Dentro Change.org, la multinazionale delle petizioni coi soldi in Delaware
23 Giugno 2020 | di Cecilia Ferrara
«La tua firma, la tua condivisione, il tuo eventuale commento hanno reso questa petizione la più grande di sempre, in tutto il mondo, con oltre 17 milioni di firme ad oggi ed è in crescita». “Giustizia per George Floyd” è la petizione più partecipata della storia. Chiede al sindaco di Minneapolis Jacob Frey e al procuratore Mike Freeman di incriminare e licenziare i poliziotti coinvolti in questa «situazione disgustosa». Le inchieste a loro carico sono state aperte a cavallo tra maggio e giugno, ma il contatore dei sostenitori continua a correre.
Il sito Change.org, piattaforma che ospita la raccolta firme, ha aggiornato i milioni di sostenitori con diversi post dall’inizio della campagna. L’ha avviata Kellen S., 15enne di Portland, costa ovest degli Stati Uniti. Intervistata da National Geographic, racconta di aver accolto la sfida «di diventare leader sociali in questo tempo di grandi cambiamenti e crisi». Kellen, prosegue l’articolo, «sapeva che i social media sarebbero stati lo strumento più efficace per raggiungere altri adolescenti e diffondere la consapevolezza sulla brutalità della polizia e del razzismo sistemico». «Change.org ha fatto sì che questa petizione venisse mostrata a più di 1 milione di persone al giorno sul nostro sito, nelle e-mail a oltre 20 milioni di persone, nelle pubblicità sui social media che raggiungono i 10 milioni ogni giorno di più, e in più di 100 cartelloni pubblicitari sui palazzi di New York e Minneapolis», scrive la piattaforma in un post del 10 giugno.
Insieme alle firme, però, la petizione ha raccolto anche polemiche, perché con le buone intenzioni Change.org ha costruito un impero economico che, per quanto legittimo, solleva qualche dubbio sul profilo etico. I segreti di Change hanno cominciato ad affiorare il 9 giugno con una lettera aperta pubblicata su Medium con la firma di 130 ex dipendenti.
La lettera aperta di 130 ex dipendenti
L’accusa rivolta agli ex datori di lavoro è di usare l’indignazione provocata dall’omicidio di Floyd per il proprio profitto. Fino al 10 giugno, a ogni firma il sito suggeriva di donare alla causa dai tre dollari in su. Screenshot delle vecchie donazioni dimostrano che in tanti si sono spinti ben al di sopra, in media 25-30 dollari. Non si conosce nemmeno quanti soldi siano stati ricavati dalla campagna: «Change.org – si legge nella lettera aperta – sta sottraendo risorse che potrebbero andare ad organizzazioni che sono di riferimento per i neri americani e che hanno i mezzi per fare azioni che vadano più a fondo, che siano di lungo termine e basate sulla comunità».
«Ci siamo confrontati con i leader dei movimenti di Black Lives Matter per capire cosa fare – replica a IrpiMedia Stephanie Brancaforte, direttrice di Change.org Italia -. Abbiamo fatto un sondaggio tra chi ha contribuito per sapere quale sia la loro priorità e capiamo che una parte voglia rafforzare il movimento attuale, quindi stiamo lavorando a questo scopo». In che modo ancora non è chiaro: «C’è in atto un processo guidato dallo staff nero dell’azienda per capire cosa fare con quei soldi, ovviamente è dovuto passare anche attraverso il Consiglio di amministrazione perché non è mai stata fatta una cosa del genere. Tra qualche giorno (era il 12 giugno, ndr) manderemo una dichiarazione in cui spiegheremo cosa faremo con i soldi raccolti per la causa di George Floyd». «Siamo parte del movimento», rivendica. Su Change.org, tuttavia, si trovano anche petizioni che chiedono di mettere Black Lives Matter nella lista delle organizzazioni terroristiche. E con «staff nero» s’intendono «una dozzina di persone su 264», secondo quanto riportano sempre gli ex dipendenti nella lettera. I firmatari chiedono che la decisione di consegnare i fondi raccolti a promotori e associazioni legate al movimento Black Lives Matter sia presa entro il 30 giugno.
