applicano il principio di ne bis in idem, sempre sullo stesso caso con accuse anche più corpose, ed un’indagine si sta concludendo in Olanda ai danni di Shell con altri capi di imputazione. Il management di San Donato sbandiera ai quattro venti che le autorità Usa su Opl245 hanno chiuso le indagini, ma in realtà la procedura americana prevede che queste possano essere riaperte in qualsiasi momento, e una possibile sanzione per recidiva negli Usa, dove Eni è quotata, metterebbe in ginocchio il Cane a sei zampe, già provato dalla crisi economica post-Covid e dal crollo del prezzo del greggio.

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#TheNigerian Cartel

In Nigeria, da anni, comanda la stessa élite politico-finanziaria. Politici e imprenditori che controllano le due filiere storicamente più redditizie del Paese: costruzioni e petrolio

Si aggiunga però che a prescindere dall’esito processuale a Milano e in giro per il mondo, la vicenda Opl245 e le centinaia di migliaia di pagine del fascicolo processuale hanno svelato uno spaccato inquietante su come funziona il mondo del petrolio. La due diligence anti-corruzione di giganti quali Shell o Eni fa sorridere per le sue approssimazioni e inadeguatezze, là dove tutti sanno che si sta di fatto comprando una licenza rubata da un ex ministro del Petrolio di uno dei Paesi più corrotti al mondo. Sembra quasi che le procedure formali non possano estinguere il cancro della corruzione, o la sua tentazione, e che anche chi nelle società solleva dubbi sulle operazioni di fatto non ha voce in capitolo nelle decisioni finali, come ben messo in luce dalla pubblica accusa. Anche se assolte, le due società dovranno rispondere al tribunale dell’opinione pubblica di un tale fallimento e riguadagnare la fiducia di investitori e cittadini – che nel caso di Eni sono anche di fatto azionisti tramite lo Stato italiano.

Lo Stato parallelo e la politica

Lo spaccato che ci hanno dato le decine di udienze passa sotto la lente un’intera classe dirigente che per più un decennio ha gestito il lucroso sistema delle aziende italiane partecipate – quali Eni, Enel e Leonardo – che rimangono l’ossatura dei grandi numeri del sistema economico italiano e della capitalizzazione della borsa di Milano. Top manager di bandiera, quali Paolo Scaroni, intermediari sempre verdi vicini alle stanze più alte della politica, quali il pluripregiudicato Luigi Bisignani, pezzi della diplomazia, quali Gianfranco Falcioni, console onorario italiano a Port Harcourt, e personaggi vicini ai servizi segreti, come Vincenzo Armanna. Tutti sodali in un blocco di potere che ha mosso profitti, interferito nella politica in Italia ed all’estero, costruito narrazioni sulle magnifiche sorti dell’Italia nel mondo, e soprattutto guidato la politica energetica, estera e di sicurezza nostrana. Lo Stato parallelo denunciato dai più coraggiosi, che la vicenda Opl245 ha mostrato essere non solo italiano, ma anche olandese, nigeriano e probabilmente di altri paesi. Se si vuole è quella classe dirigente dagli anni 2000 fino alla metà dello scorso decennio oggi a processo, almeno nell’opinione pubblica.

Le tappe del processo sulla presunta maxi-tangente da 1,1 miliardi di euro per l’aggiudicazione del blocco petrolifero Opl245 in Nigeria

Sul versante della politica italiana, in caso di condanna le conseguenze non sarebbero trascurabili. Appena lo scorso maggio, dopo un lungo tira e molla, il governo Conte ha confermato Claudio Descalzi alla guida dell’Eni per altri tre anni. Se condannato, Descalzi ha già annunciato dalle colonne del Wall Street Journal che si dimetterebbe – ma davvero? – e in ogni caso una bufera politica si abbatterebbe contro il governo o tra il governo e la magistratura, come se non bastasse l’affaire Palamara-Csm.

Ma anche in caso di assoluzione, la saga Opl245, degna di una serie TV avvincente e infinita da Netflix, è già destinata a continuare nelle aule processuali di Milano. Rimane aperta l’indagine sul presunto “finto complotto” orchestrato dall’ex avvocato di Eni, Piero Amara, e diversi suoi sodali anche interni all’azienda, che avrebbe cercato con la corruzione di un pm a Siracusa e altre torbide manovre di affossare senza successo l’indagine della Procura di Milano sull’Opl245. La stessa Procura che ha neutralizzato l’attacco e ha a sua volta iniziato ad indagare sui responsabili di questo.

