Il grande gioco delle piattaforme

01 Maggio 2023 | di Laura Carrer

Una delle cose più normali che ci viene insegnata sin da quando siamo piccoli è possedere. “Mio” e “tuo” sono aggettivi o pronomi possessivi per definire, ad esempio, cosa possiamo portare a casa con noi o meno, in un contesto di relazione con gli altri. La proprietà è un concetto fondante della nostra società e determina in modo inequivocabile il rapporto che abbiamo con chi ne fa parte. Le piattaforme digitali sempre più presenti nelle nostre vite di consumatori hanno superato questo concetto. Seppur in maniera molto controversa, vanno infatti esattamente nella direzione opposta: spingono verso la condivisione e l’uso dei loro prodotti, disponibili in ogni momento e luogo, al fine di mettere tutti al centro di un nuovo modo di consumare (più che di vivere). Lo vediamo con i contenuti musicali, che Spotify ha tolto dai cd che si riponevano con cura nelle custodie sopra gli scaffali.

Da un certo punto di vista, anche utilizzare una macchina per spostarsi in città o per le vacanze senza possederla è al passo con i tempi: in un sistema economico capitalistico che ha portato ineluttabilmente all’attuale crisi climatica è preferibile utilizzare mezzi sostenibili, che permettono di risparmiare soldi e incentivare indirettamente una pratica di società differente. Il concetto di condivisione è nobile, ma funziona se nessuno degli attori coinvolti guadagna più di altri.

La giungla del food delivery

#LifeIsAGame è la serie che ha indagato l’oligopolio del food delivery per raccontare l’ascesa di un nuovo modello organizzativo fortemente improntato sull’utilizzo di tecnologie digitali. Il nome della serie deriva da un ragionamento in merito alla vita lavorativa, e di riflesso anche personale, che i rider si trovano a sperimentare: definita dagli ordini che impartisce un’applicazione attraverso un processo continuo di “gamificazione” del lavoro, sempre più impersonale, fatto di bonus monetari, percorsi più veloci e in cui a guadagnare sono solo le piattaforme che hanno un infinito ricambio di lavoratori disposti a inforcare la bici e mettersi a competere. Consegnare pasti non è un gioco, ma da fuori può sembrarlo. Le sue regole sono fissate da algoritmi opachi e precarietà sul lavoro. Ciò che #LifeIsAGame ha esplicitato è il gioco invasivo che l’economia delle piattaforme del delivery continua a sperimentare, grazie a regole di sfruttamento mascherate da nuove, in contesti come il mercato del lavoro, la città, il settore della ristorazione.

Nell’ambito delle consegne a domicilio, la storia delle piattaforme nasce nei primi anni 2000 in Danimarca e si spinge fino all’Italia undici anni dopo. Si chiamava JustEat e faceva perlopiù da collante tra ristoratori e clienti che ordinavano pizze online tramite fattorini in bicicletta. Ricordo che un amico all’università lavorava negli uffici di questa piattaforma, e che il primo interrogativo che io e un gruppo curioso di compagni gli avevamo posto era: chi mai ordinerebbe del cibo a casa? Evidentemente molti di più di quelli che pensavamo.

Il cambiamento nel consumo di cibo, almeno nelle città, è stato radicale in poco più di dieci anni. Da quel momento in poi, JustEat ha acquisito una serie di competitor tra Spagna, Regno Unito, Canada e anche Italia, definendo la cifra di una strategia orientata all’aggregazione. Altre piattaforme hanno preso la stessa direzione assorbendo sempre più aziende e rendendo un mercato economico importante il lavoro del fattorino della pizza, fino a poco prima considerata solo un’economia informale. A separare il consumatore dal cibo che ordina c’è però una filiera determinata nella sua interezza dai distributori, per l’appunto l’oligopolio delle piattaforme, che spinge all’estremo limite, e come mai prima, il sistema capitalistico.

L’anello debole della catena

I protagonisti della filiera sono tre: il consumatore finale, che dalla sua app ordina cibo da casa e viene profilato nelle sue minime scelte e abitudini di consumo e al quale le varie piattaforme lasciano anche l’onere di decidere quanto valga la prestazione del fattorino. I ristoratori, piegati alla logica della “fabbrica di cibo” che prevede la creazione in serie di piatti pronti e adatti al trasporto in città, e che snatura la loro stessa attività commerciale. E gli ultimi, non solo nell’elenco ma anche di fatto, i fattorini. L’anello debole della catena, composta perlopiù da migranti spesso senza documenti in tasca nè diritti minimi sul lavoro e alla mercè di tutti.

Le piattaforme del delivery li hanno infatti relegati a capro espiatorio: sono vittime dei ristoratori, che spesso li lasciano in mezzo alla strada sotto la pioggia o sotto il sole perché la loro presenza dentro il ristorante disturberebbe i clienti; sono vittime dei consumatori, che li additano come motivo del ritardo nel portare il cibo all’uscio della loro porta e li puniscono di conseguenza con una valutazione negativa; e sono vittime anche della città che attraversano quotidianamente. Il lavoro per le piattaforme della gig economy, e quindi anche del food delivery, è precario per natura: anche se per la maggior parte dei lavoratori è l’unico lavoro, il guadagno che ne traggono non è assimilabile nemmeno a un ipotetico salario minimo, le ore lavorate sono esponenzialmente più alte che per ogni altro impiego, e l’unica costante che accompagna i lavoratori quotidianamente è un mix tra fragilità e insicurezza.

Per approfondire

Life is a game

Attraverso l’estrazione di dati e informazioni il capitalismo delle piattaforme governa un’economia finora considerata informale. L’oligopolio della gig economy si mostra attraverso decisioni algoritmiche e precarietà

Per le donne, poi, tutto peggiora. L’economia delle piattaforme ha portato indietro la lancetta dei diritti basilari sul lavoro all’inizio del Novecento: nonostante sia un lavoro considerato “innovativo”, tecnologico e moderno, che apparentemente si può svolgere quando si vuole durante la giornata e in autonomia, è invece ancor più degli altri un impiego che non fa che nutrirsi e reiterare dinamiche tipiche della struttura di una società patriarcale. Non permette un vero e proprio bilanciamento tra lavoro fuori casa e lavoro di cura, non fornisce neanche l’ombra di un sostentamento economico fisso, non garantisce sicurezza fisica né psicologica. In sostanza non è strumento di liberazione per le donne, al contrario di quello che racconta la retorica del lavoro autonomo.

Inghiottiti anche i ristoratori

Pensare che gli utili delle piattaforme del food delivery, tra l’altro scarsi, derivino dall’intermediazione tra ristoratori e clienti è ormai ipocrita. La nuova idea di impresa che propugnano è governata dall’estrazione di dati e informazioni grezze dal valore non solo strettamente commerciale ma anche organizzativo e politico, estrazione silente che viene compiuta su tutti gli attori della filiera.

Come detto, seppur in modo diverso, tutti i protagonisti della filiera contribuiscono indirettamente a tenerla in piedi e su questo il lockdown imposto dall’emergenza Covid-19 ha gettato una luce ormai difficile da spegnere. Non è sbagliato infatti dire che le piattaforme dettano le regole di un gioco al quale però poi non partecipano.