Un primo risultato gli ex dipendenti lo hanno ottenuto: all’indomani della pubblicazione della lettera aperta, il 10 giugno, Change.org ha tolto l’opzione delle donazioni nelle petizione per le vittime black delle brutalità della polizia americana. Oltre George Floyd, infatti, Change stava raccogliendo soldi dalle raccolte firme per Breonna Taylor, uccisa per errore in un raid della polizia a Louisville il 13 marzo (7 milioni di firme raccolte) e Ahmaud Arbery, ammazzato da due uomini bianchi a Brunswick, in Georgia, il 23 febbraio scorso, dopo che era uscito di casa per fare jogging (3,6 milioni di firme).
Economia delle donazioni
«Su Change.org le persone di tutto il mondo avviano campagne, mobilitano sostenitori e collaborano con i decision maker per giungere a soluzioni». Così l’azienda socialtech descrive il suo modo di operare. Nella narrazione della piattaforma, il click per la firma trasforma gli utenti in attivisti, in persone che «fanno la differenza». Attualmente sono 395.595.170 ad aver registrato i loro dati personali sul sito.
Nella pratica, l’intento è rendere un tema virale al fine di esercitare pressione sui decisori politici. Tutto fatto dagli utenti, tutto gratuito, dicono i proprietari. Gli ex dipendenti dicono invece che «questi contributi servono a commercializzare la petizione e lo stesso Change.org tramite cartelloni pubblicitari e pubblicità digitali».
«Change.org si finanzia in due modi: chiede di contribuire con una cifra di partenza ad una delle campagne che hai firmato – racconta a IrpiMedia un ex dipendente – oppure chiede un contributo mensile. Si comporta esattamente come se fosse una onlus o un’ong. Non c’è niente di illegale viene tutto spiegato in link o asterischi». Un altro dipendente aggiunge che quando una campagna prevede donazioni, Change.org si impegna a raggiungere un certo numero di visualizzazioni, mettendola in primo piano sul sito o comprando pubblicità su Facebook. Eppure risulta che Change.org Italia, abbia speso da marzo 2019 a giugno 2020 meno di 100 euro.
Investitori di successo per una storia di successo
Change.org è un prodotto della internet economy di marca californiana, con tanto di storia inspirational e costruttiva come fondamento. Nel 2007 il cofondatore Ben Rattray (l’altro è Rajiv Gupta, genio della tecnologia informatica di origini indiane) è un aspirante banchiere di belle speranze. Un giorno scopre che suo fratello Nick è gay. La famiglia, chiusa e conservatrice, non lo accetterà mai, così Nick comincia a non andare più a scuola e a sperimentare droghe. Bullizzato e indifeso, non ottiene supporto nemmeno da Ben, che diceva di sentirsi inerme e incapace di reagire. Nasce così l’idea di una piattaforma dove chiunque possa sentirsi parte di un movimento mettendo un click, anche senza avere le idee chiare su ciò che vuole fare. La popolarità arriva nel 2012 e nel 2013 anche 15 milioni dalla Fondazione Omidyar, costituita dal fondatore di E-Bay Pierre Omidyar.
Dal 2014 il parterre degli investitori si allarga con personaggi come il fondatore di Microsoft Bill Gates; la giornalista Arianna Huffington, ideatrice dell’Huffington Post; il creatore di Medium e Blogger, nonché ex Ceo di Twitter Evan Williams; il magnate del Virgin Group Richard Branson e il co-fondatore di LinkedIn Reid Hoffman, che nel 2017 ha aggiunto di tasca sua altri 30 milioni di dollari. Secondo il sito specializzato nell’industria dell’innovazione Crunchbase, l’azienda ha ottenuto 72 milioni di dollari nell’arco di cinque funding rounds, le tornate di raccolta fondi di un’impresa.
Tante Change per cambiare il mondo
Anche in Europa, dove l’azienda ha aperto diverse succursali, le petizioni di Change vanno forte. In Italia, quella per la riapertura dell’Ospedale Forlanini a Roma conta 113.333 sostenitori. Dopo aver firmato un pop up chiede «Puoi contribuire con 5€ perché questa petizione raggiunga chi ha il potere?». Più in basso: «Unisciti agli eroi. Altre 79.018 persone stanno aiutando questa petizione a raggiungere il suo obiettivo». Significa che in quasi 80 mila persone hanno fatto donazioni? Per quale ammontare? «Non è un dato pubblico», risponde secca la direttrice della sezione italiana Stephanie Brancaforte. Eppure sul sito sono in chiaro almeno alcuni dei nomi di chi ha donato.