Una saga destinata a continuare, anche dopo questo processo

Probabile che si arriverà a processo, visto che Piero Amara, già condannato a 3 anni e 8 mesi a Roma e Messina, nell’alveo dello scandalo più ampio delle sentenze truccate al Consiglio di Stato e le nomine guidate al Csm, lo scorso dicembre ha iniziato a rivelare molti fatti alla Procura di Milano. Numerosi verbali, pur se omissati in larga parte, sono finiti nel fascicolo del processo Opl245, ma Amara non è stato accettato come teste dal tribunale. Però è emerso che secondo questi l’attuale numero due di Eni, Claudio Granata, avrebbe fatto pedinare ed intercettare addirittura i pm di Milano e diversi giornalisti. Lo stesso Granata filmato in un incontro con Armanna – ora agli atti del processo Nigeria – orchestrato da Amara per convincere questi a ritrattare le sue accuse a Descalzi nell’indagine Opl245. Nel pieno della pandemia Covid il procuratore capo di Milano, Franceso Greco, ha portato i verbali degli interrogatori di Amara alla Procura di Brescia chiedendo di indagare su quanto detto ed i presunti danni causati ai Pm di Milano. Ed anche qui potrebbe nascere un nuovo processo.

La stessa saga Opl245 sembra agitare in questi giorni anche il sistema politico nigeriano con la rimozione come un fulmine a ciel sereno del capo dell’anti-corruzione di Abuja, Ibrahim Magu, determinato a processare ex ministri per l’Opl245 ed ora attaccato apertamente dall’attuale ministro della giustizia – perché anch’egli a rischio di indagini. Insomma perseguire i presunti reati dell’Opl245 avvicina un po’ ovunque ai gangli del potere e non c’è da meravigliarsi se la risposta sia questa, ad Abuja come a Milano. E non mancheranno colpi di scena e conflitti nei prossimi mesi e anni.

Nel frattempo i due giacimenti del blocco Opl245 non sono più stati esplorati vista l’incertezza legata alle battaglie legali in mezzo mondo. Con il collasso del prezzo del petrolio, difficilmente questi giacimenti saranno sfruttabili economicamente in futuro. Una buona notizia per il clima del pianeta, meno buona per il governo nigeriano oggi in ginocchio per la crisi economica legata alla pandemia da Covid e di nuovo con il cappello in mano dal Fondo monetario internazionale e dai creditori internazionali. È la maledizione del petrolio, e in questo caso dell’Opl245, che porta solo miseria e conflitti per di più con poche speranze per il futuro. Che intanto i responsabili, se condannati, paghino per un volta per quello che hanno fatto nella vicenda Opl245 e magari le risorse recuperate, se lo saranno, d’ora in poi non siano più usate per sviluppare l’economia corrotta e senza futuro del petrolio.

*Re:Common | Foto: Il quartier generale Eni a Roma – Paolo Grassi/Shutterstock

Eni-Nigeria: la requisitoria dei pm tra spie, intermediari e documenti segreti

23 Luglio 2020 | di Lorenzo Bagnoli

Il 21 luglio scorso si è conclusa la requisitoria del pm Fabio De Pasquale nell’ambito del processo sulla presunta tangente da 1,1 miliardi per il blocco petrolifero Opl 245 in Nigeria. Le richieste di pena per Paolo Scaroni e Claudio Descalzi, i due manager al vertice di Eni, sono di otto anni di reclusione. Per Eni e Shell l’accusa chiede una confisca complessiva pari a 1,092 miliardi di dollari, il totale della presunta tangente.

Dieci anni, invece, sono stati richiesti per Dan Etete, l’ex ministro del Petrolio che in Nigeria rappresentava Malabu Oil&Gas, la società tenutaria della licenza esplorativa per il giacimento Opl 245. Per Luigi Bisignani, lobbista pluricondannato e amico-consigliere dell’allora numero uno della società di San Donato Paolo Scaroni, i pm hanno chiesto 6 anni e 8 mesi. Il suo ruolo nella vicenda sarebbe stato quello di sponsorizzare Emeka Obi, uno dei due intermediari che Eni – secondo l’accusa – voleva utilizzare per aggiudicarsi la licenza.

Sette anni e quattro mesi è stata la pena chiesta per Malcolm Brinded, all’epoca dei fatti (la presunta tangente è stata pagata nel maggio del 2011, ha ricoperto la carica fino al 2012) membro del consiglio di amministrazione di Shell. Sei anni e otto mesi anche per gli altri tre top manager dell’azienda petrolifera anglo-olandese: Peter Robinson, australiano che per Shell si occupava di Africa, che informava il resto dell’azienda sul dossier Opl 245; John Copleston, consulente per gli investimenti strategici, tra gli uomini Shell che ha incontrato direttamente Dan Etete e Guy Colegate, come Coplestone ex membro dell’MI6 britannico, il servizio di intelligence estera di Sua Maestà, che per Shell, con la carica di consulente, aveva il ruolo di capire con chi fosse la competizione per Opl 245 e capire quale aria politica ci fosse nel Paese.