Nel Paese della cultura del cibo, i pesanti costi da sostenere per l’apertura e la gestione di un’attività nella ristorazione hanno portato le piattaforme a ritagliarsi il ruolo di “risolutrici”, introducendo un nuovo modello di cucina a basse spese iniziali che parimenti significa bassa qualità del cibo prodotto in serie. Fenomeni come le cloud e le ghost kitchen sono i più evidenti passaggi dall’intermediazione tra consumatore e ristorante a un’idea di cucina 3.0. Niente più sala né camerieri, niente più tovaglie a quadretti né sguardi per chiedere il conto. Solo il menù rimane vario, e il cliente lo può ordinare da un’app: va dal primo al dolce, attraversando più ristoranti che per sostenere le spese si sono riuniti sotto un unico brand virtuale.

In queste cucine che si vedono in zone della città ad alta richiesta di delivery un cuoco per ogni pietanza, in modo veloce e ordinato, impacchetta la sua parte di pranzo o cena e la aggiunge a quella prodotta dagli altri. Una piadina o un poké, ma anche una pasta alla carbonara e un cannolo siciliano. Associato ad un numero il pacchetto confezionato è poi dato nelle mani di un rider attraverso una finestrella, alla quale si affaccia senza sapere troppo chi c’è dentro e cosa stia facendo. Non conoscere cosa fa chi viene prima e chi dopo è un’altra regola del gioco del delivery.

Città visibile, città invisibile

Quando la pandemia da Covid-19 ha obbligato la chiusura delle città, una parte del processo di digitalizzazione che si sta imponendo già in altri campi nel contesto urbano è emersa prepotentemente in superficie. La città è diventata sempre di più un bene pubblico assoggettato a scopi privati. Di fatto, per i rider la città è il luogo di lavoro quotidiano senza formalmente esserlo. L’algoritmo sul quale si basano le piattaforme di delivery, e che regola il lavoro dei rider, non solo è segreto e inaccessibile, ma sta incessantemente ridisegnando la geografia urbana attraverso nuovi percorsi e nuovi luoghi. Una città scollata dalla città “reale”, alla quale i lavoratori oppongono quotidianamente una resistenza silenziosa fatta di scelte diverse e soste in luoghi non previsti. I rider si ritrovano ad aspettare gli ordini di consegna del cibo ai margini delle strade, sulle scalinate delle piazze, nei parchi deserti che per un processo lento di abbandono dello spazio pubblico da tempo non accolgono più i residenti.

Anche per Luca, rider italiano, il luogo più importante della città è il parco pubblico dietro alla stazione di Porta Romana: «Un luogo per me essenziale, che mi ha dato la possibilità di conoscere e fare davvero amicizia con alcuni colleghi. Un luogo dove cercavo di tornare quando non c’erano molti ordini perché questo lavoro può essere molto solitario». Come lui anche altri, soprattutto migranti, si trovano ad accontentarsi di spazi urbani pubblici non adatti alle loro esigenze e spesso insicuri. Una coppia di rider sudamericani che lavora in stazione Centrale, da dove parte per il turno tutte le sere, è l’emblema di questo senso di insicurezza e porta inevitabilmente con sé le storture di questo lavoro.

Magazzino fantasma

La trasformazione dello spazio urbano da parte delle piattaforme di delivery, con tutto ciò che in esso è inglobato e si può inglobare per uno scopo squisitamente privato, ha percorso però anche strade più tradizionali. Per permettere una consegna veloce della spesa a domicilio, la “promessa dei dieci minuti”, è stato necessario aprire decine di magazzini in città. Arrivare al cliente fornendo i prodotti acquistati a pochi minuti dall’ordine non è solo questione di quanto veloce corre il rider. Dipende inevitabilmente dalla quantità di magazzini ai quali può recarsi sfrecciando in velocità per ritirare la merce, luoghi prima riservati ad attività commerciali ben diverse. Negozi falliti, attività chiuse dopo la pandemia, vuoti urbani sono stati comprati dalle piattaforme di delivery per stoccare merce come di solito si fa nelle aree fuori dal centro.

In questi magazzini dalle vetrine mascherate e non accessibili al pubblico si riassume il visibile/invisibile delle piattaforme, perfettamente definite da una dicotomia che ha molte ripercussioni sul tessuto urbano. Una su tutte quella di svuotare spazi che avevano una valenza comunitaria o erano attività commerciali di quartiere, per renderli nuovamente vuoti e visibili unicamente online. All’interno ci sono infatti migliaia di prodotti ma nessuno può entrare a comprarli, solo ordinarli tramite app. Dieci minuti per consegnare potrebbe tutto sommato sembrare un fatto positivo per i fattorini: più ordini per tutti. La realtà è che le piattaforme di delivery non svelano come vengono ripartiti gli ordini dal proprio algoritmo, e nemmeno quanto di umano possa esserci nel controllarlo. I rider sono costretti a migliorare continuamente le loro prestazioni, o almeno cercare di farlo, e questo avviene di nuovo aumentando l’unico parametro sul quale hanno il controllo: la velocità. In giro non si vedono più bici normali ma quasi esclusivamente elettriche, con batterie acchittate alla bell’e meglio con il nastro adesivo.

Se non hai diritti, difendili

Nonostante le grandi problematiche che affrontano quotidianamente, dall’insicurezza sul lavoro alla mancanza quasi totale di tutele lavorative, i sindacati europei fanno molta fatica a sindacalizzare i rider. Questo, insieme al continuo finanziamento alla ricerca e sviluppo delle tecnologie che utilizzano, permette alle piattaforme di delivery di continuare incontrastate a crescere in barba anche a sanzioni di milioni di euro per la mancata adozione di contratti di lavoro subordinati.

L’Ispettorato del Lavoro spagnolo ha comminato una sanzione di 79 milioni di euro a Glovo, che ha sede proprio in Spagna, ma la compagnia ha fatto spallucce. Le strutture elefantiache dei sindacati tradizionali hanno il loro peso in questa perdita di potere nella contrattazione con le piattaforme. I collettivi e i movimenti dal basso legati alle lotte per i diritti dei lavoratori giocano invece un ruolo inedito: cercano i fattorini, ci parlano e li aiutano nelle questioni più basilari del loro lavoro quotidiano, li sottraggono alle maglie di un destino già scritto e a volte riescono anche nell’arduo compito di renderli coscienti della loro condizione. I collettivi fanno anche da ponte perché le loro lotte sono poi inglobate dai sindacati maggioritari.

Nonostante ciò, questo lavoro politico non risulta ancora sufficiente a rendere le piattaforme responsabili dello sfruttamento che operano davanti alla collettività. Un settore come quello della ristorazione, in Italia già ampiamente basato sulla precarietà e sullo sfruttamento degli addetti ai lavori, è stata la chiave di volta per le piattaforme di delivery: lì sono state lasciate indisturbate nell’ignorare deliberatamente le più basilari tutele sul lavoro, processo coadiuvato dalla tecnologia che esse stesse producono come più importante e vero prodotto della loro attività commerciale. Tecnologie abilitanti basate su infrastrutture che permettono a milioni di persone di connettersi l’una con l’altra, supportate da device che si interpongono tra il prodotto, chi lo vende e chi lo compra.