I soldi dei donatori italiani finiscono alla Change.org Worldwide Limited, una delle casseforti per donazioni della galassia Change.org, con sede a Londra: fatturato di 2,5 milioni di euro e un utile di 140 mila euro. Il socio di maggioranza risulta, dalla visura inglese, proprio il cofondatore di LinkedIn, Reid Hoffman.
Le casseforti sono diverse a seconda dei Paesi da cui si effettua la donazione. Negli Stati Uniti, per esempio, c’è The Change.org Charitable Foundation Incorporation, fondazione del Delaware, Stato dove ci sono più società che abitanti per via del suo regime fiscale estremamente vantaggioso. «È garantito l’anonimato societario, non c’è contabilità, non si pagano tasse, si paga solo l’iscrizione annuale di ottocento dollari per il registro delle imprese», spiega l’esperto di antiriciclaggio Gian Gaetano Bellavia. «Sapere quali sono i ricavi in Delaware è impossibile».
A Wilmington, la più grande città del paradiso fiscale, ha sede legale anche la società che tiene le redini di tutto il gruppo, Change.org PBC, che abbiamo verificato essere la cassaforte delle donazioni di chi per esempio versa denaro dalla Francia. PBC è una sigla che sta per Public benefit company, altrimenti detta BCorporation. Quello delle BCorp è un movimento nato 15 anni fa in cui chi aderisce deve rispettare degli standard di equità per quanto riguarda salari e tutele. «C’è un processo di certificazione molto rilevante, si fa uno screening con un certificatore terzo e devi superare un certo punteggio», spiega Andrea Di Stefano, direttore della rivista economica Valori. Certificatore di Change è B-lab, uno dei principali. «Tutti i ricavi vengono reinvestiti nella piattaforma, nella mission di Change che è di dare la possibilità a tutti di cambiare il mondo in positivo», precisa la direttrice di Change.org Italia.
Oltre ai branch in India, Turchia, Spagna, Canada e Australia e alle altre aziende controllate in Delaware, Change.org dispone di sette fondazioni in Messico, Giappone, Indonesia, India, Germania, Brasile e naturalmente Stati Uniti, dove c’è quella principale. Scopo dichiarato: «Usare la tecnologia per costruire movimenti guidati dai cittadini» per «creare cambiamento a livello regionale, nazionale ed internazionale». Sempre secondo il sito di Change Foundation sono 26 milioni di persone in America latina e 17 milioni in Asia che usano Change.org per far sentire la propria voce. I progetti mirano a costruire comunità sempre partendo dalle petizioni online. Ci sono, ad esempio, il ragazzo che in Thailandia ha fatto partire una campagna che ha già raccolto 150.000 firme contro il piano del governo militare per imporre un unico punto di accesso alla rete internet, evento che metterà la navigazione sotto sorveglianza, oppure Mariela, madre di una bimba attaccata a una macchina per poter respirare, che in Argentina ha ottenuto, con 20mila firme, un generatore di supporto in caso di blackout e, con altre 88mila firme, una legge che stabilisce che tutti coloro che dipendono da macchine abbiano un generatore di riserva.
Change.org e la questione privacy
Il 26 luglio 2016, dopo varie inchieste giornalistiche e campagne di organizzazioni che si occupano di tutela dei diritti digitali, l’Autorità Garante della privacy ha aperto in Italia un’istruttoria per capire se Change.org abbia mai ceduto dati personali senza l’esplicito e chiaro consenso degli utenti. La pratica è stata archiviata nell’autunno dello stesso anno poiché le spiegazioni date dalla società statunitense sono state ritenute valide.
Change.org aveva replicato allora che non vendeva le email ma che offrivano «in modo trasparente, pubblico e legale» un servizio «di lead generation», strategia di marketing attraverso cui si possono acquisire contatti di persone già profilate come potenzialmente interessate a un certo prodotto. Il servizio, le «petizioni sponsorizzate», secondo quanto spiega Change si è sempre rivolto solo a enti non profit, allo scopo di indicare gli utenti più attivi. Questa forma di petizioni, aggiunge l’organizzazione, non esiste più dal 2016. In passato risulta tuttavia essere stato uno dei modelli di business di Change.org che si faceva pagare da organizzazioni non governative e onlus per ottenere dati e spingere meglio le petizioni, spiega un ex impiegato di Change.org sentito da IrpiMedia.