«Bisignani ha un rapporto abbastanza problematico con Vincenzo Armanna e anche Claudio Descalzi lo subisce come un’imposizione»

Fabio De Pasquale, Pubblico Ministero

L’asse delle spie

Durante la requisitoria, il pm De Pasquale ha parlato di «un asse delle spie», ossia di un gruppo di persone vicine ad ambienti dell’intelligence che conoscevano il dossier e che hanno fatto in modo che le compagnie petrolifere potessero ottenere la licenza che desideravano. Il fronte Shell è il più numeroso: ci sono Guy Colegate e John Coplestone, ma anche Ednan Agaev, quest’ultimo vicino all’Fsb, i servizi segreti russi. A dicembre 2018, diversi mesi prima della sua udienza il ministero degli Affari esteri russo, via Farnesina, ha recapitato una lettera alla Procura in cui chiedeva alle autorità italiane di mostrarsi «ragionevoli».

Lo schema Shell prevede che Coplestone e Colegate raccolgano informazioni, mentre Agaev interloquisca con Dan Etete, il venditore. Meno definito, invece, lo schema di Eni. A muoverlo sembra esserci Luigi Bisignani, la cui rete di relazioni ha sempre toccato anche personaggi legati ai servizi segreti. Forse anche Vincenzo Armanna, date le conoscenze che ha detto di avere nell’ambiente dei servizi e la sua amicizia con Bisignani. Quello che rende però meno chiaro il fronte Eni è la presenza di due intermediari competitor per contattare Etete: Emeka Obi e Femi Akinmade. Il primo è raccomandato da Luigi Bisignani all’amico Paolo Scaroni, ma come riporta De Pasquale in aula «ha un rapporto abbastanza problematico con Vincenzo Armanna e anche Claudio Descalzi lo subisce come un’imposizione». Femi Akinmade, ex manager di Naoc, altra controllata Eni in Nigeria, si era candidato nel ruolo ma appunto non godeva dei favori di Bisignani, il quale secondo la procura voleva ottenere parte delle “retrocessioni” attraverso Emeka Obi.

Per approfondire

#TheNigerianCartel

In Nigeria, da anni, comanda la stessa élite politico-finanziaria. Politici e imprenditori che controllano le due filiere storicamente più redditizie del Paese: costruzioni e petrolio

Lo specchio olandese: Shell sapeva

Fabio De Pasquale fa riferimento durante l’udienza allo «specchio olandese»: con questa espressione il magistrato fa riferimento al modo in cui il ruolo di Eni si veda attraverso i documenti sequestrati dalla polizia olandese a Shell. La perquisizione del quartier generale della società petrolifera a L’Aja, avvenuta a febbraio del 2016, è stato un evento storico: non era mai accaduto in precedenza. In quella circostanza sono emersi degli elementi che secondo il pm rappresentano le tracce documentali della volontà di Eni e Shell di pagare dei membri del governo allo scopo di ottenere Opl 245.

C’è una profonda differenza nel modo di gestire questo flusso di informazioni tra Shell ed Eni: mentre nella società anglo-olandese ci sono tracce dei briefing con i quali i manager informavano il resto dell’azienda sull’andamento dei negoziati, per quanto riguarda Eni gli elementi di prova non vengono mai lasciati per iscritto. Per questo Eni si specchia in Shell, con il suo ruolo che viene poi confermato dagli interrogatori delle parti interessate. Mentre Shell tuttavia ha una macchina organizzativa che sembra muoversi compatta sull’approccio da tenere nei confronti dell’acquisizione di Opl 245, Eni sembra essere attraversata da “correnti”, da gruppi di interesse differenti, con obiettivi che passano sempre dall’ottenimento della licenza ma che non sempre collimano. Tanto è vero che la possibilità di ottenere retrocessioni, da quanto risulta alla procura, è perseguita solo dai manager Eni.