La narrazione del lavoro autonomo come liberatorio poi, di matrice anglosassone e fondata sul guadagno del singolo rider per ogni ordine come base da integrare con mance o bonus di ogni sorta per raggiungere un salario accettabile, è ancora cavallo di battaglia delle aziende di delivery. In fin dei conti, il modello che propongono è moralmente corrotto: né la crescita dei loro profitti, né la quotazione in borsa o le multe milionarie che vengono comminate a queste aziende cambieranno materialmente in alcun modo il lavoro dei fattorini. Lo spiraglio, forse, va trovato cambiando punto di vista perché le regole delle piattaforme di delivery non sono le nostre. L’alternativa, per noi, è giocare totalmente ad un altro gioco.

Foto: un frame di Emma, protagonista del documentario Life Is A Game in uscita prossimamente su IrpiMedia e al cinema – Marco Meloni
Editing: Lorenzo Bagnoli

Nella città delle piattaforme

21 Giugno 2022 | di Laura Carrer

Non ci sono i dati di quanti siano i rider, né a Milano, né in altre città italiane ed europee. L’indagine della Procura di Milano che nel 2021 ha portato alla condanna per caporalato di Uber Eats ha fornito una prima stima: gli inquirenti, nel 2019, avevano contato circa 60mila fattorini, di cui la maggioranza migranti che difficilmente possono ottenere un altro lavoro. Ma è solo una stima, ormai per altro vecchia. Da allora i rider hanno ottenuto qualche piccola conquista sul piano dei contratti, ma per quanto riguarda il riconoscimento di uno spazio per riposarsi, per attendere gli ordini, per andare in bagno o scambiare quattro chiacchiere con i colleghi, la città continua a escluderli. Eppure i rider sembrano i lavoratori e le lavoratrici che più attraversano i centri urbani, di giorno come di notte, soprattutto a partire dalla pandemia. Dentro i loro borsoni e tra le ruote delle loro bici si racchiudono molte delle criticità del mercato del lavoro odierno, precario e sempre meno tutelato.
#LifeIsAGame

Life is a game è il progetto con cui IrpiMedia indaga il mondo delle piattaforme di food delivery. Dagli algoritmi alle questioni del lavoro che coinvolge tanto i rider che sfrecciano per le strade quanto i dipendenti delle piattaforme stesse. Ciò che possiamo descrivere è l’ascesa di un nuovo modello organizzativo fortemente improntato sull’utilizzo di tecnologie digitali, nonché sull’estrazione di dati e informazioni.

Il valore è duplice: l’espansione nel mercato (della ristorazione) attraverso un’agguerrita concorrenza, colmando i vuoti laddove i dati indicano; e il controllo algoritmico dei lavoratori, effettuato attraverso la “gamificazione” (cioè l’utilizzo di elementi mutuati dai giochi in contesti non ludici) del lavoro che rende sempre più labile la separazione tra vita personale e professionale.

Se conoscete o siete rider o lavoratori delle piattaforme di food delivery e volete condividere informazioni è a disposizione la nostra piattaforma per le segnalazioni anonime e sicure, IrpiLeaks. Ogni segnalazione verrà vagliata e valutata dalla redazione di IrpiMedia.
Questa puntata nasce dalla collaborazione con Fondazione Giangiacomo Feltrinelli nell’ambito di Broken Cities, rassegna che si è tenuta dal 15 al 18 giugno 2022 per discutere di evoluzione dei centri urbani.

Esigenze di base vs “capitalismo di piattaforma”

Per i giganti del delivery concedere uno spazio urbano sembra una minaccia. Legittimerebbe, infatti, i fattorini come “normali” dipendenti, categoria sociale che non ha posto nel “capitalismo di piattaforma”. Questa formula definisce l’ultima evoluzione del modello economico dominante, secondo cui clienti e lavoratori fruiscono dei servizi e forniscono manodopera solo attraverso un’intermediazione tecnologica.

L’algoritmo sul quale si basano le piattaforme sta incessantemente ridisegnando la geografia urbana attraverso nuovi percorsi “più efficienti”. Per esempio – in base al fatto che i rider si muovono per lo più con biciclette dalla pedalata assistita, riconducibili a un motorino – le app di delivery suggeriscono strade che non sempre rispondono davvero alle esigenze dei rider. Sono percorsi scollati dalla città “reale”, nei confronti dei quali ogni giorno i lavoratori oppongono una resistenza silenziosa, fatta di scelte diverse e soste in luoghi non previsti.

Le piattaforme non generano valore nelle città unicamente offrendo servizi, utilizzando tecnologie digitali o producendo e rivendendo dati e informazioni, ma anche organizzando e trasformando lo spazio urbano, con tutto ciò che in esso è inglobato e si può inglobare, in una sorta di area Schengen delle consegne. Fanno in modo che gli spazi pubblici della città rispondano sempre di più a un fine privato. Si è arrivati a questo punto grazie alla proliferazione incontrollata di queste società, che hanno potuto disegnare incontrastate le regole alle quali adeguarsi.

Due rider aspettano un ordine fuori da una cucina laboratorio di Milano – Foto: Luca Quagliato

Come esclude la città

Sono quasi le 19, orario di punta di un normale lunedì sera in piazza Cinque Giornate, quadrante est di Milano. Il traffico è incessante, rumoroso e costeggia le due aiuole pubbliche con panchine dove tre rider si stanno riposando. «Siamo in attesa che ci inviino un nuovo ordine da consegnare», dicono a IrpiMedia in un inglese accidentato. «Stiamo qui perché ci sono alberi che coprono dal sole e fa meno caldo. Se ci fosse un posto per noi ci andremmo», raccontano. Lavorano per Glovo e Deliveroo, senza un vero contratto, garanzie né un posto dove andare quando non sono in sella alla loro bici. Parchi, aiuole, marciapiedi e piazze sono il loro luogo di lavoro. Gli spazi pubblici, pensati per altri scopi, sono l’ufficio dei rider, in mancanza di altro, a Milano come in qualunque altra città.

In via Melchiorre Gioia, poco lontano dalla stazione Centrale, c’è una delle cloud kitchen di Kuiri. È una delle società che fornisce esercizi commerciali slegati dalle piattaforme: cucine a nolo. Lo spazio è diviso in sei parti al fine di ospitare altrettante cucine impegnate a produrre pietanze diverse. I ristoratori che decidono di affittare una cucina al suo interno spesso hanno dovuto chiudere la loro attività durante o dopo la pandemia, perché tenerla in piedi comportava costi eccessivi. Nella cloud kitchen l’investimento iniziale è di soli 10mila euro, una quantità molto minore rispetto a quella che serve per aprire un ristorante. Poi una quota mensile sui profitti e per pagare la pubblicità e il marketing del proprio ristorante, attività garantite dall’imprenditore. Non si ha una precisa stima di quante siano queste cucine a Milano, forse venti o trenta, anche se i brand che le aprono in varie zone della città continuano ad aumentare.