Esistono ancora petizioni dove i dati dei firmatari vengono condivisi con promotori delle campagne, ma oggi sono servizi totalmente gratuiti, secondo quanto sostiene la piattaforma. Un esempio è la campagna “Covid-19 emergenza italia”, promossa da Uniti per le Imprese, associazione di imprenditori napoletani che si è creata per contrastare gli effetti economici devastanti del Covid. Lanciata nei giorni intorno all’inizio del lockdown, per quanto dal sito non si trovi la data esatta, la petizione chiede diverse misure per contenere il virus, tra cui la chiusura dei negozi, e la sospensione di tasse, affitti e mutui. Continua a ottenere firme, nonostante ormai l’Italia sia in “fase 2” da oltre un mese.
Nella parte destra della pagina riservata alla firma, cliccando su un box si può acconsentire a «condividere nome cognome e indirizzo email con Uniti per le imprese, per ricevere informazioni su questa e altre campagne anche al di fuori di Change.org». Hanno firmato oltre 41 mila persone. Nonostante le richieste siano ormai datate, la campagna è ancora in alto, probabilmente, ritengono, perché sta producendo donazioni: «Abbiamo un report con il numero di firme, ma non abbiamo i dati. Quelli li tiene Change.org e poi ci offrirà di comprarli alla fine della petizione», spiega a Irpimedia Gianluca Vorzillo, presidente di Uniti per le Imprese. Dirà di no a un’eventuale proposta di vendita. «Non obblighiamo le organizzazioni che usufruiscono di questo servizio a pagare, e possono scaricare la lista delle persone che hanno optato per ricevere delle informazioni da loro (gratuitamente, ripeto) anche prima di chiudere la campagna», replica sul punto Stephanie Brancaforte, direttrice di Change.org Italia.
La replica di Change.org e la risposta di IrpiMedia
Le affermazioni diffuse all’interno dell’articolo suddetto relativamente alla nostra struttura societaria nonché al nostro presunto modello di business basato sulla vendita e/o cessione dei dati personali dei nostri utenti, sono del tutto infondate e false.
Dette affermazioni, oltre ad essere gravemente lesive della nostra immagine e della nostra reputazione, nonché dell’immagine di tutti i nostri dipendenti, amministratori e collaboratori, risultano lesive della fiducia e della trasparenza su cui si fonda il rapporto con i nostri utenti.
In primo luogo, con riferimento all’accostamento tra Change.org (o meglio, Change.org PBC) e lo stato americano del Delaware, paese che l’autrice definisce – anche riportando le parole dell’“esperto di antiriciclaggio” Gian Gaetano Bellavia – un “paradiso fiscale” che offre un “regime fiscale estremamente vantaggioso” e dove è “garantito l’anonimato societario, non c’è contabilità e non si pagano tasse”, precisiamo che Change.org PBC ha, in realtà, sede operativa e fiscale a San Francisco, California.
Infatti, Change.org PBC risulta soltanto incorporata (cioè ha la sua sede legale) nello stato del Delaware e tale scelta, come noto, non dipende da (presunti) vantaggi fiscali offerti dallo stato del Delaware ma unicamente dalla presenza di normative societarie e di governance aziendale all’avanguardia, nonché di un sistema giudiziario più efficiente e specializzato per la gestione di contenzioni societari. Ad esempio, rientra tra dette normative la recente legislazione che consente alle società orientate alla propria missione – anziché al profitto – di convertirsi in società di pubblica utilità, processo che noi abbiamo completato con orgoglio e che ci ha permesso di sancire i nostri valori nella nostra carta aziendale.
Pertanto, essendo soggetta al regime fiscale dello stato della California, riconosciuto come uno dei regimi fiscali più gravosi degli Stati Uniti, il presunto legame con lo stato del Delaware a cui a cui l’articolo fa tendenziosamente riferimento – fin dal titolo – non è corretto. Infatti, ribadiamo che Change.org non gode di alcun vantaggio fiscale derivante dalla sua fondazione nello stato del Delaware e non ha mai utilizzato strategie per aggirare i propri obblighi fiscali.
Per quanto concerne il secondo profilo, ossia la presunta vendita dei dati personali dei nostri utenti, precisiamo che, come chiaramente illustrato anche all’interno delle pagine del nostro sito ufficiale, non vendiamo e/o cediamo i dati personali dei firmatari delle petizioni, né agli utenti che le hanno lanciate, né a nessun altro. La tutela dei dati personali dei nostri utenti è per noi un valore fondamentale e ci impegniamo quotidianamente affinché sia garantita la loro privacy, sempre nel massimo rispetto delle normative in materia di protezione dei dati personali.