I documenti rilevanti

C’è un documento, tra quelli ritrovati nel corso delle perquisizioni all’ufficio di Shell, particolarmente significativo. Il pm Fabio De Pasquale lo chiama «la formula della corruzione». Si chiama Opl 245 brief ed è allegato a una mail del 23 settembre del 2010. La scrive Peter Robinson, manager di Shell, al collega Ian Craig. Nel documento si legge che «Eni si impegna a entrare nel blocco, rilevare Malabu e stipulare un accordo con Shell per condividere equamente (50/50) la licenza e i suo benefit economici (diritti concessionari + da contractor)». A questa premessa segue la formula «X+SB+Y=Z». X sta per quanto deve Eni, SB sta per “signature bonus”, ossia un pagamento che Shell doveva al governo alla sottoscrizione del contratto, già stabilito in precedenza, e Y è una somma extra ancora da stabilire affinché la licenza sia al sicuro. Z, dice il documento, è il pagamento che deve ricevere Etete, da girare successivamente ai politici nigeriani. «Soldi di Eni+soldi di Shell=tangente», è la versione semplificata proposta da De Pasquale. Inizialmente è previsto che Eni ci metta 800 milioni di dollari, poi, il 30 ottobre 2010, una nuova email sancisce l’accordo definitivo. La manda il numero tre di Shell, Malcolm Brinded, ai colleghi Peter Robinson e Ian Craig: «Eni mette $ 980 milioni. Shell – mette $ 210 milioni di bonus di firma – e $ 25 milioni di interessi dal bonus di firma – e $ 85 milioni in contanti. Shell mantiene il 100% del recupero dei costi Eni è l’operatore». Il totale è 1,3 miliardi di dollari, di cui 1,092 saranno versati da Eni, in qualità di «operatore» al conto della JP Morgan di Londra intestato al Governo nigeriano.

La posizione di Eni

Alle richieste di pena, Eni ha immediatamente replicato con un comunicato stampa: «Eni considera prive di qualsiasi fondamento le richieste di condanna avanzate dal Pubblico Ministero nell’ambito del processo Nigeria ai danni della società, dei suoi attuale ed ex Amministratori delegati, e dei manager coinvolti nel procedimento», dichiara. In particolare l’azienda ribadisce che la narrativa dell’accusa, sia in fase di indagini, sia in fase di requisitoria, è basata su «suggestioni e deduzioni» «in assenza di qualsivoglia prova o richiamo concreto ai contenuti della istruttoria dibattimentale». Aggiunge l’azienda che «non esistono quindi tangenti Eni in Nigeria e non esiste uno scandalo Eni».

Foto: Il tribunale di Milano – Paolobon140/Wikimedia

Eni: processo a Milano, riflessi internazionali per Opl 245

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Eni: processo a Milano, riflessi internazionali per Opl 245

Lorenzo Bagnoli
Luca Rinaldi

Il processo “Opl 245” si avvia alla fase finale del primo grado. Dopo quarantacinque udienze in due anni, i pubblici ministeri Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro inizieranno la requisitoria che dovrebbe occupare due date piene nel corso del mese di luglio. Alla sbarra, fra gli altri, l’allora amministratore delegato di Eni Paolo Scaroni e l’allora Direttore generale della divisione esplorazione e produzione Claudio Descalzi, poi successore dello stesso Scaroni alla guida del Cane a sei zampe. Capo d’imputazione principale è concorso in corruzione internazionale aggravata: Eni, insieme a Shell, si sarebbe aggiudicata la licenza di esplorazione petrolifera Opl 245, un giacimento offshore in Nigeria dal valore stimato di 9 miliardi di barili, a seguito del pagamento di una tangente da 1,1 miliardi di dollari. Secondo l’ipotesi dell’accusa, smentita dalla società, gli allora manager di Eni avrebbero incassato “retrocessioni” per 50 milioni di euro.

Il procedimento italiano si intreccia con altri in corso in diversi Paesi del mondo. Il verdetto della corte di Milano potrebbe dare forza o invece affossare, a seconda dell’esito, gli altri processi collegati alla saga giudiziaria in cui sono imputate Eni e Shell. Il valore della tangente è tra i più alti della storia. Il governo nigeriano, che in Italia si è costituito parte civile, sta cercando, per vie giudiziarie, di recuperare il denaro pubblico portato in casseforti di mezzo mondo da uomini di spicco locali che si sono succeduti al potere dagli anni Novanta in avanti.

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MILANO – La diretta della requisitoria

Il personaggio - Dan Etete

Dan Etete è stato ministro del Petrolio della Nigeria sotto la dittatura di Sani Abacha, fino al 1998. Prima di lasciare il ministero, ha affidato una delle più ricche licenze esplorative del Paese, identificata con il codice Opl 245, a una società di cui lui stesso era beneficiario ultimo: Malabu Oil & Gas. In Nigeria si è scatenato un contenzioso su chi fosse proprietario di Malabu. Oltre Etete, anche il figlio di Sani Abacha, Mohammed, la reclama. Da questo primo procedimento sono iniziate le indagini nigeriane. Grazie a promesse di laute ricompense, Etete sarebbe infatti riuscito a mantenere la proprietà di Opl 245, in virtù soprattutto delle intercessioni dei ministri del Petrolio Alison Diezani e della Giustizia Mohammed Adoke Bello con il presidente Goodluck Jonathan. Etete a quel punto avrebbe massimizzato i profitti vendendo la licenza a Eni e Shell, in cambio di una tangente da condividere con gli altri uomini del governo nigeriano.