Un rider prende del cibo da consegnare dallo sportello della cloud kitchen di Kuiri – Foto: Luca Quagliato

Una persona addetta apre una finestrella, chiede ai rider il codice dell’ordine e gli dice di aspettare. Siccome la cloud kitchen non è un “luogo di lavoro” dei rider, questi ultimi non possono entrare. Aspettano di intravedere il loro pacchetto sulle sedie del dehors riservate ai pochi clienti che ordinano da asporto, gli unici che possono entrare nella cucina. I rider sono esclusi anche dai dark store, quelli che Glovo chiama “magazzini urbani”: vetrate intere oscurate alla vista davanti alle quali i rider si stipano ad attendere la loro consegna, sfrecciando via una volta ottenuta. Nemmeno di questi si conosce il reale numero, anche se una stima realistica potrebbe aggirarsi sulla ventina in tutta la città.

Un posto «dal quale partire e tornare»

Luca, nome di fantasia, è un rider milanese di JustEat con un contratto part time di venti ore settimanali e uno stipendio mensile assicurato. La piattaforma olandese ha infatti contrattualizzato i rider come dipendenti non solo in Italia, ma anche in molti altri paesi europei. Il luogo più importante nella città per lui è lo “starting point” (punto d’inizio), dal quale parte dopo il messaggio della app che gli notifica una nuova consegna da effettuare. Il turno di lavoro per Luca inizia lì: non all’interno di un edificio, ma nel parco pubblico dietro alla stazione di Porta Romana; uno spazio trasformato dalla presenza dei rider: «È un luogo per me essenziale, che mi ha dato la possibilità di conoscere e fare davvero amicizia con alcuni colleghi. Un luogo dove cercavo di tornare quando non c’erano molti ordini perché questo lavoro può essere molto solitario», dice.

Nel giardino pubblico di via Thaon de Revel, con un dito che scorre sul telefono e il braccio sulla panchina, c’è un rider pakistano che lavora nel quartiere. L’Isola negli anni è stata ribattezzata da molti «ristorante a cielo aperto»: negli ultimi 15 anni il quartiere ha subìto un’ingente riqualificazione urbana, che ha aumentato i prezzi degli immobili portando con sé un repentino cambiamento sociodemografico. Un tempo quartiere di estrazione popolare, ormai Isola offre unicamente divertimento e servizi. Il rider pakistano è arrivato in Italia dopo un mese di cammino tra Iran, Turchia, Grecia, Bulgaria, Serbia e Ungheria, «dove sono stato accompagnato alla frontiera perché è un paese razzista, motivo per cui sono venuto in Italia», racconta. Vive nel quartiere con altri quattro rider che lavorano per Deliveroo e UberEats. I giardini pubblici all’angolo di via Revel, dice uno di loro che parla bene italiano, sono «il nostro posto» e per questo motivo ogni giorno si incontrano lì. «Sarebbe grandioso se Deliveroo pensasse a un posto per noi, ma la verità è che se gli chiedi qualunque cosa rispondono dopo tre o quattro giorni, e quindi il lavoro è questo, prendere o lasciare», spiega.

Girando lo schermo del telefono mostra i suoi guadagni della serata: otto euro e qualche spicciolo. Guadagnare abbastanza soldi è ormai difficile perché i rider che consegnano gli ordini sono sempre di più e le piattaforme non limitano in nessun modo l’afflusso crescente di manodopera. È frequente quindi vedere rider che si aggirano per la città fino alle tre o le quattro del mattino, soprattutto per consegnare panini di grandi catene come McDonald’s o Burger King: ma a quell’ora la città può essere pericolosa, motivo per il quale i parchi e i luoghi pubblici pensati per l’attività diurna sono un luogo insicuro per molti di loro. Sono molte le aggressioni riportate dalla stampa locale di Milano ai danni di rider in servizio, una delle più recenti avvenuta a febbraio 2022 all’angolo tra piazza IV Novembre e piazza Duca d’Aosta, di fronte alla stazione Centrale. Sul livello di insicurezza di questi lavoratori, ancora una volta, nessuna stima ufficiale.

I gradini della grande scalinata di marmo, all’ingresso della stazione, cominciano a popolarsi di rider verso le nove di sera. Due di loro iniziano e svolgono il turno sempre insieme: «Siamo una coppia e preferiamo così – confessano -. Certo, un luogo per riposarsi e dove andare soprattutto quando fa caldo o freddo sarebbe molto utile, ma soprattutto perché stare la sera qui ad aspettare che ti arrivi qualcosa da fare non è molto sicuro».

Alcune bici parcheggiate fuori da un pickup point, luoghi dove i rider ritirano delle consegne. Non c’è un posto all’interno delle strutture per aspettare – Foto: Luca Quagliato

La mozione del consiglio comunale

Nel marzo 2022 alcuni consiglieri comunali di maggioranza hanno presentato una mozione per garantire ai rider alcuni servizi necessari allo svolgimento del loro lavoro, come ad esempio corsi di lingua italiana, di sicurezza stradale e, appunto, un luogo a loro dedicato. La mozione è stata approvata e il suo inserimento all’interno del Documento Unico Programmatico (DUP) 2020/2022, ossia il testo che guida dal punto di vista strategico e operativo l’amministrazione del Comune, è in via di definizione.

La sua inclusione nel DUP sarebbe «una presa in carico politica dell’amministrazione», commenta Francesco Melis responsabile Nidil (Nuove Identità di Lavoro) di CGIL, il sindacato che dal 1998 rappresenta i lavoratori atipici, partite Iva e lavoratori parasubordinati precari. Melis ha preso parte alla commissione ideatrice della mozione. Durante il consiglio comunale del 30 marzo è parso chiaro come il punto centrale della questione fosse decidere chi dovesse effettivamente farsi carico di un luogo per i rider: «È vero che dovrebbe esserci una responsabilità da parte delle aziende di delivery, posizione che abbiamo sempre avuto nel sindacato, ma è anche vero che in mancanza di una loro risposta concreta il Comune, in quanto amministrazione pubblica, deve essere coinvolto perché il posto di lavoro dei rider è la città», ragiona Melis. Questo punto unisce la maggioranza ma la minoranza pone un freno: per loro sarebbe necessario dialogare con le aziende. Eppure la presa di responsabilità delle piattaforme di delivery sembra un miraggio, dopo anni di appropriazione del mercato urbano. «Il welfare metropolitano è un elemento politico importante nella pianificazione territoriale. Non esiste però che l’amministrazione e i contribuenti debbano prendersi carico dei lavoratori delle piattaforme perché le società di delivery non si assumono la responsabilità sociale della loro iniziativa d’impresa», replica Angelo Avelli, portavoce di Deliverance Milano. L’auspicio in questo momento sembra comunque essere la difficile strada della collaborazione tra aziende e amministrazione.