Pertanto, le affermazioni del Signor Gianluca Vorzillo riportate all’interno dell’articolo e riferite alla presunta vendita dei dati dei nostri utenti sono categoricamente false.
In ultimo, è per noi doveroso precisare che il contributo economico facoltativo e meramente eventuale che l’utente sceglie – liberamente – di versare a Change.org non è una “donazione”, come scorrettamente e ripetutamente riportato dall’autrice, ma è appunto un contributo economico strumentale unicamente all’incremento della visibilità della petizione sottoscritta dall’utente stesso.
All’interno del nostro sito, infatti, descriviamo in maniera chiara e trasparente le modalità con cui detti contributi sono poi utilizzati. È sufficiente accedere alla sezione dedicata del sito per avvedersi, non solo che Change.org è una Public Benefit Corporation, libera, gratuita, indipendente ed accessibile a tutti, sottoposta a elevati standard di trasparenza, di impatto sociale e ambientale fissati da B Lab (quest’ultimo organo indipendente di certificazione internazionale), ma anche che tutti i ricavi vengono reinvestiti nella piattaforma stessa, per mantenerla in funzione, sostenendone gli obiettivi programmatici. Inoltre, al momento del versamento del proprio contributo, l’utente è messo al corrente della funzione dello stesso e, qualora non dovesse ritenersi soddisfatto delle attività di promozione da noi svolte, offriamo sempre la possibilità di rimborso completo entro tre mesi.
Pertanto, alla luce di quanto sopra, è evidente che Change.org esiste al solo fine di realizzare un impatto positivo sul mondo e che i contributi degli utenti servono a mantenere lo strumento libero, indipendente ed accessibile a tutti. Tutti i nostri ricavi, infatti, vengono reinvestiti per migliorare la piattaforma e supportare gli autori delle petizioni.
Noi del piccolo team di quattro persone impegnate quotidianamente a portare alla vittoria le battaglie dei circa dieci milioni di utenti in Italia siamo orgogliosi di tutto il lavoro che svolgiamo quotidianamente col sostegno dei nostri utenti e felici di poter ricordare, tra le altre, l’enorme mobilitazione che la piattaforma ha visto e vede ancora oggi a sostegno delle persone colpite dalla pandemia, i risultati raggiunti dai nostri utenti grazie allo strumento che offriamo gratuitamente (qui alcuni esempi del 2019), i volti e le parole di tutti coloro che raggiungono il risultato sperato grazie al lavoro quotidiano della nostra squadra (si vedano la nostra Homepage e le nostre pagine Facebook e Twitter per alcune delle vittorie più recenti). Sono strumenti e risultati che, piccoli o grandi che siano, hanno cambiato in meglio le vite di tante persone e che abbiamo raggiunto sempre nel rispetto dei valori, inclusa la trasparenza, che da sempre ci contraddistinguono.
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Spett. le Change.org
Prendiamo atto di quanto da Voi esposto in merito alla vicenda. Siamo contenti che Change.org replichi per puntualizzare che il gruppo Change ha scelto come propria “sede legale” il Delaware per “normative societarie e di governance aziendale all’avanguardia, nonché di un sistema giudiziario più efficiente e specializzato per la gestione di contenzioni societari”. Peccato che la reportistica delle principali organizzazioni che si occupano di giustizia fiscale (a titolo di esempio, Tax Justice Network e Transparency International) indichi il Delaware come uno Stato con le caratteristiche di un paradiso fiscale all’interno degli Usa e che qui abbiano sede alcune delle società che ricevono le “donazioni” degli utenti di Change.org. In merito proprio al “contributo economico” che avremmo scambiato per “donazione”, ribadiamo che non si tratta di un’erronea interpretazione di IrpiMedia, ma di un problema sollevato sia da ex utenti di Change (si veda, a mero titolo di esempio, questo tweet), sia da 130 ex lavoratori nella lettera pubblica di cui dà conto l’articolo. Invece sarebbe stato interessante sapere quanti soldi sono stati raccolti grazie ai 18 milioni di firme per George Floyd, come chiedono gli ex dipendenti, e, in Italia, quanto è stato raccolto con la petizione per Willy Monteiro. Infine, rispetto all’ipotesi di vendita dei dati, l’articolo di IrpiMedia presenta correttamente tutti i lati della disputa, compreso il punto di vista della stessa rappresentanza italiana di Change.org
Cecilia Ferrara