Un primo filone dell’inchiesta, il cui processo è stato celebrato con rito abbreviato, ha visto la condanna di Emeka Obi e Gianluca Di Nardo. Entrambi sono ritenuti dalla procura intermediari sia di Dan Etete sia di Eni.

Il processo italiano ha subito, com’era inevitabile, diverse pressioni esterne. L’ombra più scura che s’allunga sul tribunale di Milano è quella dei depistaggi del cosiddetto “Sistema Siracusa”, meccanismo di corruzione di giudici e magistrati al cui vertice, secondo l’ipotesi investigativa, starebbe Piero Amara, avvocato che ha lavorato per Eni in passato, arrestato a febbraio per cumulo di pene in via definitiva. Amara è poi stato scarcerato, per scontare una pena alternativa.
Il Sistema Siracusa
Con Sistema Siracusa si definisce il meccanismo attraverso il quale gli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore, insieme al procuratore capo di Siracusa Giuseppe Longo, avrebbero “venduto” i verdetti dei processi. Questa è l’accusa principale su cui vertono i diversi procedimenti in corso in diversi tribunali d’Italia. A Roma, ad esempio, i due legali e l’ex magistrato hanno ottenuto il patteggiamento (Amara tre anni, Calafiore due anni e nove mesi e Longo cinque anni). Attraverso il falso dossier su Descalzi, gli uomini del Sistema Siracusa avrebbero dovuto creare un nuovo procedimento con cui bloccare quello in corso a Milano.

Proprio da questo sistema sarebbe partito il presunto “complotto” teso a colpire l’indagine della procura su Opl 245. Complotto che in realtà, stando ai riscontri investigativi, sembra essere una messinscena per dirottare il processo sulla maxitangente per il giacimento.

Il falso intrigo internazionale indicava, infatti, l’amministratore delegato del cane a sei zampe Claudio Descalzi come bersaglio di un gruppo di politici e imprenditori (tra cui spicca il nome di Gabriele Volpi) che avrebbero voluto metterlo da parte per guadagnare spazio in Eni. L’inchiesta fondata sul falso dossier è stata aperta al tribunale di Siracusa con la complicità di figure della dirigenza Eni e del pm siracusano Giancarlo Longo, altro pilastro del sistema di Amara. Il depistaggio è poi fallito perché scoperto dalla stessa procura meneghina che ha in seguito aperto un fascicolo sul tema, affidato ai magistrati Laura Pedio e Paolo Storari.

Visto il quadro e il legame indissolubile tra i due procedimenti incardinati a Milano, il pm De Pasquale aveva chiesto lo scorso 5 febbraio di ascoltare l’avvocato Amara: l’ex consulente di Eni avrebbe rivelato, durante gli interrogatori depositati nel fascicolo sul complotto a gennaio 2020, che «Eni in relazione al procedimento Opl 245 (o altri procedimenti che coinvolgono Eni) ha svolto attività di raccolta informazioni nei confronti dei membri del Consiglio di amministrazione tese ad acquisire notizie utili per screditare le persone o sfruttare a proprio vantaggio quanto acquisito». Oltre a ex membri del cda di Eni, Amara include tra le vittime dei dossier anche i pm milanesi Fabio De Pasquale e Sergi Spadaro, titolari dell’inchiesta Opl 245, e Paolo Storari, uno dei due magistrati che lavorano sul complotto. De Pasquale e Spadaro hanno chiesto di interrogare Amara ma il collegio giudicante presieduto da Marco Tremolada ha ritenuto di non far testimoniare l’avvocato e dare avvio alla requisitoria dei pm, che è slittata a luglio a causa della pausa imposta dal lockdown.