Tra la primavera e l’autunno 2020, momento in cui è diventato sempre più necessario parlare di sicurezza dei lavoratori del delivery in città, la precedente amministrazione comunale aveva iniziato alcune interlocuzioni con CGIL e Assodelivery, l’associazione italiana che raggruppa le aziende del settore. Interlocuzioni che Melis racconta come prolifiche e che avevano fatto intendere una certa sensibilità al tema da parte di alcune piattaforme. Di diverso avviso era invece l’associazione di categoria. In quel frangente «si era tra l’altro individuato un luogo per i rider in città: una palazzina di proprietà di Ferrovie dello Stato, all’interno dello scalo ferroviario di Porta Genova, che sarebbe stata data in gestione al Comune», ricorda Melis. La scommessa del Comune, un po’ azzardata, era che le piattaforme avrebbero deciso finanziare lo sviluppo e l’utilizzo dello spazio, una volta messo a bando. «Al piano terra si era immaginata un’area ristoro con docce e bagni, all’esterno tensostrutture per permettere lo stazionamento dei rider all’aperto, al piano di sopra invece si era pensato di inserire sportelli sindacali», conclude Melis. Lo spazio sarebbe stato a disposizione di tutti i lavoratori delle piattaforme, a prescindere da quale fosse quella di appartenenza. Per ora sembra tutto fermo, nonostante le richieste di CGIL e dei consiglieri comunali. La proposta potrebbe avere dei risvolti interessanti anche per la società che ne prenderà parte: la piattaforma che affiggerà alle pareti della palazzina il proprio logo potrebbe prendersi il merito di essere stata la prima, con i vantaggi che ne conseguono sul piano della reputazione. Sarebbe però anche ammettere che i rider sono dipendenti e questo non è proprio nei piani delle multinazionali del settore. Alla fine dei conti, sembra che amministrazione e piattaforme si muovano su binari paralleli e a velocità diverse, circostanza che non fa ben sperare sul futuro delle trattative. Creare uno spazio in città, inoltre, sarebbe sì un primo traguardo, ma parziale. Il lavoro del rider è in continuo movimento e stanno già nascendo esigenze nuove. Il rischio che non sia un luogo per tutti , poi, è concreto: molti di coloro che lavorano nelle altre zone di Milano rischiano di esserne esclusi. Ancora una volta.

Foto: Luca Quagliato
Editing: Lorenzo Bagnoli
In partnership con Fondazione Feltrinelli

Gig Economy tra caporalato e dittatura dei dati

4 Gennaio 2022 | di Francesca M. Chiamenti

Il lavoro digitale, ormai, è merce low cost. Con la pandemia si è assistito a uno sviluppo massiccio del comparto della gig economy – piattaforme di food delivery, scalata di Amazon, imprese low cost del trasporto –portando con sé, travestite da processo tecnologico, nuove questioni economico-sociali. Sempre più assuefatti da quantità e rapidità dell’offerta, consumatori moderni e aziende finiscono per smaterializzare e svalutare questo processo lavorativo, credendolo frutto di “fabbriche invisibile”. Ma cosa c’è davvero dietro? Ci sono sfruttamento, lacune contrattuali e di tutele, costante precariato e lotte sindacali.

Secondo i dati del rapporto annuale dell’Inps si stima che in Italia vi siano circa 700 mila gig-workers, che non comprendono solo l’ormai emblematica figura del rider che lavora per le piattaforme di food delivery ma anche i driver di Uber, gli host di AirB&b, gli impiegati di Amazon e tutte quelle figure legate al mondo del digitale. L’aumento di forza lavoro in questo particolare settore si è osservato soprattutto con l’avvento della pandemia ma quello della gig economy è un settore in crescita da diversi anni e che da tempo appunto sta facendo i conti con tematiche che stanno riscrivendo l’assetto socio-culturale del mondo del lavoro come lo conoscevamo. Dapprima legato a un iniziale svalorizzazione di questo tipo di lavoro, a un indebolimento del suo riconoscimento sociale che stava tramutando il lavoratore da soggetto socialmente e politicamente caratterizzato a semplice merce, ingranaggio irrilevante di un meccanismo molto più grande di lui alimentato dalla foga capitalistica, negli ultimi anno il lavoro digitale ha visto combattere a suo nome diverse battaglie e tra queste quelle dei riders sono quelle che più hanno smosso le acque.

Già dal 2017 a Bologna, come ricorda Marco Marrone autore di Rights against the machines! Il lavoro digitale e le lotte dei rider e parte attiva nella fondazione di Rider Union Bologna, erano iniziate le prime proteste per richiamare l’attenzione sulle paghe che l’azienda unilateralmente riduceva sempre di più: «Inizialmente aveva proposto stipendi decenti ma via via che il servizio si era radicato li avevano iniziati ad abbassare per passare poi al cottimo». Ma le questioni erano molte, come ad esempio il tema di valutazione (ranking) per controllare le prestazioni dei riders fino a quella che fece scattare il primo sciopero nel novembre 2017 riguardante il “fattore rischio”.

I lavoratori della GIG economy in Italia

Quello del rider è infatti un lavoro pericoloso che si svolge nel traffico e all’epoca privo di assicurazione (con il primo “Decreto rider” si è poi esteso l’obbligo di assicurazione Inail a tutti i lavoratori a prescindere dal contratto, anche quelli autonomi). Da li poi è preso il via un percorso che ha condotto alla Carta dei diritti dei lavoratori digitali in contesto urbano di Bologna, alla nascita della rete nazionale Rider X i Diritti, al Decreto Rider e al contratto di JustEat. Nonostante alcune conquiste però, le battaglie dei gig-workers non possono ancora dirsi concluse e continuano a scontrarsi con l’ostracismo delle piattaforme verso le rivendicazioni sindacali.

La nuova subordinazione

Caso Napster vs Metallica vi dice qualcosa? Nel 2000 la band aveva intrapreso un’azione legale contro il sito di file sharing Napster a seguito della circolazione di una versione demo della canzone I Disappear prima della sua uscita ufficiale. Napster, che perse la causa e chiuse i battenti, aveva usato come strategia difensiva quella di presentarsi come semplice infrastruttura digitale che metteva a disposizione degli utenti la possibilità di interagire tra loro senza però gestire cosa essi si scambiassero.

Cosa c’entra questo con i riders? La strategia delle piattaforme è la stessa anche oggi: «Metto a disposizione la piattaforma, il rider è un lavoratore autonomo, c’è il ristorante e il cliente e questa triangolazione di utenti io mi occupo solo di coordinarla. E sulla base di questo loro spiegano il lavoro autonomo», dice Marrone. Ma questi sistemi oltre a coordinare prevedono in realtà anche meccanismi di sanzionamento e premiazione (ranking) e obblighi che riguardano ad esempio ciò che viene indossato (riporta Marrone come alcuni licenziamenti si sono avuti perché i riders avevano il cubo di una piattaforma mentre consegnavano per un’altra, conseguenza della fluidità di questi rapporti di lavoro). I riders imprenditori di se stessi sono dunque menzogna. Motivo per cui si è iniziato a domandare il riconoscimento della subordinazione.

L’Italia però è ancora indietro. Se in Spagna la “rider law” prevede che i corrieri siano considerati dipendenti ordinari e in Inghilterra siano riconosciuti come “workers” beneficiando di una porzione seppur limitata di tutele (salario minimo e ferie annuali) nel nostro Paese serve prima ridefinire i confini del lavoro subordinato di tutte le tipologie di gig-workers. Secondo il Codice civile esso è il «lavoro organizzato nel tempo e nello spazio» ma appare cristallino come questa definizione risulti stretta in un’epoca post-pandemica di espansione digitale e lavoro ubiquo. «Quindi il dipendente in smart working dato che è a casa e non è più organizzato nel tempo e nello spazio non è più un lavoratore subordinato? No. Da qui – spiega Marrone – il nostro slogan “Non per noi ma per tutti” e la volontà di rivedere l’idea di lavoro subordinato come tutto il lavoro che va a beneficio di qualcun altro a prescindere da come è organizzato».

No al cottimo e alle prestazioni occasionali, monte-ore garantito con paghe orarie regolate da un contratto collettivo nazionale, riconoscimento di Tfr, tredicesima, ferie, malattia, congedo di maternità/paternità. Queste le richieste avanzate alle piattaforme. Piattaforme che nel frattempo sono state colpite da veri e propri “deliverygate”. Come nel caso che ha visto indagate sei persone tra amministratori delegati, legali rappresentanti o delegati per la sicurezza di Uber Eats, Glovo-Foodinho, JustEat e Deliveroo dalla Procura di Milano a febbraio 2021. Conclusasi con sentenza di multe pari a 733 milioni di euro, l’indagine ha parlato di sistema schiavistico e caporalato digitale, come ha evidenziato il procuratore capo milanese Francesco Greco. Una vera e propria «tangentopoli del food-delivery» il commento del portavoce di Riders Union Bologna Tommaso Falchi. 60 mila le posizioni lavorative dei fattorini controllate. Mille i controlli fatti su strada. In tutti è emersa una profonda condizione di moderna schiavitù, che ha portato le autorità giudiziarie a pretendere l’assunzione regolare dei ciclofattorini.

“Growth before business” vs lotta di classe

«Il digitale sta portando alla formazione di una coscienza di classe tra lavoratori mentre i padroni continuano ad accoltellarsi tra loro». Questa affermazione di Marrone scatta un’istantanea nitida della moderna gig-economy. Ma partiamo dalle piattaforme. Una parola le descrive bene: oligopolio. Alleanze di comodo e modelli di business aggressivo stanno dominando le strategie di mercato con l’obiettivo di creare regimi monopolistici. Come analizzato da Marrone, se si studiano i bilanci di queste piattaforme si osserva come siano perennemente in rosso, non perché non guadagnino ma perché il modello di management utilizzato è il growth before business, che porta a spendere grosse somme in elementi che consentono di espandersi prima dell’arrivo dei concorrenti (pubblicità, aperture in diverse città).

Stessa strategia usata da Facebook con l’acquisto di Whatsapp. Obiettivo? Essere l’unica piattaforma della comunicazione. Consce che solo una di loro conquisterà l’intero mercato, il gioco è resistere per vendere la propria piattaforma al prezzo più alto possibile. Ma questa competizione si è dimostrata essere il loro principale elemento di debolezza.

Al primo tavolo di trattative aperto dal Governo le venticinque piattaforme presenti giocavano ognuna per sé, finendo per dividersi in due gruppi, uno capitanato da Deliveroo-Glovo e l’altro da Foodora (poi assorbita da Glovo) ed evidenziando la perenne spaccatura tra le piattaforme multinazionali e italiane. «La Carta di Bologna – racconta Marrone – noi la riuscimmo a fare perché firmò MyMenu, la più grande piattaforma italiana». Esempio che mostra in modo chiaro questa dinamica è il caso AssoDelivery–JustEat.

Dopo sole due settimane dalla creazione del contratto con AssoDelivery (un’associazione datoriale basata però sulla non-contrattazione) JustEat decide di uscirne annusando nell’aria i cambiamenti dovuti alle lotte sindacali e sceglie quindi di cambiare modello produttivo riconoscendo la subordinazione, mettendo riders capitain a supervisione di flotte di 10-20 riders, comprando immobili a Milano per farne hub per i riders e dark kitchen. E tutto questo non in un’ottica di giustizia sociale ma con l’intento di sottrarre platea ai concorrenti.

A drogare questa economia c’è poi la finanza. Una delle ragioni che ha ostacolato il riconoscimento dei sindacati ai gig-workers è proprio la presenza dietro le piattaforme di azionisti come Deutsche Bank, JP Morgan, Intesa San Paolo che nel caso in cui «ci avessero visti come controparte riconosciuta – spiega Marrone parlando di Riders Union Bologna – avrebbero spostato gli investimenti finanziari da un’altra parte». Oggi però, grazie alle lotte dei lavoratori, la situazione si è ribaltata facendo si che siano realtà come AssoDelivery a chiedere ai sindacati di aprire tavoli proprio perché il modello di business che non riconosce il contratto regolare è stato sconfitto e le realtà che non si adeguano perdono investitori. In tema di lotta di classe i riders hanno fatto dunque un piccolo miracolo e vinto una battaglia culturale in un contesto difficile come quello digitale e in un momento storico complesso in cui l’idea di sindacato è stata massacrata. Recuperando pratiche storiche come il mutualismo che ha visto nascere ad esempio ciclo-officine autogestite, i lavoratori hanno rimarcato la necessità di una coscienza di classe ben salda.

Nonostante però l’onda di sindacalizzazione dei riders abbia portata globale l’obiettivo ora è estendere queste vittorie anche ad altre tipologie di lavoratori digitali, esempio Uber e Airb&b. Quest’ultimo ad esempio non possiede sindacati ma Facebook è pieno di gruppi di host che si scambiano informazioni sulle questioni legali.

Dati, il nuovo petrolio

C’è un altro aspetto però che rende la gig economy difficile da inquadrare nella cornice del lavoro tradizionalmente inteso ed è quello dei dati. Il termine algoritmo è ormai entrato nel linguaggio comune ma per il mondo del lavoro questo cosa comporta? Come spiega Marrone, lo step da compiere ora è far comprendere che il rider non lavora solo quando ha la consegna, l’autista di Uber non lavora solo quando ha le mani sul volante ma lavorano ogni volta che sono costretti a interagire con l’app perché magari si è liberato un turno e nella logica fagocitante dell’economia digitale vince (e lavora) chi si collega per primo. In questo modo si assiste a una ridefinizione di modi e tempi lavorativi e a una riorganizzazione della società attorno a queste infrastrutture digitali.

A riprova di questo, nella storia delle imprese nessuno ha mai raggiunto i livelli di Amazon in termini di capitalizzazione e tra le dieci aziende più grandi al mondo sette sono piattaforme. Oggi riusciremo a vivere senza di esse? Pensiamo al down recente del pacchetto Facebook-Instagram-Whatspp. L’intera economia informale di Paesi come l’India si è bloccata perché dipendente da questi strumenti. Dove sta però il nodo della questione? Nel fatto che questi dati li produciamo noi in quanto utenti utilizzatori delle app e il nostro utilizzo ormai imprescindibile di queste piattaforme rende complesso l’equilibrio tra continua espansione di esse e garanzia di un lavoro non succube della schiavizzante logica capitalista.

Logica che ad esempio ha reso impossibile ai sindacati dei riders contrattare la questione della gestione dell’algoritmo al momento della stipulazione del contratto con JustEat.