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La “mappa giudiziaria” della vicenda legata all’assegnazione di Opl 245

A condizionare l’andamento del processo è stato l’imputato-accusatore Vincenzo Armanna, all’epoca della presunta maxi tangente uno dei manager Eni in Nigeria. Sentito dai giudici a luglio del 2019, Armanna aveva ribadito le accuse alla dirigenza di Eni e aveva garantito di poter fornire ulteriore prova delle sue parole attraverso la testimonianza di Isaac Eke, ex capo della sicurezza di Goodluck Jonathan. Su questa figura si è consumata una delle fasi più convulse del processo: il capo della sicurezza di Jonathan, infatti, era stato inizialmente identificato come Victor Nwafor, persona già sentita a Milano nel corso delle udienze. L’accusa ha però ottenuto che la corte giudicante ascoltasse anche l’uomo indicato da Armanna come colui che aveva visto le valigette con i contanti della tangente entrare in Nigeria. Sentito lo scorso 30 gennaio, Isaac Eke ha però negato di essere a conoscenza della maxi-tangente ed è stato immediatamente indagato dalla procura milanese per falsa testimonianza. Mentre a Milano il corso giudiziario si è dovuto fermare a causa dell’emergenza Covid, l’affaire Opl 245 non è uscito dalle cronache. Tra Olanda, Gran Bretagna, Nigeria, Canada e Stati Uniti sono successi una serie di fatti che inevitabilmente rientrano nell’infinita saga del procedimento milanese. In attesa della prima sentenza che possa innescare o far morire i processi correlati a questa storia, aperti in tutto il mondo.

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Eni-Opl 245, tutti assolti gli imputati per corruzione internazionale

Per i giudici di Milano «il fatto non sussiste». Si chiude così il primo grado sulla presunta tangente da 1,1 miliardi di euro per l’aggiudicazione del blocco petrolifero nigeriano. La sentenza potrebbe avere ripercussioni anche su altri procedimenti in corso

La posizione di Eni

Sul sito di Eni è presente una pagina di fact-checking in cui l’azienda espone la sua posizione in merito al procedimento in corso, partendo dal presupposto che finora il colosso petrolifero ha sempre smentito ogni coinvolgimento in attività illecite. Eni aggiunge di aver fatto svolgere due indagini a società indipendenti americane che hanno dato esito negativo rispetto a violazioni in materia anticorruzione.

Cosa succede in Olanda – Le rivelazioni dell’ambasciatore a favore di Shell

L’11 dicembre 2017 alcuni investigatori del Fiod, il servizio d’indagini fiscali e finanziarie olandese, si sono recati ad Abuja, capitale della Nigeria, per incontrare i loro corrispettivi nigeriani, gli agenti dell’Efcc. Era un incontro riservato per discutere delle accuse di corruzione internazionale a Shell, il colosso anglo-olandese dell’industria petrolifera. L’azienda, insieme a Eni, si sarebbe aggiudicata la licenza petrolifera Opl 245 grazie al pagamento di una tangente da 1,1 miliardi di dollari. A organizzare il meeting è stato l’ambasciatore olandese ad Abuja, Robert Petri. Ma il diplomatico a inizio 2019 è stato rispedito anzitempo in Olanda, a seguito di un’indagine condotta dal dipartimento ministeriale olandese Sicurezza, gestione del rischio e integrità, conclusasi pochi mesi prima. Il filone principale riguardava un viaggio «potenzialmente inappropriato» con un jet di Shell.

Il 28 maggio 2018 Petri è volato a Bonny Island, snodo petrolifero dove ha sede Nigerian Liquid Natural Gas (Nlng), compagnia del gas Lng di proprietà per il 50% dello Stato nigeriano e per il restante 50% di Shell, Eni e Total. Insieme a lui c’era la moglie, che non ricopre alcun ruolo ufficiale. La coppia ha ricevuto diversi omaggi dall’azienda nigeriana, di cui Shell è azionista. In seguito, l’indagine ministeriale ha approfondito altri due aspetti: primo, le tensioni interne all’ambasciata procurate dagli atteggiamenti colonialisti e vessatori che Petri manteneva nei confronti del personale e, secondo, le accuse rivolte a Petri di aver rivelato notizie riservate a Shell sulle indagini in corso. Nei giorni immediatamente precedenti l’arrivo del Fiod, infatti, l’ambasciatore ha avuto un incontro con il numero uno dell’azienda in Nigeria a casa dell’ambasciatore. Durante l’incontro, di cui nessuno – ancora una volta – era al corrente, l’ambasciatore ha rivelato l’esistenza dell’indagine su Shell, come ammesso dallo stesso Petri.

Lo scoop, pubblicato a inizio giugno, è opera del quotidiano olandese Nrc. Il ministero degli Esteri olandese ha specificato che l’esito della procedura interna su Petri e le sue conseguenze sul piano disciplinare «sono confidenziali». Si attende però di capire se ci sarà un vero e proprio processo nei confronti dell’ex diplomatico. Nel frattempo, Shell ha confermato a Nrc di aver appreso dall’ambasciatore della visita in Nigeria del Fiod ma di non aver fatto ulteriori domande, né aver approfittato di tale informazione. Il 1 marzo 2019 Shell ha comunicato di aver ricevuto l’avviso di conclusione delle indagini per il caso Opl 245 dalla procure generale olandese. A prescindere da come finirà il caso Petri, va ancora chiarito se i procuratori de L’Aja vogliano rinviare a giudizio l’azienda anglo-olandese oppure no. In nessun Paese come in Olanda l’esito del processo milanese può significare la definitiva chiusura oppure un incentivo a proseguire le indagini, anche perché Shell si è opposta all’utilizzo delle prove raccolte dagli investigatori.

Cosa succede in Canada – Il sequestro dell’aereo di Dan Etete

L’ex ministro del Petrolio nigeriano Dan Etete avrebbe investito parte della tangente che avrebbe intascato dall’affare Opl 245 a Dubai. Qui, secondo quanto scoperto dalla piattaforma britannica di giornalismo investigativo Finance Uncovered, Etete avrebbe acquistato una casa a Emirates Hills, la Beverly Hills dell’emirato. E sempre a Dubai Etete ha tenuto in un hangar un aereo che, secondo quanto ricostruito dagli investigatori di Milano e dell’Fbi, sarebbe stato acquistato con i soldi della tangente. Etete, infatti, avrebbe ricevuto, secondo gli inquirenti, 800 milioni di dollari, poi spartiti con gli altri partner dell’affare. Tra i conti dai quali sono passati questi soldi, uno è intestato alla RockyTop Services Ltd. Con i denari ricevuti in due tranches di pagamento, una nel 2011 e una nel 2013, l’ex politico oggi uomo d’affari si sarebbe poi comprato un Bombardier Global 6000. Lo possiederebbe attraverso una società con sede alle Isole Vergini Britanniche, la Tiblit Ltd.

Per anni il mezzo è stato sotto tiro degli avvocati nigeriani incaricati di recuperare i soldi della tangente. Poi, il 29 maggio, l’aereo è atterrato a Montreal, in Canada, dove le autorità locali hanno fatto scattare il sequestro per riciclaggio. Nel provvedimento di sequestro canadese si fa il nome di Giuseppina Russo, avvocato di uno studio legale canadese, che figura come direttrice della società. A maggio un giudice della Corte dei Caraibi orientali, che ha giurisdizione sulle Isole Vergini Britanniche, ha congelato i conti della Tiblit.

Sentita da Finance Uncovered, la donna ha negato di essere coinvolta in attività illecite e ha spiegato di non rappresentare più la società dal 2013, anno in cui ha acquisito il Bombardier che gli inquirenti ritengono di Etete. La società attraverso cui Etete ordina l’acquisto dell’aeromobile ha sede in Oklahoma e si chiama Insured Aircraft Title Services. Compare nell’inchiesta svolta nel 2010 dalla commissione permanente del Senato degli Stati Uniti, di cui IrpiMedia ha già parlato per raccontare i rapporti tra Gabriele Volpi e Abubakar Atiku. La stessa società compare nel database del Laundromat, la lavanderia di denaro sporco scoperta da Occrp, come beneficiaria di due pagamenti per un totale di 11,5 milioni di euro nel gennaio 2008 da un conto della Ukio Bankas. La società non è mai stata indagata.

Cosa succede in Gran Bretagna – Non luogo a procedere per un nuovo processo

Il 22 maggio il giudice Christopher John Butcher dell’Alta Corte di Londra ha stabilito di non avere giurisdizione per esprimersi sul caso Opl 245. Nel 2018 il governo nigeriano aveva fatto una richiesta di risarcimento per chiedere l’apertura di un’inchiesta anche in Gran Bretagna, visto che Shell ha sede legale a Londra. La Corte ha però stabilito che i capi d’imputazione proposti sono identici a quelli attualmente a giudizio in Italia, quindi – in base all’articolo 29 della Regolamentazione di Bruxelles, ossia il documento che norma la collaborazione giudiziaria tra Paesi membri dell’Unione Europea – è previsto che la nuova Corte chiamata in giudizio rinunci alla propria giurisdizione. Secondo quanto riporta la Reuters, un portavoce del governo nigeriano ha annunciato ricorso alla decisione della Corte britannica.

Per il governo nigeriano resta aperto a Londra il procedimento contro JP Morgan, la banca da cui sono transitati i soldi della presunta tangente. È la succursale londinese dell’istituto di credito americano ad aver ricevuto su un deposito a garanzia (escrow account) intestato al governo di Abuja i soldi di Eni e Shell (1, 3 miliardi di dollari). Per due volte, a febbraio e ottobre 2019, due tribunali inglesi hanno stabilito la legittimità della richiesta di risarcimento della Nigeria.