Foto: un momento della protesta dei drivers di food delivery a Bologna il 17 ottobre 2020 – Michele Lapini/Getty
Infografica: Lorenzo Bodrero
Editing: Luca Rinaldi

Il decennio dei rider

#LifeIsAGame

Il decennio dei rider

Laura Carrer

La prima è stata fondata nel 2000, in Danimarca. Non era esattamente quello che immaginiamo ora, un’azienda da 4,87 miliardi di sterline. JustEat, in Italia dal 2011, faceva perlopiù da collante tra i ristoratori e i clienti che cominciavano ad ordinare cibo online. Poi l’acquisizione di vari competitor in Spagna, Regno Unito, Canada e anche Italia, a conferma di una strategia orientata all’aggregazione. Ma quanto sappiamo delle piattaforme, oligopolio di un mercato che fino a pochi anni fa era considerato informale, quello delle consegne, è ancora poco.

Le grandi piattaforme che sovrastano il food delivery hanno segnato la nascita e stanno segnando l’evoluzione della gig economy, la cosiddetta “economia dei lavoretti a chiamata”.

Questa trasformazione ci pone davanti ad una nuova idea di impresa, governata attraverso l’estrazione di dati e informazioni grezze dal valore non solo strettamente commerciale ma anche organizzativo e politico. Di questo mercato strategico, così come degli algoritmi proprietari e inaccessibili che governano i processi decisionali alla base del lavoro dei rider, ci sono poche e confuse informazioni omesse dalla sempreverde necessità di proteggere un presunto know-how aziendale.

#LifeIsAGame

Life is a game è il progetto con cui IrpiMedia indaga il mondo delle piattaforme di food delivery. Dagli algoritmi alle questioni del lavoro che coinvolge tanto i rider che sfrecciano per le strade quanto i dipendenti delle piattaforme stesse. Ciò che possiamo descrivere è l’ascesa di un nuovo modello organizzativo fortemente improntato sull’utilizzo di tecnologie digitali, nonchè sull’estrazione di dati e informazioni.

Il valore è duplice: l’espansione nel mercato (della ristorazione) attraverso un’agguerrita concorrenza, colmando i vuoti laddove i dati indicano; e il controllo algoritmico dei lavoratori, effettuato attraverso la “gamificazione” (cioè l’utilizzo di elementi mutuati dai giochi in contesti non ludici) del lavoro che rende sempre più labile la separazione tra vita personale e professionale.

Se conoscete o siete rider o lavoratori delle piattaforme di food delivery e volete condividere informazioni è a disposizione la nostra piattaforma per le segnalazioni anonime e sicure, IrpiLeaks. Ogni segnalazione verrà vagliata e valutata dalla redazione di IrpiMedia.

Foodinho attira l’attenzione del Garante privacy

Dopo anni di presenza sul mercato e agendo senza complete e precise regolamentazioni, qualcosa sembrerebbe stia iniziando a cambiare. A luglio infatti il Garante della privacy sanziona Foodinho s.r.l., la società italiana controllata da GlovoApp23, con una multa di 2,6 milioni di euro. Da quanto evidenziato nell’ispezione, avvenuta nel luglio del 2019 in un procedimento in collaborazione con l’Autorità garante spagnola (AEPD), la società non ha effettuato nessuna valutazione di impatto sul trattamento dei dati dei rider acquisiti attraverso la piattaforma; non richiede il consenso quando raccoglie informazioni circa la geolocalizzazione dei rider (aggiornata ogni 15 secondi); utilizza un processo automatizzato che comprende anche la profilazione dei rider stessi ed è usato per fornire a questi ultimi l’accesso alla prenotazione dei turni di lavoro.

Il primo provvedimento dell’Autorità fa immediatamente centro sul tallone d’Achille delle piattaforme della gig economy. È Foodinho s.r.l. ad essere responsabile del trattamento dei dati personali dei lavoratori, mentre la piattaforma informatica di gestione degli ordini è di proprietà spagnola così come l’algoritmo di assegnazione delle consegne. I “glovers” al momento dell’ispezione del Garante della privacy erano 18.864 in tutta Italia, motivo per cui la sanzione ha raggiunto cifre così alte.

L’"Excellence Score" che governa i rider Foodinho

Il punteggio di ogni rider è in partenza assegnato di default. Successivamente, tiene conto di cinque variabili: il punteggio assegnato dall’utente (15%), dal ristorante (5%), derivante dall’aver lavorato in orari con molta domanda, purchè siano stati compiuti almeno 5 turni su 7 giorni consecutivi (35%), ordini effettivamente consegnati (10%), produttività della piattaforma (35%). L’accettazione dell’ordine deve avvenire entro 30 secondi. Attraverso una formula matematica che calcola le relative percentuali i rider che non accettano (o rifiutano) l’ordine sono penalizzati, nonché in balìa del feedback di utenti e ristoratori.

La produttività del lavoratore è controllata automaticamente: in questo modo è proposto o negato l’accesso alla prenotazione delle fasce orarie di lavoro. Foodinho, emerge dalle analisi dell’algoritmo fornite dall’azienda al Garante, si riserva anche di penalizzare i rider che non sono disponibili a lavorare all’interno di un turno che hanno precedentemente prenotato: il “Reliability score” misura infatti la fiducia che si può riporre successivamente sui lavoratori manchevoli.

Il trattamento automatizzato dei dati è indubbio e non viene citato nell’informativa che l’azienda fornisce – in maniera poco chiara ed efficace – ai rider: l’algoritmo utilizzato per l’assegnazione degli ordini si chiama Jarvis e, secondo quanto dichiarato dalla stessa azienda durante l’ispezione, «è un algoritmo che utilizza […] la posizione geografica del rider tratta dal GPS del dispositivo; posizione del punto vendita dove ritirare il prodotto da consegnare; indirizzo di consegna; requisiti specifici dell’ordine e altri parametri quali il tipo di veicolo utilizzato dal rider».

I lavoratori della GIG economy in Italia

Non sono chiari i tempi di conservazione dei dati che, secondo quanto emerso dall’ispezione, l’azienda conserverebbe per un arco temporale di 4 anni a prescindere della loro natura e della finalità per la quale vengono raccolti. Nessuna possibilità inoltre di ottenere aiuto o supporto nel lavoro attraverso un intervento umano. Per questo motivo, oltre ad aver sanzionato l’azienda, il Garante ha concesso a Foodinho 60 giorni di tempo per correggere le violazioni relative al trattamento dei dati, e 90 per intervenire a contrasto delle misure algoritmiche che discriminano i lavoratori sulla base di trattamenti automatizzati, profilazione e meccanismi reputazionali.

L’ordinanza di ingiunzione dell’Autorità nei confronti di Foodinho s.r.l. assume valore anche perchè Foodora, ora non più operante in Italia e controllata da Delivery Hero (che controlla a sua volta Glovo), ha subìto lo scorso anno una fuga di dati raccolti sin da quattro anni prima, nel 2016. In quel periodo Foodora era appena arrivata in Italia, a Milano, e l’app fornita ai rider per gestire gli ordini e la consegna dei pasti era in versione .apk (non presente su Google né su App Store). Per entrare nel proprio account, come appreso da IrpiMedia incrociando le testimonianze dei rider, il rider inseriva l’indirizzo email che gli era stato assegnato dall’ufficio risorse umane e poi la password, uguale per tutti, composta dalla sequenza di numeri 12345678.