Escrow account: la definizione

Escrow account è il termine inglese con cui si definisce il deposito di garanzia. Questo contratto stipulato tra un acquirente e un compratore di solito per l’acquisto di beni mobili o immobili oppure partecipazioni aziendali prevede il deposito della somma pattuita a una parte terza del bene e del controvalore in denaro, fino al momento in cui la vendita non verrà conclusa.

JP Morgan è accusata di aver favorito la distrazione di fondi pubblici della Nigeria nelle mani di Dan Etete, ovvero un personaggio con già una condanna per riciclaggio passata in giudicato. In altri termini, la banca non ha fatto scattare i meccanismi d’allerta per reati finanziari come corruzione o riciclaggio. Il sistema messo in piedi attraverso gli escrow account prevede che il trasferimento di denaro sul conto della JP Morgan avvenga una volta firmato un accordo che risolva le controversie esistenti sulla titolarità del blocco 245. In questo caso gli accordi erano tre, volti, in pratica, a garantire che 800 milioni di dollari arrivino al’ex ministro del petrolio nigeriano Dan Etete. Secondo il governo della Nigeria, JP Morgan, per ragioni di antiriciclaggio, avrebbe dovuto impedire che i soldi finissero in ultima istanza all’ex ministro del petrolio, precedentemente condannato per riciclaggio in Francia nel 2007. Prima del passaggio via JP Morgan, le parti in causa avevano tentato di siglare un accordo di garanzia attraverso una società terza, tra le varie intermediarie della transazione, con un conto presso la Banca svizzera italiana di Lugano. L’operazione è stata fermata dall’istituto elvetico perché ritenuta sospetta. La segnalazione da parte della banca svizzera stupisce, visto che lo stesso istituto nel 2017 è fallito a seguito di un’inchiesta di riciclaggio a Singapore.

Cosa succede negli Stati Uniti – La Sec chiude le indagini

Il 22 aprile scorso la Securities and exchange commission (Sec), l’autorità di vigilanza della Borsa americana, «ha concluso l’inchiesta sulla società, che include anche le indagini legate all’operazione Opl 245 e le altre indagini legate alle attività di Eni in Congo, senza intraprendere azioni o procedimenti», ha annunciato Eni in un comunicato. La Sec indagava sulla vicenda Opl in quanto l’azienda di San Donato milanese è quotata in Borsa a New York.

 La stessa autorità di vigilanza potrebbe comunque in futuro, anche sulla base dell’esito del processo in Italia, valutare di aprire un procedimento contro Eni perché quotata a Wall Street.

Cosa succede in Nigeria – Adoke Bello

In Nigeria il processo è arrivato ai vertici del potere. C’è stata un’accelerazione da quando, a dicembre 2019, è rientrato da Dubai e immediatamente arrestato in Nigeria Mohammed Adoke Bello, all’epoca dei fatti ministro della Giustizia. Sarebbe lui, secondo l’inchiesta dell’Efcc, la polizia che si occupa di reati fiscali in Nigeria, ad aver garantito che nel 2010 il governo nigeriano non ritirasse la licenza alla Malabu Oil&Gas, la società di Dan Etete al centro dell’inchiesta. Adoke avrebbe incassato per aver protetto gli interessi dell’ex ministro Etete 830 mila dollari, arrivati a un suo conto nel febbraio del 2012. Il 17 giugno 2020 la posizione giudiziaria di Adoke Bello è stata ridefinita dalle autorità nigeriane con sette nuovi capi d’imputazione per riciclaggio.

Secondo quanto risulta dall’inchiesta italiana, Adoke Bello si è mosso nella trattativa Opl 245 insieme alla ministra del Petrolio del governo Jonathan, Alison Diezani Madeuke. Secondo Ibrahim Magu, il numero uno dell’Efcc, Diezani si è appropriata di almeno 2,5 miliardi di dollari provenienti dall’erario nigeriano. L’ex ministra vive a Londra da anni e il governo nigeriano ne chiede l’estradizione ormai dal novembre 2019. L’ultima istanza è stata presentata a febbraio 2020. Nel 2017 nei confronti dell’ex ministra sono cominciati i sequestri ordinati dai tribunali nigeriani, a cominciare da 56 ville tra Lagos, Abuja e Port Harcourt.

CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli
Luca Rinaldi

Editing

Giulio Rubino

Infografiche

Lorenzo Bodrero

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