Nel gennaio 2017, come ha potuto ricostruire IrpiMedia, tutti i rider che presumibilmente stavano lavorando per Foodora ricevono una comunicazione. Oltre all’invito all’evento per festeggiare il nuovo anno, 362 persone hanno ricevuto in copia conoscenza l’elenco di tutti gli indirizzi di posta elettronica che permettevano l’accesso ai profili di altri rider. Una volta entrati nel profilo si potevano ottenere i dati personali dei rider e lo storico delle consegne effettuate ai clienti con i quali erano venuti in contatto, comprensivi di nome, cognome, indirizzo di casa, numero di telefono personale.

Profilati e geolocalizzati 8.000 rider

Nel periodo di ispezione il Garante della privacy ha interpellato anche Deliveroo Italy s.r.l., controllata dalla capogruppo inglese Roofoods LTD e con una flotta al momento dell’ispezione di circa 8.000 rider. Nome diverso ma stessa solfa: per Deliveroo è “Frank” l’algoritmo che assegna gli ordini – attraverso criteri di priorità elaborati in base ai dati raccolti tra i quali geolocalizzazione, mezzo di trasporto e posizione del cliente – all’interno dei turni prenotati dai rider. Anche qui l’attività di profilazione da parte della società sui lavoratori è conclamata, così come accertato anche dalla sentenza 188/2019 del Tribunale Supremo di Madrid. Quest’ultima è una delle molte sentenze pronunciate negli ultimi anni in Spagna, Paese in cui si registra una cospicua quantità di controversie nei confronti delle piattaforme digitali.

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Frank assegna gli ordini da consegnare in base all’affidabilità
Il compenso dei rider Deliveroo è stimato sulla base degli ordini consegnati, di premialità o festività, e di un corrispettivo fisso. Il sistema di Deliveroo registra una grande quantità di dati sui lavoratori, tra cui: percentuale di accettazione degli ultimi cento ordini, percentuale di ordini per i quali i rider hanno inizialmente accettato ma successivamente rifiutato gli ordini, nonché la posizione geografica dei rider, i dati relativi all’ordine e le eventuali discrepanze tra tempi stimati di ritiro e consegna.

Secondo l’Autorità, Deliveroo Italy s.r.l. raccoglie e inserisce dati sul sistema e utilizza la piattaforma Deliveroo per consegnare beni sulla base di un contratto. In qualità di titolare dei dati e adottando decisioni basate unicamente sul trattamento automatizzato, l’azienda non risulta «verificare periodicamente la correttezza ed adeguatezza dei risultati dei sistemi algoritmici, l’esattezza, pertinenza ed adeguatezza dei dati utilizzati dal sistema rispetto alle finalità perseguite, e ridurre al massimo il rischio di effetti distorti o discriminatori».

Nonostante il sistema di prenotazione dei turni di lavoro adottato da Deliveroo (SSB) sia stato modificato dall’azienda nel novembre 2020, il Garante della privacy sottolinea comunque l’impossibilità di comprendere il funzionamento dell’algoritmo impiegato successivamente (il cosiddetto free login, che permette di lavorare in qualsiasi città d’Italia): i turni sono inevitabilmente determinati sulla base di criteri elaborati attraverso dati raccolti nel tempo.

D’altronde la possibilità di un’assegnazione casuale è molto remota. I processi decisionali automatizzati sono ancora una volta incomprensibili a causa della pressoché totale non trasparenza degli algoritmi utilizzati. Anche in questo caso, la sanzione amministrativa è di 2,5 milioni di euro e le verifiche sull’algoritmo da compiere entro 90 giorni dall’ingiunzione. Al momento dell’uscita di questo articolo i termini per adottare le prescrizioni e per pagare le sanzioni comminate dall’Autorità non sono ancora scaduti. Le aziende non hanno inoltre impugnato le ordinanze di ingiunzione.

Più che un lavoro quello dei rider del food delivery sembra un gioco incerto basato su punteggi, feedback e bonus, e nel quale sembra vinca quasi sempre il banco.

Per questo motivo la nostra piattaforma di whistleblowing, IrpiLeaks, si rivolge da oggi ai rider e alle rider che consegnano gli ordini utilizzando le piattaforme digitali per comprendere quali impatti hanno profilazione e automatizzazione sul loro lavoro e sulla loro vita.

Ci rivolgiamo poi anche a chi lavora per le grandi aziende di food delivery e vuole segnalare fatti o informazioni che possano gettare luce sulla gestione interna del lavoro, sulle dinamiche di creazione e funzionamento dei processi decisionali automatizzati nonché sull’uso massivo di dati e informazioni.

In entrambi i casi la piattaforma garantisce sicurezza e anonimato attraverso il browser Tor.

Il questionario per i rider è disponibile anche attraverso questo form (qui il form in lingua inglese). Ricorda che il form non ti assicura il livello di sicurezza e protezione delle informazioni che ti fornisce la piattaforma IrpiLeaks.

CREDITI

Autori

Laura Carrer

Foto

Luca Quagliato

Infografiche

Lorenzo Bodrero

Editing

Luca Rinaldi

Con il sostegno di

European Cultural Foundation

Life is a game

Life is a game

#LifeIsAGame

Le piattaforme digitali sono sempre più presenti nell’attività quotidiana: app di lavoro, consumo, tempo libero. Quando la pandemia da Covid-19 ha obbligato la chiusura delle città, una parte del processo di digitalizzazione che si sta imponendo nel contesto urbano è emersa prepotentemente in superficie. Le immagini dei rider che sfrecciano per consegnare cibo hanno reso l’idea di quanto ormai il loro lavoro sia diventato essenziale. Ad oggi però non ne conseguono tutele per i lavoratori, senza contrattazione nazionale, e governati da un processo decisionale e organizzativo automatizzato.

A sedere al tavolo dell’oligopolio delle piattaforme digitali non ci sono datori di lavoro veri e propri con obblighi legislativi o doveri fiscali, bensì start up multinazionali che erodono i costi del lavoro e prevedono scenari futuri grazie alla “datificazione” della città.

Ad uno sguardo più approfondito le piattaforme raccontano ben altro rispetto a quanto la narrazione aziendale vuole imporre: l’ascesa di un nuovo modello organizzativo fortemente improntato sull’utilizzo di tecnologie digitali, nonchè sull’estrazione di dati e informazioni.

Il valore è duplice: l’espansione nel mercato (della ristorazione) attraverso un’agguerrita concorrenza, colmando i vuoti laddove i dati indicano; e il controllo algoritmico dei lavoratori, effettuato attraverso la “gamificazione” (cioè l’utilizzo di elementi mutuati dai giochi in contesti non ludici) del lavoro che rende sempre più labile la separazione tra vita personale e professionale.

Il grande gioco delle piattaforme

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Hanno trasformato la percezione del possesso, della città, della ristorazione e del lavoro autonomo. Appaiono innovative e “intelligenti”, ma nella realtà sfruttano le disparità create dal capitalismo. L’editoriale

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CREDITI

Autori

Laura Carrer

Foto

Luca Quagliato

Infografiche

Lorenzo Bodrero

Editing

Lorenzo Bagnoli
Luca Rinaldi
Paolo Riva

Con il sostegno di

European Cultural Foundation